Pubbl. Mer, 15 Gen 2020
La diffamazione nei confronti di un boss mafioso
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Non si può appellare un boss mafioso come ”pezzo di merda”. Lo sostiene la Corte di Appello di Palermo con la sentenza resa nei confronti del giornalista Rino Giacalone.
Ci siamo occupati della vicenda giudiziaria tracciando un'analisi della sentenza della Corte di Cassazione che aveva cassato con rinvio la sentenza che assolveva il giornalista Rino Giacalone dall'aver definito dopo la sua morte un esponente di Cosa Nostra come "un pezzo di merda".
In data 13 gennaio 2020, la Terza Sezione della Corte d’Appello di Palermo ha condannato per diffamazione ex art. 595 c.p. il giornalista trapanese Rino Giacolone per una condotta che risale al 2013.
Più precisamente, la vicenda riguardava un articolo del giornalista che tracciava una biografia del boss, soffermandosi in particolare modo sul suo curriculum criminale. Infatti, Mariano Agate veniva considerato punto di riferimento di Totò Riina e dei corleonesi a Mazara del Vallo, ed era stato condannato all’ergastolo per la strage di Capaci e per sei omicidi, tra cui quello del giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto. Inoltre, il suo nome era inoltre inserito nei registri della loggia trapanese Iside 2. Un mese dopo il decesso, nella propria abitazione, all’indomani della notizia, il giornalista scrisse l’articolo con la definizione “incriminata”, da cui è poi scaturita la querela nei suoi confronti della vedova Rosa Pace e l'odierna sentenza di condanna.
Brevemente, vi è stata inizialmente l'assoluzione in primo grado, successivamente annullata dalla Corte di Cassazione, a seguito del ricorso per saltum presentato dalla Procura, con la sentenza n. 50187/207 che aveva stabilito il seguente principio "nel caso di specie, la finalità generale perseguita dall'autore del commento, ossia quella descritta dalla sentenza impugnata di aggredire l'ambiguità del sistema di controvalori mafioso, non risulta idonea a giustificare la lesione di un valore fondamentale della persona. E, si ritiene doveroso aggiungere, di qualunque persona, anche del riconosciuto autore di delitti efferati, giacché proprio il rispetto di tali diritti vale a qualificare la superiorità dell'ordinamento statale, fondato sulla centralità della protezione dell'individuo, rispetto ad organizzazioni criminali, che invece si nutrono del sostanziale disprezzo di chi non risponda alle proprie finalità, quale che sia il modo in cui esse possano autorappresentarsi per cercare di conquistare consenso sociale. Le superiori considerazioni non sono inficiate dall'accostamento di Cosa Nostra ad una montagna di escrementi, secondo una celebre frase destinata a sottolineare proprio la devastante capacità delle associazioni mafiose di intaccare le strutture portanti della società civile. Si tratta, all'evidenza, di Corte di Cassazione un'argomentazione che elude, nel caso di specie, il problema centrale, rappresentato proprio dal fatto che la generale riflessione sottesa a quella frase muta completamente di significato, quando concentrandosi sul singolo appartenente all'associazione, sia pure con un ruolo apicale, finisce per violare in modo insuperabile il nucleo fondamentale della dignità che il nostro ordinamento riconosce a qualunque essere umano, anche a chi appartiene ad una associazione malavitosa sanguinaria e nefasta (o addirittura la capeggia), in quanto il fondamento costituzionale del nostro sistema penale postula la "rieducabilità" anche del peggior criminale (art. 27, comma terzo, Cost.) e, pertanto, non può tollerare, neanche come artifizio retorico, la sua reificazione. "
In altri termini, il riferimento letterario alla mafia come "montagna di merda", celebre frase di Peppino Impastato, non potrebbe essere utilizzata in riferimento a una persona specifica poiché finirebbe per violare il nucleo fondamentale della dignità umana. Trattasi di un valore che deve essere riconsciuto a qualsiasi essere umano, a prescindere dall'attività criminosa esercitata e quindi anche a un boss mafioso.