Profili di (in)costituzionalità in materia di usura
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Camilla Della Giustina
L´evoluzione del reato di usura dal codice Zanardelli alla disciplina odierna. Una riflessione sulle questioni più attuali e gli eventuali profili di incostituzionalità.
Sommario: 1. Introduzione; 2. L’usura prima e durante il Codice Zanardelli; 3. L’usura nel codice Rocco; 4. La riforma del delitto di usura ex L. 356/92; 5. L’attuale disciplina legislativa; 6. L’usura bancaria; 7. Disamina dei profili di incostituzionalità in materia di usura, 7.1. Usura presunta: un’ipotesi di norma penale in bianco, 7.2. Usura in concreto: problemi di determinatezza della norma penale, 7.3. Decreto-legge di interpretazione autentica.
Abstract ita: L’articolo persegue due obiettivi. Il primo obiettivo è quello di evidenziare l’evoluzione del reato di usura. Il secondo concerne il rapporto tra il delitto in questione e il rispetto delle disposizioni costituzionali applicabili in materia penale. Il tutto alla luce della riflessione dottrinaria e giurisprudenziale.
Abstract eng: The article pursues two objectives. The first objective is to highlight the evolution of the crime of usury. The second concerns the relationship between the crime in question and compliance with the constitutional provisions applicable in criminal matters. All in the light of doctrinal and jurisprudential reflection.
1. Introduzione
La materia penale è strettamente collegata alla disciplina costituzionale in quanto la prima trova la sua fonte per eccellenza nella seconda, oltre al fatto che il rispetto della costituzione viene assicurato mediante il criterio di gerarchia delle fonti. Secondo il nostro sistema costituzionale, infatti, la Costituzione e le leggi costituzionali risultano essere sovraordinate alle leggi ordinarie e agli atti aventi forza di legge. Molti principi penali trovano la loro fonte nella Carta costituzionale: si pensi all’art. 25, all’art. 27, all’art. 111, ecc.
Da queste premesse si è deciso di evidenziare i profili critici del reato di usura ex art. 644 c.p. contrastanti con la disciplina costituzionale. Prima di procedere a questa disamina, si è ritenuto opportuno proporre una breve analisi storica circa l’evoluzione del reato in questione.
Una volta approdati all’attuale disciplina si sono analizzati gli aspetti che si ritengono maggiormente rilevanti e indispensabili per approdare ad analizzare il contrasto, reale o presunto, della disciplina dell’art. 644 c.p. con i parametri costituzionali di volta in volta individuati.
2. L’usura prima e durante il codice Zanardelli
Il fenomeno dell’usura è sempre stato oggetto di attenzione da parte degli studiosi nel corso dei secoli. In relazione al periodo storico preso in considerazione, si rinvengono diversi orientamenti sulla nozione stessa di usura, nozioni che si sviluppano in coerenza alle scelte legislative adottate a seconda che le stesse siano a favore o contro il fenomeno in questione.
Risalendo nel tempo si rinviene l’istituto de quo esistente presso gli antichi Egizi: si fa riferimento alla pratica di trarre dei benefici e dei frutti dal prestito effettuato. I vantaggi appena menzionati erano ammessi a condizione che questi rispettassero due condizioni. La prima faceva riferimento alla misura massima consentita dalla legge, la seconda conteneva il divieto secondo cui i frutti e benefici non potevano superare il valore della somma concessa in prestito.
Nella cultura greca, invece, non si rinviene una disposizione simile a quella appena citata indicante un massimo consentito circa la somma data a prestito. I greci distinguevano due tipologie di prestito: a uso e a consumo. Il primo aveva ad oggetto schiavi, cavalli, ecc e risultava essere gratuito. Il secondo prevedeva oltre alla consegna dell’importo dato a prestito anche il pagamento di una percentuale di interesse che risultava essere variabile a seconda della tipologia di prestito utilizzato nel caso concreto[1].
All’interno della ricostruzione giuridica romana si deve indicare come il termine usurae fosse utilizzato per indicare il corrispettivo periodico di un capitale appartenente ad altra persona. Il capitale poteva essere costituito da denaro o da altre cose fungibili. Le fonti romane pongono una distinzione tra usurae in obligatione e usurae quae officio iudicis praestantur. Sono in obligatione gli interessi la cui dazione è espressamente prevista in un negozio formale posto in essere a tal fine, come stipulatio o legato per damnationem. Da ciò discende come la prestazione di fornire interessi può essere richiesta in modo autonomo esperendo l’azione fondata su uno dei negozi formali appena menzionati. Derivano officio iudicis gli interessi previsti in un patto aggiunto ai negozi di buona fede, gli interessi ex mora e quelli post litem contestatam, ammessi solamente in tipologie determinate di giudizi ed infine gli interessi compensativi o che alcun i gestori devono per impiego a proprio favore[2].
Successivamente, si ha l’introduzione del divieto di prestare ad altri denaro ad interessi. La fonte di tale divieto si rinviene nelle Sacre Scritture e in particolare negli scritti l’evangelista Luca. Sulla base di queste ragioni, la Chiesa ha progressivamente vietato la pratica in questione prima vietandola solo agli ecclesiastici ed infine estendo la proibizione anche ai laici. Nonostante queste previsioni, non si riuscì mai a evitare il ricorso da parte di laici e chierici all’usura durante il momento di necessità. Da ciò vennero istituiti i Monti di Pietà i quali erano autorizzati a concedere il prestito ad interesse.
Nel Medioevo con il diritto canonico, il termine usura acquisiva il significato di compenso dovuto per l’uso del capitale altrui, consistente generalmente nel pagamento, a termini periodici, di una somma di denaro quale corrispettivo per l’uso di una prestazione in denaro o di altro bene immobile redditizio[3].
Con il trascorrere dei secoli, e precisamente a partire dall’Illuminismo, l’atteggiamento nei confronti dell’istituto dell’usura mutò anche a causa della proliferazione del mercato economico.
All’interno della penisola italica, il reato d’usura era riconosciuto dal Codice penale Sardo, codice che venne abolito nel 1857. Esso puniva con la pena della reclusione, con una cornice edittale da sei mesi a quattro anni, per chiunque avesse commesso il reato di usura. Al contrario, il Codice del Regno delle due Sicilie (1819) non sanzionò mai il reato di usura. Questa scelta legislativa affondava le sue radici sul fatto che il Banco delle due Sicilie godeva di una situazione economica florida in quanto era riconosciuto come uno degli Istituti di credito più ricchi dell’Italia preunitaria.
I principi illuministici furono determinanti nella scelta di non prevedere il reato di usura all’interno del codice Zanardelli[4].
Alla luce dell’assenza legislativa in tema di usura, un ruolo fondamentale venne svolto dall’elaborazione giurisprudenziale civilistica dell’epoca. Data l’assenza di regolazione dell’usura vi era il rischio che il fenomeno si espandesse dando luogo ad abusi.
La giurisprudenza civile cercò di rimediare mediante due strumenti. Il primo fu quello di richiedere la forma scritta nell’ipotesi in cui le parti convenissero interessi in misura superiore alla misura legale, qualora non fosse stato rispettato questo requisito il debitore non avrebbe dovuto corrispondere nulla a titolo di interessi. Oltre a questo, i giudici erano soliti dichiarare l’illiceità dei patti in quanto contrari al buon costume o sostenendo che l’accordo usurario dovesse considerarsi invalido per vizio del consenso posto che era stipulato dal debitore in un momento in cui si trovava in stato di necessità o dipendenza.
È evidente come all’epoca vi fosse un ampio movimento culturale a carattere solidaristico che si manifestava nel mondo del diritto mediante l’affermazione di principi limitativi della libertà contrattuale ispirati alla tutela del contraente più debole, anche contro gli orientamenti ufficiali della giurisprudenza e della dottrina del tempo[5].
3. L’usura nel codice Rocco
Le argomentazioni giurisprudenziali indicate del precedente paragrafo, sorrette anche dall’opinione dottrinaria dell’epoca, spinsero il legislatore ad introdurre il reato di usura al fine di moralizzare i rapporti tra consociati[6].
Il codice Rocco introduceva il reato di usura nell’ambito dei delitti contro il patrimonio punendo chiunque si faceva dare o promettere, sotto qualsiasi forma, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra cosa mobile, interessi o altri vantaggi usurari. Coerentemente con il pensiero liberale dell’epoca non venne codificata una soglia di interessi oltre la quale sarebbe stata integrata la fattispecie di usura.
Lo stesso Guardasigilli dichiarò che la misura in questione dipende dalle più diverse circostanze di tempo, luogo, di persone e di rischio[7]. Il compito circa l’individuazione di interesse usurari era demandato al magistrato, poiché quest’ultimo aveva concretamente la possibilità di esperire un’attenta verifica idonea a valutare nel caso concreto quando una determinata prestazione diventava sproporzionata e quindi potesse integrare la fattispecie di usura.
Oltre a questo, era chiaro nell’intenzione del legislatore come l’usura non fosse rinvenibile solamente nella pattuizione eccessiva di interessi, ma essa si celasse altresì dietro numerosi espedienti. Da ciò deriva l’adozione dell’espressione interessi o vantaggi usurari.
Vennero altresì dettati i limiti e le condizioni dell’incriminazione dato che al fine di configurare un’obbligazione usuraria come reato erano necessario l’approfittamento dello stato di bisogno della vittima. Si richiedeva che il debitore fosse stato costretto a contrarre un’obbligazione usuraria essendo rimasto privo di libertà di scelta derivante da uno stato di bisogno in cui egli si trovava per una causa giudicabile incolpevole e meritevole della pubblica commiserazione e solidarietà[8].
4. La riforma del delitto di usura ex L. 356/92
La fattispecie di usura contenuta nel codice Rocco non era riuscita a contrastare il fenomeno usurario. Negli anni successivi alla Guerra al prestito usurario ricorrevano sia le semplici famiglie sia gli imprenditori. Il mercato del credito cominciava quindi a divenire un settore economico redditizio per le organizzazioni illecite aventi lo scopo dio incrementare i loro affari.
La L.356/1992 introdusse tre novità.
La prima concerneva l’introduzione dell’art. 644-bis[9] secondo il quale chiunque, fuori dai casi dell’art. 644, approfittando delle condizioni di difficoltà economica o finanziaria di persona che svolge attività imprenditoriale o professionale si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra cosa mobile, interessi o vantaggi usurai, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni e con la multa da lire quattro milioni a lire venti milioni. Alla stessa pena soggiace chi, fuori dai casi di concorso nel delitto previsto dal comma precedente, procura ad una persona che svolge attività imprenditoriale o professionale e che versa in condizioni di difficoltà economica o finanziaria una somma di denaro o di altra cosa mobile facendo dare o promettere a sé o altri, per la mediazione, un compenso usuraio.
La previsione di usura impropria aveva lo scopo di incentivare la libertà, la lealtà della concorrenza sul mercato e garantire che l’iniziativa economica del privato non fosse in contrasto con l’utilità sociale[10]. L’usura impropria necessita per la propria configurazione della qualifica del soggetto passivo il quale deve essere, alternativamente, un imprenditore o professionista secondo le disposizioni dell’ordinamento giuridico.
La seconda introduzione concerne l’inasprimento sanzionatorio previsto per il reato di usura. La riforma prevedeva la reclusione da uno a cinque anni alla quale aggiungere la multa da sei a trenta milioni di lire[11].
L’ultima novità introdotta concerne l’aggiunta del co. 3 all’art. 644 c.p. il quale prevede l’aumento della pena per i delitti di usura e di mediazione usuraria nell’ipotesi in cui i fatti siano commessi nell’esercizio di un’attività professionale o di intermediazione finanziaria. In questa ipotesi il soggettivo attivo svolge un’attività di erogazione del credito o di finanziamenti e appartiene a un istituto di credito o a società finanziarie[12].
5. L’attuale disciplina legislativa
Dopo soli quattro anni dalla L. 356/92 il legislatore intervenne in materia con la L. 108/96. La scelta di intervenire nuovamente è stata dovuta all’inidoneità della L. 356/92 di arginare il fenomeno usuraio in Italia, da una parte, e l’incapacità della stessa legge di bloccare l’arricchimento delle mafie, dall’altra parte.
La L. 108/96 porta con sé un diverso approccio al fenomeno usurario poiché affianca la prevenzione del reato alla sua repressione articolando sanzioni sia penali che civili. Oltre a questo, l’art. 644 c.p. viene ad assumere una nuova fisionomia anche se la vera novità è rappresentata dall’introduzione del tasso soglia, cioè un limite al tasso di interessi applicabile oltre il quale si configura l’usura. È proprio il tasso soglia a distinguere le fattispecie di usura presunta o oggettiva dall’usura concreta o soggettiva.
L’usura presunta o oggettiva deriva dal superamento del limite previsto dalla legge (la legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari ex art. 644 co.3 prima parte c.p.).
L’individuazione del limite superato il quale l’interesse è usurario viene calcolato attraverso il meccanismo indicato dall’art. 2 L. 108/96. Secondo l’articolo appena menzionato il Ministro del Tesoro[13] sentiti la Banca d’Italia e l’Ufficio italiano dei cambi, rileva ogni trimestre il tasso effettivo globale medio (TEGM) il quale comprende: commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e spese escluse quelle per imposte e tasse riferite ad anno, degli interessi praticati dalle banche e dagli intermediari finanziari iscritti ad apposito albo[14] nel corso del trimestre precedente per operazioni della stessa natura. Il compito di redigere le classificazioni in base alle operazioni per categorie omogenee e considerando la natura, l’oggetto, l’importo la durata e i rischi delle operazioni stesse è affidato al Ministro del Tesoro che procede annualmente mediante la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto contenete dette informazioni.
Il tasso al di sopra del quale l’interesse è sempre usurario si rinviene consultando l’ultima rilevazione pubblicata in Gazzetta Ufficiale relativamente alla categoria di operazioni in cui il credito è compreso aumentato di un quarto al quale è prevista l’aggiunta di un margine di ulteriori quattro punti percentuali.
Posta questa tecnica legislativa “a cascata” la dottrina maggioritaria ritiene che la fattispecie in esame debba essere qualificata come una norma penale in bianco in quanto la individuazione della condotta penalmente rilevante dipende dalla soglia indicata nei decreti presidenziali. È evidente come nella determinazione contenuta negli stessi si possano rinvenire spazi di discrezionalità idonei a tradursi a loro volta in margini di incertezza applicativa dei decreti stessi[15].
L’usura definita come concreta o soggettiva si caratterizza per l’assenza del criterio di tasso fissato dal legislatore nel caso di usura presunta. La seconda parte del co.3 art. 644 c.p. prevede infatti sono altresì usurari gli interessi, anche se inferiori a tale limite, e gli altri vantaggi o compensi che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni similari risultano comunque sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero all’operazione di mediazione, quando chi li ha dati o promessi si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria.
La ratio della disposizione appena citata è quella di colpire tutte quelle prestazioni che, pur non superando il tasso medio, risultano essere comunque sproporzionate rispetto alla controprestazione. L’obiettivo che il legislatore ha voluto seguire è stato quello di colmare eventuali vuoti di tutela nell’ipotesi in cui il tasso fisso venisse eluso attraverso delle prestazioni inferiori al limite stabilito dal dettato normativo[16].
È evidente che se il fatto penalmente perseguibile fosse stato ancorato solamente al superamento della soglia legale degli interessi si sarebbe lasciata aperta la possibilità di pretendere delle condizioni usurarie di altra natura. Concretamente si sarebbe potuto pattuire un interesse inferiore rispetto alla soglia dettata dall’art. 644 co 3 c.p. per poi affiancare a questo primo patto delle condizioni usurarie aventi altra fonte, come, ad esempio, farsi rilasciare delle cambiali per un importo estremamente maggiorato[17].
Con la previsione dell’usura soggettiva la legislazione italiana prese le distanze dalla fonte legislativa di ispirazione per il reato di usura, ossia la disciplina francese. Rispetto a quest’ultima, la disciplina italiana contenuta nell’art. 644 co. 3 seconda parte c.p. risulta essere estremamente più elastica in quanto non subordina la configurazione del reato di usura al mero superamento della soglia indicata nella prima parte del co.3 art. 644 c.p.[18].
L’espressione “usura in concreto” fonda la propria denominazione nel fatto che l’accertamento dell’usurarietà viene demandato al giudice. Sarà compito di quest’ultimo accertare concretamente, caso per caso, e a prescindere dalla valutazione legale degli interessi che la prestazione in questione non integri la fattispecie di usura.
Il giudice dovrà controllare che l’interesse ottenuto o promesso dal soggetto passivo sia compreso tra la soglia oltre la quale gli interessi sono usurari e quella rilevata come tasso medio per le operazioni similari. A livello sistematico si può anche fare riferimento all’art. 1448 co. 2 c.c. il quale prevede la rescindibilità del contratto a prestazioni corrispettive nell’ipotesi in cui sia stato concluso in stato di bisogno[19].
La scelta del legislatore del ’96 di prevedere due fattispecie connesse all’accordo negoziale concretamente concluso consente di contrastare il fenomeno usurario colpendo tutte le pratiche in questione comprendendo altresì quelle che sono dirette allo scopo di eludere la soglia legale[20].
Analizzata la differenza tra usura oggettiva e soggettiva si procede a una breve disamina circa la struttura della fattispecie del reato di usura.
Soggetto attivo del reato è “chiunque” di conseguenza non si ravvisa la fattispecie né di reato proprio ossia commesso da chi riveste particolari qualità o funzioni. Il reato di usura viene definito come una fattispecie di cooperazione artificiosa, essendo modellato sullo schema del sinallagma contrattuale in quanto alla prestazione di denaro o di altra cosa mobile deve seguire la promessa o dazione di vantaggi usurari.
L’elemento oggettivo consiste nel dare o promettere interessi o altri vantaggi usurari come corrispettivo di una prestazione di denaro o di altre utilità. Viceversa, la condotta del soggetto agente caratterizzata dall’approfittamento dello stato di bisogno di una persona viene configurata come una circostanza aggravante. Per dottrina maggioritaria, l’approfittamento corrisponderebbe al concetto di abuso. In pratica il soggetto agente sfrutterebbe, a proprio vantaggio, una debolezza della vittima del reato[21].
Dottrina contrapposta, invece, sostiene che il concetto di abuso rievocherebbe una deviazione rispetto alla lettera delle disposizioni mentre, il concetto di approfittamento abbraccerebbe anche situazioni nelle quali la condizione della vittima costituisce mero presupposto psicologico della condotta dell’agente[22].
Il reato si consuma mediante la promessa o dazione di interessi o altri vantaggi usurari da parte del soggetto passivo: affinché sia configurato il reato de quo è indifferente l’una o l’altra condotta. La prassi dimostra come, nella maggior parte dei casi, si ha una promessa alla quale segue una dazione, anche rateizzata, di interessi usurari.
L’elemento psicologico del reato è costituito dal dolo generico cioè la rappresentazione di tutti gli elementi costitutivi del fatto di reato, accompagnato dalla consapevolezza dell’usurarietà degli interessi o vantaggi pretesi.
Viceversa, per quanto riguarda la conoscenza dello stato di bisogno del debitore da parte dell’usurario si è formato un orientamento giurisprudenziale che ha rintracciato proprio nell’accettazione di condizioni usurarie la prova della conoscenza da parte dell’usurario della situazione in cui si trova l’altra parte.
Per quanto concerne la mediazione usuraria ossia chi fuori dal concorso nel delitto previsto dal primo comma, procura a taluno una somma di denaro o altra utilità facendo dare o promettere una somma di denaro o altra utilità facendo dare o promettere, a sé o ad altri, per la mediazione, un compenso usurario. Circa questa sub-specie di usura si possono riprendere le considerazioni fatte poc’anzi seppur con alcune precisazioni.
In primo luogo, il reato si consuma nel momento in cui il soggetto in stato di bisogno riceve il bene (denaro o altra cosa mobile) per effetto della mediazione. In questa ipotesi, quindi, si deve ritenere che la conclusione del contratto stesso rappresenti una condizione sospensiva circa la configurabilità del reato.
In secondo luogo, anche in questa ipotesi l’elemento psicologico è rappresentato dal dolo generico. Nella fattispecie di mediazione usuraria il dolo consiste nella rappresentazione della situazione in cui versa il soggetto passivo e dal carattere usurario ricevuto per la mediazione[23].
In terzo luogo, vi è una differenza in quanto la mediazione usuraria si riferisce solamente allo stato di bisogno e non cita l’attività di approfittamento. Sulla scorta di questo dottrina autorevole ha ritenuto come la disposizione circa la mediazione usuraria possa essere considerata più severa. È evidente infatti che nell’ipotesi di mediazione usuraria la condotta del mediatore risulta essere maggiormente sfumata rispetto alla condotta tenuta dal soggetto attivo nell’usura propriamente detta. In quest’ultima ipotesi il soggetto agente è obbligato a tenere una condotta preordinata all’esecuzione dell’impegno quindi alla dazione del denaro o dell’altra res mobile[24].
Vi è chi, contrapponendosi alla differenza appena evidenziata, ha sostenuto che la formulazione della fattispecie di mediazione usuraria contenga in sé stessa la situazione di approfittamento entro la condotta del mediatore. È evidente infatti che l’esecuzione del reato consista sempre e comunque nell’approfittamento dello stato di bisogno altrui[25].
6. Usura bancaria
La L. 108/96[26] non ha modificato solamente l’art. 644 c.p. ma anche l’art.1815 co. 2 c.c. modificando le conseguenze civilistiche derivanti dal reato di usura. La modifica appena menzionata ha intaccato l’originario meccanismo della riduzione del tasso usurario nella misura legale con la conversione del negozio usurario in negozio gratuito. L’attuale art. 1815 co. 2 c.c. prevede infatti che se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi.
La disposizione de qua è dettata in materia di mutuo, ma costante orientamento giurisprudenziale ritiene che essa sia applicabile a tutti i contratti bancari, qualunque sia la loro denominazione, purchè risultino essere caratterizzati dalla messa a disposizione di denaro dietro remunerazione[27].
Con la sanzione di nullità parziale del contratto, ossia una nullità che colpisce solamente la clausola illecita, si prevede una importante sanzione per il creditore usurario il quale subirà una modifica iure imperii del contratto. Quest’ultimo da oneroso diverrà gratuito ex lege[28].
La L. 108/96 introduce anche il principio di onnicomprensività degli oneri rilevanti ai fini dell’usura. Secondo questo principio il dato da porre a confronto con il tasso soglia non è rappresentato solamente dal T.A.N.[29]. ma dal costo complessivo del credito ossia dal T.A.E.G. al quale si devono aggiungere le altre voci di costi in qualche modo connesse con l’erogazione del credito escludendo quelle previste per imposte e tasse. In questo modo si vogliono evitare elusioni della legge mediante la previsione di spese e costi che in concreto renderebbero il contratto usurario.
In conclusione, si può sostenere che il principio di diritto dedotto richiede che si debba ricomprendere nel tasso effettivo globale qualsiasi onere sopportato dal cliente come costo dell’operazione a prescindere dal nome effettivo utilizzato ed escluso solo quanto dovuto per imposte e tasse[30].
Questa previsione pone una serie di interrogativi all’interprete. In primis, ci si chiede se il giudice dinnanzi a una contestazione di presunta usurarietà del contratto debba verificare che al momento della pattuizione non si poteva rinvenire il fenomeno usura o se debba, al contrario, considerare usurario un tasso di interessi che al momento in cui è stato pattuito risulta essere sottosoglia ma che successivamente risulta essere superiore al limite. In secundis, se per i contratti stipulati in precedenza rispetto all’entrata in vigore della legge n. 108/96 nei quali il tasso originariamente lecito sia divenuto successivamente usurario il giudice debba applicare o meno la “nuova disciplina.
La soluzione ai problemi appena prospettati sembra essere stata fornita dal Dl. 394/2000 convertito dalla L.24/2001 rubricata interpretazione autentica della legge antiusura. L’art. 1 di quest’ultima prevede che si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui sono promessi o comunque convenuti a qualunque titolo indipendentemente dal momento del loro pagamento. Il legislatore ha quindi affermato che il momento cruciale al fine paragonare il tasso previsto e il tasso soglia è solamente ed esclusivamente quello della stipulazione del contratto. Se nel momento in cui le parti concludono il contratto, gli interessi sono inferiori al tasso soglia il contratto sarà sempre e per sempre valido poiché non dovrà essere considerato successivamente usurario.
La locuzione a qualunque titolo sarà la fonte di divisioni giurisprudenziali e dottrinarie. La relazione governativa di accompagnamento al Dl. 394/2000 precisa che la disciplina in esso contenuta deve essere riferita a qualsiasi species del genus interesse, quindi sia agli interessi corrispettivi, compensativi e moratori[31].
La giurisprudenza maggioritaria, sulla scorta di questa relazione di accompagnamento, ritiene che un tasso originariamente non-usurario[32] deve comunque essere soggetto al controllo durante l’esistenza del contratto. Di conseguenza è possibile che detto tasso possa divenire usurario in momento successivo e che divenga soggetto alla riduzione ex lege.
Giurisprudenza contrapposta ritiene invece che si debba applicare il Dl. 394/2000 escludendo quindi che il superamento del tasso soglia degli interessi, convenuti ab origine in maniera legittima, possa giustificare la riconduzione entro i limiti dell’usura. La Suprema Corte ha precisato che i criteri fissati dalla L. 108/96 per la determinazione del carattere usurario degli interessi non si applicano alle pattuizioni di questi ultimi anteriori all’entrata in vigore di quella legge, siano contenute in mutui a tasso fisso o variabile, come emerge dalla norma di interpretazione autentica contenuta nell’art. 1 co.1 del Dl. 394/2000 che non reca tale distinzione[33]. Soluzione confermata dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 24675/2017.
Ulteriore aspetto problematico concerne la possibile applicabilità o meno della disciplina antiusura agli interessi moratori.
La giurisprudenza ritiene che si debba applicabile l’usura anche agli interessi moratori facendo leva sull’art. 1 Dl. 394/2000 secondo cui si devono considerare usurari gli interessi convenuti a qualunque titolo. Si tratta di una tesi ampiamente sostenuta anche dalle Corti supreme nazionali. La stessa Cassazione ha sottolineato come non v’è ragione per escludere l’applicabilità anche nelle ipotesi di assunzione dell’obbligazione di corrispondere interessi moratori in quanto il ritardo colpevole non giustifica di per sé il permanere della validità di un’obbligazione così onerosa e contraria al principio generale posto dalla legge[34].
Ragionamento condiviso anche dalla Corte costituzionale la quale ha evidenziato come il tasso soglia dovesse ricomprendere anche gli interessi moratori[35]. Precisamente il giudice delle leggi ha sostenuto che il riferimento, contenuto nell’art. 1 co.1 del Dl. 394/2000 agli interessi “a qualunque titolo convenuti” rende plausibile, senza necessità di specifica motivazione, l’assunto, del resto fatto proprio anche dal giudice di legittimità, secondo cui il tasso soglia riguarderebbe anche gli interessi moratori.
L’assunto sul quale si fondano le pronunce della Corte di Cassazione e della Corte costituzionale prende le mosse dalla disposizione contenuta nel Dl. 394/2000. Detta disposizione indica come usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento. È l’inciso a qualunque titolo che sembra aprire la strada agli interessi moratori.
È evidente come i ragionamenti prospettati dalle Supreme Corti risultino essere tautologici in quanto si rifanno esclusivamente all’inciso a qualunque titolo senza una vera e propria motivazione in merito. È la stessa Corte costituzionale a sostenere che circa l’assoggettamento degli interessi moratori al regime dell’usura non sia necessaria una motivazione in merito. Tutti i ragionamenti proposti sembrano evocare lo schema “gli interessi moratori sono sottoposti al regime dell’usura in quanto così è stato stabilito dal decreto-legge di interpretazione autentica”.
Alla luce della giurisprudenza maggioritaria, si ricava che il tasso soglia oltre il quale gli interessi sono considerati usurari rappresenta un limite sia per gli interessi corrispettivi che moratori.
Si tratta di una posizione avallata anche da una parte minoritaria della dottrina. Il punto cardine dal quale parte detta riflessione concerne la previsione dell’art.1224 co.1 c.c. secondo il quale se prima della mora erano dovuti interessi in misura superiore a quella legale gli interessi moratori sono dovuti nella stessa misura. A questo si aggiunge la riflessione secondo cui il ritardo colpevole non giustifica di per sé il permanere della validità di un’obbligazione così onerosa e contraria al principio generale posto dalla legge[36].
Nonostante la posizione delle Supreme corti italiane, molti giudici di merito[37] escludono gli interessi moratori dalla verifica di usurarietà. Le motivazioni poste alla base di questo orientamento sono assai disparate come il fatto che la legge afferma che sono usurari gli interessi pattuiti in misura superiore alla soglia stabilita come corrispettivo di una prestazione ex art. 644 c.p. e art. 1815 c.c.
Secondo la litera legis cadrebbero nel cono d’ombra del divieto di pattuizione di interessi usurari solamente gli interessi previsti dalle parti quali corrispettivi di una determinata prestazione. È evidente come gli interessi moratori non appartengono a detta categoria in quanto possiedono una funzione autonoma. Essi rappresentano una sanzione per il debitore inadempiente e sono dovuti solo a seguito dell’inadempimento. Oltre a questo, si deve ricordare come il mutuatario sia tutelato anche nell’ipotesi in cui gli interessi moratori dovessero essere eccessivamente elevati mediante l’applicazione dell’art. 1384 c.c. Detto articolo nonostante disciplini la riduzione della penale eccessivamente onerosa è stato ritenuto applicabile anche nell’ipotesi di interessi moratori. Questi ultimi infatti assolvono ad una funzione di vera e propria clausola penale[38].
In altre parole, secondo questa ricostruzione ai fini del computo del tasso soglia, in materia di usura, si deve fare riferimento alle prestazioni aventi natura corrispettiva e gravanti sul cliente e infine prestazioni che possano essere riferite alla fisiologica attuazione del rapporto.
Ulteriore conferma di questo orientamento giurisprudenziale si rinviene nella Direttiva 2008/48/CE[39] la quale, in materia di credito ai consumatori, esclude dal calcolo del T.A.E.G. eventuali penali pattuite in caso di inadempimento facendo altresì riferimento agli interessi di mora.
Sulla scorta di questa interpretazione, un’altra parte della dottrina ritiene che considerare gli interessi ex art. 1815 c.c. come appartenenti alla categoria degli interessi corrispettivi ex art. 1281 c.c. non sia propriamente corretto. È evidente come gli interessi corrispettivi richiedono che il credito sia liquido ed esigibile. Nel mutuo, invece, gli interessi vengono calcolati sul capitale residuo che in quanto tale non è immediatamente esigibile e, di conseguenza dovrà essere pagato alle condizioni indicate nel piano di ammortamento. È evidente che gli interessi ex art.1815 c.c. possono essere considerati come un compenso sul capitale di cui il mutuatario dispone e che il creditore potrà esigere in restituzione solamente rispettando i tempi pattuiti.
Oltre a questo, si consideri che è possibile rapportare l’art. 1815 c.c. con l’art. 1499 c.c.[40]. Quest’ultimo rappresenta l’unica disposizione esistente nella sistematica del Codice civile italiano ove è contenuta l’espressione compensativi e consente di ritenere la conferma circa la natura compensativa degli interessi ex art. 1815 c.c. Il parallelismo tra le due disposizioni è evidente: l’art. 1499 c.c. fa riferimento a una res consegnata dal venditore all’acquirente, mentre nell’art. 1815 c.c. abbiamo una somma di denaro consegnata dal mutuante al mutuatario. Sia la cosa venduta che la somma mutuata producono frutti civili. Oltre a questo, il prezzo della vendita non è ancora esigibile come, allo stesso modo, gli interessi sull’intero capitale residuo non lo sono: lo saranno alle scadenze pattuite nel contratto di mutuo.
Ulteriore conferma circa la natura compensativa degli interessi ex art. 1815 c.c. si rinviene nella relazione ai lavori preparatori del Codice civile. In essa si legge gli interessi compensativi, i quali prescindono dalla mora del debitore (interessi moratori) ed anche dalla semplice scadenza del debito (interessi corrispettivi) appaiono in alcuni casi specificamente previsti (art. 1499, 1815, 1825)[41].
Infine, per facilitare la comprensione circa la differenza tra interessi compensativi e corrispettivi si delineano i tratti caratteristici di ciascuna tipologia di interessi.
Gli interessi compensativi rappresentano una categoria residuale e non individuata in maniera limpida. Detta categoria comprende, al proprio interno, sia delle ipotesi legali tipiche nelle quali la produzione di interessi avviene a prescindere dalla mora e dalla semplice scadenza (art. 1499, 1815, 1825 c.c.) sia viene sfruttata dalla giurisprudenza per comprendervi gli interessi sulle obbligazioni risarcitorie da fatto illecito.
La funzione svolta dagli interessi compensativi è equitativa e consiste nel ristabilire l’equilibrio economico tra i contraenti[42]. In detta direzione è stato osservato in giurisprudenza che gli interessi compensativi sono finalizzati a realizzare un’integrazione del corrispettivo che un soggetto deve ricevere, in quanto ha trasferito ad un terzo la proprietà di un bene produttivo di frutti o proventi, e tuttavia non ha ancora conseguito la prestazione che gli spetta. Detto in altri termini la proposizione giuridica assume questa volta come presupposto per la sua applicabilità, da un lato, il trasferimento della proprietà e la consegna di un bene fruttifero,e, dall’altro il differimento a un momento successivo del pagamento del prezzo cui è tenuto il compratore[43].
Gli interessi corrispettivi trovano la propria fonte nell’art. 1282 co.1 c.c. secondo il quale i crediti liquidi ed esigibili di somme di denaro producono interessi di pieno diritto salvo che la legge o il titolo stabiliscano diversamente. La disposizione proietta sul piano giuridico il principio della naturale fecondità del denaro ossia la concezione per la quale il denaro, inteso come capitale, dalla cui disponibilità o mancanza derivano vantaggi o svantaggi economici. La ratio della norma è quella quindi di assicurare al creditore, a prescindere dal titolo obbligatorio, il pagamento di una somma idonea a servire quale corrispettivo per il mancato godimento del denaro.
La Suprema Corte ha sottolineato che l’art.1282 c.c. è ispirato al riconoscimento della legittimità del principio della remuneratività del capitale denaro (ossia denaro distratto per un determinato tempo dell’ordinario impiego come strumento di scambio) costituente a sua volta corollario della teoria economica o produttività o “fruttuosità” del capitale denaro, ossia della idoneità a produrre reddito in conseguenza dell’impiego in un’unità produttiva. L’interesse è il corrispettivo spettante al creditore di pieno diritto, nel periodo di capitalizzazione (e cioè di non disponibilità) di una somma per l’uso effettivo (o potenziale data la fruttuosità del capitale) della stessa da parte del debitore[44].
I presupposti del sorgere dell’obbligazione avente ad oggetto interessi corrispettivi sono dati dall’esistenza di un credito liquido ed esigibile. È estranea alla concezione della produzione degli interessi corrispettivi la sussistenza o meno della colpevolezza del debitore circa il ritardo nel pagamento della somma dovuta. A tal proposito la Cassazione ha precisato che detti interessi sono dovuti per il vantaggio che il debitore riceve dal trattenere presso di sé somme che avrebbero dovuto versare al creditore e perciò essi decorrono dalla data in cui il credito è divenuto liquido ed esigibile senza che sia necessaria alcuna indagine circa la colpevolezza o meno del ritardo e senza che occorra, da parte del creditore, alcun atto di messa in mora[45].
Recentemente la Cassazione è tornata sul tema relativo alla inclusione o meno degli interessi moratori nell’operazione di calcolo dell’usura. Con la sentenza[46] emessa nel 2019 sostanzialmente gli Ermellini confermano il loro precedente orientamento giurisprudenziale.
Si deve evidenziare, come, in un primo momento, la Suprema Corte riconosca che nei rapporti bancari, gli interessi corrispettivi e moratori contrattualmente previsti vengono percepiti ricorrendo presupposti diversi e antitetici, giacché i primi costituiscono la controprestazione del mutuante e i secondi hanno natura di clausola penale in quanto costituiscono una determinazione convenzionale preventiva del danno da inadempimento. Essi non si possono cumulare. Nonostante questo, ai fini del calcolo del tasso di usura si deve fare riferimento alla somma complessivamente considerata non ai soli punti percentuali aggiuntivi.
Successivamente, richiamando il precedente orientamento giurisprudenziale, ricorda che nei rapporti bancari anche gli interessi convenzionali di mora, al pari di quelli corrispettivi, sono soggetti all’applicazione della normativa antiusura, con la conseguenza che, laddove la loro misura oltrepassi il cd. tasso soglia si configura l’usura oggettiva che determina la nullità della clausola ai sensi dell’art. 1815 co. 2 c.c.
Infine, traccia una distinzione tra la funzione svolta dagli interessi moratori e dalla clausola penale. La Cassazione, a tal proposito, sostiene che gli interessi convenzionali di mora, aventi natura di clausola penale sono applicabili contemporaneamente l’art. 1815 co. 2 c.c. che prevede la nullità della pattuizione che oltrepassi il tasso soglia che determina la presunzione assoluta di usurarietà, ai sensi dell’art. 2 L. 108/96 e l’art. 1384 c.c[47]. Sono infatti diversi i presupposti e gli effetti giacché nel secondo caso la valutazione di usurarietà è rimessa all’apprezzamento del giudice (che solo in via indiretta ed eventuale può prendere a parametro il riferimento T.E.G.M.) e comunque l’obbligazione di corrispondere gli interessi permane, sia pur nella minor misura ritenuta equa[48].
7. Disamina dei profili di incostituzionalità in materia di usura
Le disposizioni appena esaminate mostrano alcuni profili di incostituzionalità. Schematicamente questi aspetti di potenziale incostituzionalità riguardano la regolamentazione dell’usura presunta e concreta. Relativamente alla prima la L. 108/96 rappresenterebbe la cd. norma parzialmente in bianco, mentre, per quanto concerne l’usura concreta il problema è quello della indeterminatezza e non tassatività del precetto. L’usura bancaria presenta anch’essa delle possibili censure di legittimità costituzionale in quanto nella materia de qua è intervenuto il Dl. 394/2000 definito di “interpretazione autentica”.
7.1. Usura presunta: un’ipotesi di norma penale in bianco
La disposizione oggetto di esame è quella contenuta nell’art. 644 co.3 prima parte c.p. la quale prevede che la legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari. Emerge chiaramente come il giudizio circa l’usurarietà o meno della prestazione venga valutato utilizzando come parametro quello del tasso medio praticato per operazioni similari.
La dottrina maggioritaria[49] ritiene che la fattispecie appena descritta rappresenti una norma penale in bianco tout court dato che la individuazione concreta della condotta, rilevante a livello penale, dipende dalla soglia individuata dai decreti presidenziali, mentre per un’altra parte[50] essa costituisce almeno in parte una norma penale in bianco.
La norma penale in bianco viene così definita in quanto la fattispecie contenuta nella disposizione legislativa risulta essere molto generica e, contemporaneamente, la regola di condotta da osservare si rinviene nel provvedimento dell’autorità amministrativa. Il risultato di questa tecnica normativa è che la effettiva determinazione del fatto che costituisce reato viene di fatto individuata dall’autorità amministrativa[51].
La dottrina è divisa circa il contrasto o meno di questa tecnica di normazione con il principio di riserva di legge[52].
Un primo approccio dottrinario[53] ritiene che si debbano distinguere varie ipotesi al fine di decidere se la norma penale definita in bianco possa ritenersi o meno contrastante con il principio di riserva di legge. Sicuramente vi sarebbe contrasto qualora la fonte secondaria dettasse la regola di comportamento da tenere in concreto, se dovesse partecipare alla configurazione del fatto di reato e se infine la stessa legge consentisse alla fonte secondaria di selezionare i comportamenti punibili tra quelli disciplinati da quest’ultima. Il conflitto non si potrebbe rinvenire qualora alla fonte secondaria fosse lasciato il compito di specificare, da un punto di vista strettamente tecnico, gli elementi di fatto già contenuti nella legge che configurano il reato da punire.
Dottrina contrapposta[54] sostiene che le norme penali in bianco possano definirsi contrastanti con il principio di legalità solo e soltanto nell’ipotesi in cui il generale precetto penale rinviasse a fonti secondarie aventi carattere normativo, astratto e generale. A contrario, vi sarebbe compatibilità qualora il precetto penale rinviasse a singoli e concreti provvedimenti dell’Autorità amministrativa. In quest’ultimo caso il provvedimento rappresenterebbe solamente un presupposto del fatto non possedendo carattere normativo generale ed astratto e, di conseguenza, non contribuirebbe a indicare il contenuto precettivo della fattispecie incriminatrice.
La posizione della Corte costituzionale ha subito una progressiva evoluzione circa l’adozione dei criteri utilizzati per ritenere costituzionalmente legittimi i precetti penali integrati da atti amministrativi. In un primo momento la Consulta ha fatto propria la ricostruzione secondo cui l’atto amministrativo rappresenterebbe un mero presupposto di fatto del precetto penale[55]. In seguito, la Corte ha adottato il criterio della “sufficiente specificazione del precetto penale”. In base a questo principio le norme penali in bianco non violano il principio di tassatività quando sia una legge dello Stato a specificare i caratteri, i presupposti, il contenuto e i limiti dei provvedimenti dell’Autorità amministrativa alla cui trasgressione viene riconnessa una sanzione penale[56].
La giurisprudenza costituzionale degli anni ’90, invece, risulta essere più rispettosa della riserva di legge. In una pronuncia la stessa Corte ha dettato tre criteri da utilizzare nella valutazione del contrasto o meno tra norma penale in bianco e riserva di legge. Il primo ritiene che la norma penale in bianco sia rispettosa del dettato costituzionale qualora il precetto venga integrato da elementi necessitanti di specificazione strettamente tecnica. Oltre a questa ipotesi si rispetta la Carta costituzionale qualora il precetto penale possieda una funzione lato sensu sanzionatoria rispetto ai provvedimenti emanati dall’autorità amministrativa a condizione che la stessa legge ne indichi i presupposti, caratteri, contenuto e limiti. Infine, per la Consulta contrasta sicuramente con il principio di riserva di legge il rinvio alla fonte secondaria per la determinazione degli elementi essenziali dell’illecito[57].
Tornando all’art. 644 co. 3 prima parte c.p. la Cassazione ritiene che nel caso di specie la tecnica del rinvio ai decreti ministeriali non sia suscettibile di violare il principio della riserva di legge. La Suprema Corte evidenzia che la legge indica in modo estremamente preciso ed analitico il procedimento da adottare al fine di determinare i tassi soglia. Oltre a ciò evidenzia come lo scopo del procedimento sia solamente quello di “fotografare” l’andamento dei mercati finanziari utilizzando rigorosi criteri tecnici[58].
Una parte della dottrina sostiene che l’aspetto maggiormente problematico concerne il rapporto tra normale penale e tassatività del precetto. Risulta lampante come la rilevazione trimestrale dei tassi di interessi contenuta nei decreti ministeriali contenga ampi margini di discrezionalità che si traducono a loro volta in margini ampi di incertezza applicativa della norma. A tal proposito si devono prendere in esame due aspetti.
Il primo riguarda il fatto che la classificazione delle operazioni in relazione alle quali si deve effettuare la rilevazione del tasso medio effettivo è demandata interamente all’Autorità amministrativa ed è estremamente discrezionale. In modo identico risulta essere discrezionale la modulazione delle categorie omogenee individuata mediante l’utilizzazione dei criteri dell’importo, della durata dei finanziamenti o delle garanzie prestate in ragione del rischio.
Il secondo concerne l’attività di rilevazione del TEGM. La legge non indica i criteri matematici da seguire per il calcolo della media nonostante il fatto che ricorrere ad un metodo piuttosto che ad un altro non sia indifferente in quanto i risultati prodotti sono diversi tra di loro.
Alla luce di tutto questo è chiaro come gli elementi appena indicati influiscano in modo diretto sulla determinazione della soglia e di conseguenza incidono sulla individuazione concreta degli elementi costitutivi[59].
La disposizione oggetto di analisi evidenzia l’aspetto della crisi della riserva di legge che si verifica nell’ipotesi di integrazione della fattispecie penale attraverso il contributo di fonti subordinate[60].
Si deve rammentare come la riserva di legge assolva essenzialmente a due funzioni. La prima riguarda la garanzia circa il procedimento di formazione il quale sarebbe a sua volta rispettoso del principio di democraticità. Si rinviene altresì un’altra garanzia, che si potrebbe definire sostanziale. Secondo quest’ultima la tutela offerta dal meccanismo della riserva di legge è quella di affidare al Parlamento, ossia l’organo costituzionale legittimato a livello democratico, la scelta sia dei beni giuridici da tutelare sia le modalità di detta tutela[61].
Al di là della questione della norma penale in bianco si è rivenuta un’altra criticità. Dottrina minoritaria[62] ha sostenuto come la fattispecie dell’usura presunta possa essere qualificata come reato di pericolo astratto. Questa categoria di reati, ai fini della propria configurazione, richiede che, sulla scorta di regole di esperienza, al compimento di certe azioni si accompagni l’insorgere di un pericolo. In altre parole, il legislatore tipizza solamente una condotta, dal compimento di questa tipicamente o generalmente deriva quale conseguenza la messa in pericolo di un determinato bene. Al giudice è demandato solamente il compito di verificare la condotta posta in essere, una volta che abbia accertato quest’ultima egli non deve svolgere indagini in relazione alla messa in pericolo del bene[63].
Emerge, di conseguenza, un ulteriore obiezione circa il profilo costituzionale. Il problema principale è che questo modello di illecito è caratterizzato dalla circostanza per cui viene tipizzata una condotta la quale, a sua vola, viene assunta, secondo regole di esperienza, come pericolosa. Vi possono essere dei casi nei quali il giudizio svolto in conformità alle regole di esperienza si possa rilevare non corretto, quindi che all’azione vietata non si accompagni il pericolo. In questo aspetto una parte della dottrina rinviene la problematica della illegittimità costituzionale dei reati di pericolo astratto. Il legislatore mediante l’introduzione di illeciti così costruiti non sarebbe rispettoso del principio di necessaria lesività il quale comprende sia la lesione sia la concreta messa in pericolo del bene protetto[64].
Se questi sono i profili suscettibili di essere considerati come contrastanti con il dettato costituzionale ci si deve chiedere quale sia la sorte dei provvedimenti amministrativi (rectius decreti ministeriali di rilevazione del Tegm) qualora dovessero contrastare con la disposizione che li richiama. L’assunto evidente è che Mef/ Banca d’Italia non possono violare la legge sui punti in cui quest’ultima ha imposti vincoli precisi applicando il principio di gerarchia delle fonti. Di conseguenza il Tegm deve essere composto, per espressa previsione di legge da: commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e spese.
Nonostante questa sia la previsione di legge nella prassi Banca d’Italia non ha incluso voci di costo che sarebbero dovute confluire nel costo complessivo dell’operazione violando in questo modo l’art. 644 co. 4 c.p[65]. Questa mancata inclusione del tasso medio da parte delle Istruzioni di Banca d’Italia ha prodotto quale effetto in una sottostima del costo del credito (TEG) creando una elusione del tasso di soglia. Quello che sostanzialmente è accaduto è che i decreti ministeriali hanno ignorato voci di costo ai fini della verifica della legalità del tasso: in pratica l’organo tecnico ha elaborato un tasso soglia in palese contrasto e violazione della norma penale[66].
Si deve segnalare come la giurisprudenza di merito non concordi nel qualificare le istruzioni della Banca d’Italia come provvedimenti amministrativi. Precisamente il Tribunale di Milano definisce le istruzioni di banca d’Italia come norme tecniche autorizzate e per questo vincolanti senza valutare la conformità della norma secondaria a quella primaria. Il Tribunale di Treviso ritiene che le istruzioni in questione non sono meri atti amministrativi ma atti aventi una valenza normativa vincolante per il giudice. Queste argomentazioni non convincono in quanto le Istruzioni sono atti amministrativi, privi di valore normativo, che non possono vincolare altri che i suoi destinatari, ossia gli intermediari[67].
Posta questa precisazione si può ora rispondere alla domanda posta in precedenza. Una prima risposta sarebbe quella di impugnare detti decreti avanti al giudice amministrativo al fine di ottenere l’annullamento degli stessi con efficacia erga omnes. Questa soluzione contiene al suo interno due problematiche. In primis è impossibile impugnare i decreti ministeriali emessi in passato dato che è decorso il termine utile per proporre impugnazione. In secundis, qualora in sede di giudizio il giudice amministrativo dovesse ritenere legittimo il provvedimento dinnanzi a lui impugnato affermandone quindi la validità con efficacia di giudicato questo impedirebbe la disapplicazione ad opera dei giudici ordinari[68].
La seconda soluzione che si intende prospettare risulta essere maggiormente utile. Si deve richiamare, a tal proposito, l’Allegato E L. 2248/1865[69] e in particolare due articoli dello stesso: l’art. 4 e 5.
L’art. 4 prevede che durante un giudizio in cui l’atto amministrativo viene sindacato in via principale poiché ritenuto lesivo di un diritto soggettivo, l’autorità giudiziaria, su istanza di parte, ha solamente il potere di dichiararlo illegittimo con efficacia inter partes. Di conseguenza la pronuncia dell’autorità giudiziaria non avrà l’effetto di annullare, modificare, revocare con efficacia erga omnes l’atto da questa sindacato. Detto articolo però non si adatta al caso di usura bancaria. I decreti del Mef hanno rilevanza solamente come atti amministrativi intra-procedimentali costituendo solamente un antecedente e assumendo rilevanza solo in via incidentale[70].
L’art. 5 è quello che risulta essere risolutivo. Detta disposizione consente al giudice ordinario (civile o penale) di disapplicare i provvedimenti amministrativi illegittimi. In pratica al giudice è consentito di decidere il caso davanti a lui prospettato, durante la risoluzione della controversia insorta tra privati, come se quel determinato atto non esistesse all’interno di quel determinato processo nonostante continui ad esistere all’esterno[71].
Qualora i decreti Mef dovessero essere ritenuti contrastanti con il dettato legislativo la loro disapplicazione dovrebbe avvenire per due ordini di motivi. In primo luogo, potrebbero essere disapplicati per violazione di legge qualora il giudice ordinario ritenesse esistente il contrasto tra i decreti e l’art. 2 L.108/96. In secondo luogo, potrebbe il giudice potrebbe rinvenire l’eccesso di potere qualora ritenesse esistente in capo al Mef e alla Banca d’Italia una discrezionalità tecnica.
7.2. Integrazione del precetto penale ad opera di fonti secondarie
A questo punto risulta necessario affrontare il problema circa l’integrazione del precetto penale ad opera di fonti secondarie poiché la tipologia della norma penale in bianco rappresenta un esempio di integrazione ad opera di meri atti amministrativi. Questo profilo pone anch’esso problemi con il rispetto della riserva di legge codificata nell’art. 25 co.2 Cost. che enuncia che nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. In detta disposizione la dottrina rinviene il fondamento del principio di legalità nell’ambito penalistico.
Il principio di legalità implica che le singole regole di condotta, nonché le sanzioni contemplate in caso di loro violazione siano specificate da fonte legislativa con caratteri di generalità e astrattezza anteriormente alla realizzazione del fatto.
Le funzioni assunte da detto principio risultano essere molteplici quali descrivere il monopolio del Parlamento nazionale sulla formazione della legge, in secondo luogo come irretroattività della norma penale più sfavorevole all’autore, in terzo luogo come precisione e pregnanza del precetto e dalla sanzione (determinatezza) sotto il duplice profilo della precisa individuazione di tutti gli elementi costitutivi e della corrispondenza tra il fatto tipico e una esperienza di vita concretamente verificabile, in quarto luogo come tassatività sotto il duplice profilo del divieto per il giudice di estendere analogicamente il precetto e la sanzione prevista dalla legge e dell’obbligo per il legislatore di evitare clausole che facoltizzino l’analogia[72].
Stando a questa definizione dottrinaria è evidente come la legge penale dovrebbe essere frutto del procedimento descritto dagli art. 70-74 Cost. Nonostante questa sia la posizione dottrinaria la prassi dimostra come spesso si assista a interventi in materia penale mediante decreto-legge e decreto legislativo. A tal proposito la stessa Corte costituzionale ha sostenuto come il principio di legalità sia rispettato anche quando la materia sia regolata da leggi delegate o decreti-legge[73].
Si tratta di un orientamento costante e ripreso anche in altre sentenze aventi ad oggetto la delimitazione dei rapporti tra legge penale e fonti subordinate alla medesima. In particolare, la Consulta precisa che si ritiene soddisfatto il principio di legalità sotto il profilo della riserva di legge allorquando la legge determina con sufficiente specificazione il fatto cui è riferita la sanzione penale. In corrispondenza della ratio garantista della riserva di legge, è infatti necessario che la legge consenta di distinguere la sfera del lecito e quella dell’illecito, fornendo a tal fine un’indicazione normativa sufficiente ad orientare la condotta dei consociati[74].
Per quanto concerne il possibile rapporto in materia penale tra legge e regolamento governativo di esecuzione ossia regolamenti che danno esecuzione a leggi e decreti legislativi[75] ci si è posti il problema se questi ultimi siano ammissibili.
Secondo una prima corrente di pensiero questi non potrebbero integrare e disciplinare la materia penale. Il punto di partenza è che solo la legge può prevedere nuovi reati ex art. 25 co. 2 Cost. Tesi opposta ritiene che la riserva di legge sia un principio relativo e come tale idonea a percepire qualsiasi atto normativo qualora questo sia utile a disciplinare la materia penale. Seguendo detto ragionamento anche i regolamenti governativi possono costituire, modificare o estinguere reati senza che corrano il rischio di entrare in conflitto con la riserva di legge.
Tra questi due approcci se ne rinviene uno intermedio e maggiormente adottato in dottrina. Questo terzo orientamento sostiene che la riserva di legge debba essere interpretata in maniera tendenzialmente assoluta. Si parte dalla considerazione secondo cui è proprio la ratio della riserva di legge a prevedere che debba essere proprio la legge a disciplinare una materia estremamente delicata come quella penale. Se questo è vero si deve ammettere anche che in alcuni casi sia ammissibile una integrazione tecnica, più o meno ampia, favorevole al contenuto della legge penale e che avvenga ad opera del regolamento governativo definito in questo caso di stretta esecuzione. A volte capita come il dibattito parlamentare non risulti idoneo a costruire in modo estremamente dettagliato le figure delittuose in quanto i redattori della legge non possiedono conoscenze tecniche utili per definire le condotte che definiscono il reato[76].
In relazione al rapporto tra legge e provvedimento amministrativo è lo stesso giudice delle leggi a sostenere che non contrasta con il principio della riserva la funzione svolta da un provvedimento amministrativo rispetto ad elementi normativi del fatto, sottratti alla possibilità di un’anticipata indicazione particolareggiata da parte della legge, quando il contenuto dell’illecito sia peraltro da essa definito[77].
All’interno della problematica delle norme integratrici il precetto penale si innesta il Dl. 70/2011 attraverso il quale si è attuata una parziale modifica della L.108/1996. In particolare, detto decreto-legge ha modificato l’art. 2. L. 108/1996 prevedendo che il tasso medio che risulta dall’ultima pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e relativa alla categoria di operazioni in cui il credito è compreso viene aumentato di un quarto cui si aggiunge un margine di ulteriori quattro punti percentuali. La precedente previsione, quindi ante Dl. 70/2011, prevedeva che il tasso medio come risultante dall’operazione appena descritta venisse aumentato della metà.
Tutto ciò apre le porte alla riflessione circa la successione di leggi integratrici di elementi normativi della fattispecie. A tal fine è necessario premettere alcune osservazioni. Il legislatore nella configurazione delle fattispecie criminose utilizza elementi naturalistici e normativi. I primi fanno riferimento a una realtà fenomenica, i secondi tratteggiano il fatto di reato facendo riferimento alle disposizioni, siano esse giuridiche[78] o extragiuridiche.
Le tecniche principali utilizzate dal legislatore e rispettose del principio di tassatività sono quella di normazione descrittiva e quella di normazione sintetica. La prima utilizza i termini che alludono alla realtà empirica al fine di descrivere la fattispecie di reato, la seconda utilizza elementi normativi rinviando ad una fonte esterna rispetto alla fattispecie incriminatrice quale parametro per la regola di giudizio da applicare.
Qualora venga utilizzata la tecnica di normazione descrittiva è necessario che sia rinvenibile una descrizione intellegibile della fattispecie astratta, questo requisito è soddisfatto quando nelle norme penali vi sia riferimento a fenomeni la cui possibilità di realizzarsi sia stata accertata in base a criteri che allo stato delle attuali conoscenze appaiono verificabili[79].
Gli elementi normativi possono essere definiti come quegli elementi che necessitano per la determinazione del loro contenuto di una etero-integrazione mediante il rinvio a una norma diversa da quella incriminatrice. Questi elementi normativi possono possedere carattere giuridico o extragiuridico. I primi sono rispettosi del principio di tassatività poiché la norma giuridica che gli stessi richiamano è individuabile senza alcuna difficoltà. Come esempio si faccia riferimento alle disposizioni civilistiche necessarie per definire il concetto di cosa altrui per il delitto di furto. Se si tratta di elementi normativi extragiuridici ossia rinvianti a norme sociali o di costume il parametro di riferito diviene incerto e sfumato. È evidente come i Wertbegriffe (elementi normativo-sociali) siano contrastanti con il principio di tassatività tutte le volte in cui non si riesca a individuare il parametro normativo o questo non abbia un significato univoco nel contesto sociale[80].
Alla luce di detta premessa l’interrogativo concerne l’applicabilità dell’art. 2 c.p. alle modifiche normative che incidono sulla fattispecie incriminatrice solamente in maniera indiretta o mediata.
La modifica legislativa indicata poco prima spiega i propri effetti nel campo del diritto penale. È evidente che il nuovo meccanismo predisposto per calcolare il tasso soglia esclude l’esistenza del delitto di usura in tutte quelle situazioni in cui l’interesse pratico non sia superiore ai parametri contenuti nel Dl. 70/2011. L’attenzione del penalista concerne quindi l’efficacia temporale della nuova disciplina di favore posta in relazione ai fatti commessi durante la precedente disciplina legislativa.
Sul punto si è pronunciata la Suprema Corte sancendo l’irretroattività della disciplina favorevole sulla scorta di due motivazioni sostanzialmente. La prima concerne l’esclusione circa la natura integratrice della norma extrapenale in successione. Nel caso di specie gli Ermellini hanno ritenuto che il Dl. 70/2011 ha solo apportato delle modifiche circa i criteri di rilevazione del tasso soglia. Per costante giurisprudenza detto cambiamento non incide sulla norma incriminatrice ma su una fonte diversa da quella penale avente carattere di temporaneità senza eliminare l’illiceità della condotta in maniera oggettiva. In proposito è la stessa Corte a sostenere che il principio espresso dall’art. 2 c.p. troverebbe applicazione solo nella diversa ipotesi in cui la nuova disciplina, anziché limitarsi a regolamentare diversamente i presupposti per l’applicazione della norma penale, modificando i criteri del tasso soglia, avesse escluso l’illiceità oggettiva della condotta[81]. Oltre a questo, gli stessi giudici di legittimità definiscono i criteri di determinazione del tasso soglia possiedono una natura meramente formale. Da questa qualificazione si esclude che gli stessi attengano all’ambito sostanziale dell’illecito penale e che, di conseguenza, le modifiche poste in essere non avrebbero alcuna incidenza circa le condotte poste in essere prima della novella del 2011 in quanto le stesse sarebbero ugualmente sanzionate.
La seconda poggia sulla considerazione secondo cui la riforma attuata nel 2011 non persegua lo scopo di attenuare il valore negativo circa il fatto posto in essere durante la vigenza del Dl. 108/1996. Per la Cassazione il fatto che le modifiche apportate con Dl. 70/2011 siano limitate solamente alla modifica dei criteri per rilevare il tasso soglia e la mancanza di norme transitorie non sia casuale. Entrambi questi “dati” indicherebbero la volontà del legislatore di rendere applicabile la modifica solo alle condotte poste in essere in seguito alla sua entrata in vigore senza intaccare il significato offensivo delle condotte precedentemente compiute.
Alla pronuncia appena analizzata parte della dottrina ha mosso delle critiche poiché la modifica apportata nel 2011 si configura come una fonte del diritto primaria, indifferente a variabili di tipo temporale o economico che descrive un meccanismo di predeterminazione legale diretto a guidare l’interprete nell’individuazione degli interessi usurari. Con detta modifica il legislatore ha inciso in maniera diretta sulla normativa primaria che viene richiamata dall’art. 644 c.p. in quanto ha provveduto a modificare il meccanismo di calcolo circa il limite oltre il quale gli interessi sono considerati usurari. È evidente che il correttivo apportato incide sull’operazione matematica con la quale si calcola il tasso di soglia.
Seguendo quest’ultima ricostruzione ci si troverebbe dinnanzi a una successione di norme extrapenali incriminatrici alle quali si possono applicare i criteri contenuti nell’art. 2 c.p. Oltre a questo l’intervento legislativo avrebbe sostanzialmente modificato l’area operativa del delitto di usura. Alla conclusione appena esposta si può arrivare attraverso due diverse interpretazioni circa il delitto di usura[82].
Una prima interpretazione ritiene che l’art. 644 c.p. sia definibile come una norma penale in bianco. Il precetto di detto delitto è intimamente collegato e connesso con la nozione di interesse usurario, di conseguenza il primo si completa solo attraverso il rinvio alla disciplina extrapenale. In questo caso le norme che sono preposte a individuare la soglia sarebbero delle vere e proprie norme integratrici del precetto penale[83].
Il secondo ragionamento fa leva sulla considerazione secondo cui la descrizione della condotta vietata dalla legge penale è connessa alla determinazione legale della soglia di usurarietà degli interessi. Qualora cambiasse quest’ultima definizione si assisterebbe ad un mutamento della definizione di interesse usurario stesso[84].
Ultima riflessione circa la sentenza della Suprema corte concerne l’eventuale contrasto tra quest’ultima e la costante giurisprudenza sovranazionale Si deve ricordare che il principio di retroattività favorevole è stato codificato nell’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e che lo stesso è presente nella giurisprudenza della Corte Edu. Alla luce di queste considerazioni sarebbe preferibile abbandonare la soluzione adottata dalla Cassazione italiana al fine di adottare una interpretazione idonea a valorizzare il meccanismo della successione delle leggi penali nel tempo.
7.3. Usura in concreto: problemi di determinatezza della norma penale
La seconda parte dell’art. 644 co. 3 c.p. recita che sono altresì usurari gli interessi, anche se inferiori a tale limite, e gli altri vantaggi o compensi che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni similari risultano comunque sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero all’operazione di mediazione, quando chi li ha dati o promessi si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria.
I dubbi sollevati dalla dottrina concernono il rispetto della disposizione de qua dei principi costituzionali di determinatezza o tipicità della norma penale alla luce della libera discrezionalità concessa al giudice. Quest’ultimo, stando al dettato letterale, godrebbe di libertà circa la determinazione di concrete modalità del fatto e operazioni similari con le quali confrontare il tasso medio praticato nel caso davanti a lui pendente.
Il principio di determinatezza della fattispecie penale trova le sue radici nell’art. 25 co.2 Cost. quale corollario del principio di legalità[85]. Il primo si ritiene rispettato quando il legislatore descrive condotte suscettibili di verifica empirica e, conseguentemente, di verifica ed accertamento in sede processuale[86]. Gli obiettivi fondamentali perseguiti dal principio di determinatezza sono per un verso nell’evitare che, in contrasto con il principio di divisione dei poteri e con la riserva assoluta di legge in materia penale, il giudice assuma un ruolo creativo, individuando, in luogo del legislatore, i confini tra l’illecito e il lecito; e, per un altro verso, nel garantire la libera autodeterminazione individuale, permettendo al destinatario della norma penale di apprezzare a priori le conseguenze giuridico-penali della propria condotta[87].
Per costante giurisprudenza costituzionale si può sostenere che il principio di determinatezza possa dirsi rispettato qualora non si valuti il singolo elemento della fattispecie penale ma questo sia letto ed interpretato unitamente ad altri elementi costituitivi della fattispecie nonché con la disciplina cui la fattispecie fa riferimento. Da questo deriva che l’inclusione nella formula descrittiva dell’illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti “elastici” non comporta un vulnus del parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice, avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione e al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca, di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dell’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione chiara ed immediata del relativo valore precettivo[88].
Risulta essere chiara la correlazione tra principio di determinatezza e colpevolezza. Quest’ultima rappresenta la componente psicologica del reato e affinché possa dirsi integrata è necessario che sia possibile rinvenire un nesso di collegamento tra l’autore del reato e il fatto di reato. Si tratta di un requisito applicabile tanto alla causalità psicologica tanto a quella materiale. Oltre a ciò la conoscibilità del precetto, elemento della colpevolezza intesa in senso normativo, rappresenta la precondizione necessaria affinchè l’intero sistema delle incriminazioni possano svolgere la propria funzione[89]. La stessa Consulta ha chiarito che la correlazione tra principio di colpevolezza e determinatezza risulta essere indispensabile per garantire al privato la certezza di libere scelte d’azione: per garantirgli, cioè, che sarà chiamato a rispondere personalmente solo per azioni da lui controllabili[90].
Si deve sottolineare come il principio di determinatezza abbia riflessi anche sul piano del diritto processuale penale. Partendo dal presupposto che “obbligatorietà dell’azione penale” significa che il pubblico ministero ha l’obbligo di chiedere il rinvio a giudizio solo e soltanto quando rinvenga che è stato commesso un fatto previsto dalla legge come reato è chiara la correlazione. Se la fattispecie incriminatrice di riferimento risulta essere indeterminata, di conseguenza anche il parametro utilizzato per verificare la sussistenza o meno del reato risulterà essere impreciso. Ulteriore riflesso è quello che si ha sul diritto di difesa. Quest’ultimo verrebbe privato di precettività dato che verrebbe a mancare la contestazione del fatto in maniera chiara e precisa in capo al pubblico ministero. In assenza di una contestazione chiara e precisa lo stesso diritto di difendersi provando rimane una semplice affermazione di principio.
Infine, tutto ciò si riflette sulla sentenza: lo stesso diritto processuale richiede che vi sia corrispondenza tra accusa e sentenza e che l’imputazione ab origine sia chiara e precisa quindi determinata. L’obbligo di motivazione delle sentenze pretende l’esistenza di norme penali determinate altrimenti detta garanzia risulterebbe essere vana in quanto l’obbligo in questione potrebbe essere assolto mediante il ricorso a clausole di stile[91].
Una parte minoritaria della dottrina[92] ha sottolineato come l’indeterminatezza derivi a sua volta dal modello di pericolo concreto previsto nell’ipotesi di usura in concreto, mentre, l’usura in astratto costituirebbe un’ipotesi di reato di pericolo astratto. L’elemento comune di queste species di reati è che sono entrambi di pericolo, ossia la condotta criminosa comporta la sola e semplice messa in pericolo del bene giuridico assunto quale oggetto di tutela penale. I reati di pericolo concreto sono ideati come rilevante possibilità di verificazione di un evento temuto. In essi rappresenta un elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice lo stesso pericolo il cui accertamento è rimesso al giudice il quale dovrà individuarlo in concreto[93].
È stato messo in luce come la scarsa determinatezza della norma penale de quo sarebbe in contraddizione con quelle che erano le intenzioni legislative della riforma cioè, da una parte, realizzare un maggior rigore nella definizione dell’illecito, dall’altra parte ridurre gli ambiti di valutazione in sede giudiziaria[94].
7.4. Decreto-legge di interpretazione autentica
L’ultimo profilo da esaminare in termini di ammissibilità costituzionale è rappresentato dall’emanazione del Dl. 394/2000 definito dallo stesso “legislatore” di interpretazione autentica.
Per interpretazione giuridica si fa riferimento all’operazione mediante la quale si attribuisce un significato ad un fatto giuridico[95]. Questa operazione non ha solamente l’obiettivo di attribuire un significato a documenti o testi giuridici ma anche quello di sviluppare delle linee guida per l’azione pratica il tutto mantenendo e rendendo operative nella società norme, precetti e valutazioni normative[96].
Una species del genus interpretazione della legge è l’interpretazione autentica per tale intendendosi quella resa dall’autore della legge e di conseguenza contrapposta all’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale. L’aspetto caratteristico dell’interpretazione autentica è quello di provenire da una determinata e particolare autorità definibile come “autrice dell’atto” e, come tale, risulta essere la più idonea a chiarirne il significato[97].
All’interno dell’ordinamento nazionale l’interpretazione autentica possiede una efficacia particolare anche se viene approvata da un soggetto che non è detto corrisponda all’autore materiale dell’atto-legge. Quando si tratta di interpretazione autentica della legge non vi è corrispondenza assoluta tra autore dell’atto e interprete dell’atto stesso. Gli organi che possiedono il potere di legiferare sono coloro i quali che possono procedere a interpretare in modo autentico un documento legislativo e questo a prescindere dal fatto che si tratti del medesimo organo che ha realizzato l’atto legislativo[98]. Aderendo a questa interpretazione diviene consolidato l’orientamento che definisce come autentica l’interpretazione qualora che non solo veda come soggetto agente il legislatore ma che possa ritenersi connessa con l’esercizio della funzione legislativa[99].
L’istituto dell’interpretazione autentica non trova nessun riferimento espresso all’interno della Carta costituzionale. Lo Statuto Albertino, invece, prevedeva la possibilità solamente per il potere legislativo di interpretare la legge allo scopo di rendere detta interpretazione obbligatoria per tutti (art. 73). La non menzione nel testo costituzionale dell’ammissibilità dell’interpretazione autentica ha indotto la dottrina a interrogarsi circa la compatibilità costituzionale dell’istituto.
Il risultato a cui è giunta la riflessione dottrinaria è stato quello di ritenere costituzionalmente conforme detta interpretazione in quanto esercizio della funzione legislativa. È stato sottolineato, infatti, che nonostante nella Costituzione si menzioni solamente l’atto-legge sotto un profilo meramente formale il Parlamento può adottare anche leggi che non abbiano le caratteristiche della generalità, astrattezza e innovatività. L’esperienza dimostra che vi sono leggi di sanatoria, leggi-provvedimento e leggi interpretative che si configurano come estrinsecazione naturale della funzione legislativa. Queste ultime, così considerate, non risultano essere contrastanti con il profilo di inammissibilità in quanto risultano essere rispettose degli art. 70 e ss e art. 121 Cost[100].
Se questa risulta essere la dottrina maggioritaria si deve ricordare come una parte minoritaria ritenga che l’interpretazione autentica appare, sul piano costituzionale, in uno stato come il nostro, organizzato democraticamente, del tutto illegittima e inopportuna. I redattori della Costituzione vigente, distaccandosi dai precedenti storici, vollero, con il silenzio serbato, dimostrare che l’istituto deve considerarsi ignorato nel nostro sistema[101]. Oltre a questo vi è anche chi sostiene come sia un grave errore il supporre che la potestas legiferandi comprenda, quasi a fortiori, anche nello Stato moderno la potestas interpretandi perchè non limitarsi a dire semplicemente e puramente che la volontà del legislatore è sovrana, sia o meno in contrasto con la giurisprudenza concorde o quasi concorde e che non si può ammettere un limite alla sua possibilità di disporre in modo retroattivo?[102]
Nonostante questa corrente dottrinaria la giurisprudenza costituzionale fa proprio l’indirizzo maggioritario considerando costituzionalmente ammissibile l’interpretazione autentica. Oltre a questo, la giurisprudenza costante della Consulta ritiene altresì che le leggi in questioni non violino il principio di irretroattività previsto dall’art. 11 co. 1 delle Preleggi[103] e reso costituzionale limitatamente alla materia penale dall’art. 25 Cost[104].
Nelle pronunce in materia si rinviene come la stessa Corte costituzionale indichi le condizioni necessarie affinché una legge possa definirsi di interpretazione autentica.
In primo luogo la Giurisprudenza richiede che la norma di interpretazione autentica sia adottata solo ed esclusivamente in presenza di una situazione di grave incertezza normativa[105] o di esistenza di contrasti giurisprudenziali[106]. Altre ipotesi ritenute ammissibili considerano necessario e quindi legittimo l’intervento del legislatore qualora quest’ultimo intervenga al fine di evidenziare uno dei possibili significati che si possono rinvenire dalla disposizione interpretata[107] oppure qualora l’intervento sia giustificato per contrastare il diritto vivente sfavorevole formatosi[108].
Il secondo limite posto dal giudice costituzionale alla funzione legislativa-interpretativa autentica è stato quello di rendere non più attaccabile il giudicato formatosi con una legge di interpretazione autentica e di vietare la possibilità di rendere applicabile detta legge nei giudizi pendenti davanti all’autorità giudiziaria[109]. Si tratta di due corollari del principio di separazione dei poteri e dell’obbligo di rispettare ed osservare le reciproche attribuzioni costituzionali[110]. Posto che la legge di interpretazione autentica possiede necessariamente efficacia retroattiva la Corte ha dovuto precisare che in relazione al rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario la retroattività della norma reca un vulnus alle stesse, quando travolge gli effetti delle pronunce divenute irrevocabili e nel caso in cui la disposizione non stabilisce una regola astratta ma mira a risolvere specifiche controversie[111].
Infine, la stessa Corte, come detto in precedenza, ammette la possibilità che una legge di interpretazione autentica abbia effetto retroattivo incontrando la stessa l’unico limite dell’art. 25 co. 2 Cost. È ammessa l’efficacia retroattiva della legge de qua a condizione che questa sia adottata al fine preservare i principi di certezza del diritto, di legittimo affidamento dei cittadini. Su questo punto la Consulta ha precisato che il legislatore può adottare disposizioni che modifichino in senso sfavorevole per i beneficiari la disciplina dei rapporti di durata a condizione che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti l’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello Stato di diritto[112].
Se queste riflessioni si riferiscono alla legge ordinaria formale intesa come prodotto della funzione legislativa ex art. 70 Cost. ci si chiede se si possano riferire anche ad atti legislativi qualificati come atti aventi forza di legge. In altri termini ci si chiede se sia ammissibile e compatibile con la Costituzione l’emanazione di un decreto-legge di interpretazione autentica. La riflessione deve svolgersi su due piani. Un primo piano attiene al rispetto della disciplina costituzionale in materia dei decreti-legge ossia il rispetto dell’art. 77 Cost[113]. Un secondo piano concerne la possibilità per un decreto-legge di produrre gli stessi effetti che si è soliti ricondurre alla legge interpretativa.
Relativamente al secondo profilo la Cassazione[114] ha ritenuto che il decreto-legge di interpretazione autentica non sia strumento idoneo a produrre gli effetti propri di una legge di interpretazione autentica fino a quando lo stesso decreto non venga convertito in legge. Questo indirizzo non tiene in considerazione la pari ordinazione alla legge del decreto-legge e del decreto legislativo[115].
Posto che non si ritiene condivisibile l’orientamento della Suprema Corte, l’opinione di chi scrive è che siano ammissibili dei decreti-legge di interpretazione autentica a condizione che siano rispettate una serie di condizioni. Queste ultime si ricavano leggendo in combinato disposto la disciplina costituzionale dei decreti-legge e la giurisprudenza costituzionale formatasi in materia di legge di interpretazione autentica. Il risultato sarebbe un decreto-legge realmente rispettoso sia del dettato dell’art. 77 co. 2 Cost. ossia adottato dal Governo ed emanato successivamente dal Presidente della Repubblica al fine di fronteggiare una situazione straordinaria di necessità ed urgenza sia degli ulteriori limiti e condizioni elaborati dalla giurisprudenza costituzionale.
Per portare un esempio concreto si pensi al Dl. 6.2.2009 adottato dal Consiglio dei ministri ma non emanato dall’allora Presidente della Repubblica Napolitano in relazione al Caso Englaro. Il Governo adottava detto atto avente forza di legge in concomitanza con l’inizio della procedura di distacco dell’alimentazione autorizzata dalla Corte d’Appello di Milano. Prima di rifiutare l’emanazione del decreto de quo il Presidente della Repubblica indicava le ragioni che ostavano all’adozione del decreto mediante lettera privata indirizzata al Presidente del Consiglio. Tra esse se ne riportano due. La prima concerneva la totale inesistenza dei presupposti dell’art. 77 co.2 Cost. La seconda si richiamava all’esigenza di garantire la distinzione tra i poteri dello Stato poiché la decisione circa l’interruzione dell’alimentazione era contenuta in una sentenza della Cassazione divenuta definitiva in quanto pronunciata in sede di ricorso ex art. 111 Cost[116].
Il decreto appena portato ad esempio risulta essere totalmente contrastante sia con l’art. 77 co.2 Cost. sia con i limiti rinvenuti dalla Corte costituzionale.
Analizzando ora gli eventuali profili di incompatibilità tra il Dl. 394/2000 rispetto alla Carta costituzionale si deve sottolineare come quest’ultimo sia stato ritenuto conforme a Costituzione dalla stessa Consulta. Alcuni dei profili di illegittimità del decreto sottoposti al vaglio della Corte riguardavano: dichiarare che il Dl.394/2000 violi l’art. 77 co. 2 Cost., dichiarare che esso risulti ledere il legittimo affidamento ed infine che contrastasse con il canone della ragionevolezza.
La Corte costituzionale ha rigettato[117] tutti i profili di illegittimità costituzionalità appena menzionati.
In primo luogo la Corte ritiene che, in relazione alla violazione dell’art. 77 co.2 Cost., gli eventuali vizi attinenti ai presupposti della decretazione d’urgenza devono ritenersi sanati in linea di principio dalla conversione in legge e che deve comunque escludersi che nella specie si versi in ipotesi di macroscopico difetto dei presupposti della decretazione[118].
Relativamente al secondo profilo denunciato, il Giudice delle leggi ricorda che per giurisprudenza consolidata di questa Corte non può ritenersi precluso al legislatore adottare norme che precisino il significato di precedenti disposizioni legislative, pur a prescindere dall’esistenza di una situazione di incertezza nell’applicazione del diritto o di contrasti giurisprudenziali a condizione che l’interpretazione non collida con il generale principio di ragionevolezza[119].
Infine ritiene inammissibile la censura circa il difetto di ragionevolezza poiché la norma risulta essere dettata dalla necessità di ricondurre ad equità in maniera generalizzata, ed indipendentemente dall’eventuale esercizio di azioni giudiziarie, i contratti di mutuo a tasso fisso divenuti eccessivamente onerosi in danno dei mutuatari, per effetto dell’eccezionale caduta dei tassi di interessi verificatasi nel biennio 98-99[120].
8. Conclusioni
Il delitto di usura può essere definito come un esempio paradigmatico e un buon esercizio per analizzare la problematica della carenza dei principi costituzionali applicati alla materia penale.
Si pensi al principio di legalità dell’art. 25 co.2 Cost. che si ritiene rispettato, sia per costante giurisprudenza costituzionale sia per la dottrina maggioritaria, qualora la disciplina sia contenuta in un decreto legislativo o in un decreto-legge. E si deve anche evidenziare come la maggior parte delle riforme, in particolare in tema di usura, vengano avanzata mediante la decretazione d’urgenza. Si è arrivati addirittura a adottare un decreto-legge definito di “interpretazione autentica”. Tutto questo evidenzia il fenomeno della fuga dalla legge ordinaria per approdare a fonti primarie diversa da questa.
Concludo con una frase di Carnelutti che credo sia estremamente rappresentativa del mio pensiero. Più cresce il numero delle leggi giuridiche e più diminuisce la possibilità della loro ed accurata e ponderata formazione. La funzione legislativa straripa ormai dall’alveo, nel quale dovrebbero contenersi secondo i principi costituzionali. Il confine tra potere legislativo e potere amministrativo, in particolare tra Governo e Parlamento, è sempre più frequentemente e inevitabilmente violato. Perciò la moltiplicazione delle leggi al pericolo in linea di certezza non può non associare l’altro pericolo in linea di giustizia[121].
Note e riferimenti bibliografici
[1] Caroccia F., Gli itinerari storici e geografici della disciplina degli interessi monetari, in Marinelli F., ( a cura di), La disciplina degli interessi monetari, Jovene, 2002, pag. 31 -51.
[2] Burdese A., Manuale di diritto romano, Utet, 1993, pag. 572-573.
[3] Tawney R.H. La religione e la genesi del capitalismo, Feltrinelli, 1967, pag. 190-210, pag.199 cit.
[4] Gianzana F., Codice civile con l’aggiunta delle leggi complementari, Utet, 1883, pag. 100-200.
[5] Violante L., Il delitto d’usura, Giuffrè, 1962, pag. 60, cit. pag. 61.
[6] Relazione ministeriale sul progetto del codice penale, parte II.
[7] Relazione ministeriale sul progetto del codice penale,parte II.
[8] Manzini V., Trattato di diritto penale italiano, vol. 1., Giuffrè, 1985, pag. 857, cit.
[9] Venne introdotto dall’art. 11-quinquies L. 356/92.
[10] Albamonte A., L’usura impropria nella Legge n.356 del 1992, in Cassazione penale, 1993, pag. 145-150.
[11] Prima la reclusione era fino a due anni e la multa da duecentomila a quattro milioni di lire.
[12] Antolisei F., Manuale di diritto penale, vol. 2, Giuffrè, 2008, pag. 385-395.
[13] Attuale ministro dell’Economia e delle Finanze.
[14] Si tratta degli intermediari iscritti negli elenchi tenuti dall’ufficio italiano dei cambi e dalla Banca d’Italia ex art. 106 e 107 Dlgs. 385/93.
[15] Ronco M., Romano B., Codice penale commentato, Utet, 2012, pag. 3347-3349.
[16] Magri P., Usura, in I delitti contro il patrimonio mediante frode, in Trattato di diritto penale – parte speciale vol. II, diretto da Marinucci M. e Dolcini E., Cedam, 2007, pag. 33-50.
[17] Pisa P., Lotta all’usura: giurisprudenza in difficoltà in attesa di nuove norme, in Diritto penale e procedura penale, 1995, pag. 1287-1299.
[18] Manna A., La nuova legge sull’usura: un modello di tecniche incrociate di tutela, Utet, 1997, pag. 76-90.
[19] Boido A., Usura e diritto penale. La meritevolezza della pena nell’attuale momento storico, Cedam, 2009, pag. 265-275.
[20] Ferla L, Usura, in Pulitanò D., Diritto penale, parte speciale vol.2, Giappichelli, 2013, pag. 173.
[21] Manzini V., Trattato di diritto penale italiano, vol.5, Utet, 1996, pag. 876.
[22] Violante L., Delitto di usura, Giuffrè, 1926,pag. 22.
[23] Spina R., L’usura, Cedam, 2008, pag. 29-33.
[24] Violante L., voce Usura in Novissimo Digesto, 1975, pag. 386.
[25] Manzini V., Trattato di diritto penale italiano, vol.5, Utet, 1996,pag. 893.
[26] Si tratta dell’art.4.
[27] D’Amico G., Sul cd.“principio di simmetria” tra elementi che concorrono alla determinazione del T.E.G. (ai fini del giudizio di usurarietà) ed elementi oggetto di rilevazione ai fini della determinazione del T.E.G.M. in D’Amico G., Gli interessi usurari. Quattro voci su un tema controverso, Giappichelli, 2017, pag. 55-65.
[28] Di Biase A., Profili civilistici dell’usura bancaria nell’elaborazione della giurisprudenza italiana, in Aspectos privatisticos de la usura bancaria, relazione al Convegno Nuevo horizonte normativo de la actividad bancaria, 17.5,2017, pag. 331-344.
[29] Tasso annuo nominale ossia il tasso di interesse applicato, espresso in percentuale annua.
[30] Emerge chiaramente che la locuzione “tasso di interesse usurario” non sia precisa. Emerge chiaramente come con il tasso soglia vada rapportato il costo totale del credito, di conseguenza sarebbe più corretto parlare di “costo usurario del credito”.
[31] Crisafulli V., Sulla motivazione degli atti legislativi, in Diritto pubblico, 1937, pag. 415-430.
[32] Ritenuto tale in quanto contenuto in un contratto stipulato ante 24.3.96 o qualora successivo rispettoso della legge al momento della pattuizione.
[33] Cass. Civ. 19.1.2016, n. 801; Cass. Civ. 27.9.2013.
[34] Cass. Pen. 22.4.2000 n.5286.
[35] Corte cost. 25.2.2002 n. 29.
[36] Cass. Civ., sez. III, 22.4.2000,n. 5286.
[37] Trib. di Treviso, 22.3.18, n. 640; Trib. di Milano 27.9.17, n. 9709; Trib. di Verona 30.6.16, n. 1966.
Realmonte F., Stato di bisogno e condizioni ambientali: nuove disposizioni in tema di usura e tutela civilistica della vittima del reato, in Rivista di diritto commerciale, 1997, pag. 777-800.
[38] Bonora C., L’usura, Cedam, 2007, pag. 108.
[39] Al fine di calcolare il tasso annuo effettivo globale si determina il costo totale del credito al consumatore, ad eccezione di eventuali penali che il consumatore sia tenuto a pagare per la mancata esecuzione di uno qualsiasi degli obblighi stabiliti nel contratto di credito e delle spese, diverse dal prezzo di acquisto, che competono al consumatore all’atto dell’acquisto, in contanti o a credito, di merci o servizi.
[40] Interessi compensativi sul prezzo: salvo diversa pattuizione qualora la cosa venduta e consegnata al compratore produca frutti o altri proventi, decorrono gli interessi sul prezzo anche se questo non è ancora esigibile.
[41] Messa G.C. L’obbligazione degli interessi e le sue fonti, Libreria antiquaria Giulio Cesare, 1911, pag. 228-233.
[42] Cass. Civ., sez.III, 13.11.1984, n. 274.
[43] Cass. Civ., sez. III, 3.4.2012, n. 6486.
[44] Cass. Civ., sez. III, 14.2.1985, n. 1257.
[45] Cass. 16.5.1960, in Foro Padovano, 1961, vol. 1, pag. 1120.
Pandolfini V., Gli interessi pecuniari, Cedam, 2016, pag. 23-38; 75-88.
[46] Cass. Civ. sez. III, 17.10.19, n. 26286.
[47] Secondo detto articolo il giudice ha la possibilità di ridurre ad equità la penale qualora ritenga che l’ammontare della stessa sia manifestamente eccessivo.
[48] Si veda anche Bencini R., Mutuo e usura: finalmente un po’ di chiarezza dalla Corte Suprema di Cassazione, in Diritto e Giustizia, fasc. 188, 2019, pag. 11-16.
[49] Bellacosa M., Usura, in Digesto penale, XV, 2006, pag. 144; Cavaliere A., L’usura tra prevenzione e repressione: il controllo del ruolo penalistico, in RIDPP, 1995, pag. 1206; De Angelis G., Usura, in EGI, XXXII, 1994.
[50] Mucciarelli F., La colpevolezza del delitto di usura bancaria, in Relazione al Convegno “Profili penali dell’usura nell’esercizio dell’attività bancaria, Padova, 10.3.2008.
[51] Fiandaca G., Musco E., Diritto penale parte generale, Zanichelli,2016, pag. 53.
[52] Il concetto di legge cui si fa riferimento quando si analizza l’art. 25 co. 2 Cost. è quello di legge in senso formale ossia atto normativo adottato dalla deliberazione delle due camere del Parlamento mediante la procedura contenuta negli art. 70-74 Cost. Una parte della dottrina ritiene ammissibile che anche il Decreto legge e legislativo possano vantare un’efficacia pari a quella delle leggi ordinarie in materia penale.
[53] Gallo M., La legge penale, Clut, 1974, pag. 80-100.
[54] Romano M., Repressione della condotta antisindacale. Profili penali, Giuffrè,1974, pag. 160; Pulitanò D., L’errore di diritto nella teoria del reato, Giuffrè, 1976, pag. 317.
[55] Sentenza n. 96/1964.
[56] Sentenze n. 26/1966 e 168/1971.
[57] Sentenza n. 282/1990.
[58] Cass. Civ., sez. II, del 5.5.2003 e 18.3.2003.
[59] Ronco M., Romano B., Codice penale commentato, Utet, 2012, pag. 3348.
[60] De Lazzaro C., Crisi della riserva di legge e giurisprudenza normativa: brevi riflessioni su algoritmo di calcolo e commissioni di massimo scoperto nell’usura bancaria, in Penale contemporaneo, n. 5/2017, pag. 20-21, cit.
[61] Fornasari G., Riserva di legge e fonti comunitarie. Spunti per una riflessione, in Fondaroli D., Principi costituzionali in materia penale e fonti sovranazionali, Cedam, 2009, pag. 18-19.
[62] Manna A., La nuova legge sull’usura: un modello di tecniche incrociate di tutela, Utet, 1997, pag. 76-77.
[63] Fiandaca G., Musco E., Diritto penale parte generale, Zanichelli,2016, pag. 204-205.
[64] D’Ascola V.N., Impoverimento della fattispecie e responsabilità penale senza prova, Feltrinelli, 2008, pag. 50.
[65] Le istruzioni di Banca d’Italia aggiornate al febbraio 2006 prevedevano testualmente che la commissione di massimo scoperto non entra nel calcolo TEG. I decreti emessi a livello trimestrale dal Ministero dell’economia e della finanze contenevano la seguente affermazione i tassi non sono compresi della commissione di massimo scoperto eventualmente applicata.
[66] Magro M.B., Riflessioni penalistiche in tema di usura bancaria, in Diritto penale contemporaneo, n.3/2017, pag. 77-78.
[67] Rossi M., Trattazione logico-positiva dell’usura bancaria e il sogno leibniziano del calculemus. La bellezza come metodo, tra (in)calcolabilità giuri metrica e giuridica…anche dopo le Sezioni Unite, pag. 36.
[68] L’esercizio del potere del giudice ordinario di poter disapplicare un atto della p.a. è precluso qualora la legittimità dell’atto sia stata accertata dal giudice amministrativo con sentenza passata in giudicato, resa nel contraddittorio delle parti, Cass. Civ. 8.1.2003, n. 60.
Il potere di disapplicazione dell’atto amministrativo del giudice ordinario non resta escluso per effetto dell’inoppugnabilità del suddetto atto dinnanzi al giudice amministrativo, atteso che l’istituto processuale dell’inoppugnabilità concerne la tutela degli interessi legittimi non dei diritti soggettivi, Cass. Civ. 18.8.2014, n. 16175.
[69] Si tratta della legge relativa al contenzioso amministrativo della legge per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia, cd. Legge Lanza del 20.3.1865.
[70] Il giudice ordinario può disapplicare l’atto amministrativo solo quando la valutazione di legittimità del medesimo debba avvenire in via incidentale ossia quando l’atto non assume rilievo come causa della lesione del diritto del privato ma come mero antecedente sicchè la questione della sua legittimità viene a prospettarsi come pregiudiziale in senso tecnico e non come principale. Cass. Civ. 22.2.2002, n. 2588.
[71] L’eventuale illegittimità in concreto dell’integrazione amministrativa della norma incriminatrice non pone un problema di compatibilità con il precetto costituzionale della riserva di legge ma radicherebbe il potere-dovere del giudice ordinario di disapplicare caso per caso il decreto ministeriale suddetto, Corte cost. 27.3.1992. , n. 133.
[72] Ronco M., Il reato. Struttura del fatto tipico. Presupposti oggetti e soggettivi dell’imputazione penale, il requisito dell’offensività del fatto. Tomo primo, Zanichelli, 2007, pag. 1, cit.
[73] Corte cost.19.5.1969, n. 36.
[74] Corte cost. 364/1988.
[75] Art. 17 L.400/1988.
[76] Paladin L., Mazzarolli L.A., Girotto D., Diritto costituzionale, Giappichelli, 2018, pag. 273.
[77] Corte cost. 282/1990.
[78] All’interno delle disposizioni giuridiche rinveniamo le disposizioni extrapenali. Queste sono definite impropriamente extrapenali in quanto sono diverse dalla norma penale incriminatrice ma possono assumere la veste più disparata quale ad esempio quella di disposizioni giuridiche di natura non penale o norme extragiuridiche richiamate da elementi normali come le regole etico-sociali. Gatta G.L. Abolito criminis e successione di norme integratrici nella recente giurisprudenza delle Sezioni Unite di Cassazione, in Diritto penale contemporaneo, 15.10.2010.
[79] Corte cost. 9.4.1981, n. 96.
[80] Fiandaca G., Musco E., Diritto penale. Parte generale, 2016, Zanichelli, 2015, pag. 82-84.
[81] Cass. Pen., sez. II, 19.12.2011, n. 46669.
[82] Chibelli A., La successione mediata delle norme penali e il delitto di usura: disorientamenti giurisprudenziali in Diritto penale contemporaneo, 2/2017, pag. 109-134 , cit. pag. 123,125.
[83] Pagliaro A., Principi di diritto penale. Parte speciale. Delitti contro il patrimonio, Giuffrè,2008, pag. 424-434.
[84] Troyer L., Cavallin S.,Usura presunta e commissione di massimo scoperto: il disorientamento dell’operatore bancario tra “indicazioni erronee” dell’Autorità ed “autentiche” del Legislatore al vaglio della Suprema Corte, in Rivista dottori commercialisti, 2011, n. 4, pag. 493-498.
[85] Corollari del principio di legalità sono altresì il principio di precisione e di tassatività. Il primo attiene alla tecnica di elaborazione del diritto penale ossia si richiede al legislatore di formulare le norme penali in maniera chiara e precisa al fine di far comprendere pienamente ai consociati il contenuto del precetto. La tassatività, invece, fa riferimento alla proiezione esterna della norma penale: è richiesto al legislatore di plasmare la fattispecie penale in maniera puntuale evitando quindi applicazioni analogiche della norma in sede giudiziaria.
[86] Fiammella B., Pareri e atti svolti di diritto penale, Cedam, 2015, pag. 99-100.
[87] Corte cost. sentenza n. 364/1998.
[88] Corte cost. sentenza n. 327/2008.
[89] Padovani T., L’ignoranza inevitabile sulla legge penale e la declaratoria di incostituzionalità parziale dell’art. 5 c.p., in Legislazione penale, 1998, pag. 447-488.
[90] Corte cost. sentenza n. 364/1988.
[91] Iacoviello F.M., voce Motivazione della sentenza penale (controllo della), in Enciclopedia del diritto,vol.IV, Giuffrè, edizione aggiornata, 2000, pag. 750-770.
[92] Manna A., La nuova legge sull’usura: un modello di tecniche incrociate di tutela, Utet, 1997, pag. 76-77.
[93] Fiandaca G., Musco E., Diritto penale parte generale, Zanichelli,2016, pag. 102-105.
[94] Caperna A., Conti G., Forlenza O., Lotti L., Sacchetti E., Tricomi L., Per una legge dalla struttura complessa: il percorso guidato all’applicazione, in Guida al Diritto, n. 12, 23.3.1996 pag. 37.
[95] Modugno F., Interpretazione giuridica, Cedam, 2009, pag. 1.
[96] Betti E., Teoria generale dell’interpretazione, Giuffrè, 1990, pag. 803.
[97] Verde G., Alcune considerazioni sulle leggi interpretative nell’esperienza più recente, in Osservatorio sulle fonti, pag. 26.
[98] Betti E., L’interpretazione della legge e degli atti giuridici (teoria generale e dogmatica), Giuffrè, II edizione, 1971, pag. 93-96.
[99] Castellano G., Interpretazione autentica della legge e politica del diritto, in Politica e diritto, 1971, pag. 693-700.
[100] Modugno F., Nocilla D., Crisi della legge e sistema delle fonti, in Diritto e società, n. 3/1989, pag. 411-421, cit.
[101] Marzano G., L’interpretazione della legge con particolare riguardo ai rapporti fra interpretazione autentica e giurisprudenziale, Giuffrè, 1955, pag. 156-170, cit
[102] Quadri R., Applicazione della legge in generale, in Scialoja A., Branca G., (a cura di), Commentario al Codice civile, Disposizioni sulla legge in generale art. 10-15, Zanichelli- Il Foro italiano, 1974, pag. 153, cit.
[103] La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo.
[104] Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.
[105] Riviera I., La legge di interpretazione autentica tra Costituzione e CEDU, tomo I, in Corte costituzionale – servizio studi-, 2015, pag. 11-13.
[106] Cammeo F., L’interpretazione autentica, in Giurisprudenza italiana, 1907, fasc. IV, pag. 310.
[107] Corte cost., n. 227/2014, 209/2010, 24/2009.
[108] Pensovecchio Li Bassi A., Conflitti costituzionali, in Enciclopedia giuridica, 1961, edizione VIII, pag. 1007.
[109] D’Alessio G., Alle origini della Costituzione italiana, Il Mulino, 1979, pag. 604, Cerri A., Potere (divisione dei), in Enciclopedia giuridica, 1990, pag. 800.
[110] Predieri A., Interpretazione autentica e collisione con i diritti costituzionali alla difesa e al giudice naturale precostituito nelle leggi sulle concentrazioni editoriali, Cesifin, 1989, pag. 123-128.
[111] Corte cost., n. 209/2010, 364/2007, 94/2009.
[112] Corte Cost., n. 277/2012, n.92/2013.
[113] Per un approfondimento dell’istituto vedasi Della Giustina C., L’evoluzione del decreto-legge nel sistema delle fonti, in Cammino Diritto, n.11/2019 settore scientifico.
[114] Cass. Civ. sez. lavoro, 10.2.1992, n. 1484.
[115] Verde G., Alcune considerazioni sulle leggi interpretative nell’esperienza più recente, in Osservatorio sulle fonti, pag. 30.
[116] Salazar C., Riflessioni sul Caso Englaro, in Forum costituzionale, febbraio 2009, pag. 10-20. Nel caso di specie la Corte d’Appello di Milano ricordava come sulla questione dello stato vegetativo permanente si fosse formato l’effetto del giudicato interno o di una preclusione ad esso equivalente. Si trattava per la Corte di una pronuncia idonea ad assumere efficacia definitiva sia in ragione della impossibilità di un’ulteriore impugnazione sia in conseguenza del fatto che l’impugnazione mediante il rimedio straordinario del ricorso ex art. 111 Cost. era stata ritenuta ammissibile e che detta ammissibilità poteva ritenersi tale solo in quanto fondata su una pronuncia relativa a diritti ed idonea a divenire definitiva. Corte d’Appello di Milano, sez. I civ.,Patrone G., Presidente, Lamanna F., estensore, pag. 20-40 motivazione, cit.
[117] Corte cost., n. 29/2000.
[118] 4.1. considerato in diritto.
[119] 4.2. considerato in diritto.
[120] 5.1. considerato in diritto.
[121] Carnelutti F., La morte del diritto, in Balladore Pallieri Calamandrei P., Capograssi A., Carnelutti F., Delitala G., Jemolo A.C., Ravà A., Ripert G., La crisi del diritto, Cedam, 1953, pag. 180, cit.