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Pubbl. Gio, 2 Gen 2020

La causalità della colpa due esempi paradigmatici: responsabilità penale del sanitario e diritto penale del lavoro

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Camilla Della Giustina
Dottorando di ricercaUniversità della Campania Luigi Vanvitelli


Dalla teoria generale del nesso di causalità alle fattispecie della responsabilità medica e del diritto penale del lavoro. Le recenti sentenze della Corte di Cassazione dopo la Legge Gelli Bianco e la prima applicazione del Tribunale di Parma e sulla teoria del rischio eccentrico o esorbitante.


Sommario: 1. Introduzione; 2. La nozione di colpa: brevi cenni; 3. Teoria generale del reato, 3.1. Reati omissivi, 3.2.La problematica della causalità; 4. La causalità della colpa, 4.1. La concretizzazione del rischio, 4.2. L’eventuale efficacia impeditiva del comportamento alternativo lecito, 4.3 La sentenza Franzese come trait d’union tra la teoria generale e la responsabilità medica; 5. La responsabilità penale del sanitario, 5.1. Origini della responsabilità medica, 5.2. Elementi strutturali della responsabilità medica, 5.3. L’ambito legislativo: dalla legge Balduzzi alla Gelli-bianco. 5.4.Profili di illegittimità costituzionale della legge Gelli-Bianco: cenni ; 6. Gli infortuni nel diritto penale del lavoro, 6.1 Fonti legislative, 6.2. La responsabilità del datore di lavoro: aspetti problematici, 6.3. Conclusioni.

Abstract ita: l’articolo ha lo scopo di fornire un quadro circa la causalità della colpa. Per perseguire detto scopo si è deciso di suddividere il lavoro in tre ambiti principali. Il primo concerne l’analisi degli istituti di diritto penale necessari per affrontare le tematiche specifiche. Il secondo è dedicato all’analisi della responsabilità medica da un punto di vista penale. Infine, l’ultima parte è dedicata all’ambito del diritto penale del lavoro.

Abstract eng: The purpose of the article is to provide a picture of the causality of the fault. To achieve this aim, it was decided to divide the work into three main areas. The first concerns the analysis of criminal law institutions needed to address specific issues. The second is devoted to the analysis of medical responsibility from a criminal point of view. Finally, the last part is devoted to the field of criminal labour law.

1. Introduzione

Lo scopo del contributo è quello di analizzare la causalità di colpa attraverso due esempi paradigmatici della stessa ossia la responsabilità penale del sanitario e l’ambito relativo agli infortuni all’interno del diritto penale del lavoro. Si tratta di due aree in cui la criminalità colposa ha subito un aumento esponenziale anche a causa del macchinismo in genere e della motorizzazione di massa in specie[1].

Prima di approdare alla definizione della causalità della colpa e successivamente agli ambiti appena indicati risulta necessario procedere a delle brevi premesse appartenenti alla teoria generale del reato ossia la definizione di colpa, reati omissivi e commissivi ed infine la nozione di causalità. Si tratta dei cenni in quanto gli istituti appena menzionati meriterebbero una trattazione approfondita autonoma che non è possibile svolgere in detta sede.

I due ambiti che verranno trattati sono entrambi caratterizzati dall’assolvimento della posizione di garanzia.

È noto infatti che “gli operatori medici e i paramedici sono tutti ex lege portatori di una posizione di garanzia espressione dell’obbligo di solidarietà costituzionalmente imposto ex art. 2 e 32 Cost. nei confronti dei pazienti affidati, a diversi livelli, alle loro cure o attenzioni e, in particolare, sono portatori della posizione di garanzia che va sotto il nome di posizione di protezione”[2].

Per quanto concerne, invece, l’ambito del diritto penale del lavoro attualmente l’impianto fornito dal Dlgs.81/2008 articola l’attività di gestione del rischio in risk assestement e risk management. Il primo si riferisce all’attività di valutazione e individuazione dei fattori di rischio, attuali o potenziali, presenti e dai quali potrebbe derivare pregiudizio alla sicurezza o salute dei lavoratori. Il secondo, invece, concerne l’attività consistente nella predisposizione di misure volte a gestire e contenere i fattori di rischio[3].

2. La nozione di colpa: brevi cenni

Data l’esponenziale crescita dell’illecito colposo durante gli ultimi anni la dottrina penalistica ha provveduto ad analizzare ed approfondire lo studio dell’illecito colposo al fine di individuare delle regole uniformi applicabili alle fattispecie colpose. Le due aree in cui questa crescita si è manifestata sono l’area della responsabilità medica e della sicurezza nei luoghi di lavoro.

Dottrina autorevole ha evidenziato come questi studi abbiano fatti si che dall’analisi della fattispecie colposa emergessero, sostanzialmente, tre aspetti. Un primo concerne il progressivo precipitarsi delle regole di diligenza, prudenza e perizia in enunciati normativi. In secondo luogo, si assiste alla progressiva penalizzazione della mera inosservanza delle regole prudenziali il tutto a prescindere dall’effettivo verificarsi di un evento di danno o di pericolo. Infine, si è proceduto a sostituire, in maniera progressiva, le misure penali restrittive della libertà personale con misure di interdizione o sospensione dall’esercizio di attività pericolose. Si deve osservare come queste prescrizioni risultino essere perfettamente adattabili alla materia della circolazione stradale e della sicurezza sul lavoro, ma non risultano essere idonee per disciplinare l’attività medico-chirurgica[4].

Il problema di fondo è dato dal fatto che la fattispecie colposa possieda un deficit in re ipsa nonostante essa goda di un’autonoma struttura normativa. Il delitto colposo, infatti, rappresenta un modello specifico di illecito penale dotato di struttura e caratteristiche proprie che emergono sia sul piano della tipicità e si riflettono su quello della colpevolezza[5]. Il Codice penale contiene una definizione di delitto colposo ex art. 43 c.p. “ il delitto è colposo o contro l’intenzione quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.

Questo precipitato normativo non è stato ritenuto sufficiente dall’elaborazione dottrinaria che ha sempre cercato di individuare l’esatto perimetro della colpa. Invero, alle teorie soggettive sono seguite quelle oggettive ed infine è stata elaborata la teoria mista. La teoria mista ha messo in luce come fosse necessario prendere in considerazione entrambi gli elementi[6]. Adottando questa impostazione dottrinaria la fattispecie colposa risulta essere caratterizzata dall’inosservanza di una regola di condotta ritenuta come doverosa in quanto idonea a prevenire eventi dannosi a beni giuridici protetti, la possibilità di attribuire detta inosservanza al soggetto agente. Egli deve, in primo luogo, possedere la capacità di adattarsi alle regole di condotta e, in secondo luogo, non deve possedere la volontà del fatto materiale tipico. È evidente che la colpa si differenzi dal dolo per l’assenza di volontà di questo fatto materiale tipico[7].

Il requisito oggettivo della colpa è costituito dall’inosservanza delle regole di condotta. Esse sono preordinate ad evitare e prevenire danni o a contenere il rischio rappresentando la cristallizzazione dei giudizi di prevedibilità ed evitabilità[8]. Queste regole di condotta, ex art. 43 c.p., si possono suddividere tra regolare cautelari non scritte e scritte. Le prime sono descritte come negligenza, imprudenza, imperizia e trovano la loro fonte nella prassi e nell’ambiente sociale e costituiscono, per la dottrina, la colpa generica. Le seconde, invece, sono scritte e si rinvengono in leggi, regolamenti, ordini e discipline. Il non rispetto di leggi, regolamenti, ordini e discipline possiede due significati. In primis, si fa riferimento al contrasto tra il comportamento del soggetto e le regole dettate dall’ordinamento giuridico. In secundis, oggetto dell’inosservanza possono essere anche regolamenti, ordini e discipline non scritte e non giuridiche: a questo punto si richiede che la trasgressione si risolva in un difetto di precauzioni definite come doverose[9].

Il requisito soggettivo richiede che, affinché la colpa possa assurgere a vera e propria forma di colpevolezza, essa sia soggettivamente rimproverabile all’agente. Il fatto può dirsi rimproverabile quando l’agente doveva impedire il fatto, in quanto da questi si poteva pretendere il rispetto e l’osservanza delle regole di condotta che se adottate avrebbero impedito il verificarsi dell’evento[10]. Il criterio da applicare è quello della prevedibilità e prevenibilità alla luce di tutte le circostanze in cui si trova il soggetto.

Il parametro da assumere sarà quello dell’agente modello cioè l’uomo giudizioso eiusdem professionis et condicionis il tutto rapportato alla specializzazione, alla diversità di parametri di conoscenza, alla conoscenza specifica che il soggetto dovrebbe possedere in relazione alla tipologia di attività svolta[11]. È evidente come esisteranno una molteplicità di agenti modello rapportati al pericolo e all’attività che la vita sociale comporta[12].

È evidente come il giudizio sulla colpa è relativo dato che l’evento è prevedibile ed evitabile per un dato soggetto e non per un altro.

Riassuntivamente si può sostenere che la colpa trova fondamento in tre elementi: la mancanza di volontà rispetto al fatto tipico realizzato, l’obiettiva trasgressione di una norma cautelare volta a prevenire la lesione di beni giuridicamente protetti e infine come momento di rimprovero ad opera dell’ordinamento per il comportamento tenuto nella situazione concreta[13].

3. Teoria generale del reato

La teoria generale del reato, per molto tempo, si è sforzata di comprendere all’interno di un unico concetto generale di azione sia l’agere che l’omittere in quanto appartenenti entrambi allo stesso concetto unitario di condotta penalmente rilevante[14].

Altra parte della dottrina ha evidenziato come nonostante azione ed omissione siano strettamente accomunate essere differiscono a partire dal profilo naturalistico[15]. È evidente come l’azione possa essere definita come un’esternazione attiva del soggetto agente nel mentre in cui lo stesso si rapporta con il mondo. L’azione risulta essere immediatamente percepibile con i sensi. L’omissione, a contrario, è una forma di agire dell’uomo caratterizzata dal mancato contributo ad una prestazione che ci si attende da lui. L’omissione risulta essere percepibile solo nei presupposti e nelle conseguenze non nel concretizzarsi della stessa come atto contrario al dovere di agire. In altre parole, l’azione è un quid naturalistico, l’omissione è un quid normativo[16].

L’omissione arriva a possedere una propria dimensione autonoma e riconoscibile quando sia collocata in un contesto inter-relazionale nel quale si producono aspettative di comportamento dalle quali derivano regole di condotta. Da questo deriva il tradizionale criterio di distinzione tra condotta attiva e omissiva creato sulla tipologia della norma penale violata. Qualora la norma richieda l’astensione da un determinato comportamento, essa assume il carattere di divieto e può essere violata solo mediante un comportamento attivo. Nell’ipotesi in cui il precetto violato richieda un agire richiesto come obbligatorio dall’ordinamento esso assume il carattere di comando e si ha violazione nel momento in cui si omette il comportamento doveroso[17].

Nel cercare di far rientrare azione ed omissione all’interno del concetto di unica condotta penalmente rilevante una parte della dottrina ha sostenuto come la condotta omissiva non si esaurirebbe solamente in un fatto negativo in quanto il soggetto avrebbe tenuto l’azione inversa rispetto a quello che doveva e poteva fare[18]. Così facendo l’omissione viene fatta rientrare in uno schema fisso costituito dall’azione fisica in quanto viene fatta rientrare nel concetto dell’aliud facere.

Come già accennato l’evoluzione della scienza giuridica ha portato a evidenziare le differenze strutturali dell’azione e dell’omissione.

3.1. Reati omissivi

L’analisi dei reati omissivi parte dallo studio della disciplina normativa la quale menziona la fattispecie mediante la descrizione di modelli astratti di comportamento. La descrizione di essi non contiene solo il comando giuridico di impedire l’evento, ma anche l’indicazione delle regole di diligenza o cautelari che devono essere adottate. La condotta omissiva possiede rilievo dal punto di vista penale solo nel momento in cui la si pone a confronto con il modello di comportamento individuato[19].

Il reato omissivo subisce una classificazione al suo interno, si è soliti infatti distinguere tra reati omissivi propri e impropri. Il criterio utilizzato per procedere a questa qualificazione sarebbe, secondo la dottrina maggioritaria, quello tra reati di mera condotta e di evento[20].

Adottando il criterio appena indicato per reati omissivi propri si intererebbe quella tipologia di reati che si esauriscono nel mancato compimento dell’azione doverosa prescindendo dalla verificazione dell’evento. Qualora si dovesse verificare l’evento esso assumerà rilievo come circostanza aggravante. Oltre a questo, è già la norma incriminatrice che nel descrivere la situazione tipica indica anche il fine al quale è preordinato il compimento dell’azione. Un esempio di reato omissivo proprio è rappresentato dall’art. 590 c.p. ossia l’omissione di soccorso.

I reati omissivi impropri, invece, possono essere definiti come reati omissivi consistenti nella violazione dell’obbligo di impedire il verificarsi di un evento tipico ai sensi di una fattispecie commissiva-base[21]. L’evento, del cui mancato impedimento si è chiamati a rispondere, è quello tipico di una fattispecie commissiva ossia una fattispecie ideata per incriminare un fatto derivante da un comportamento positiva.

Per fare un esempio, nel delitto di omicidio l’evento morte viene tipizzato dal legislatore all’art. 575 c.p. e l’espressione “cagionare” allude a un processo eziologico innescato da un’azione in senso stretto. Il cagionare viene assimilato al non-impedire sfruttando la clausola di equivalenza contenuta nell’art. 40 co.2 c.p. ossia “non impedire un evento che si ha l’obbligo di impedire equivale a cagionarlo”.

In questo modo si assiste ad una estensione della punibilità in quanto l’originaria fattispecie costruita come commissiva diventa suscettiva di essere convertita in una corrispondente fattispecie di mancato impedimento dell’evento medesimo, sempre che sussista in capo al soggetto uno specifico obbligo giuridico di agire a contenuto impeditivo[22].

È evidente il motivo della definizione del reato omissivo improprio come reato commissivo mediante omissione. Mediante questa espressione si vuole sottolineare che una fattispecie ideata dal legislatore come suscettibile di essere realizzata solo mediante una condotta commissiva può essere anche posta in essere mediante un contegno avente carattere puramente omissivo.

L’art. 40 co. 2 c.p. attraverso la regola di equivalenza produce un fenomeno di estensione della punibilità e, di conseguenza, la domanda da porsi è se questa estensione sia generale oppure no. La dottrina dominante sostiene che detta disposizione possieda un ambito limitato di applicazione in quanto non sarebbe applicabile ai reati omissivi propri, ai delitti di mano propria[23], reati abituali, e tutti quei reati aventi una condotta caratterizzata da indicazioni descrittive indicanti necessariamente un comportamento positivo (furto, rapina).

Relativamente all’obbligo di impedire l’evento si attribuisce all’art. 40 co.2 c.p. la funzione di individuare all’interno della macro-categoria di doveri impeditivi di eventi dannosi o pericolosi, quelli che possono essere qualificati come giuridici. Da ciò deriva la considerazione secondo cui il principio di equivalenza risulta essere applicabile solo in relazione agli eventi rispetto ai quali sussiste un obbligo giuridico di impedire. A tal proposito la Suprema Corte ha sostenuto che “non basta, in altri termini, la ricerca di un generico connotato di non qualificata antidoverosità o riprovevolezza, ma occorre la precisa individuazione, a carico del soggetto cui si imputa la omissione di un vero e proprio obbligo giuridico di impedire l’evento, il quale obbligo, da accertare caso per caso, può derivare direttamente dalla norma ovvero da una specifica situazione per la quale il soggetto chiamato a rispondere della lesione per non averla impedita fosse tenuto a compiere una determinata attività proprio a protezione dell’interesse leso”[24].

I criteri utilizzati per individuare i soggetti tenuti a adempiere all’obbligo impeditivo hanno trovato la loro fonte nell’elaborazione teorica della posizione di garanzia, ricostruzione adottata anche dalla Cassazione. Gli Ermellini, infatti, hanno interpretato l’art. 40 co.2 c.p. in termini solidaristici “in base alle norme costituzionali dell’art. 2 (che ispirandosi al principio solidaristico o del rispetto della persona umana nella sua totalità, esige nel riconoscere i diritti individuali dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale), 32 (che esalta il diritto alla salute e quindi all’integrità psico-fisica) e 41 co.2 (che vuole che l’iniziativa economica non si svolga in contrasto con l’utilità sociale e in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana)”[25].

3.2. La problematica della causalità

Il nesso di causalità, nella fattispecie di un reato commissivo, è uno degli elementi costitutivi della stessa che congiunge l’azione all’evento medesimo. L’imputazione dell’evento lesivo, qualora si tratti di una concezione oggettivistica del diritto penale[26], richiede necessariamente che il reo abbia contribuito alla verificazione del risultato dannoso in maniera concreta. La causalità, secondo detta impostazione, ha lo scopo di divenire criterio di imputazione oggettiva del fatto al soggetto: lo stesso nesso causale prova che lo l’evento lesivo è opera del soggetto agente. Qualora dovessero sussistere gli altri presupposti di natura psicologica l’agente potrebbe essere chiamato a risponderne penalmente.

La problematica della causalità discende da due ordini di riflessioni. In primo luogo, bisogna individuare i criteri idonei per accertare il nesso di condizionamento tra evento e azione del soggetto. In secondo luogo, vi è la problematica relativa all’interpretazione dell’art. 41 co. 2 c.p. il quale postula che le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento.

Per verificare l’esistenza o meno del nesso di causalità tra condotta ed evento l’interprete dovrà sostenere che la condotta umana è condizione necessaria dell’evento, se eliminata mentalmente dal novero dei fatti realmente accaduti, l’evento non si sarebbe verificato e la stessa non è condizione necessaria dell’evento se, eliminata mentalmente mediante il medesimo procedimento, l’evento si sarebbe ugualmente verificato[27].

Oltre a questo, un antecedente può ritenersi quale condizione necessaria di un evento quando la scienza, attraverso le leggi da essa elaborate, consente di collegarlo all’evento utilizzando leggi universali, scientifiche o statistica di copertura. In relazione a detti leggi la Suprema Corte ha affermato che il rapporto di causalità richiede un alto o elevato grado di probabilità logica o di credibilità razionale vicino alla certezza, quindi non è sufficiente che il giudice accerti che senza la condotta dell’uomo l’evento non si sarebbe verificato con apprezzabile probabilità[28].

In questo contesto si la teoria condizionalistica: si deve partire dal disposto dell’art. 40 co. 1 c.p. il quale enuncia che nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato se, l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è conseguenza della sua azione o omissione. La problematica emerge quando ci si chiede a quali condizioni un evento lesivo può essere considerato come reato. I sostenitori e creatori di detta teoria sostenevano che è causa ogni condizione dell’evento, ogni antecedente senza il quale l’evento non si sarebbe verificato. Per l’accertamento del nesso condizionalistico la dottrina procedeva mediante il procedimento di eliminazione mentale. Adottando questo meccanismo un’azione viene considerata condicio sine qua non di un evento se non può essere mentalmente eliminate senza che, allo stesso tempo, venga meno anche l’evento.

Si è obiettato come questa impostazione teorica abbia almeno un paio di limiti. In primis l’universalità della teoria condizionalistica subisce una limitazione laddove non si conoscano in anticipo le leggi causali che regolano i rapporti tra determinati fenomeni. In secundis, potrebbe considerare come causali anche i fenomeni remoti antecedenti all’evento delittuoso creando ipotesi paradossali.

A seguito di queste problematiche sono stati proposti un paio di correttivi. Il primo si può definire come “correttivo del dolo o della colpa”. Mediante esso si procede a selezionare come causali le condotte che assumono rilevanza di volta in volta in relazione alla fattispecie incriminatrice analizzata. Il secondo prende come parametro l’evento concreto. L’aspetto dirimente è costituito da una catena causale esistente fra l’azione dell’autore e detto evento concreto, irrilevante, invece, è la considerazione per cui potrebbero verificarsi eventi analoghi in relazione ad altre cause operanti nel medesimo momento[29].

Un ulteriore correttivo è quello di interpretare la teoria condizionalistica alla luce delle leggi universali. Queste ultime affermano che il verificarsi di un determinato evento è invariabilmente accompagnata dalla verificazione di un altro evento. Dette leggi descrivono un rapporto intercorrente tra fenomeni che è caratterizzato dal requisito della regolarità e che soddisfa al massimo le esigenze di rigore scientifico e certezza[30].

La disciplina dettata dal legislatore penale è stata concepita nella maniera più completa possibile. Lo stesso, infatti, ha previsto all’art. 41 c.p.[31]. il fenomeno delle concause o altrimenti detto del concorso di più condizioni nella produzione dello stesso evento. Si tratta di condizioni che possono essere antecedenti, concomitanti o successive rispetto alla condotta tenuta dal reo.

L’art. 41 c.p. deve essere letto in combinato disposto con l’art. 40 c.p. In primo luogo, l’art. 41 c.p. riprende i principi espressi dall’art. 40 c.p. ossia affinché si possa configurare un capo di imputazione a carico di un determinato soggetto è necessario che questo abbia tenuto la condotta necessaria e l’imputazione non viene esclusa qualora intervenissero altri fattori causali siano essi antecedenti, concomitanti o successivi.

Questa prima disposizione viene temperata dal comma secondo dell’art. 41 c.p. Nell’ipotesi in cui fosse stato presente solamente il primo comma, la conseguenza sarebbe stata che qualsiasi comportamento tenuto da parte del soggetto agente che si fosse posto o che avesse costituito un antecedente nella sequenza causale avrebbe rappresentato concausa dell’evento.

Il secondo comma dell’art. 41 c.p. svolge la funzione di temperare la disposizione contenuta nel primo comma e, di conseguenza, deve essere intesa come norma che tende a temperare gli eccessi punitivi derivanti da una rigorosa applicazione del criterio condizionalistico. È evidente come l’art. 41 co.2 c.p. sia l’unica disposizione idonea a consentire l’ingresso nel nostro ordinamento a teorie causali diversi da quella della condicio sine qua non.

La dizione dell’art. 41 co. 2 c.p., come risulta dai lavori preparatori, è stata pensata come funzionale a risolvere i casi definiti di decorso causale atipico. Alla luce di questo la disposizione in esame permette l’ingresso a teorie causali che richiedono un quid pluris rispetto al nesso condizionalistico strictu sensu. Lo scopo quindi dell’art. 41 co.2 c.p. è quello di escludere il nesso causale classicamente inteso in relazione a tutte quelle ipotesi in cui l’accadimento lesivo non possa essere ricompreso in una successione normale di accadimenti[32].

Al fine di rispondere al quesito relativo alle caratteristiche che deve possedere il fattore sopravvenuto per essere idoneo a interrompere il nesso causale sono state elaborate ulteriori teorie. Una prima teoria è stata denominata della causalità adeguata. All’origine la teoria de qua appare essere un correttivo alla teoria condizionalistica limitata all’ambito dei delitti aggravati dall’evento[33].

La teoria della causalità adeguata ha la tendenza a ritenere e selezionare come causali solo alcuni antecedenti: considera come causa quella condizione tipicamente idonea o adeguata a produrre l’evento in base ad un criterio di prevedibilità basato sull’id quod plerumque accidit[34].

Una parte della dottrina ha provveduto a re-interpretare questa teoria in termini più aggiornati, da ciò è derivata una lettura in termini negativi. Aderendo a questa “nuova” interpretazione il rapporto di causalità si ritiene esistente tutte le volte in cui non sia improbabile che l’azione produca l’evento[35].

La principale critica promossa dalla dottrina alla teoria della causalità adeguata è quella della incapacità di detta teoria di risolvere situazioni in cui l’azione criminosa sia ex ante idonea a cagionare l’evento e che quest’ultimo si verifica a causa di circostanze imprevedibili. Al fine di superare detta problematica è stato proposto di scindere il giudizio in due fasi: la prima ex ante, la seconda ex post.

In base alla prima si deve verificare se non sia improbabile che un evento derivi da un’azione ascrivibile a quello identificato dalla norma. La seconda richiede invece di accertare che l’evento concreto possa essere connesso, in via generale o particolare, all’azione delittuosa.

Per completezza si ricordano anche due correttivi minori. La prima, della causalità umana, richiede che affinché il rapporto di causalità esista siano presenti due elementi: uno positivo e uno negativo. È necessario, quindi, che l’uomo con la propria azione abbia posto in essere una condizione dell’evento ossia un’antecedente senza il quale l’evento stesso non si sarebbe verificato. Il negativo è che il risultato non sia dovuto quale conseguenza di fattori eccezionali[36].

La seconda è la teoria dell’imputazione obiettiva dell’evento. Secondo quest’ultima il nesso causale costituisce un presupposto indispensabile per la responsabilità penale in quanto prova che l’evento è opera dell’agente. Da ciò deriva che un evento lesivo può essere imputato in modo obiettivo all’agente solo a condizione che esso realizzi il risultato giuridicamente non consentito o illecito creato dall’autore mediante la sua condotta. Punto nevralgico dell’imputazione obiettiva dell’evento riguarda la creazione e realizzazione di un rischio non consentito. La teoria di cui si tratta si avvale di alcuni correttivi al fine di rinvenire una soluzione rispetto a casi di difficile risoluzione.

Il primo viene definito correttivo dell’aumento del rischio. In base ad esso l’imputazione obiettiva dell’evento richiede quale presupposto, oltre al nesso condizionalistico, che l’azione oggetto di analisi abbia aumentato la probabilità di verificazione dell’evento dannoso. In questa logica sarebbero vietate solamente le azioni che sono al fuori del limite del rischio consentito socialmente e che producono eventi realizzanti la verificazione del rischio vietato. A contrario sarebbero lecite tutte quelle condotte che non comportano un pericolo o le possibilità di verificazione di eventi lesivi.

Il secondo correttivo è stato denominato scopo della norma violata. In base ad esso non si dovrebbe imputare l’evento all’autore della condotta tutte le volte in cui il fatto non concretizza il rischio specifico che la norma violata tendeva a prevenire.

Se questa è la posizione della dottrina la giurisprudenza recente registra un diverso orientamento. Il riferimento è alla sentenza ThyssenKrupp[37]. In detta pronuncia la Suprema Corte nonostante abbia riconosciuto come irrilevante sul piano causale la condotta ai fini della verificazione dell’evento questa sia stata presa come riferimento sia per quanto concerne l’addebito della condotta colposa sia per la commisurazione della pena inflitta per il corrispondente delitto colposo[38].

Nel reato colposo la causalità rappresenta la conseguenza della condotta illecita. L’evento, in questa species di reati, deve rappresentare la conseguenza necessaria di un’azione avente determinate caratteristiche cioè l’evento deve apparire come una concretizzazione del rischio che la norma di condotta violata tendeva a prevenire[39].

In conclusione, l’ultimo problema concerne il passaggio dall’accertamento a livello statico del nesso di causalità alla certezza processuale della stessa. La soluzione a detto aspetto è stata fornita dalla Sentenza Franzese[40], il merito di detta pronuncia è quello di aver accostato e agganciato il concetto di accertamento causale a quello di elevata probabilità logica o credibilità razionale.

Per le Sezioni Unite si deve utilizzare come criterio quello della credibilità razionale sia per quanto concerne la ricostruzione sul piano processuale sia per quanto riguarda quella sul piano sostanziale. In base a detta ricostruzione l’aspetto determinante nella ricostruzione del nesso causale è la credibilità della ricostruzione del fatto concretamente verificatosi alla luce delle circostanze di fatto emergenti nel processo.

Posto che l’accertamento nel nesso causale deve avvenire utilizzando il criterio della credibilità logica e razionale il giudice deve indicare sia le ragioni per le quali ha accolto quella determinata legge scientifica sia quelle a sostegno dell’esclusione circa l’esistenza di altre cause alternative nella produzione dell’evento. Precisamente la Cassazione stabilisce che il giudice “nella valutazione dell’esistenza del nesso di causalità, quando la ricerca della legge di copertura deve attingere al sapere scientifico, la funzione probatoria e strumentale di quest’ultimo impone al giudice di valutare dialetticamente le specifiche opinioni degli esperti e di motivare la scelta ricostruttiva della causalità ancorandola ai concreti elementi scientifici raccolti.”

La maggiore critica mossa dalla dottrina concerne la considerazione secondo cui quando si tende a sostituire la certezza processuale a quella assoluta si corre il rischio di violare i principi di garanzia caratterizzanti la personalità della responsabilità penale. Aderendo alla ricostruzione prospettata dalle Sezioni Unite, infatti, il decorso causale ipotetico sarebbe corroborato da indicazioni troppo generiche che sacrificherebbero i principi di garanzia caratterizzanti i processi penali.[41]

4. La causalità della colpa

La causalità della colpa evoca la connessione dei nessi normativi esistenti tra condotta colposa ed evento nei reati di danno causalmente orientati o a forma libera. Essa rappresenta il punto di incontro tra diverse categorie dogmatiche: vi è chi ha definito la causalità della colpa come un fenomeno operante sul piano causale e sempre in tensione tra gli istituti della causalità e dell’imputazione[42]. Sicuramente è vero che i temi della colpa, della causalità e dell’omissione impropria possiedono una riflessione scientifica autorevole. Per quanto concerne l’ambito della causalità della colpa si ha l’impressione che l’articolazione scientifica in materia abbia sovente messo in ombra l’istanza sistematica e l’ordine concettuale, ingerendo quasi un senso di disorientamento, talvolta addirittura di vertigine, tanto sul piano teorico quando su quello giudiziario applicativo.[43]

La tematica della causalità della colpa si inserisce nel contesto della difficile riflessione circa il rapporto esistente tra causalità e imputazione. Si tratta di una questione estremamente complessa in quanto non risultano chiare le funzioni, i ruoli e significati degli elementi della causalità e dell’imputazione. Partendo dalla prima ci si chiede quale sia esattamente il valore della causalità ossia se questa abbia valore normativo o naturalistico. In relazione all’imputazione ci si chiede se essa possa essere una categoria dogmatica veramente idonea a individuare i criteri necessari per imputare, in via generale, un fatto determinato a un soggetto[44].

È evidente l’interesse che la dottrina nutre per la causalità della colpa dato che affrontare detta tematica significa avere la possibilità di sottolineare “frizioni ed equivoci e risolvere i grandi problemi che affannano la dottrina penalistica degli ultimi decenni al fine di far chiarezza e isolare determinati concetti”[45].

Studiare la causalità della colpa sembra avere lo scopo di identificare e scegliere con cura all’interno delle fattispecie colpose quelle nelle quali si realizzi concretamente una lesione derivante dalla colpa dell’agente nel suo agire o omettere. In altri termini, la causalità della colpa si trova al confine tra la problematica della causalità e della colpa. Questa sua collocazione “geografica” impone all’interprete di ricercare in maniera estremamente accurata una collocazione dogmatica.

Volendo collocare la causalità della colpa essa si deve ricomprendere nella misura obiettiva della colpa e di conseguenza, nella tipicità dell’illecito colposo che richiede la presenza di due elementi quali la violazione della regola cautelare e il nesso di rischio fra la condotta colposa e l’evento.

L’ambito della causalità della colpa per alcuni aspetti si intreccia e si confonde con la causalità della condotta anche se si tratta di due aspetti diversi. Entrambe cercano, anche se in modo diverso, di rendere effettivamente operante la disposizione secondo cui la responsabilità penale è personale (art. 27 co. 1 Cost.). L’art. 40 c.p. richiede che venga necessariamente accertata l’esistenza di un nesso eziologico fra la condotta dell’agente e l’evento al fine di eliminare l’evenienza di attribuire all’autore la responsabilità per un fatto altrui. In modo analogo, l’art. 43 c.p. evidenzia come sia doveroso accertare che l’evento sorga dalla violazione delle regole cautelari al fine di attribuire all’agente solo e soltanto le conseguenze derivanti dalla propria condotta e allo stesso tempo tende a rendere operativo il principio dell’art. 27 co.1 Cost[46].

Se queste sono le somiglianze si deve ricordare come la causalità della condotta e della colpa possiedano differenze sia circa la sostanza sia in relazione ai criteri utilizzati per arrivare all’individuazione dell’una piuttosto che dell’altra. A questo proposito, vi è chi ha sostenuto che “l’espressione cagionare per colpa risulti essere ambigua poiché è chiaro a tutti che la colpa, in realtà non cagiona nulla e che la condotta attiva può cagionare l’evento ossia un risultato percepibile sotto il profilo fenomenico. La regola cautelare, viceversa, orienta la verifica della tipicità del fatto colposo in un’ottica normativa che si aggiunge a quella fenomenica e la presuppone”[47].

L’accertamento del nesso eziologico, infatti, concerne solamente la concatenazione causale naturalistica e, di conseguenza, la relazione esistente fra la condotta effettivamente tenuta dall’agente e l’evento che si è verificato in concreto. Analizzare i nessi sussistenti fra colpa ed evento, a contrario, richiede di prendere in considerazione il piano normativo in quanto detto scrutinio ha come oggetto “come sarebbero potute andare le cose, se”. In quest’ultimo caso, il giudice ha il compito di confrontare l’effettivo svolgimento dei fatti e il comportamento rispettoso della regola cautelare mai posto in essere. La valutazione concerne la valutazione circa l’effettiva efficacia impeditiva del comportamento doveroso[48].

Da questa prima differenza relativa alla natura dell’accertamento del nesso eziologico fra causalità della condotta e della colpa deriva una differenza circa la ricerca e l’applicazione dei criteri per accertarne la sussistenza.

Accertare il nesso eziologico richiede, in primis, individuare una legge scientifica di copertura e in secundis, verificare la possibilità di escludere decorsi causali alternativi. Detti accertamenti si fondano su due piano causali diversi: il primo su quello della causalità generica, il secondo su quello della causalità individuale[49].

L’analisi circa l’efficacia impeditiva del comportamento alternativo lecito richiede, invece, una valutazione predittiva e prognostica, poiché esso possiede natura ipotetica. In concreto, il giudice dovrà riportarsi ad un momento antecedente al verificarsi dell’evento al fine di operare una sostituzione tra la condotta non rispettosa delle regole precauzionali con quella rispettosa delle stesse. Questa valutazione persegue l’obiettivo di accertare l’idoneità del comportamento precauzionale ad evitare il risultato offensivo.

Se questa risulta essere l’impostazione dottrinale dominante dottrina opposta ritiene che sia ammissibile sovrapporre i criteri deputati all’accertamento dei rapporti di causalità e dei nessi fra colpa ed evento. A proposito questa corrente ha osservato che quando la condotta naturalistica tenuta da un certo soggetto coincide con la violazione di una regola di diligenza, il livello di probabilità logica della efficacia causale, rispetto all’evento verificatosi, di tale violazione si identifica con il livello di probabilità logica della efficacia causale relativa alla condotta. E nessuno discute che quel livello debba attestarsi, in sede di accertamento, su valori contigui al 100%[50].

L’assunto dal quale parte il ragionamento appena evidenziato è che accertare la causalità della colpa non è un’attività idonea a sostituire la verifica della sussistenza del rapporto di causalità che si instaura tra condotta ed evento. Quest’ultima verifica si aggiunge alla prima al fine di incrementarla.

Coerentemente a quando appena detto il giudice prima di interrogarsi sulla eventuale efficacia dispiegata dalla regola cautelare non adottata deve prima svolgere due valutazioni. Più precisamente, il giudicante deve verificare la sussistenza del rapporto di causalità dopo aver valutato l’esistenza del collegamento tra colpa ed evento. In altri termini, si deve prima accertare che l’evento che si è verificato in concreto appartiene alla tipologia di rischi che la norma violata vuole prevenire. Si tratta di applicare l’art. 43 c.p. nella parte in cui prevede che l’evento colposo si deve verificare a causa di negligenza, imprudenza, imperizia ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.

Il rapporto tra rischio, colpa ed evento viene traslato nell’ambito della causalità della condotta, con le precisazioni appena descritte, dalla teoria della imputazione obiettiva dell’evento. Si tratta di una riflessione di matrice tedesca avente come idea di base che il problema della causalità sia da rinvenire nell’individuazione dei criteri di giudizio utilizzati per imputare l’evento all’autore in termini strettamente giuridici[51]. La sussistenza e rilevanza giuridica del rapporto di causalità deve essere composta sia dall’accertamento nel nesso eziologico utilizzando una legge di copertura scientifica, sia da riflessioni politico-criminali. Queste sono necessarie per valutare che l’imputazione all’autore dell’evento corrisponda alle esigenze proprie dell’ordinamento giuridico.

Si richiede, quindi, di aggiungere al nesso eziologico l’accertamento relativo al fatto che l’agente non abbia aumentato o non diminuito il rischio di verificazione dell’evento. Quest’ultimo risulta essere la concretizzazione del rischio che la norma intendeva eliminare.

La principale critica mossa è stata quella secondo cui i criteri individuati si dovrebbero considerare dei luoghi argomentativi, figure retoriche da sfruttare per giustificare il mancato riconoscimento della responsabilità in alcuni casi. A fronte di ciò, i sostenitori della teoria dell’imputazione obiettiva hanno definito la stessa come una categoria dogmatica trasversale all’elemento oggettivo e soggettivo rispondente al principio di responsabilità per fatto proprio. Detta categoria comprende sia l’aspetto oggettivo del fatto tipico, ossia i profili che sono rilevanti a prescindere dal dolo o dalla colpa, sia l’aspetto del fatto tipico caratterizzato dalla sussistenza del dolo e della colpa. Così facendo all’agente verrebbe imputato solo quello che può ritenersi conseguenza del proprio agire[52].

Nonostante le critiche mosse si tratta di una elaborazione teorica che ha avuto parecchia fortuna nell’ordinamento giuridico italiano[53] anche se attraverso una lettura riduttiva. In alcune pronunce giudiziarie, si rinviene la propensione a isolare il criterio di aumento del rischio per poi sostituirlo alla teoria della causalità. Il risultato ottenuto, così facendo, è stato quello di ritenere integrato il rapporto eziologico fra condotta ed evento ogni volta che la condotta dell’agente abbia aumentato il rischio di verificazione dell’evento.

Vi è chi ritiene che la riflessione debba avere un margine più ampio ossia riguardare anche i rapporti tra diritto penale e sapere scientifico. Adottando questo diverso punto di vista qualora si debba analizzare un comportamento omissivo o commissivo colposo l’accertamento si deve suddividere in due fasi. La prima concerne l’accertamento del decorso causale reale attraverso un giudizio che avviene ex post volto a individuare la concatenazione causale esistente tra condotta ed evento. La seconda fase ha ad oggetto la verifica del comportamento impeditivo lecito sulla base di una valutazione ex ante. Questa seconda indagine, tipica dei reati omissivi e omissivi colposi, prenderebbe in considerazione non solamente la valutazione in astratto ossia il controllo dell’idoneità del comportamento alternativo lecito a ridurre i rischi di verificazione in maniera totalmente astratta, ma anche la valutazione in concreto. Questa avrebbe lo scopo di escludere ulteriori fattori reali che potrebbero rendere inadeguata l’osservanza delle regole precauzionali valutata in astratto[54].

Chiarito il rapporto intercorrente tra causalità della colpa e della condotta si devono analizzare i nessi richiesti affinché si possa dire integrata la fattispecie dell’illecito colposo di evento.

4.1. La concretizzazione del rischio

Questo primo requisito richiede che il risultato offensivo possa considerarsi come la reale e concreta verificazione del rischio che doveva essere evitato mediante l’osservanza della regola cautelare. Il giudice, affinché si possa dire integrata una responsabilità colposa, non deve accertare solamente che l’evento si sia prodotto in quanto non è stata osservata la regola cautelare, ma anche che l’offesa sia ricompresa nel novero dei rischi che la regola voleva impedire.

L’accertamento dell’esistenza della correlazione tra rischio, colpa ed evento è strettamente collegato alle caratteristiche proprie dell’illecito colposo. Verificare questa corrispondenza teleologica risulta necessaria poiché “il rimprovero a titolo colposo non riguarda solamente la realizzazione della condotta incauta, ma anche e soprattutto la produzione del risultato lesivo quale conseguenza della stessa”[55].

4.2. L’eventuale efficacia impeditiva del comportamento alternativo lecito

Il secondo nesso richiesto come necessario per riprovare al soggetto agente la produzione di un risultato offensivo richiede l’accertamento, nel caso concreto, di una condotta che, se osservata, non avrebbe avuto quale conseguenza la verificazione dell’evento stesso.

Dimostrare l’eventuale efficacia impeditiva del comportamento alternativo lecito vuol dire rispettare la disposizione secondo cui la responsabilità penale è personale (art. 27 co.1 Cost.). Nell’ipotesi in cui non si procedesse a detta verifica l’attribuzione dell’evento offensivo avverrebbe a carico dell’agente come responsabilità oggettiva[56] violando in questo modo l’art. 27 co.1 Cost.

L’analisi circa l’efficacia impeditiva del comportamento alternativo lecito avviene attraverso un giudizio predittivo ex ante. Si impone al giudice di sostituire l’azione antidoverosa con una rispettosa della regola cautelare al fine di accertare in concreto se l’osservanza della regola de qua avrebbe, in concreto, scongiurato la verificazione del risultato offensivo. Quello che il giudicante deve accertare è se, nel caso sottoposto alla sua analisi, l’osservanza delle regole di condotta qualificabili come esistenti e riconoscibili al momento del fatto avrebbero impedito l’offesa al bene giuridico.

La valutazione ex post viene ammessa solo quando produca effetti favorevoli al reo e, precisamente, in due ipotesi determinate riassumibili mediante le espressioni fallimento in astratto e fallimento in concreto.

Partendo dal primo, il giudice dovrà escludere la sussistenza della causalità di colpa nell’ipotesi in cui la regola cautelare imposta e non osservata non risulti idonea ad evitare il rischio da scongiurare.

Il fallimento in concreto, invece, si realizza quando, considerate tutte le circostanze di fatto il comportamento rispettoso della regola venga ritenuto non sufficiente, nel caso concreto, per scongiurare il verificarsi dell’evento offensivo[57].  

Vi è chi sostiene utilizzando un ragionamento in negativo che vi siano altre due circostanze idonee a escludere l’esistenza della causalità della colpa. Sulla scorta di detta posizione dottrinaria il soggetto potrebbe non essere in colpa perché non ha violato una regola cautelare o perché questa violazione non si è materializzata nell’evento ovvero perché pur avendo violato illecitamente una cautela con esiti dannosi e lesivi, tuttavia, si può valutare questa inosservanza, questo illecito, come incolpevole per ragioni inerenti a situazioni motivazionali anomale, che rendono inesigibile la condotta lecita[58].

4.3 La sentenza Franzese come trait d’union tra la teoria generale e la responsabilità medica

La sentenza Franzese si innesta in un periodo in cui la giurisprudenza della Cassazione era estremamente contraddittoria in merito all’interpretazione del nesso di causalità.

Per un primo orientamento, si riteneva sussistente il nesso causale anche in caso di percentuale di probabilità calcolata, a livello statistico, in modo estremamente basso[59]. Orientamento contrapposto rinveniva l’esistenza del nesso causale solo nell’ipotesi in cui vi fossero leggi scientifiche universali[60] idonee a rendere concreta e certa la responsabilità circa un determinato evento.

Oltre a questo, in materia di responsabilità medica, la maggior parte della giurisprudenza di legittimità dichiarava esistente il nesso causale nell’ipotesi in cui l’ipotetica condotta diligente del professionista fosse stata ritenuta in grado di impedire l’evento anche con un livello basso o medio di probabilità. Ad esso si contrapponeva un orientamento richiedente livelli di probabilità medio-alti. Il tratto comune di questi orientamenti appena descritti riguarda il fatto che entrambi non richiedevano la certezza o un grado di probabilità confinante con essa[61].

Alla base di tutte queste pronunce si rinveniva come tratto caratteristico l’elemento emotivo perché “quando è in gioco la vita umana anche solo poche probabilità di successo di un immediato intervento sono sufficienti talché sussiste il nesso di causalità quando un siffatto intervento non sia stato possibile a causa dell’incuria del sanitario”[62].

La risoluzione del contrasto avviene nel 2002 con la sentenza n. 30328[63] definita appunto come sentenza Franzese. In sostanza, detta sentenza aveva quale oggetto la responsabilità medica omissiva e la ricerca circa la legge di copertura applicabile al caso concreto. La questione maggiormente problematica concerne il passaggio dalla causalità generale a quella individuale al fine di arrivare a una accusa certa sulla responsabilità dell’evento oltre ogni ragionevole dubbio[64].

La Suprema Corte affermò come non fosse possibile e nemmeno necessario che la causa e l’evento coincidessero al 100% in ogni singolo e determinato caso analizzato dal giudice. Al contrario, è compito del giudicante comprendere la rilevanza o meno di una condizione nell’evento preciso. L’aspetto rilevante concerne l’effettiva materializzazione dell’evento in seguito al susseguirsi ordinario di manifestazioni causali mediante un’analisi attenta della probabilità logica.

In tema di causalità individuale è compito del giudice quello di far combaciare l’evidenza scientifica con le circostanze emergenti dal caso in esame. Detto procedimento “non dissimile dalla sequenza del ragionamento inferenziale dettato in tema di prova indiziaria dall'art. 192 comma 2 c.p.p. (il cui nucleo essenziale è già racchiuso, peraltro, nella regola stabilita per la valutazione della prova in generale dal primo comma della medesima disposizione, nonché in quella della doverosa ponderazione delle ipotesi antagoniste prescritta dall'art. 546, comma 1 lett. e c.p.p.). Prima viene in considerazione una legge, come tale costruita su generalizzazioni (comportamenti-tipo, situazioni-tipo, conseguenze-tipo), poi si controlla se il singolo comportamento storico, la singola situazione storica, la singola conseguenza storica, possono essere inseriti nello schema generale previamente ottenuto. In altri termini […] un antecedente può essere configurato come condizione necessaria solo a patto che esso rientri nel novero di quegli antecedenti che, sulla base di una successione regolare conforme ad una legge dotata di validità scientifica – la cosiddetta legge generale di copertura – portano ad eventi del tipo di quello verificatosi in concreto”.

La vera novità introdotta con la sentenza Franzese concerne il concetto di certezza processuale fondata sul criterio della probabilità logica o credibilità razionale. I giudici delle Sezioni Unite, infatti, stabiliscono che l’accertamento del nesso causale debba avvenire in due fasi. In detto procedimento, si ammette il ricorso a leggi scientifiche di tipo statistico, anche caratterizzate da coefficienti bassi, ma solo allo scopo di dimostrare la causalità generale. Quest’ultima riguarda l’idoneità di una data condotta a provocare un evento del tipo di quello che si è verificato in concreto. A detto giudizio, deve seguire quello della causalità individuale idoneo a corroborare l’ipotesi generale e astratta alla luce delle circostanze del caso concreto. Solo attraverso detti passaggi è possibile pervenire ad un giudizio avente un alto grado di probabilità logica e credibilità razionale[65].

In merito alle relazioni causali che la legge scientifica individua queste devono essere attinenti al caso concreto. Il giudice dovrà procedere di volta in volta ad analizzarle e dovrà eseguire una ridescrizione dell’evento in quanto si tratta di una necessità espressa dalla clausola ceteris paribus. Detta ridescrizione si deve attuare attraverso le tipiche modalità configurabili dalla legge di copertura individuata dal giudice in quanto, solo attraverso detto procedimento, è possibile operare una valutazione generale del caso concreto.

Il principio di diritto fissato dalla sentenza Franzese richiede che nell’accertamento del nesso causale il giudicante possa tenere conto dei calcoli probabilistici quali regole di esperienza o leggi scientifiche, ma questo non risulta sufficiente. Le Sezioni Unite, infatti, sostengono che il giudice “debba verificare concretamente se il compimento dell’azione doverosa omessa avrebbe evitato, con un grado di probabilità prossimo alla certezza, il verificarsi dell’evento lesivo, ovvero, pur non potendo evitare tale evento, quest’ultimo si sarebbe verificato in epoca significativamente posteriore e con minore intensità lesiva”.

Detto in altro modo la sentenza Franzese ha affermato per la prima volta la necessità che il giudice debba essere in grado di affermare e, di conseguenza, di motivare al di là di ogni ragionevole dubbio che nel caso concreto non vi sono altre spiegazioni possibili dell’evento rispetto a quelle formulate dall’accusa. È evidente quindi che il giudice dovrà assolvere l’imputato qualora residui un dubbio ragionevole circa l’attribuzione dell’evento a fattori diversi in relazione ai quali l’imputato sia estraneo[66].

Nonostante la sentenza Franzese ha lasciato dei problemi aperti circa l’accertamento del nesso di causalità in relazione ai reati omissivi di evento in quanto con riferimento a questa tipologia di reati non può operare lo schema di giudizio appena descritto. L’accertamento del nesso di causalità nei reati omissivi di evento deve svolgersi in due step. In prima battuta si deve verificare la causa naturale dell’evento ad esempio la patologia che ha determinato la morte del paziente. Successivamente si deve effettuare un giudizio predittivo relativo a che cosa si sarebbe verificato se l’imputato avesse tenuto la condotta che la buona pratica medica indicava come doverosa nella situazione de qua. La domanda che il giudice si deve porre è se quella condotta avrebbe impedito il nesso causale in atto. La risposta a detto interrogativo esaurisce quindi il giudizio di accertamento relativo al nesso tra l’omissione e l’evento senza che sia necessario analizzare i decorsi causali alternativi.

Dottrina contrapposta sostiene che la mancata adozione della misura salvifica da parte del titolare della posizione di garanzia non consente di escludere che, nel caso concreto, l’evento possa essere stato cagionato da un fattore eziologico diverso[67].

Una tesi per superare questo empasse farebbe riferimento agli istituti generali del diritto penale. L’accertamento definito come materiale della responsabilità ex art. 40 co.2 c.p. riguarda esclusivamente l’accertamento della verificazione dell’evento tipico dell’esistenza di un obbligo giuridico di impedire detto evento a carico del soggetto a cui tale evento viene addebitato. Su un piano diverso opera l’accertamento circa la causalità della colpa consistente nella verifica relativa a ciò che sarebbe accaduto se l’agente avesse conformato la propria condotta alla diligenza doverosa nella situazione concreta.

Si tratta del medesimo accertamento che deve essere condotto nell’accertare il nesso di causalità tra omissione ed evento: “il problema della causalità della colpa, infatti, altro non è che il problema della causalità dell’omissione ossia della struttura dell’equivalente normativo del nesso causale nei reati omissivi impropri”[68].

L’imputazione per colpa di un evento dovrebbe avvenire quindi nell’ipotesi in cui il soggetto agente non abbia omesso il rischio nella misura che era imposta dalle norme cautelari dettate ad hoc[69].

5. La responsabilità penale del sanitario

Il diritto alla salute è definito dalla nostra Carta costituzionale come un diritto fondamentale dell’individuo e, allo stesso, un interesse della collettività (art. 32 Cost.). Questa considerazione consente di affrontare il tema della responsabilità penale del sanitario analizzando il quadro normativo di riferimento e la giurisprudenza formatasi sullo stesso.

Per fornire una completa analisi della materia de qua si è deciso di partire dalle origini della responsabilità penale del sanitario prima di approdare all’analisi degli elementi appartenenti alla struttura della responsabilità penale medica per poi affrontare la normativa e la giurisprudenza sviluppatasi.

5.1. Origini della responsabilità medica

Il punto di partenza è rappresentato dal processo di Norimberga svoltosi alla fine del secondo conflitto mondiale. In quell’occasione spesso si utilizzò l’espressione “grave episodio che indicò la rottura del rapporto fiduciario instauratosi tra medico e paziente”. Questa locuzione fonda le proprie radici dal fatto che negli anni precedenti al conflitto uomini e donne vennero utilizzate come cavie di laboratorio per diversi esperimenti scientifici[70].

Nel periodo preso in esame risultava, infatti, assente una regolamentazione in materia di sperimentazione. Più precisamente, risultavano assenti degli standard universali di etica nella ricerca umana, e, oltre a questo vi erano due ulteriori circostanze da tenere in considerazione. Le condotte descritte di sperimentazione risultavano essere conformi rispetto alla legge vigente all’epoca e in secondo luogo, l’uso di detenuti come soggetti di ricerca era una pratica generalmente accettata. Detta pratica era in uso anche nelle nazioni che rappresentavano l’accusa nel processo, ossia gli USA[71].

Da questo nacque il primo documento riconosciuto come limite alla sperimentazione umana, ossia il Codice di Norimberga del 1947. Si tratta di un documento normativo contenente dieci punti fondamentali e sul primo di essi si fonda anche oggi la ricerca clinica ossia il consenso informato. Quest’ultimo indica la volontà della persona coinvolta e la manifestazione del suo consenso a prendere parte a un determinato studio clinico. La persona deve essere adeguatamente informata e messa nelle condizioni di comprendere l’argomento oggetto di ricerca al fine di assumere una decisione il più consapevole possibile[72].

La seconda tappa di evoluzione della responsabilità medica è rappresentata dal processo di Tokyo. L’antefatto è costituito dalla sperimentazione realizzata dall’unità 731 dell’esercito giapponese[73].

Si trattava di attività violative del protocollo di Ginevra[74] firmato dal Giappone nel 1952, ma ratificato solamente nel 1970. Queste pratiche avevano lo scopo di sperimentare armi batteriologiche da usare contro il nemico e sperimentare nuove tecniche terapeutiche preordinate allo scopo di riuscire a guarire in maniera più efficace i soldati giapponesi malati o feriti.

I risultati ottenuti da questa sperimentazione vennero sfruttati dagli USA per le ricerche iniziati da questi ultimi nel campo delle armi batteriologiche facendo collaborare i vari membri dell’unità 731 con aziende farmaceutiche. Da questo discende che gli USA non condannarono mai pubblicamente gli esperimenti effettuati in quando avevano interesse ad acquisire i dati ottenuti oltre che l’interesse a livello militare a i risultati stessi[75].

Le azioni commesse dall’unità 731 vennero denunciate all’ONU quali crimini di guerra a causa delle brutalità[76] commesse dai membri dell’esercito[77]. Si trattò di una denuncia senza esito e l’unico processo che venne celebrato fu quello di Tokyo nel quale vennero processati dodici leader e scienziati dell’unità 731.

I principi etici della ricerca clinica vennero racchiusi nella dichiarazione di Helsinki[78] del 1964 elaborata dalla World Medical Association (WMA). Questa dichiarazione riprese i principi contenuti nel Codice di Norimberga e introdusse per la prima volta la necessità che i protocolli di ricerca e le procedure predisposte per ottenere e fornire il consenso informato venissero esaminate da competenti comitati etici.

5.2. Elementi strutturali della responsabilità medica

Risalendo nel tempo il primo elemento che fornisce una struttura della responsabilità medica è il giuramento di Ippocrate. Il medico quando presta giuramento si lega in modo insolubile all’arte medica e il metodo ippocratico attribuisce una concezione di responsabilità medica aventi connotati più religiosi che giuridici. Da ciò discende che il medico sia impunibile sul piano giuridico in quanto egli agirà ed operare sempre per il bene del paziente.

Platone, nel Fedro, sostiene che il sapere medico ha per oggetto il corpo e per giungere alla conoscenza di quest’ultimo deve necessariamente conoscere l’intero. La concezione platonica individua una duplice responsabilità del medico: una nei confronti della verità e una nei confronti di uomini concreti, ossia verso i pazienti.

Questo brevissimo[79] excursus storico evidenzia come il problema della responsabilità del personale sanitario e la sua soluzione si rapportino costantemente con il quadro normativo e la sfera sociale nella quale l’aspetto normativo deve operare[80].

Il presupposto dal quale prendere le mosse concerne la qualificazione normativa della responsabilità del sanitario. Idealmente si devono prendere in considerazione tre codici: civile, penale e deontologico, ovviamente solo ai primi due si può riconoscere valore giuridico in senso stretto mentre il codice deontologico si ritiene che possieda un valore extra-giuridico.

Prima di procedere alla disamina delle fonti appena menzionata si deve riflettere sul fatto che la colpa medica non dovrebbe fondarsi sul concetto di colpa comune in quanto “nell’attività medica l’evento lesivo è quasi sempre prevedibile ed evitabile mediante l’astensione dell’intervento medico, applicando al campo medico il concetto di colpa comune si farebbe della professione medica una professione pressochè eroica: intervenendo il medico sarebbe responsabile degli eventi infausti verificatisi, non intervenendo dovrebbe rispondere degli eventi infausti dovuti al suo mancato intervento”[81].

Partendo dal Codice civile si ricorda come l’obbligazione del medico sia di mezzi e non di risultato, poiché compito del medico è quello di comportarsi in modo diligente. Di conseguenza l’obbligazione si ritiene adempiuta anche nell’ipotesi in cui non sia stato raggiunto il risultato sperato a condizione che il soggetto abbia agito con la diligenza dovuta e richiesta.

La diligenza richiesta al medico preordinata all’esatto adempimento, mediante una lettura combinata degli art. 1176 c.c. e 2236 c.c., è quella del buon professionista ossia la diligenza normalmente richiesta e adeguata in relazione alla tipologia dell’attività e alle modalità di esecuzione. Nel valutare l’esatto adempimento dell’obbligazione professionale si utilizza come parametro quello dell’art. 1176 co.2 c.c. richiedendo quindi di conformare il modello di condotta alla natura dell’attività esercitata. L’obbligo del sanitario è quindi quello di rispettare le regole della buona pratica sanitaria nell’esercizio di qualunque attività essenziale per raggiungere il risultato e nell’aggiornamento continuo per assicurare al paziente un trattamento sicuro[82].

L’applicabilità o meno dell’art.2236 c.c. all’ambito del diritto penale è stata bersaglio di critiche e discussione. Parte della dottrina ha sottolineato come applicare l’art. 2236 c.c. vorrebbe dire violare il principio di completezza e di non eterointegrabilità del diritto penale. Dall’altra parte non prevedere l’applicazione della disposizione de quo implicherebbe che il professionista, nelle ipotesi previste dalla disciplina civilistica, non risponderebbe in sede civile ma, per lo stesso fatto, potrebbe subire una condanna penale[83].

Nel dibattito sia giurisprudenziale che dottrinale la Corte costituzionale ha sostenuto che “la particolare disciplina in tema di responsabilità penale desumibile dagli art. 589 e 42 c.p. in relazione all’art. 2236 c.c. per l’esercente una professione intellettuale quando la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà , è il riflesso della normativa dettata di fronte a due opposte esigenze: quella di non mortificare l’iniziativa del professionista col timore di ingiuste rappresaglie del cliente in caso di insuccessi e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista stesso. Ne consegue che solo la colpa grave e cioè quella derivante da errore inescusabile, dall’ignoranza dei principi elementari attinenti all’esercizio di una determinata attività professionale o di una propria specializzazione, possa nella indicata ipotesi rilevare ai fini della responsabilità penale. Siffatta esenzione o limitazione di responsabilità, d’altra parte, secondo la giurisprudenza e la dottrina, non conduce a dover ammettere che, accanto al minimo di perizia richiesta, basti pure un minimo di prudenza o di diligenza. Anzi c’è da riconoscere che, mentre nella prima l’indulgenza del giudizio del magistrato è direttamente proporzionata alle difficoltà del compito, per le altre due forme di colpa ogni giudizio non può che essere improntato a criteri di formale severità”[84].

Altra osservazione svolta in sede di applicazione dell’art. 2236 c.c. in ambito penale concerne il fatto che detta ricezione appare in evidente contrasto con la disciplina normativa penale[85]. Nella teoria generale del diritto penale, infatti, la graduazione della colpa rileva solamente per quanto concerne il quantum debeatur non l’an debeatur in quando la lex penale parla solamente di colpa senza alcuna graduazione.

Le uniche disposizioni che si rinvengono circa la valutazione del grado della colpa sono l’art. 61 n.3 c.p.[86]. e l’art. 133 co.1 n.3[87]. Si tratta di norme che ammettono solamente una graduazione dell’entità della colpa sul piano morale a seconda del grado della prevedibilità e all’unico fine di un adeguamento della sanzione da irrogare in concreto[88].

All’interno del diritto penale si deve fare riferimento all’art. 43 c.p.[89] quale disposizione generale contenete le definizioni di dolo e colpa. Al di là delle riflessioni concernenti gli istituti di parte generale di diritto penale, negli ultimi anni la scienza e gli ordinamenti giuridici si sono interrogati sempre di più circa i problemi della post-modernità[90]. Nelle moderne concezioni del reato il rischio deve svolgere almeno un paio di funzioni. La prima funzione che deve assolvere è quella di esserne il fondamento, la seconda, invece, è quella di esclusione della responsabilità penale[91]. I problemi della post-modernità sono intimamente legati al progresso scientifico ma anche ai problemi correlati allo stesso quali l’inquinamento diffuso, le manipolazioni genetiche e di coordinamento tra scienza e ragione a causa del margine di incertezza delle evoluzioni scientifiche e tecnologiche.

L’ordinamento, attualmente, ammette la possibilità di svolgere attività definite come pericolose a condizione che si rispettino determinate modalità e presidi cautelari ritenuti idonei a evitare o diminuire il rischio circa la verificazione degli eventi dannosi.

Si deve evidenziare come vi siano delle situazioni non connotate dal fattore rischio, ma che possono causare dei rischi ulteriori e, a tal proposito, si tratta di rischio consentito. Quest’ultimo richiede una maggiore osservanza delle regole di cautela rapportata, ovviamente, alla gravità del rischio. Il rischio consentito si ritiene appunto consentito se e solo se vi sia il rispetto delle regole appena esposte e si riterrà ammesso per la parte che non è possibile eliminare. La sussistenza della responsabilità penale, in dette ipotesi, viene individuata attraverso un’attenta attività interpretativa volta a rintracciare le eventuali forme tipiche di colpevolezza.

Altrimenti detto la categoria del rischio richiede un’abilità, paragonabile a quella dell’acrobata, nel rinvenire il confine sussistente tra l’imputazione per mero versari in re illicita e l’essere nell’area dell’impunibilità ingiustificata per il reo[92].

Uno degli strumenti attivabili dal personale medico al fine di rientrare nella seconda categoria è quello rappresentato dal consenso informato. Quest’ultimo fa riferimento alla esatta informazione sulle condizioni e rischi prevedibili di un intervento chirurgico o di un trattamento sanitario. Rappresenta non solo un dovere attinente all’ambito della buona fede ma anche un “elemento indispensabile per la formazione del contratto stesso posto che richiede un consenso consapevole del paziente nonché elemento costitutivo della protezione garantita a livello costituzionale e dalle altre norme di diritto positivo tese ad aumentare le garanzie a favore dei consumatori del bene salute”[93].

Detta pronuncia della Cassazione richiama un orientamento delle Sezioni Unite secondo il quale “il fondamento del consenso informato, viene ad essere configurato come elemento strutturale nei contratti di protezione, quali sono quelli che si includono nel settore sanitario. In questi gli interessi da realizzare attengono alla sfera della salute in senso ampio, di guisa che l’inadempimento del debitore della prestazione garantita è idonea a ledere diritti inviolabili della persona cagionando anche pregiudizi non patrimoniali”[94].

Attraverso il consenso informato si configura un “vero e proprio diritto della persona che trova il proprio fondamento negli art. 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali e, negli art. 13 e 32 Cost. i quali stabiliscono che la libertà personale è inviolabile e che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”[95].

Per questi motivi il consenso deve possedere le seguenti caratteristiche: essere effettivo, completo, deve provenire dal paziente in modo esplicito e specifico ed infine deve essere il più possibile attuale informato. Con queste ultime due indicazioni, si richiede che il consenso prestato dal paziente deve avere quale fondamento le informazioni dettagliatamente fornite dal medico e in sede di querelle giudiziaria sarà onere di quest’ultimo provare l’adempimento della propria obbligazione. Detto adempimento richiede anche il rispetto di determinate formalità quali fornire spiegazioni dettagliate e precise adeguate al livello culturale del paziente.

Il linguaggio utilizzato dal personale sanitario deve tenere in considerazione dello stato soggettivo del paziente e del bagaglio di conoscenze di cui quest’ultimo dispone. È obbligo del medico informare sui possibili effetti negativi del trattamento sanitario non essendo assolutamente sufficienti le informazioni contenute su moduli prestampi essendo adeguato allo scopo un vero e proprio colloquio tra medico e paziente[96].

In conclusione, si può ricordare come solamente il valido consenso espresso nel rispetto delle seguenti modalità[97] possa essere considerato presupposto alla liceità dell’attività medico-chirurgica. Da ciò consegue che la mancanza o invalidità del consenso informato determina l’arbitrarietà del trattamento medico-chirurgico tanto in sede civile che in sede penale a prescindere dalla riuscita o perfezione dell’attività de quo. È evidente come, nell’ipotesi appena descritta, l’intervento medico-chirurgico verrebbe posto “in violazione della sfera personale del soggetto e del suo diritto di decidere se permettere interventi estranei sul proprio corpo”[98].

L’ultimo corpo di disposizioni in materia è rappresentato dal Codice deontologico quest’ultimo persegue l’obiettivo di regolamentare la condotta del medico all’interno della relazione di cura. La ratio è quella di individuare regole e comportamenti preordinati a disciplinare l’agire del medico e che possano circoscrivere l’agire dello stesso entro confini ben determinati oltrepassati i quali la relazione terapeutica si intende compressa in maniera irrimediabile.

Altrimenti detto il codice deontologico è l’insieme dei principi e delle norme che ogni professionista deve osservare, la mancata osservanza delle regole comporta la comminatoria di provvedimenti disciplinari o sanzioni amministrative o civili. Il contenuto del codice comprende al proprio interno tradizioni, consuetudini, regole etiche e di bioetica, regolamenti interni professionali e di morale professionale[99].

5.3. L’ambito legislativo: dalla legge Balduzzi alla Gelli-bianco

La questione che ha sempre rivestito un dibattito centrale all’interno dell’argomento della responsabilità medica concerne il ruolo svolto dalle linee-guida.

Prima che il legislatore intervenisse in detto settore con una disciplina ad hoc la giurisprudenza era orientata nel senso di escludere che il rispetto di dette regole potesse legittimare la condotta del sanitario. A tal proposito la Corte di Cassazione ha evidenziato come “le linee guida non possono fornire, indicazioni di valore assoluto ai fini dell’apprezzamento dell’eventuale responsabilità del sanitario, sia per la libertà di cura, che caratterizza l’attività del medico, in nome della quale deve prevalere l’attenzione al caso clinico particolare e non si può pregiudizialmente escludere la scelta consapevole del medico che ritenga causa cognita di coltivare una soluzione terapeutica non contemplata dalla linee-guida, sia perchè, come già evidenziato da alcuna delle sentenze citate, in taluni casi, le linee-guida possono essere indubbiamente influenzate da preoccupazioni legate ai costi sanitari oppure si palesano obiettivamente controverse, non unanimemente condivise oppure non più rispondenti ai progressi nelle more verificatesi nella cura della patologia. La verifica circa il rispetto delle linee-guida va pertanto sempre affiancata ad un’analisi, svolta eventualmente attraverso perizia, della correttezza delle scelte terapeutiche alla luce della concreta situazione in cui il medico si è trovato ad intervenire”[100].

Con il decreto Balduzzi[101] il legislatore è intervenuto in materia stabilendo che “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene alle linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c. Il giudice, anche nella determinazione del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo comma (art. 3 co.1)”.

Prima di affrontare le problematiche intime del decreto Balduzzi si devono fornire delle indicazioni circa la definizione di linee guida e buone pratiche.

Le guidelines sono state definite dall’Institute of Medicine come raccomandazioni di comportamento clinico, elaborate mediante un processo di revisione sistematica della letteratura e delle opinioni scientifiche al fine di aiutare medici e pazienti a declinare le modalità assistenziali più appropriate in specifiche situazioni cliniche.

Le best practice perseguono lo scopo di contenere la spesa sanitaria e un eventuale potere vincolante ovviamente subordinato alla tutela del paziente[102]. Si deve sottolineare come il concetto di buone pratiche possieda una portata concettuale molto. Esse fanno riferimento non solo le prassi non codificate ma anche protocolli, checklist. Tutti detti componenti, a livello ontologico, non si riescono a distinguere in maniera proficua dalle linee guida tant’è che ci si chiede se le buone pratiche possano essere ritenute anche documenti denominati linee-guida.

A ciò si potrebbe obiettare che se le linee-guida potessero essere comprese nel novero delle buone pratiche non avrebbe senso chiedere una procedura formale di accreditamento per selezionare le linee guida da porre alla base della non-punibilità ex art. 590-sexies co.2 c.p.

Tuttavia, è possibile superare detta obiezione mettendo in luce il fatto che il legislatore abbia voluto dare la priorità alle linee-guida accreditate rispetto a quelle non accreditate qualora le prime siano esistenti. A conferma di ciò si richiama la dottrina medico-legale che costruisce il rapporto tra dette “fonti” come di genere a specie ossia le buone pratiche comprenderebbero le linee guida[103]. Sempre in questa direzione vi è l’Osservatorio Buone Pratiche nel data-base del quale si rinvengono molti documenti qualificati come linee-guida. Infine, delle sentenze della Cassazione ritengono ammissibile percorrere il percorso qui delineato nonostante rinvengano delle differenze concettuali tra linee guida e buone pratiche[104].

Il decreto Balduzzi contiene due aspetti fondamentali. Il primo concerne l’indicazione dei criteri che dovrà utilizzare il giudice per sindacare l’attività svolta dal personale sanitario. Il secondo, invece, prevede che le condotte caratterizzate da colpa lieve e che si possono collocare all’interno dell’area delimitata dalle linee-guida o pratiche virtuose non possiedano rilevanza penale.

In questo modo il legislatore ha introdotto il concetto di colpa lieve e, così facendo, avrebbe operato una distinzione all’interno della categoria del reato colposo estranea ed aggiuntiva rispetto alla dizione dell’art. 43 c.p. Ulteriore problematica interpretativa concerne il fatto che chi è chiamato a valutare la responsabilità del sanitario deve distinguere tra colpa grave e lieve in quando il disposto normativo non fornisce un’interpretazione sistematica delle norme de quo con quelle del codice penale.

A causa della mancanza dell’interpretazione autentica sul punto, la giurisprudenza della Suprema Corte sembra favorire il ripristino dell’art. 2236 c.c. “solamente quale espressione di un criterio di razionalità del giudizio”[105]. Il giudice potrebbe richiamarsi a detto articolo quando si trovi dinnanzi ad una situazione oggettivamente emergenziale o quando il caso oggettivamente presenti delle difficoltà tecniche richiedenti decisioni soggettive circa alla ricerca e interpretazione di dati ed orientamenti terapeutici e diagnostici.

La differenza tra i due gradi di colpa, per come quest’ultima è introdotta nell’ambito della disciplina penale dell’imputazione soggettiva, risulterebbe essere esclusivamente riferibile all’imperizia. Quest’ultima deve essere interpretata quale elemento costitutivo e soggettivo del reato colposo[106].

La Cassazione circa la categoria della colpa lieve ha ricordato che “la nuova previsione, per contro, incentra sulla colpa lieve del sanitario un’ipotesi che ne esclude la responsabilità penale; ma, secondo la puntualizzazione operata da questa Corte, solo per i comportamenti imperiti e non anche per quelli negligenti[107]. Osserva sempre la Cassazione come in tema di responsabilità professionale del medico la nuova normativa ha parzialmente decriminalizzato le fattispecie incriminatrici colpose di cui agli art. 589 e 590 c.p. con conseguente applicazione dell’art. 2 c.p. L’innovazione esclude, infatti, la rilevanza penale delle condotte connotate da colpa lieve, che si collochino all’interno dell’area segnata dalle linee guida o da virtuose pratiche mediche purché esse siano accreditate dalla comunità scientifica[108]”.

In relazione alla legge Balduzzi il tribunale di Milano ha sollevato questione di legittimità costituzionale. Secondo la ricostruzione del tribunale milanese la normativa in esame escludendo la responsabilità per colpa lieve del sanitario nell’ipotesi in cui si attenga a guidlines e good practice sarebbe idonea a introdurre una norma ad professionem delineando un’area di non punibilità riservata esclusivamente a tutti gli operatori sanitari che commettono un qualsiasi reato lievemente colposo nel rispetto delle linee guida e buone prassi. In sostanza detto tribunale sostiene che la formulazione, la delimitazione, la ratio essendi, le conseguenze sostanziali e processuali di tale area di non punibilità appaiono stridere con i principi costituzionali di cui agli art. 3, 24, 25, 28, 32, 33 e 111 Cost[109].

In merito, non si ha una pronuncia della Consulta poiché la stessa ha adottato ordinanza dichiarando la manifesta inammissibilità della questione proposta poiché il giudice a quo non aveva descritto in modo completo la fattispecie[110].

Nel 2017, con L.24/2017, il legislatore è intervenuto nuovamente in materia di responsabilità penale del medico con l’intento di depenalizzare ancora di più rispetto alla legge Balduzzi. Nonostante le intenzioni mediante l’introduzione della legge Gelli-Bianco la responsabilità penale dell’esercente le professioni sanitarie risulta essere aggravata[111].

L’art. 6 L.24/2017 ha introdotto l’art. 590-sexies c.p. il quale, rubricato “Disposizioni in materia di responsabilità professionale del personale sanitario enuncia che l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività cagiona a causa di imperizia la morte o la lesione personale della persona assistita risponde dei reati di cui agli 589 e 590 solo in caso di colpa grave. Agli effetti di quando previsto al primo comma è esclusa la colpa grave salve le rilevanti specificità del caso concreto, sono rispettate le buone pratiche clinico-assistenziali e le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge”.

In questo modo il legislatore ha tradotto in disposizioni l’orientamento di una parte della giurisprudenza di legittimità che limitava l’operatività dell’art.3 L. Balduzzi alla sola imperizia lieve e non anche alle ipotesi di negligenza e imprudenza.

Questa legge non è stata però esente da contrasti giurisprudenziali sorti in seno alla stessa Cassazione. Precisamente è possibile rinvenire due opposti orientamenti.

Un primo orientamento sosteneva che la disciplina della legge Balduzzi potesse ritenersi più favorevole rispetto alla precedente in quanto “la rilevanza penale delle condotte connotate da colpa lieve in contesti regolati da linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, mentre quella sopravvenuta ha eliminato la distinzione tra colpa lieve e colpa grave ai fini dell’attribuzione dell’addebito, dettando al contempo una nuova articolata disciplina in ordine alle linee guida che costituiscono il parametro per la valutazione della colpa per imperizia in tutte le sue manifestazioni”[112].

Orientamento contrapposto, invece, sottolineava come fosse la disciplina attualmente vigente la più favorevole dato che la stessa “contenendo una clausola di esclusione della punibilità dell’esercente la professione sanitaria operante, ricorrendo le condizioni previste dalla disposizione normativa solo nel caso di imperizia, indipendentemente dal grado della colpa”[113].

A livello schematico si può sostenere che in relazione alle condotte mediche per fatti commessi prima dell’entrata in vigore della nuova legge:

  • La legge Balduzzi andrà considerata più favorevole relativamente alle condotte caratterizzate da negligenza o imprudenza lieve.
  • Per quanto riguarda invece le condotte connotate da imperizia si deve distinguere. Se l’errore derivante dall’imperizia lieve cade nel momento della scelta delle linee-guida quindi nel momento in cui si valuta l’appropriatezza delle stesse si dovrà ritenere maggiormente favorevole la disciplina contenuta nella legge Balduzzi. Se l’errore connotato da imperizia lieve si inserisce nella fase attuativa ed esecutiva allora lo stesso sia per la nuova che per la vecchia disciplina andrà esente da punibilità[114].

Nel dirimere il contrasto venutosi a creare all’interno della IV sezione le Sezioni Unite hanno adottato una decisione estremamente schematica. Gli Ermellini hanno ritenuto infatti che “l’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio dell’attività medico-chirurgica:

  1. Se l’evento si è verificato per colpa, anche lieve, da negligenza o imprudenza;
  2. Se l’evento si è verificato anche per colpa lieve quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni o dalle linee guida o dalle buone pratiche medico assistenziali.
  3. Se l’evento si è verificato per colpa, anche lieve, da imperizia nell’individuazione e nella scelta di linee guida o di buone pratiche medico-assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto.
  4. Se l’evento si è verificato per colpa grave da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni o linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico[115].

Si deve segnalare come si rinvenga una sentenza del Tribunale di Parma aggiornata nel campo della responsabilità medica in quanto riferibile all’anno 2019[116]. Si tratta di una sentenza estremamente accurata nell’analizzare il caso e, allo stesso tempo, ordinata nella parte motivazionale. È stata poc’anzi definita come estremamente aggiornata in quanto tocca tutti i punti fondamentali presenti all’interno del macro-argomento responsabilità medica. Sinteticamente essa affronta i seguenti temi:

  1. Individuazione della regola cautelare utilizzando il parametro dell’agente modello.
  2. Comprensione circa lo scopo della regola cautelare violata.
  3. Accertamento della causalità della colpa.
  4. Valutazione circa la misura soggettiva della colpa[117].

Relativamente al primo punto appena esposto con la sentenza de qua viene recepito la proposta delle Sezioni Unite[118] secondo le quali “le fasi della individuazione, selezione ed esecuzione delle raccomandazioni contenute nelle linee-guida adeguate sono, infatti, articolate al punto che la mancata realizzazione di un segmento del relativo percorso giustifica ed è compatibile tanto con l’affermazione che le linee-guida sono state nel loro complesso osservate, quanto con la contestuale rilevazione di un errore parziale che, nonostante ciò, si sia verificato, con valenza addirittura decisiva per la realizzazione di uno degli eventi descritti dagli artt. 589 e/o 590 c.p. Trattasi di un comprensibile sforzo ermeneutico che le stesse Sezioni unite hanno compiuto per non arrendersi ad una prospettiva sterilizzante per cui la formulazione lessicale del precetto creerebbe un corto circuito capace di renderlo inservibile. Infatti, se l’errore, pur risultando decisivo per la verificazione dell’evento, consiste in una minima divergenza dal miglior paradigma attuativo della linea guida alla quale opportunamente è comunque rimasto idealmente fedele il sanitario, quest’ultimo non dovrebbe essere giudicato con estrema severità, potendosi ugualmente ritenere rispettata la linea guida”.

Per quanto concerne il profilo di errore del sanitario esso deve avvenire proprio nel momento in cui lo stesso attua la linea guida correttamente individuata ossia corrispondente alle concrete esigenze del paziente. Per errore esecutivo si può intendere anche l’imprecisione commessa nell’adeguamento. Nel caso di specie, infatti, il medico individuò in modo corretto le linee guida/buone prassi da seguire ma peccò nell’esecuzione di quanto essere prescrivevano.

Altro aspetto estremamente complesso sul quale interviene la pronuncia in esame concerne l’argomento della colpa lieve. Nel caso di specie viene considerata lieve la colpa, poiché anche rifacendosi al canone di razionalità e alla massima di esperienza cristallizzate nell’art. 2236 del Codice civile, egli:

- intervenne in un contesto emergenziale, come si evince dal codice giallo assegnato alla paziente dall’infermiera del triage del Pronto Soccorso dell’Ospedale Maggiore di Parma;

- visitò la paziente con urgenza, dato che doveva occuparsi anche di altri ventisei malati (circostanza non messa in dubbio dal Pubblico Ministero, né dal difensore della parte civile);

- fronteggiò un quadro clinico piuttosto oscuro, per la contestuale presenza di sintomi confondenti, vale a dire la sincope della paziente e, in misura minore, le sue patologie metaboliche, difficili da collegare tra loro;

- non aveva specializzazioni in neurologia, tant’è che chiese un consulto alla neurologa”.

5.4. Profili di illegittimità costituzionale della legge Gelli-Bianco: cenni

Per completezza, si ritiene necessario indicare alcuni aspetti suscettibili di essere dichiarati incostituzionali.

Precisamente la legge in questione supera in maniera definitiva la qualificazione del rapporto medico-paziente come contatto sociale qualificato, poiché è la stessa legge a costruire un doppio binario.

Più precisamente, la responsabilità medica sarebbe sia contrattuale che extracontrattuale ossia contrattuale quando controparte sia la struttura sanitaria, sia essa pubblica o privata, extracontrattuale per l’esercente la professione sanitaria all’interno di una struttura.

Questa nuova disciplina risulterebbe contrastare con l’art. 24 Cost. in quanto è maggiormente gravosa per il paziente vittima di malpractice. La disposizione costituzionale appena citata sancisce il principio di vicinanza o prossimità della prova cioè la prova deve essere data dalla parte che più facilmente può accedere alla fonte indipendentemente dal ruolo rivestito da questa nel processo.

Altri dubbi di costituzionalità concernono il contrasto con gli art. 3 e 24 Cost. causato dal duplice regime di responsabilità. Con il modello predisposto dalla legge Gelli-Bianco il medico libero professionista dovrebbe rispondere a titolo di responsabilità contrattuale mentre il medico dipendente come extracontrattuale.

L’irragionevolezza deriverebbe dalla considerazione secondo cui la prestazione del medico risulta essere identica in entrambe le ipotesi appena menzionate a prescindere dall’esistenza di un contratto di opera professionale. Oltre a questo, l’esercizio della professione medica è un servizio di pubblica utilità e necessità che può essere svolto solamente da soggetti che possiedono una speciale abilitazione dello Stato. Da questo discende che, proprio perché si tratta di una professione protetta, l’esercizio della stessa non può essere diverso in relazione all’esistenza o meno di un contratto tra le parti[119].

6. Gli infortuni nel diritto penale del lavoro

Il diritto penale del lavoro costituisce un ambito estremamente fertile per quanto concerne la teoria generale relativa al reato omissivo improprio, alla causalità della colpa ed infine ai rapporti esistenti tra pena e prevenzione.

In particolare, l’aspetto maggiormente saliente concerne l’istituto della colpa intesa quale fulcro oggettivo e soggettivo del fatto di reato. Al fine di comprendere detta affermazione si deve notare che la vera e propria differenza tra fatto tipico e atipico al fine di individuare la causalità sussistente tra morte del lavoratore e condotta del datore di lavoro si deve rinvenire dalla colpa.

A riguardo la dottrina ha affermato che “senza un riferimento ai valori, alle norme e ai fini la condotta materiale resterebbe ridotta a un fatto indifferenziato rispetto agli altri fatti che integrano il mondo fisico e non costituirebbe una condotta rilevante sul piano giuridico. Questa esigenza, di individuare la condotta giuridicamente rilevante attraverso la violazione della regola cautelare, era presente, anche se in modo appena avvertito, al compilatore del codice, che aveva messo in stretta relazione nell’ultima parte dell’art. 43 co.1 terza linea, non la condotta materiale in quanto tale e l’evento bensì la negligenza, l’imprudenza, l’imperizia, l’inosservanza e l’evento; dimostrando con ciò che la condotta penalmente rilevante è soltanto quella oggettivamente connotata dalla violazione della regola”[120].

Quando ci si approccia all’analisi del diritto penale del lavoro è necessario focalizzare il proprio studio lungo tre direttrici fondamentali. In primo luogo, è necessario decidere se una determinata regola di condotta possa essere qualificata come cautelare. In secondo luogo, si deve capire se l’evento concreto fosse proprio quello che la regola cautelare aveva lo scopo di prevenire ed evitare. Infine, si è chiamati a decidere se possano rimanere margini per un’ulteriore indagine relativa ai profili soggettivi della colpa nonostante la presenza della regola cautelare violata, la concretizzazione del rischio e la causalità di colpa[121].

Si deve sottolineare come la tematica relativa al libero esercizio dell’attività di impresa sia definibile come interesse generalmente ritenuto meritevole di tutela dall’ordinamento giuridico. Il riferimento è all’art. 41 Cost. in quanto il medesimo articolo al primo comma riconosce la libertà dell’iniziativa economica privata ma al secondo comma detta una serie di limiti circa detta libertà. Più precisamente, la Carta costituzionale dispone che la libertà di iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.

Detta disposizione sembra racchiudere al proprio interno due riflessioni. La prima concerne la presa di coscienza circa i rischi presenti nello svolgimento delle iniziative economiche in forma imprenditoriale. Si pensi, ad esempio, alla commissione di reati lesivi di diritti fondamentali, quali i reati societari, tributari, in materia di sicurezza sul lavoro e di ambiente. La seconda riflessione sembra consentire nonostante la presenza di questi rischi, il libero esercizio dell’attività imprenditoriale ma a condizione che la stessa sia assoggettata a regole e doveri che devono essere fatte rispettare da soggetti gravati da posizioni di garanzia[122].

6.1. Fonti legislative

La responsabilità del datore del lavoro[123] possiede tre diverse connotati in quanto su di esso gravano la responsabilità civile, penale e amministrativa[124].

La responsabilità civile viene rinvenuta nel disposto dell’art. 2087 c.c. secondo il quale” l’imprenditore è tenuto a adottare nell’esercizio dell’imprese le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Si tratta di una disposizione “aperta” e dalla quale trovano giustificazione le norme speciali in materia di sicurezza sul lavoro.

La responsabilità penale ha il proprio aggancio normativo nell’art. 40 c.p. quindi dall’infortunio professionale o dalla malattia professionale si può rinvenire una responsabilità penale del datore di lavoro per omicidio colposo o per lesioni colpose.

Alla luce di tutto questo emerge che la responsabilità del datore di lavoro per gli infortuni sul lavoro e per l’insorgenza delle malattie professionali possiede aspetti sia civili che penali derivanti da commissioni od omissioni. Al fine di qualificare il comportamento del datore di lavoro come colposo o doloso è necessario fare riferimento alla normativa speciale.

La normativa speciale di sicurezza sul lavoro è rappresentata dal Dlgs. 81/2008 e dal Dlgs. 106/2009.

Lo scopo del Dlgs. 81/2008 è quello di individuare tutti i rischi connessi all’attività imprenditoriale esercitata al fine di provvedere ad una loro minimizzazione. Il nucleo della disciplina speciale è costituito dall’obbligo di introdurre procedure idonee a valutare la dinamica dei rischi attraverso la redazione del documento di sicurezza aziendale predisposto dalle figure ricoprenti ruoli e responsabilità delicati[125].

L’altro scopo del decreto legislativo de quo è quello di distinguere le diverse posizioni di garanzia predisposte ad impedire il verificarsi degli eventi. Autorevole dottrina ha sostenuto che “i giudici evidenziano come, nell’ambito della sicurezza sul lavoro, la figura del garante non è legata soltanto ai reati omissivi impropri (commissivi mediante omissione) ex art. 40 co.2 c.p. ma rileva in concreto anche in ipotesi di condotte attive”[126]

I soggetti su cui grava detto compito sono il datore di lavoro, il dirigente[127], il preposto[128] e il lavoratore stesso. Gli altri soggetti eccetto il datore di lavoro rispondono in funzione della delega che hanno ricevuto. Si ricordi che affinché la delega possa essere ritenuta operante sul piano penale è necessario che la stessa sia scritta e che il delegato possieda dei poteri autonomi e congrui rispetto al compito da svolgere e che infine lo stesso delegato possieda un’adeguata qualificazione tecnica. Ai soggetti appena menzionati si devono aggiungere il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, il medico competente e la rappresentanza dei lavoratori per la sicurezza.

6.2. La responsabilità del datore di lavoro: aspetti problematici

Alla luce delle disposizioni appena citate si rinviene come obbligo del datore di lavoro sia quello di adottare tutte le misure idonee necessarie per evitare la verificazione dell’evento lesivo ma anche quello di aggiornamento e adeguamenti rispetto ai cambiamenti organizzativi e produttivi dell’impresa e del mercato.

Posta la genericità di detto obbligo in dottrina vi sono essenzialmente due tesi. Una prima tesi poggia sul principio di precauzione[129]. Applicando detto principio sarebbe compito del datore di lavoro predisporre un modello organizzativo contenente gli standard di sicurezza più elevati. Detta considerazione si rapporta con i risultati raggiunti dal progresso scientifico e tecnologico.

Tesi opposta[130] ritiene che si debba perseguire la massima sicurezza che possa essere pratica in maniera ragionevole. Secondo detto orientamento l’obbligo del datore di lavoro sarebbe circoscritto al rispetto degli standard praticati nel settore industriale di riferimento e in un dato contesto storico. In quest’ottica non viene richiesto un continuo aggiornamento e rinnovamento parametrato alle tecnologie praticate. I sostenitori di questo orientamento ritengono che “non sia pensabile che un’impresa rinnovi continuamente le proprie tecnologie perché è senz’altro necessario stare al passo con i tempi, ma ciò non può significare buttare all’aria investimenti per ammodernamenti tecnologici, ricorrendo incessantemente le novità tecnologiche.

Sebbene la prima tesi abbia lo scopo di tutelare al massimo grado la salute dei lavoratori il secondo orientamento si ritiene maggiormente condivisibile sia alla luce dell’art. 27 co.1 Cost., sia per quanto concerne il bilanciamento degli interessi in gioco.

Si ritiene che il contenuto della posizione di garanzia del datore di lavoro dovrebbe essere costruito attraverso un combinato disposto dell’art. 2087 c.c. con l’art. 40 c.p. Si deve però trattare di un utilizzo prudente di queste disposizioni in quanto leggendo insieme questi articoli si corre il rischio di estendere in modo illimitato il dovere di aggiornamento del datore di lavoro. In questo modo verrebbero violati l’art. 25 e 27 Cost. rispettivamente determinatezza e personalità della responsabilità penale.

Si deve ricordare che affinché la posizione di garanzia possa rinvenire la propria fonte nella norma extrapenale è necessario che questa non contrasti con i principi costituzionali. A tal proposito l’art. 2087 c.c. risulta essere carente poiché individua i soggetti ma non precisa le prescrizioni che gli stessi devono seguire.

Per quanto concerne il versante del principio di personalità della responsabilità penale si deve porre un freno alla tendenza della giurisprudenza. Quest’ultima, infatti, legittima forme di responsabilità da posizione sulla base della mera sussistenza della posizione di garanzia e del verificarsi dell’evento senza accertare il nesso di causalità. In pratica una volta individuata la posizione di garanzia si tende ad estendere quasi automaticamente la responsabilità del garante che non ha impedito il verificarsi dell’evento. Il tutto prescinde dalla regola cautelare violata e dall’evitabilità di detto evento attraverso la condotta alternativa lecita[131].

A questo si aggiunge che in sede giudiziaria “la tendenza a non valutare la possibile efficacia condizionante della condotta del lavoratore poiché questa viene presa in considerazione solo nei casi in cui presenti gli estremi dell’eccezionalità, imprevedibilità e dell’abnormità”[132].

È evidente come la giurisprudenza della Suprema Corte ha ritenuto che l’obbligo di prevenzione si estende agli incidenti che derivino da negligenza, imprudenza e imperizia dell’infortunato, essendo esclusa la responsabilità del datore di lavoro e, in generale, del destinatario dell’obbligo, solo in presenza di comportamenti che presentino i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità, dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo, alle direttive organizzative ricevute e alla comune prudenza[133].

La giurisprudenza ritiene la condotta abnorme del lavoratore interruttiva del nesso di condizionamento solamente in due casi. In primo luogo, quando detta condotta possa essere collocata al di fuori dell’area di rischio definita dal contesto di lavoro. In secondo luogo, quando nonostante detta condotta sia collocabile nell’area di rischio questa possa essere ritenuta esorbitante dalle precise direttive ricevute e diretta, in modo consapevole, a neutralizzare i presidi anti-infortunistici predisposti dal datore di lavoro. A questo si deve aggiungere che il datore di lavoro deve aver previsto il rischio e adottato le misure prevenzionistiche esigibili in relazione alla particolarità del lavoro[134]. La conseguenza di ciò è che il nesso di causalità non è interrotto nell’ipotesi in cui la condotta del lavoratore sia qualificabile come gravemente imprudente ma il sistema di sicurezza predisposto dal datore di lavoro presenti delle evidenti criticità[135].

In detta materia si rinvengono due orientamenti giurisprudenziali che, anche se diversi, risultano essere coerenti circa gli esiti.

Il primo orientamento ha la propria fonte sull’eventuale carattere di eccezionalità, imprevedibilità e abnormità del comportamento del lavoratore definito come imprudente. La giurisprudenza ha escluso la responsabilità del datore di lavoro solo e solamente qualora la condotta della vittima potesse essere qualificata ex ante come imprevedibile da parte del datore stesso. Si richiede quindi che il comportamento che, per la sua stranezza ed imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte delle persone preposte all’applicazione delle misure di prevenzione[136].

Il secondo orientamento, più recente rispetto a quella appena citato, si fonda sul carattere eventuale ed eccentrico/esorbitante del rischio attivato dal lavoratore imprudente. Precisamente detto orientamento si rinviene sul caso ThyssenKrupp[137]. In base a questa nuova interpretazione giurisprudenziale la condotta del lavoratore idonea ad interrompere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo è necessario che “sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia”.

Sempre all’interno di detto orientamento in una recente sentenza la Suprema Corte[138] ha precisato che in tema di prevenzione antinfortunistica perché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo è necessario non tanto che essa sia imprevedibile quanto piuttosto che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governato dal soggetto titolare della posizione di garanzia.

Nonostante sia cambiata la prospettiva gli esiti sono rimasti identici poiché la condotta del lavoratore si inserisce a pieno titolo nell’ambito delle mansioni per le quali è stato assunto e che rappresenti lo sviluppo naturale dell’organizzazione delle lavorazioni alle quali afferisce la sua opera, ancorché caratterizzata da imprudenza, non può integrare una causa sopravvenuta idonea ad escludere il nesso causale tra gli obblighi di protezione gravanti sul datore e l’evento lesivo[139].

Alla luce di ciò l’auspicio è quello di recuperare l’accertamento della colpa sulla base i profili che corroborano i contorni differenziati degli agenti modello coinvolti nell’intreccio causale concretizzatosi alla fine nella verificazione dell’evento dannoso. Se, invece, si continua a ritenere come decisivo il riferimento a qualunque fattore di rischio a livello lavorativo il datore di lavoro verrà sempre e comunque ritenuto responsabile. Egli, infatti, è titolare dell’obbligo di valutare, neutralizzare o ridurre tutti i rischi presenti[140].

6.3. Conclusioni

Il quadro appena delineato vede contrapposte due figure aventi caratteristiche totalmente differente. Per costante giurisprudenza il datore di lavoro è stato configurato quale un Übermensch il quale deve solo e soltanto per il ruolo ricoperto e la posizione assunta al fine di rispondere penalmente il tutto in violazione del principio di personalità e colpevolezza.

Paradossalmente il lavoratore risulta essere inutile ai fini dell’accertamento della colpa in quanto si potrebbe ritenere un modello di imprudenza.

È necessario riprendere le categorie dogmatiche appartenenti alla parte generale del diritto penale per poi approdare ad una definizione di colpa reciproca. Si tratterebbe di valutare sia l’autoresponsabilità del lavoratore. Sicuramente quest’ultimo deve essere protetto ma non si può arrivare a ritenere il datore di lavoro responsabile circa ogni concretizzazione del rischio inerente all’attività lavorativa[141].

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] Marinucci G., La responsabilità colposa: teoria e prassi, in Rivista italiana di diritto processuale penale, 2012, pag.1, cit. Mantovani P., voce Colpa, in Digesto disciplina penale, vol. II, 1988, pag.301, cit.

[2] Cupelli C., Il diritto del paziente di rifiutare e il dovere del medico di non perseverare, in Cassazione penale, 2008, n.5, pag. 73 cit.

[3] Lottini R., I modelli di organizzazione e di gestione, in Giunta F., Micheletti D., Il nuovo diritto penale della sicurezza nei luoghi di lavoro, Giuffrè, 2010, pag. 172-174.

[4] Marinucci G., La responsabilità colposa: teoria e prassi, in Rivista di diritto processuale penale, 2012, pag.1.

[5] Fiandaca G., Musco E., Diritto penale, parte generale, Zanichelli, 2016, pag. 543.

[6] Castronuovo D., Le definizioni legali del reato colposo, in Rivista di diritto processuale penale, 2002, pag. 159.

[7] Palazzo F., Corso di diritto penale. Parte generale, Giappichelli, 2013, pag. 322-344.

[8] Matovani F., voce Colpa, in Digesto discipline penalistiche, Utet, pag. 303, cit.

[9] Gallo I.M., voce Colpa penale, in Enciclopedia di diritto, vol. VII, pag. 637, cit.

[10] Padovani T., Il grado della colpa, in Rivista italiana di diritto processuale penale, 1969, pag. 877.

[11] Matovani F., voce Colpa, in Digesto discipline penalistiche, Utet, pag. 305.

[12] Marinucci G., La responsabilità colposa: teoria e prassi, in Rivista di diritto processuale penale, 2012, pag. 4-7.

[13] Pagliaro A., Principi di diritto penale, parte generale, Giuffrè, 2003, pag. 306-340.

[14] Carnelutti F., La teoria generale del diritto, Edizioni scientifiche, 1952, pag. 227

[15] Ronco M., Il reato: modello teorico e struttura del fatto tipico, in Commentario sistematico al Codice penale, Zanichelli, 2011, pag. 110-130.

[16] Romano M., Commentario sistematico al Codice penale, I, Giuffrè, 1970, pag. 313.

[17] Galiani T., Il problema della condotta nei reati omissivi, Jovene, 1980, pag.40-45.

[18] Massari E., Il momento esecutivo del reato. Contributo alla teoria dell’atto punibile, Mariotti, 1923, pag. 57 cit

[19] Gallo M., Appunti di diritto penale, vol. II, Il reato, parte I, La fattispecie oggettiva, Giappichelli,2000, pag. 143-148.

[20] Antolisei F., La disputa sull’evento, in Rivista italiana di diritto penale, 1939, pag. 3-15.

[21] Fiandaca G., Musco E., Diritto penale, parte generale, Zanichelli, 2016, pag. 588, cit.

[22] Sgubbi F., Responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, Cedam, 1975, pag. 15, cit.

[23] Delitti in cui la fattispecie presuppone un atto positivo avente carattere necessariamente personale, come l’incesto.

[24] Cass. Pen., 27.11.72., n. 3462.

[25] Cass. Pen., 24.9.91, n. 1411.

[26] Designa l’orientamento che pone l’accento al fattore oggettivo rinvenendo il fondamento della pena nella realizzazione del fatto e assegnando alla colpevolezza (dolo, colpa, errore sulla legge penale, assenza di scusanti, imputabilità) il ruolo di limite alla rilevanza dei fatti offensivi dei beni giuridici.  Marinucci G., Soggettivismo e oggettivismo nel diritto penale: uno schizzo dogmatico e politico criminale, in Rivista italiana di diritto penale e diritto processuale penale, 2011, pag. 1-23.

[27] Cass. Pen., Sez. Unite, n. 25233/2005.

[28] Cass. Pen., Sez. Unite, n. 5716/2002.

[29] Stella F., Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Giuffrè, 1990, pag. 260.

[30] Agazzi E., La spiegazione di eventi individuali o singoli, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, XLII/2, 1999, pag. 393-407.

[31] Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l’evento. Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento. In tal caso se l’azione od omissione precedentemente commessa costituisce di per sé reato si applica la pena per questo stabilita.

Le disposizioni precedenti si applicano anche quando la causa preesistente o sopravvenuta o simultanea consiste nel fatto illecito altrui.

[32] Fiandaca G., Musco E., Diritto penale, parte generale, Zanichelli, 2016, pag. 251-254.

[33] Dolcini E., L’imputazione dell’evento aggravante. Un contributo di diritto comparato, in Rivista italiana di diritto processuale penale, 1970, pag. 780-783.

[34] Trimarchi P., Causalità e danno, Giuffrè, 1997, pag. 32, cit

[35] Jeschek H., Weigend T., Leherbuch des Strafrechts: Allgemeiner Teil, Duncker & Humblot, 1996, pag. 256.

[36] Antolisei F., Manuale di diritto penale, parte generale. Giuffrè, 2003, pag. 221-222, cit

[37] Verrà ripresa al ¶ 6.2.

[38] Aimi A., Si conclude definitivamente il processo Thyssenkrupp. Annotazione a Cass., sez. IV, sent.13/10/2016 (dep.12/9/2016), n. 52511, Press. Izzo, Est. Bellini, Imp. Espenhahn, in Penale contemporaneo, n. 1/2017, pag. 215-219.

[39] Corte d’appello di Milano, 18.1.1980 in Rivista italiana di diritto processuale penale, 1983, pag. 1559, cit.

Questo argomento verrà approfondito nei prossimi paragrafi.

[40] Cass. Pen., Sez. Unite, 11.11.2002, n.30328, verrà ripresa al ¶4.3.

[41] Deidda B., Causalità colpa nella responsabilità penale nei reati di infortunio e malattia professionale, in Olympus, Osservatorio per il monitoraggio permanente della legislazione e giurisprudenza sulla sicurezza del lavoro, pag.2-5.

[42] Caruso G., Gli equivoci della dogmatica causale. Per una ricostruzione critica del versante oggettivo del reato, Giappichelli, 2013.

[43] Caruso G., Gli equivoci della dogmatica causale. Per una ricostruzione critica del versante oggettivo del reato, Giappichelli, 2013, pag.3, cit.

[44] Summerer K, Premesse per uno studio su causalità e imputazione: il rapporto tra causalità scientifica e formula della condicio sine qua non, in Indice penale, 2011, pag. 69-70.

[45] Licci G., La metafora della causalità giuridica, Jovene, pag. 20, cit

[46] Giugni I., Causalità della colpa e circolazione stradale tra prassi applicative e dubbi irrisolti, in Penale contemporaneo, 1/2019, pag. 5-16.

[47] Veneziani P., Causalità della colpa e comportamento alternativo lecito, in Cassazione penale, 2013, pag. 1225, cit.

[48] Viganò F., Riflessioni sulla c.d. “causalità omissiva, in materia di responsabilità penale, in Rivista italiana di diritto processuale penale, 2009, pag. 1697, cit.

[49] Fiandaca G., Visconti C., Nota a Cassazione penale, Sez. unite, 11.9.2002. n. 30328, in Diritto penale e processuale, 2006, pag. 585-700.

[50] Eusebi L., Appunti sul confine tra dolo e colpa nella teoria del reato, in Rivista italiana di diritto processuale penale, 2000, pag.1064, cit.

[51] Roxin C., La problematica dell’imputazione oggettiva, in Politica criminale e sistema del diritto penale. Saggi di teoria del reato, 1988, pag. 83-100.

[52] Donini M., Imputazione oggettiva dell’evento. “Nesso di rischio” e responsabilità per fatto proprio, Giappichelli, 2006, pag. 149-152, cit.

[53] Anche la dottrina ha accolto tale impostazione come Pagliaro A., Imputazione obiettiva dell’evento, in Rivista italiana di diritto processuale penale, 1992, pag. 779-790. Castaldo A., Linee politico-criminali ed imputazione oggettiva nel delitto colposo d’evento, in Rivista italiana di diritto processuale penale, 1987, pag. 881-900.

[54] Bartoli R., Diritto penale e prova scientifica, in Canzio G., Luparia L., Prova scientifica e processo penale, Wolters Kluwer-Cedam,2018, pag. 75-115.

[55]Palazzo F., Corso di diritto penale. Parte generale, II edizione, Giappichelli, 2006, pag.  330, cit.

[56] L’art. 42 co.3 c.p. enuncia che la legge determina i casi nei quali l’evento è posto altrimenti a carico dell’agente come conseguenza della sua azione o omissione.  L’avverbio altrimenti è stato ritenuto dalla dottrina l’indicatore della responsabilità oggettiva. In base alla responsabilità oggettiva un evento viene posto a carico dell’autore in base solo ed esclusivamente al rapporto di causalità materiale cioè non si richiede né che l’evento costituisca oggetto di una volontà colpevole (dolo) né che sia conseguenza di una condotta contraria a regole di diligenza sociali o scritte (colpa). Fiandaca G., Musco E., Diritto penale, parte generale, Zanichelli, 2016, pag. 635.

[57] Giugni I., Causalità della colpa e circolazione stradale tra prassi applicative e dubbi irrisolti, in Penale contemporaneo, 1/2019, pag. 11.

[58] Donini M., Prassi e cultura del reato colposo. La dialettica tra personalità e responsabilità penale e prevenzione generale, in Diritto penale contemporaneo, 2019, pag. 27, cit.

[59] Le leggi statistiche si limitano ad affermare che la verificazione di un evento è accompagnata dal verificarsi di un determinato evento solamente in una certa percentuale di casi. Detta percentuale si deve calcolare e da questo calcolo si può stabilire, a livello matematico, la probabilità del verificarsi di un determinato evento conseguente all’azione.

[60] Legge deduttiva che non ammette eccezioni, ad esempio l’acqua a 100° evapora: si tratta di una certezza matematica che un evento sia determinato da un fatto preciso. Le leggi in questione trovano applicazione in casi in cui la conoscenza umana consente di avere verità indiscutibili grazie a studi scientificamente provati.

[61] Blaiotta R., Causalità e colpa nella professione medica tra probabilità e certezza, in Cassazione penale, 2000, pag. 1188-1194.

[62] Donini M., La causalità omissiva e l’imputazione per aumento del rischio. Significato teorico e pratico delle tendenze attuali in tema di accertamenti eziologici probabilistici e decorsi causali ipotetici, in Rivista italiana di diritto processuale penale, 1999, pag. 62, cit.

[63] Il fatto riguardava “un intervento chirurgico d'urgenza per perforazione ileale, determinato l'insorgere di una sepsi addominale da 'clostridium septicum' che cagionava il 22 aprile la morte del paziente. Il giudice di primo grado riteneva fondata l'ipotesi accusatoria secondo cui l'imputato, il medico, non aveva compiuto durante il periodo di ricovero del paziente una corretta diagnosi né praticato appropriate cure, omettendo per negligenza e imperizia di valutare i risultati degli esami che avevano evidenziato una marcata neutropenia ed un grave stato di immunodeficienza. Autorizzando invece, addirittura, l'ingiustificata dimissione del paziente giudicato in via di guarigione chirurgica”. Esami e cure che invece, prosegue la Suprema Corte, che sarebbero state idonee e sufficienti a salvare la vita del paziente. Tale conclusione giunge da vari pareri medico-legali ottenuti dalle Sezioni Unite in favore del caso concreto. 

[64] Esso rappresenta il limite alla libertà di convincimento del giudice apprestato dall’ordinamento per evitare che l’esito del processo sia rimesso ad apprezzamenti soggettivi e confinanti con l’arbitrio. È un principio che trova espressione nelle garanzie fondamentali inerenti al processo penale quale la presunzione di innocenza dell’imputato, l’onere della prova a carico dell’accusa, il principio dell’in dubio pro reo e l’obbligo di motivazione razionale della decisione ex art. 111 co. 6 Cost. e 192 co. 1 c.p.p. Cass. Pen. sez. I, 14.5.2014. 

[65] Bell A., Jann V., L’accertamento del nesso di causa nei processi per patologie asbesto-correlate. Una caotica storia ventennale, in Diritto penale e uomo, pag. 9.

[66] Viganò F., Il rapporto di causalità nella giurisprudenza penale a dieci anni dalla sentenza Franzese, in Diritto penale contemporaneo, n.3/2001, pag. 390-394.

[67] Brusco C., Il rapporto di casualità: prassi e orientamenti, Giuffrè, 2012, pag. 196, cit.

[68] Veneziani P., Causalità della colpa e comportamento alternativo lecito, in Donini M., Orlandi R., (a cura di) Reato colposo e modelli di responsabilità, Bononia University Press, 2013, pag. 288, cit.

[69] Viganò F., Il rapporto di causalità nella giurisprudenza penale a dieci anni dalla sentenza Franzese, in Diritto penale contemporaneo, n.3/2001, pag. 390-397.

[70] Metodi veloci di sterilizzazione, osservazioni delle reazioni dei corpi a condizioni climatiche avverse, studio delle tecniche di primo soccorso e di allenamento maggiormente efficaci.

[71] Freyhofer H.H., The Nuremberg Medical Trial, Peter Lang Publisching, 2004.

[72] Annas G.J., Grodin A., The Nazi Doctors and the Nuremberg Code. Human Rights in Human experimentation, Oxford University Press, 1992, pag. 245-247.

[73] Detta unità fu attiva dal 1936 al 1945 in Manciuria nel campo Ping Pang sito a nord-est della città cinese Harbin appartenente al governo fantoccio di Manchukuo.

[74] Si tratta della convenzione sulla proibizione dello sviluppo, produzione, immagazzinaggio ed uso di armi chimiche e loro produzione.

[75] Rolling B.V.A, Ruter C.F., The Tokyo judgement: The International Military Tribunal for the Far East, 1948, vol. 1, pag. 478-480.

[76] I prigionieri furono sottoposti a vivisezione senza anestesia. Eliminazione di organi al fine di studiare le malattie sul corpo umano tutto mentre i pazienti erano ancora vivi dato che gli “scienziati” ritenevano che la decomposizione avrebbe alterato i risultati.

[77] Kristof N.D., Unmasking Horror. A special report: Japan confronting Gruesome War Atrocity, New York Times, 1995.

[78] Altri principi furono: rispetto dell’individuo, diritto di autodeterminazione e diritto a prendere una decisione dopo un’adeguata informazione, dovere del ricercatore di salvaguardare la salute del paziente o del volontario, necessità della ricerca, preminente interesse dell’individuo rispetto a quello della società, le considerazioni etiche devono essere prioritarie rispetto a leggi o regolamenti, quando il soggetto è incapace fisicamente o mentalmente di dare il consenso o è un minore si deve chiedere il consenso del tutore o curatore.

[79] Ai fini del presente contributo si prende in analisi solo questo perché l’analisi storica richiederebbe una ricerca ad hoc.

[80] Campogrande V., I diritti sulla propria persona, Pansini, 1896, pag. 50-60.

[81] Mantovani F., La responsabilità del medico in Rivista italiana di medicina legale, 1980, pag. 20, cit.

[82] Di Pirro M., Responsabilità del medico, Edizioni giuridiche Simone, 2015.

[83] Siracusano F., Ancora sulla responsabilità colposa del medico: analisi della giurisprudenza sulle forme e gradi della colpa, in Cassazione penale, 1997, pag. 2904-2910.

[84] Corte cost., 28.11.1973, n 166.

[85] Anfora G., Una vexata quaestio: colpa professionale, grado della colpa, responsabilità penale del sanitario. Rilevano le regole deontologiche? In Giustizia penale, 1990, II, pag.689, cit

[86] Si tratta della circostanza aggravante dell’aver agito, nei delitti colposi, nonostante la previsione dell’evento.

[87] È il parametro di commisurazione della pena.

[88] De Simone A., Sulla colpa professionale in Giustizia penale, 1972, II, pag. 830, cit

[89] Relativamente a detto articolo si è ampliamente trattato nella prima parte del presente contributo §2-4.

[90] Stella F., Giustizia e modernità, Giuffrè, 2003, pag. 10-30. Per post-moderno si intende una situazione nella quale le società avanzate e quindi quella contemporanea perdono i punti di riferimento che erano ritenuti essenziali per l’epoca moderna. L’epoca post-moderna risulta essere caratterizzata dal crollo delle certezze e dall’illusione secondo la quale i risultati epistemologici sono certi e mai fallaci. Lyotard J.F., La condizione postmoderna, Giuffrè, 1990, pag. 1-15.

[91] Militiello V., Rischio e responsabilità penale, Giuffrè, 1988, pag. 20-46.

[92] Maiorca C., voce Colpa civile, (Teoria generale), in Enciclopedia del Diritto, VII, 1960, pag. 568.

[93] Cass. Pen., 19.9.2014, n. 19731.

[94] Cass. Civ., sez. Unite, 11.11.2008, n.26973.

[95] Cass. Civ., sez.III, 27.11.2012, n. 20984.

[96] Cass. Civ., sez. III, 20.8.2013, n. 19220.

[97] Altri casi sono nell’ipotesi dello stato di necessità o qualora il paziente non sia in grado di prestare un qualsiasi assenso o dissenso a causa delle sue condizioni.

[98] Cass. Pen., sez. IV, 27.11.2013, n.2347.

[99] Iadecola G., Il nuovo codice di deontologia medica, Cedam, 1996, pag.20-29.

[100] Cass. Pen, se. IV, 11.7.2012, n. 35992.

[101] Si tratta del decreto-legge n. 158/2012.

[102] Cass. Pen., sez. IV, n. 31452/2012.

[103] Fiori A., Marchetti D., L’articolo 3 della legge Balduzzi n.182/2012 e I vecchi e nuovi problemi della medicina legale, in Rivista italiana di medicina legale e diritto sanitario, 2013, pag. 563-575.

[104] Cass. Pen., sez. IV, 13.4.2018, n. 33405.

[105] Cass. Pen., sez. IV, 28.10.2008, n. 46412.

[106] Risicato L., La colpa medica non lieve dopo la legge Balduzzi, Ipsoa, 2014, pag. 2072-2073.

[107] Cass. Pen., sez. IV, 24.1.2013, n. 1149.

[108] Cass. Pen., sez. IV, 10.4.2013, n. 16237.

[109] Tribunale di Milano, sez. IX, 21.3.2013.

[110] Ordinanza n. 295/2013.

[111] Paolo P., Imperitia sine culpa non datur. A proposito del nuovo art. 590 sexies c.p. in Diritto penale contemporaneo, 1.3.2017.

[112] Cass. Pen., sez. IV, 20.4.2017, n. 28187.

[113] Cass. Pen., sez. IV, 19.10.2017, n. 50087.

[114] Cupelli C., L’art. 590-sexies c.p. nelle motivazioni delle Sezioni Unite: un’interpretazione costituzionalmente conforme dell’imperizia medica (ancora) punibile, in Diritto penale contemporaneo, n. 3/2018, pag. 246-257.

[115] Cass. Sez. Unite, 21.12.2017, n. 10952.

Cupelli C., L’art. 590-sexies c.p. nelle motivazioni delle Sezioni Unite: un’interpretazione costituzionalmente conforme dell’imperizia medica (ancora) punibile, in Diritto penale contemporaneo, n. 3/2018, pag. 246-257.

[116] Tribunale di Parma, 18.12.2018 (dep. 4.3.19), n. 1584.

[117] Mattheudakis M. L., Colpa medica e legge Gelli-Bianco: una prima applicazione giurisprudenziale dell’art. 590-sexies co-2 c.p. in Diritto penale contemporaneo, 9.4.19.

[118]Cass. Sez. Unite, 21.12.2017, n. 10952.

[119] Rossi S., La legge Gelli a rischio di incostituzionalità? In Responsabilità medica. Diritto e pratica clinica, 2017, pag. 1-6.

[120] Ronco M., La colpa in particolare, in Ronco M., Il reato. Struttura del fatto tipico. Presupposti oggettivi e soggettivi dell’imputazione penale. Il requisito dell’offensività del fatto, Zanichelli, 2007, pag. 538, cit.

[121] Civello G., La tipicità del fatto colposo nel diritto penale del lavoro: il discrimen fra regole cautelari e regole meramente gestionali ed organizzative, in Archivio penale, n. 2/2011, pag. 1-3.

[122] Pisa P., Longo G., La responsabilità penale per carenze strutturali e organizzative, in Bartoli R., Responsabilità penale e rischio nelle attività mediche e d’impresa (un dialogo con la giurisprudenza), Firenze University Press, 2010, pag. 7-10.

[123] Detto paragrafo conterrà una breve sintesi circa la tipologia della responsabilità del datore di lavoro in quanto lo scopo del presente contributo è incentrata sulla disciplina penale

[124] Perulli A., Brino V., Sicurezza sul lavoro. Il ruolo dell’impresa e la partecipazione attiva del lavoratore, Cedam,2012.

[125] Marando G., Responsabilità, danno e rivalsa per gli infortuni sul lavoro, Giuffrè, 2003.

[126] Minella M.L., Nota a Cassazione penale sez. IV, ud. 23.11.12, n. 49821, in Diritto penale contemporaneo, 2013, cit.

[127] Persona che alla luce delle competenze professionali, poteri gerarchici attua le direttive del datore di lavoro organizzando l’attività lavorativa e vigilando su di essa.

[128] Egli sovraintende all’attività lavorativa e garantisce l’attuazione delle direttive ricevute controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori.

[129] Pulitanò D., Colpa ed evoluzione del sapere scientifico, in Diritto penale e procedura penale, 2008, pag. 647-657.

[130]Veneziani P., I delitti contro la vita e l’incolumità individuale. I delitti colposi in Marinucci G., Dolcini E., Trattato di diritto penale. Parte speciale, Cedam, 2003, pag. 387.  Cit.

[131] Paliero C.E., Il tipo colposo, in Bartoli R., Responsabilità penale e rischio nelle attività mediche e d’impresa (un dialogo con la giurisprudenza), Firenze University Press, 2010, pag. 51-61.

[132] Di Giovine O., Il contributo della vittima nel delitto colposo, Giappichelli, 2003, pag. 51, cit.

[133] Cass. Pen., sez. IV, 7.9.2015, n. 36040.

[134] Cass. Pen., sez. IV, 27.12.2018, n. 58272.

[135] Cass. Pen., sez. IV, 4.4.2019, n.14910.

[136] Cass. Sez. IV., 14.1.2014, n.7364.

[137] Cass. Sez. unite, 24.7.2014, dep. 18.9.2014, n. 38343.

[138] Cass. Pen., Sez. IV, 20.3.2019, n. 12407.

[139] Cass. Pen. Sez. IV, 18.1.2019, n. 2316.

[140] Castronuovo D., Profili relazionali della colpa nel contesto della sicurezza sul lavoro. Auto responsabilità o paternalismo penale? In Archivio penale, n.2/2019, pag. 5-12.

[141] Castronuovo D., Profili relazionali della colpa nel contesto della sicurezza sul lavoro. Auto responsabilità o paternalismo penale? In Archivio penale, n.2/2019, pag. 16.