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Pubbl. Sab, 19 Ott 2019
Sottoposto a PEER REVIEW

La rinegoziazione in diritto civile e in diritto amministrativo

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Cesare Valentino
Dottore di ricercaNessuna


Profili generali e disciplina dell´ istituto. Le principali questioni applicative in ambito civilistico dalle fonti dell´obbligo di rinegoziazione ai rimedi esperibili. Uno sguardo ai principali profili amministrativi e alla disciplina del Codice dei contratti pubblici


Abstract: Con il presente elaborato vengono tracciati i profili generali concernenti l´istituto della rinegoziazione, sia sul versante civilistico, sia su quello amministrativo, con l´intento di mettere in rilievo quelle che sono le questioni maggiormente dibattute nell´uno e nell´altro settore.

With this paper the general profiles concerning the institution of renegotiation are traced, in civil and administrative law, with the aim of highlighting the most debated issues in both sectors.

Sommario: 1. Profili generali della rinegoziazione in diritto civile: ratio ed emersione nella prassi del commercio internazionale; 2. La rinegoziazione nel sistema giuridico italiano; 2.1 La disciplina delle sopravvenienze contrattuali nel Codice Civile; 2.2 La fonte dell'obbligo di rinegoziazione, l'obbligo di fonte contrattuale e il livello di predeterminazione delle clausole pattizie; 2.3 L'inadempimento dell'obbligo di rinegoziazione: i rimedi esperibili e i profili risarcitori; 3. La rinegoziazione nel diritto amministrativo prima e dopo il Codice dei contratti pubblici; 4. Conclusioni.

1. Profili generali della rinegoziazione in diritto civile: ratio ed emersione nella prassi del commercio internazionale

L’ordinamento giuridico, attraverso il riconoscimento ai privati dell’autonomia contrattuale, consente loro l’adozione del programma negoziale ritenuto più congruo per il soddisfacimento dei loro interessi, nei limiti di compatibilità con i fondamentali obiettivi e valori posti a fondamento dell’ordinamento stesso[1].

In generale con il termine rinegoziazione si intende la ridefinizione del contenuto contrattuale, a seguito di sopravvenienze incidenti sull’equilibrio economico-giuridico prefissato dalle parti al momento della stipulazione del contratto[2].

Sotto il profilo economico, l’istituto si riconnette alla dimensione globale dei mercati, in cui i prezzi oscillano fortemente, gli scambi riguardano sempre più spesso servizi da erogare in futuro e beni ancora da produrre. Si moltiplicano così i fattori di incertezza e specificatamente, i rischi che le condizioni di mercato in cui viene stipulato il contratto (e pattuito il prezzo), vengano alterate da sopravvenienze di vario genere e natura: economiche, finanziarie, normative.

La sopravvenienza è un fenomeno diverso dalla patologia del contratto in senso tecnico, la quale investe l’atto e non può non riguardare situazioni esistenti al momento della stipulazione contrattuale. La sopravvenienza riguarda invece l’attuazione del contratto, incidendo quindi sulla possibilità che il contratto perfettamente valido in via originaria, possa continuare a produrre i suoi effetti. Riguarda pertanto il rapporto contrattuale.

Il problema delle sopravvenienze è particolarmente avvertito nei contratti di durata, la cui esecuzione si protrae nel tempo e rispetto ai quali possono intervenire particolari vicende che interferiscono con l’operazione negoziale prefigurata dalle parti, incidendo sulla perseguibilità degli interessi dedotti ovvero sull’equilibrio economico contrattuale. Infatti, se l’esecuzione del contratto è differita, ovvero periodica o continuata, è necessario che persista -durante la fase esecutiva- il medesimo equilibrio sussistente al momento della stipulazione. In questo contesto va inquadrata la rinegoziazione, la quale, sotto il profilo funzionale, rileva dunque quale tecnica di gestione del rischio legato al mutamento delle circostanze -intervenuto nella fase di esecuzione del vincolo contrattuale- che permette, evitando il ricorso ai rimedi risolutori, la conservazione del rapporto modificato.

L’emersione dell’istituto de quo è avvenuta nell’ambito del commercio internazionale, ed è dipesa dalle specifiche caratteristiche delle relazioni internazionali e dalla strutturazione il più delle volte “complessa” di queste ultime. Le stesse infatti si contraddistinguono per la lunga durata del rapporto, da cui deriva l’esposizione dello stesso all’incidenza di fattori esterni “perturbatori” e per il frequente ricorso a rapporti contrattuali complessi, che non si esauriscono in relazioni contrattuali occasionali e isolate ma si concretano in una serie di contratti finalizzati al perseguimento di un comune obiettivo di portata generale. Sotto tale profilo, l’eventuale caducazione di un singolo contratto per circostanze sopravvenute, potrebbe riverberarsi negativamente sull’intera operazione negoziale prefigurata dalle parti. Tenuto conto di ciò è invalso nella prassi internazionale il ricorso a rimedi manutentivi del rapporto, che consentono la salvaguardia dell’equilibrio contrattuale prefigurato dai contraenti[3].

2. La rinegoziazione nel sistema giuridico italiano

Nell’ordinamento italiano diverse sono le questioni che si pongono con riferimento all’istituto della rinegoziazione e che attengono: i) alle modalità con cui il legislatore del ’42 ha disciplinato il fenomeno delle sopravvenienze contrattuali; ii) alla fonte dell’obbligo di rinegoziazione; iii) al livello di predeterminazione delle clausole pattizie in caso di obbligo di rinegoziazione di fonte negoziale e alla natura dell’accordo di rinegoziazione; iv) ai rimedi esperibili in caso di inadempimento dell’obbligo di rinegoziazione; v) ai profili risarcitori conseguenti all’inadempimento dell’obbligo de quo.

2.1. La disciplina delle sopravvenienze contrattuali nel Codice Civile.

Con riferimento alla questione sub i), il legislatore del ’42, nel disciplinare il fenomeno delle sopravvenienze, poteva scegliere tra la stabilità o la flessibilità del rapporto contrattuale.

In altri termini era possibile, astrattamente, i) prevedere regole di gestione del rischio in modo da fronteggiare eventi sopravvenuti, al fine di salvaguardare l’equilibrio contrattuale; ii) ritenere intangibile il principio “pacta servanda sunt”, con conseguente irrilevanza di tutte le modificazioni intervenute successivamente alla stipulazione del contratto.

In linea di massima, si intuisce agevolmente che, se qualsiasi evenienza potesse essere invocata da un contraente per sciogliersi da un vincolo contrattuale che non risponde più ai suoi personali interessi, sarebbe gravemente compromesso lo sviluppo equilibrato e razionale delle contrattazioni e la stessa certezza dei rapporti giuridici. D’altra parte, escludere qualsiasi rimedio contro le sopravvenienze, che alterino gravemente l’assetto di interessi delineato nel contratto, significherebbe rinunciare completamente ad un controllo di funzionalità dello strumento contrattuale rispetto agli interessi perseguiti dalle parti.

La scelta legislativa, come rilevato da parte della dottrina[4], è stata dunque nel senso di adottare una soluzione in grado di bilanciare le due contrapposte esigenze sottese alla gestione delle sopravvenienze, mediante la previsione della regola di cui all’art. 1467 c.c. Trattasi di un rimedio in senso proprio contro le sopravvenienze contrattuali, che rendono la prestazione da eseguire molto più gravosa di quanto non lo fosse al tempo dell’assunzione dell’obbligazione. Il codice civile prevede sia l’ipotesi in cui l’eccessiva onerosità sopravvenga nei contratti a prestazioni corrispettive (art. 1467 c.c.), sia l’ipotesi in cui sopravvenga nei contratti con obbligazioni a carico del solo proponente (art. 1468 c.c.). Nel primo caso il rimedio è la risoluzione del contratto, salvo che la parte contro cui è domandata la risoluzione non offra di modificare equamente le condizioni di contratto (art. 1467 c.c.); nel secondo caso il legislatore ha previsto il rimedio dell’equa riduzione della prestazione divenuta eccessivamente onerosa (art. 1468 c.c.).

Il rimedio ex art. 1467 c.c. è applicabile solo ai contratti ad esecuzione periodica, continuata o a esecuzione differita, in quanto esso tende a tutelare l’originario equilibrio tra le prestazioni sconvolto da circostanze sopravvenute tra il momento della conclusione e quello di esecuzione del contratto. La disciplina positiva dell’istituto richiede che una delle prestazioni sia divenuta eccessivamente onerosa per la parte che deve eseguirla. Vi è concordia sulla circostanza che il concetto di onerosità della prestazione è da intendersi in senso oggettivo, e come tale prescinde da considerazioni inerenti la condizione soggettiva del debitore. La nozione di onerosità attiene al raffronto tra i valori economici delle due prestazioni collegate sinallagmaticamente nel contratto, che appare alterato al momento dell’adempimento rispetto al tempo di assunzione dell’obbligazione. E in tale prospettiva è chiara la distinzione rispetto alla impossibilità sopravvenuta della prestazione, che attiene invece alla prestazione in sé.

Non basta, peraltro, che la prestazione sia divenuta più gravosa: la legge, infatti, richiede che tale onerosità sia eccessiva e superiore all’alea normale del contratto. Non a caso la disciplina sulla risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta non si applica ai contratti aleatori per legge o per volontà delle parti, in cui si parla di alea giuridica ed in cui il rischio di una sproporzione tra le prestazioni viene giustificato dalla considerazione che tale rischio costituisce la ragione stessa del contratto, permeando la sua causa.

Infine l’eccessiva onerosità può essere invocata solo in quanto dipenda da “avvenimenti straordinari e imprevedibili”, tali da sfuggire ad ogni possibilità di ragionevole previsione e controllo delle parti.

Il legislatore dunque, da una parte ha attribuito rilievo alle modificazioni straordinarie e imprevedibili; dall’altra ha concesso, al contraente onerato degli effetti negativi dell’evento sopravvenuto, la possibilità di ottenere la risoluzione del contratto[5].

Il fenomeno risolutorio può dunque essere ricondotto all’ambito delle sopravvenienze e rappresenta un rimedio contro situazioni sopravvenute che impediscono l’attuazione del vincolo negoziale, con ciò ostacolando, dunque, l’attuazione del programma contrattuale prefigurato dalle parti[6].

Il legislatore inoltre, nel disciplinare taluni rapporti contrattuali ad esecuzione continuata o differita, ha ammesso l’utilizzo del rimedio manutentivo. In tale prospettiva sarebbero inquadrabili, nella parte generale sul contratto, le seguenti previsioni: i) l’offerta di modifica del contratto a prestazioni corrispettive e ad esecuzione continuata, periodica o differita, divenuto eccessivamente oneroso (art. 1467, ult. comma, c.c.); ii) l’offerta di modificazione del contratto rescindibile (art. 1450 c.c.).

Tra le disposizioni di parte speciale viene in rilievo la disposizione di cui all’art. 1664 c.c., che sotto la rubrica “Onerosità o difficoltà dell’esecuzione” prevede che se durante l’esecuzione del contratto di appalto si verificano, per effetto di circostanze imprevedibili, aumenti o diminuzioni nel costo dei materiali o della manodopera, tali da determinare un aumento o una diminuzione superiore al decimo del prezzo complessivo convenuto, l’appaltatore o il committente possono chiedere una revisione del prezzo medesimo.

Ma le stesse parti possono convenire specifiche clausole con le quali regolare l’incidenza dei rischi, facendoli gravare sull’uno o sull’altro dei contraenti, anche in deroga alle previsioni legislative: possono ad esempio pattuire il carattere aleatorio della vendita di beni futuri o far gravare sull’acquirente il rischio di evizione (art. 1472 e 1487 c.c.). Ma si può altresì prevedere un futuro adeguamento del contratto, che ristabilisca l’equilibrio alterato dalla sopravvenienza: ad esempio, attraverso le clausole di rivalutazione monetaria, in materia di obbligazioni pecuniarie, si pone rimedio al pregiudizio derivante dalla svalutazione[7].

2.2. La fonte dell'obbligo di rinegoziazione, l'obbligo di fonte contrattuale e il livello di predeterminazione delle clausole pattizie.

Le questioni sub ii) e iii), afferenti la fonte dell’obbligo di rinegoziazione e, in caso di obbligo di fonte negoziale, il livello di predeterminazione delle clausole pattizie e la natura dell’accordo di rinegoziazione, possono essere trattate unitariamente, attesa la stretta contiguità tra le medesime.

Con riferimento alla questione sub ii), relativa alla fonte dell’obbligo di rinegoziazione, ci si domanda se la stessa possa essere legale o solo convenzionale. La soluzione della problematica impone una preliminare analisi circa la valenza da attribuire al principio di buona fede[8]. Infatti, qualora si assuma che quest’ultimo non possa valere come fonte legale dell’obbligo di revisione del contratto, la gestione della sopravvenienza, che eviti lo scioglimento del vincolo contrattuale, sarebbe possibile solo in presenza di un’espressa previsione negoziale del rimedio manutentivo. Diversamente, attribuendo alla buona fede funzione integrativa del contenuto del contratto, si potrebbe sostenere l’esistenza di un obbligo generale di rinegoziazione che rinverrebbe la propria fonte legale proprio nel dovere di buona fede.

Per quanto concerne invece l’obbligo di rinegoziazione di fonte negoziale, vi è da rilevare che parte della dottrina ritiene che rientri nel potere di autonomia contrattuale delle parti inserire nei contratti di durata clausole di rinegoziazione, considerate meritevoli di tutela giuridica[9]. Dette clausole possono assumere diverse forme, a seconda del livello di predeterminazione delle stesse in ordine: i) alla tipologia di evento sopravvenuto; ii) ai parametri che le parti devono osservare nel corso del procedimento di rinegoziazione. Potranno aversi dunque almeno tre tipologie di clausole di rinegoziazione: clausole predeterminate in ordine ai profili sub i) e ii); clausole predeterminate solo in ordine al profilo sub i); clausole predeterminate solo in ordine al profilo sub ii); ed infine clausole generiche, sia in ordine al contenuto che al procedimento. Sotto il profilo strutturale, le clausole di negoziazione predisposte in modo rigoroso si atteggiano alla stregua di clausole tassative, mancanti del carattere dell’elasticità, che contraddistingue invece le clausole generiche, in grado di adattarsi alla mutevolezza della realtà[10].

L’obbligo di rinegoziazione di fonte negoziale pone, inoltre, un ulteriore problema relativo alla natura dell’accordo di rinegoziazione. Ci si domanda infatti se lo stesso abbia natura novativa, con effetti estintivi-costitutivi, ovvero modificativa. In linea di principio la soluzione del quesito dipende dal concreto contenuto della clausola e dalle modalità di sviluppo del procedimento rinegoziativo.

Non determinando un’alterazione strutturale o funzionale dell’assetto di interessi originariamente programmato, la rinegoziazione dovrebbe condurre alla conclusione di un contratto modificativo. Alla luce di ciò, le variazioni del contenuto contrattuale devono essere necessariamente parziali. L’identità del rapporto sottoposto a rinegoziazione perdura nel solo caso in cui sia ravvisabile la permanenza del contenuto essenziale del precedente regolamento di interessi.

La natura modificativa dell’accordo di rinegoziazione comporta notevoli conseguenze in punto di regime giuridico del negozio di secondo grado: lo stesso, infatti, risultando collegato al negozio principale, risentirà delle vicende giuridiche che involgono quest’ultimo. Sotto il profilo della forma inoltre, non occorrerà osservare particolari oneri qualora il contratto originario non sia solenne. Infine, nel silenzio delle parti, gli effetti avranno valenza ex nunc.

2.3. L'inadempimento dell'obbligo di rinegoziazione: i rimedi esperibili e i profili risarcitori.

Con riferimento alla questione sub iv), relativa ai rimedi esperibili in caso di inadempimento dell’obbligo di rinegoziazione, questione preliminare è comprendere quando si configura inadempimento. In linea di principio, in presenza di un obbligo di rinegoziazione, sia esso di fonte legale o convenzionale, le parti sono tenute a svolgere trattative e devono addivenire alla conclusione di un accordo di secondo grado volto alla modificazione del contenuto delle condizioni pattuite inizialmente. Si può quindi configurare inadempimento nel caso in cui una delle parti rifiuti di prendere parte alle trattative suindicate o quando, sebbene una delle parti prenda parte alle trattative, in realtà essa assume un comportamento solo in apparenza diretto alla rinegoziazione, ma nella realtà inteso a non modificare i patti originari.

Per la valutazione della condotta dei contraenti nel corso del procedimento di revisione del contratto può venire in rilievo il già citato dovere di correttezza-buona fede[11], il cui ruolo, in caso di obbligo di rinegoziazione di fonte negoziale, dipenderà dal contenuto della clausola di rinegoziazione: sarà minore se maggiore è il livello di predeterminazione (riguardo la tipologia dell’evento sopravvenuto e i parametri da osservare nel corso del procedimento di rinegoziazione) raggiunto in sede di conclusione del contratto.

Alla luce di tali rilievi, tenuto conto che la rinegoziazione mira ad evitare il risultato che si ottiene con la tutela risolutoria, ovvero lo scioglimento del vincolo contrattuale, pare preferibile una tutela in forma specifica, che garantirebbe il mantenimento in vita del rapporto attraverso l’intervento dell’autorità giudiziaria ex art. 2932 c.c. In particolare, il giudice dovrebbe, dopo aver riscontrato l’inadempimento dell’obbligo di rinegoziazione, emanare una sentenza determinativa del nuovo contenuto del contratto che tiene conto dell’evento sopravvenuto. Ma una soluzione di questo tipo va resa compatibile con il principio di autonomia contrattuale, in ipotesi di obbligo di rinegoziazione di fonte negoziale. In altri termini, l’intervento giudiziale può spingersi fino alla emanazione di una sentenza costitutiva a fronte di un obbligo negoziale inadempiuto, ma non può spingersi al punto di modificare l’equilibrio negoziale prefissato dai contraenti al momento di stipulazione del contratto.

In tale prospettiva sarebbe ammissibile una sentenza ex art. 2932 c.c. di adeguamento del contenuto contrattuale solo nell’ipotesi di clausole di rinegoziazione predeterminate in ordine alla tipologia di evento sopravvenuto o in relazione ai parametri da seguire nel procedimento di rinegoziazione. Tale rimedio sarebbe da escludere in presenza di una clausola generica sia in ordine al contenuto che al procedimento, che lasciando eccessivi margini di discrezionalità in capo all’autorità giudiziaria, minerebbe il rispetto del fondamentale principio dell’autonomia contrattuale.

L’ottenimento di una sentenza costitutiva del contratto modificato non garantisce che controparte adempirà le nuove condizioni contrattuali, ma almeno consente, per il caso che rifiuti di adempierle, di commisurare su di esse il danno risarcibile. Nei casi in cui non è possibile ottenere una tutela specifica, l’unico strumento cui può farsi ricorso è quello risolutivo del vincolo contrattuale.

Con riferimento alla questione sub v), relativa al risarcimento a favore della parte in buona fede del danno subito per effetto dell’inadempimento dell’obbligo di rinegoziazione, il problema è quello di comprendere se il ristoro va commisurato alla lesione dell’interesse positivo ovvero alla lesione dell’interesse negativo. Per la risoluzione del quesito necessario è il riferimento al già citato livello di predeterminazione della clausola in relazione al suo contenuto o ai parametri da osservare nel corso del procedimento di rinegoziazione. In linea di massima, in presenza di una clausola generica il danno sarà risarcibile nei limiti dell’interesse negativo. Viceversa, in presenza di una clausola specifica, il danno andrebbe stabilito nella misura dell’interesse positivo: la tutela risarcitoria consentirebbe di collocare il contraente adempiente in una situazione economico-giuridica equivalente a quella che lo stesso avrebbe realizzato qualora il contratto avesse avuto puntuale esecuzione. L’intervento giudiziale dunque, come rileva parte della dottrina, neutralizza lo scarto patrimoniale tra la situazione economica in cui la parte si viene a trovare a seguito dell’inadempimento e quella in cui si sarebbe trovato nel caso di corretta attuazione della lex contractus[12].

3. La rinegoziazione nel diritto amministrativo prima e dopo il Codice dei contratti pubblici

La problematica della rinegoziazione delle condizioni contrattuali si pone anche in relazione all’esecuzione dei contratti con le pubbliche amministrazioni. In tale prospettiva il potere di rinegoziare i termini di un contratto in corso di esecuzione può assumere una connotazione tanto unilaterale quanto bilaterale. Oggetto del presente elaborato, in coerenza con quanto esposto relativamente alla rinegoziazione in diritto civile, è la rinegoziazione bilaterale dei contratti delle pubbliche amministrazioni. In generale, si può sostenere che il ricorso allo strumento rinegoziativo il più delle volte è imposto dai principi di efficienza, economicità e buon andamento, che infirmano l’agere della pubblica amministrazione. Infatti, il contratto squilibrato è un contratto inefficiente ed in quanto tale potrebbe minare il buon andamento dell’operatore pubblico. Ma, nonostante tale preliminare considerazione, l’interesse che dottrina e giurisprudenza hanno mostrato verso lo strumento de quo è dipeso in particolar modo dalla circostanza che, in caso di modifica delle clausole di contratti già aggiudicati e in corso di esecuzione, potrebbero porsi problemi di tutela della concorrenza. Infatti, rinegoziare in termini sostanziali il contratto di appalto in fase di esecuzione può comportare anche l’elusione dei termini dell’aggiudicazione ad evidenza pubblica, nella misura in cui l’effetto delle modifiche è quello di stravolgere i termini dell’offerta o del bando di gara, specie nel caso in cui le stesse abbiano ad oggetto prestazioni diverse e ulteriori, che potrebbero costituire oggetto di un diverso e autonomo contratto, da aggiudicarsi tramite l’esperimento di un nuovo e diverso procedimento ad evidenza pubblica.

Sul versante europeo, la garanzia di stabilità del contratto, così come stipulato e aggiudicato, viene ritenuta sia strumento di tutela speciale degli interessi delle parti sia istituto volto alla tutela del corretto meccanismo concorrenziale tra soggetti istituzionali e operatori economici, nel panorama dei contratti pubblici. Sul punto due sono stati nel tempo gli orientamenti della giurisprudenza sovranazionale:  secondo un primo indirizzo, per stabilire la natura anticoncorrenziale della modifica contrattuale, occorre valorizzare l’incidenza della stessa sull’equilibrio economico tra le prestazioni in contratto. Se quest’ultimo viene stravolto per effetto della modifica contrattuale la stessa assume natura anticoncorrenziale[13].

Secondo un diverso indirizzo invece, una modifica contrattuale è inammissibile in quanto essenziale, se, attraverso un giudizio di prognosi postuma, la sua adozione si pone in un rapporto di incompatibilità con i termini dell’aggiudicazione del contratto originariamente stipulato[14]. Trattasi di un orientamento chiaramente improntato alla tutela della concorrenza.

Nel sistema italiano invece, prima della entrata in vigore del nuovo codice, il prevalente orientamento della giurisprudenza amministrativa sosteneva che, data la natura imperativa delle norme della procedura di evidenza pubblica, logico corollario era che la Pa, sia prima che dopo l’aggiudicazione, non potesse modificare le condizioni contrattuali. La ratio dell’orientamento de quo era quella di evitare l’elusione del principio di concorrenza. Si osservava che diversamente opinando, si rendeva ammissibile una serie indeterminata di richieste di modifica delle condizioni stesse da parte degli aggiudicatari, che, per conseguire l’aggiudicazione avrebbero mantenuto le offerte al minimo al momento della presentazione, per poi recuperare, nel corso dell’esecuzione del contratto, le condizioni più favorevoli, negoziando modifiche vantaggiose quanto al prezzo o al contenuto della prestazione ovvero alle modalità di esecuzione della prestazione medesima. Secondo la giurisprudenza amministrativa, ciò valeva anche nell’ipotesi in cui la revisione si risolveva in un vantaggio concreto per la Pa[15]. Parte della dottrina invece riteneva che, qualora l’accordo di rinegoziazione si fosse risolto in un vantaggio per la Pa e si fosse dimostrato che, comunque, la diminuzione del prezzo concordato non avrebbe contraddetto l’esito della gara, in quanto l’impresa sarebbe risultata in ogni caso aggiudicataria, non si sarebbe configurata alcuna violazione delle regole di concorrenza e quindi l’accordo modificativo doveva ritenersi validamente concluso[16].

Il problema si poneva con particolare riferimento alla modificazione dell’offerta dopo l’aggiudicazione: essa infatti avrebbe determinato una indebita trasformazione di una procedura aperta in una procedura negoziata, in violazione dei limiti prefigurati dal legislatore europeo all’applicazione di tale ultimo modulo procedimentale.

La giurisprudenza amministrativa ammetteva la rinegoziazione nei casi in cui la legge consentiva il ricorso al metodo della procedura negoziata[17]. In tal caso infatti, stante l’assenza di una gara tra più soggetti, era pienamente legittima la revisione delle condizioni pattuite secondo la stessa logica dei rapporti privatistici. All’orizzonte dunque non poteva profilarsi il problema della conversione di una procedura aperta o ristretta in una negoziata.

Per il giudice amministrativo la revisione delle condizioni contrattuali era ammissibile nei casi in cui la stessa fosse conseguenza di sopravvenuti fattori esterni alle parti, idonei ad incidere sul valore delle reciproche prestazioni[18]. Era però necessario che non venissero modificati i tratti essenziali che contraddistinguevano il contratto originario. Presupposto imprescindibile per la validità dell’intervenuta modifica nel corso dell’esecuzione del contratto era la previa indicazione di tale possibilità nel bando di gara ovvero nella lettera di invito. In tal caso, non si sarebbe configurata alcuna violazione delle regole di concorrenza, in quanto tutti i partecipanti si sarebbero trovati nella medesima situazione, ove, risultati aggiudicatari, si fosse verificato l’evento perturbatore delle condizioni negoziali inizialmente pattuite. Un profilo che però non veniva chiarito era se la possibilità della revisione contrattuale dovesse essere poi espressamente prevista nel contratto ovvero se fosse sufficiente la sola previsione contemplata nella lettera di invito o nel bando. Alla luce di tali premesse, si finiva per ricomprendere nel genus “rinegoziazione” anche situazioni non connesse necessariamente ad un evento sopravvenuto nella fase esecutiva. Infatti, vi si facevano rientrare anche modifiche intervenute nel corso del procedimento, prive del carattere della sopravvenienza.

Prima di passare alla questione della rinegoziazione nel vigente codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50/2016), occorre sottolineare che gli indirizzi giurisprudenziali pro-concorrenziali della Corte di Giustizia, hanno trovato espresso riconoscimento normativo in precise disposizioni: i) art. 43 Direttiva 2014/23/UE in tema di concessioni; ii) art. 72 Direttiva 2014/24/UE in tema di appalti; iii) art. 89 Direttiva 2014/25/UE. Tale disciplina nel sistema italiano è stata trasfusa nel d.lgs. n. 50/2016.

Nel vigente Codice dei contratti pubblici la rinegoziazione delle condizioni contrattuali è disciplinata all’art. 106, rubricato “modifica di contratti durante il periodo di efficacia”.

Occorre rilevare che la disposizione de qua distingue due istituti, quello della variante e quello della modifica. Nell’ambito della medesima sono dunque contemplate diverse fattispecie, il cui elemento comune è costituito dalla possibilità di incidere sul contenuto del contratto senza dover ricorrere ad una nuova procedura di affidamento. Si è fatto quindi ricorso alla tecnica di tipizzazione delle cause di modifica del contratto. In linea di massima si può sostenere che l’intera materia è pervasa da un unico principio ispiratore, del seguente tenore: è possibile procedere alla rinegoziazione dei contratti di appalto a condizione che le modifiche apportate non sortiscano l’effetto di alterare l’originario rapporto sinallagmatico[19].

Esaurite tali osservazioni preliminari, si può procedere all’analisi delle fattispecie riconducibili all’ambito delle modifiche.

La prima fattispecie, prevista dal comma 1, lett. a), art. 106, del codice dei contratti pubblici, ricorre nel caso  in cui le modifiche, a prescindere dal loro valore monetario, sono state previste nei documenti di gara iniziali in clausole chiare, precise e inequivocabili. Funzione di tali clausole è quella di fissare la portata e la natura di eventuali modifiche, nonché le condizioni alle quali esse possono essere impiegate, facendo riferimento alle variazioni dei prezzi e dei costi standard, ove definiti. Condizione di operatività delle stesse è che esse non apportino modifiche che avrebbero l’effetto di alterare la natura generale del contratto o dell’accordo quadro.

La seconda fattispecie, prevista dal comma 1, lett. b), art. 106 cit., si ha nel caso in cui si ravvisi la necessità di lavori, servizi o forniture supplementari che non erano inclusi nell’appalto iniziale. Trattasi delle “prestazioni supplementari”.

Presupposto di operatività di tale fattispecie è che il cambiamento del contraente produca i seguenti effetti: i) è impraticabile per motivi economici o tecnici; ii) comporta per l’amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore notevoli disguidi o una consistente duplicazione di costi; iii) l’aumento del prezzo per i settori ordinari non ecceda il 50 % del valore del contratto iniziale. Al ricorrere di tale fattispecie è previsto inoltre un adempimento ulteriore, consistente nella pubblicazione di un avviso nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea.

La terza fattispecie, prevista dal comma 1, lett. d), art. 106 del d.lgs. 50/2016, è configurabile qualora emergono esigenze di modifiche soggettive, che impongono la sostituzione dell’originario contraente con un nuovo contraente. Ciò è consentito in presenza di uno dei seguenti presupposti: i) la sostituzione è contenuta in una clausola di revisione del contratto chiara, precisa e inequivocabile; ii) all’aggiudicatario iniziale succede, per causa di morte, o a seguito di ristrutturazioni societarie, comprese rilevazioni, fusioni, scissioni, acquisizione o insolvenza, un altro operatore economico che soddisfi i criteri di selezione qualitativa stabiliti inizialmente, purché ciò non determini altre modifiche sostanziali al contratto e non sia finalizzato ad eludere l’applicazione del codice; iii) nel caso in cui l’amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore assume gli obblighi del contraente principale nei confronti dei suoi subappaltatori.

La quarta fattispecie, prevista dal comma 1, lett. e), art. 106 c.c.p., si ha nel caso in cui le modifiche non siano sostanziali. Il rilievo non sostanziale della modifica si desume dall’indicazione dei casi in cui la modificazione è sostanziale. In particolare il comma 4 dispone che ciò si può verificare quando la modifica “altera considerevolmente gli elementi essenziali del contratto originariamente pattuiti”. La medesima disposizione aggiunge che una modifica si considera in ogni caso sostanziale se sono soddisfatte una o più delle seguenti condizioni: i) la modifica introduce condizioni che, se fossero state contenute nella procedura d’appalto iniziale, avrebbero consentito l’ammissione di candidati diversi da quelli inizialmente selezionati o l’accettazione di un’offerta diversa da quella inizialmente accettata, oppure avrebbero attirato ulteriori partecipanti alla procedura di aggiudicazione; ii) la modifica cambia l’equilibrio economico del contratto o dell’accordo quadro a favore dell’aggiudicatario in modo non previsto nel contratto iniziale; iii) la modifica estende notevolmente l’ambito di applicazione del contratto; iv) il nuovo contraente sostituisce quello cui l’amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore aveva inizialmente aggiudicato l’appalto in casi diversi da quelli previsti al comma 1, lett. d).

La quinta fattispecie, prevista al comma 2, si ha nel caso in cui si realizzano modifiche quantitative che si collocano al di sotto: i) delle soglie di rilevanza europea; ii) del 10% del valore iniziale del contratto per i contratti di servizi e forniture e del 15% per i contratti di lavori. Con la prescrizione che “la modifica non può alterare la natura complessiva del contratto o dell’accordo quadro”. Infine è previsto che: “qualora la necessità di modificare il contratto derivi da errori o da omissioni nel progetto esecutivo, che pregiudicano in tutto o in parte la realizzazione dell’opera o la sua utilizzazione, essa è consentita solo nei limiti quantitativi sopra indicati, ferma restando la responsabilità dei progettisti esterni.”

La fattispecie di cui al comma 1, lett. c), è ricondotta all’ambito delle varianti in senso stretto, ossia di quelle particolari modificazioni dell’oggetto contrattuale così come definito in sede di aggiudicazione e stipula, in ragione di circostanze imprevedibili e impreviste per la stazione appaltante. Essa richiede che il rispetto di tutte le seguenti condizioni: i) la necessità di modifica è determinata da circostanze impreviste e imprevedibili per l’amministrazione aggiudicatrice o per l’ente aggiudicatore, tra le quali può rientrare anche la sopravvenienza di nuove disposizioni legislative o regolamentari o provvedimenti di autorità od enti preposti alla tutela di rilevanti interessi; ii) la modifica non altera la natura generale del contratto; iii) per i settori ordinari l’aumento del prezzo non eccede il 50% del valore del contratto iniziale.

Ulteriori adempimenti sono prescritti solo in presenza di una variante. È prevista infatti, la pubblicazione di un avviso nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea. Inoltre, per i contratti inferiori alla soglia europea, le varianti sono comunicate dal responsabile unico del procedimento all’Osservatorio dei contratti pubblici. Per i contratti che superano la soglia invece, la comunicazione è indirizzata all’Anac. Quest’ultima, se accerta l’illegittimità della variante, esercita i poteri di impugnazione di cui all’art. 213 c.c.p. L’Anac potrà inoltre applicare sanzioni amministrative pecuniarie nel caso di inadempimento agli obblighi di comunicazione e trasmissione delle varianti.

Ultima questione è quella concernente la disciplina della rinegoziazione delle concessioni pubbliche, disciplinata all’art. 175 del d.lgs. n. 50/2016, che si ispira ad una logica per certi versi conforme a quella operante in ordine ai contratti di appalto, seppure con delle differenze connesse alla diversa natura del rapporto intercorrente tra la pubblica amministrazione e il privato, soprattutto sotto il profilo della  distribuzione del rischio di impresa.

Posto infatti che elemento caratterizzante il regime delle concessioni è l’assunzione in capo al contraente privato del prefato rischio, ne deriva che, rispetto al regime dell’appalto pubblico, occorre prevedere una più ampia elasticità dei limiti alle modifiche in corso di esecuzione. Occorre dunque rendere più elastico il margine di rinegoziazione del rapporto concessorio, rispetto a quello di appalto. Tale profilo emerge in particolare dal disposto dei commi 4 e 5 dell’art. 175 c.c.p.: in base al citato c. 4 sono ammissibili quelle modifiche alle concessioni il cui valore non comporti il superamento della soglia di rilevanza comunitaria dell’intero rapporto e sia, allo stesso tempo, inferiore al 10% del valore della concessione iniziale; in base al c. 5 “la modifica di cui al comma 4 non può alterare la natura generale della concessione”.

Con riferimento alla possibilità di una proroga del rapporto, la stessa è ammessa in relazione agli appalti dall’art. 106 c.c.p., seppur limitatamente all’espletamento delle procedure di successiva aggiudicazione, ma è esclusa dal citato articolo art. 175 comma 1, lett. a) in relazione alle concessioni.

In relazione alle modifiche contrattuali dovute a circostanze sopravvenute, le c.d. “varianti in corso d’opera”, appare più profonda la distinzione tra le due discipline: infatti l’art. 175, c. 1, lett. c) prevede che le concessioni possono essere modificate senza una nuova procedura di aggiudicazione ove ricorrono contestualmente le seguenti condizioni: i) la necessità di modifica deriva da circostanze che una stazione appaltante non ha potuto prevedere usando l’ordinaria diligenza; ii) la modifica non altera la natura generale della concessione. Tramite il richiamo alle circostanze sopravvenute che la stazione appaltante non poteva prevedere utilizzando l’ordinaria diligenza, viene dunque previsto un limite di ammissibilità più ampio per le concessioni. Per i contratti di appalto invece, l’art. 106 c. 1, lett. c) c.c.p., prevede un criterio più specifico.

La ratio del ricorso alla nozione elastica di ordinaria diligenza, può spiegarsi tenuto conto della posizione ricoperta dall’ente concedente rispetto al rapporto negoziale: infatti al soggetto pubblico, diversamente da quanto accade in materia di appalti, si richiede, in relazione alla definizione degli aspetti del rapporto, un grado di coinvolgimento inferiore. E ciò alla luce di quanto già affermato in precedenza: nelle concessioni infatti vi è una diversa distribuzione del rischio di impresa, che grava sul concessionario privato.

4. Conclusioni.

In conclusione, alla luce dei rilievi svolti, si può ritenere che l’istituto della rinegoziazione si concreti, sia nel settore civile che in quello amministrativo, in uno strumento di salvaguardia dell’equilibrio contrattuale nel corso dell’esecuzione del rapporto, variamente inciso da sopravvenienze alle quali occorre porre rimedio. In questi termini si può apprezzare, nell’uno e nell’altro settore, la contiguità funzionale dell’istituto de quo.

Ciò che differenzia il concreto atteggiarsi dello strumento nei due settori è l’esigenza sottesa alla sua stessa operatività: salvaguardia dell’autonomia contrattuale delle parti, cui si rivolge l’assetto di interessi divisato tramite la pattuizione contrattuale, nel settore civile; tutela delle esigenze di efficienza, efficacia, buon andamento nel settore amministrativo, nel quale rileva finanche la necessità di salvaguardia del meccanismo concorrenziale.

 Note e riferimenti bibliografici 

[1] L’autonomia contrattuale costituisce una specificazione dell’autonomia negoziale, e cioè del potere del soggetto di disporre della propria sfera giuridica personale e patrimoniale. Essa, essendo espressione della libertà della persona,  riceverebbe copertura costituzionale per mezzo degli art. 2 e 3 Cost., che sanciscono la libertà di esplicazione della personalità umana, nonché per mezzo dell’art. 41 Cost., che riconosce e garantisce la libertà di iniziativa economica privata, con la quale l’autonomia negoziale non coincide ma si pone in rapporto strumentale. Trattasi di una tutela indiretta in quanto non prevista in modo specifico, ma ricollegabile a valori che la Costituzione protegge.

[2] Sotto il profilo semantico, il termine rinegoziazione, evocando la figura del negozio giuridico, porta a chiedersi se si tratti di un istituto il cui ambito applicativo coincida con l’ambito contrattuale o travalichi il medesimo. Tale ulteriore questione esula dal perimetro del presente elaborato, dedicato alla rinegoziazione contrattuale.

[3] Particolarmente diffuso nel mercato internazionale è il fenomeno delle c.d. hardship clauses. Con tale espressione si indicano le clausole contrattuali con cui, nel caso si verifichi uno squilibrio contrattuale che possa portare allo scioglimento del contratto e quindi impedire la prosecuzione del rapporto, è consentito ad una o entrambe le parti di far valere un diritto alla rinegoziazione del contratto, proprio nell’interesse alla prosecuzione del rapporto. Nel caso in cui una parte rifiuti la richiesta di rinegoziazione o conduca la trattativa in mala fede, in presenza di siffatte clausole potrà richiedere la risoluzione dell’intero contratto ed il risarcimento del danno. Nel diritto interno si potrebbe pervenire a risultati analoghi sia ricorrendo alla buona fede integrativa di cui all’art. 1375 c.c., sia interpretando estensivamente le norme sul diritto di rettifica della parte non pregiudicata dalla eccessiva onerosità sopravvenuta. In Germania, ad esempio, l’elaborazione giurisprudenziale ha costruito la teoria del “venir meno della base negoziale”, proprio sulla base del principio di buona fede di cui al § 242 BGB, fino a conferire al giudice un ampio potere di procedere direttamente all’adattamento del contratto alle circostanze sopravvenute qualora lo ritenga ancora utile per i contraenti.

[4] V.M. Cesaro, "Clausole di rinegoziazione e conservazione dell’equilibrio contrattuale", Edizioni scientifiche italiane - 2000, pag.  58-59

[5] M. Paradiso, "Corso di istituzioni di diritto privato", decima edizione, Giappichelli editore, pag. 459, “la risoluzione peraltro è rimedio drastico, che elide in radice il rapporto, lascia inappagati gli interessi sottostanti, determina un pregiudizio anche al sistema economico generale per le risorse inutilmente spese nell’attività negoziale. Si comprendono allora per un verso le cautele e i limiti frapposti dalla legge alla risoluzione (es. gravità dell’inadempimento), per l’altro le disposizioni che prevedono rimedi alternativi volti a conservare il contratto”.

[6] Il modo più semplice per individuare i profili strutturali e funzionali della risoluzione in generale, prescindendo dai 3 istituti nei quali, a livello codicistico la stessa si concretizza, è quello di differenziarla dalle figure della rescissione e dell’annullabilità: queste ultime operano sull’atto, sul contratto a livello genetico, mentre la risoluzione ha ad oggetto il rapporto contrattuale. Il contratto risolubile, pertanto, è un contratto che nasce valido e che si deteriora in un secondo momento per motivi legati a fattori sopravvenuti.

La legge prevede tre ipotesi di risoluzione: i) per inadempimento, nei contratti a prestazioni corrispettive, ex art. 1453 c.c.; ii) per impossibilità sopravvenuta della prestazione, ex art. 1453 c.c.; iii) per eccessiva onerosità sopravvenuta, nei contratti corrispettivi con prestazione continuata o periodica ex art. 1467 c.c. Le tre fattispecie, difficilmente riconducibili ad unità sotto il profilo disciplinare, mirano tutte a riequilibrare la posizione economico-patrimoniale dei contraenti turbata da un evento sopravvenuto alla stipula del contratto, che ha modificato l’iniziale programma contrattuale.

[7] Come rileva M. Paradiso, op.cit., pag. 460, con riferimento al recesso, “tra le diverse funzioni che possono connettersi al recesso contrattuale vi è anche quella di tutelare un contraente rispetto alle sopravvenienze (c.d. recesso determinativo)”.

[8] Il termine buona fede può intendersi in due sensi diversi: i) la buona fede soggettiva è una condizione psicologica del soggetto, e significa ignoranza di tenere un comportamento che contrasta con il diritto altrui; ii) la buona fede oggettiva è una regola di condotta imposta ai soggetti, e significa obbligo di comportarsi con correttezza e lealtà. La regola della buona fede oggettiva rileva nella disciplina dei rapporti contrattuali e obbligatori. Nel rapporto obbligatorio infatti, ai sensi dell’art. 1175 c.c., debitore e creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza. Le parti, ai sensi dell’art. 1337 c.c., devono comportarsi secondo buona fede nelle trattative e nella formazione del contratto. Ai sensi dell’art. 1366 c.c., il contratto deve essere interpretato secondo buona fede, che in tal caso, più che come regola di regola di condotta, si pone come criterio di giudizio. Ai sensi dell’art. 1375 c.c. il contratto deve essere eseguito secondo buona fede, in forza di un principio generale che riceve alcune applicazioni specifiche, come quelle per cui le parti devono comportarsi secondo buona fede durante la pendenza della condizione (art. 1358-1359). Ma il principio di buona fede può influire sul rapporto contrattuale anche al di là delle ipotesi previste da norme particolari: ad esempio può obbligare una parte a tenere certi comportamenti, pur non imposti espressamente né dalla legge, né dalla lettera del contratto, che sono necessari per la giusta considerazione dell’interesse di controparte, e il cui rifiuto costituirebbe una scorrettezza (c.d. obblighi di protezione).

Alla luce di ciò, V. Roppo, "Diritto privato", Sesta edizione, pag. 502, “il principio di buona fede opera come fonte di integrazione del contratto, perché nel regolamento contrattuale possono essere comprese previsioni o conseguenze che non discendono né dalla volontà delle parti, né da precise norme di legge, ma dal criterio della buona fede. Inoltre esso ha natura di clausola generale: è come una valvola, che – attraverso il filtro delle valutazioni giudiziali – consente alla disciplina del contratto di aprirsi e adeguarsi all’evoluzione del costume, della prassi, delle esigenze che maturano fra i protagonisti delle relazioni contrattuali”.

[9] V.M. Cesaro, op. ult. citata, pag. 58 e ss.

[10] Spesso i contraenti preferiscono elaborare una clausola dal contenuto estremamente generico, nella prospettiva di un controllo assoluto del rischio contrattuale.

[11] F. Macario, "Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine", Jovene biblioteca del diritto privato, 1996, pag. 355

[12] V.M. Cesaro, op. ult. cit., pag. 277-278

[13] CGUE, C-337/984, 5/10/2000, Commission c. France

[14] CGUE, C-496/99, 29/4/2004

[15] Cons. Stato, sez. V, sent. n. 126/2006

[16] B. Marchetti, "Atto di aggiudicazione e potere di rinegoziazione della pubblica amministrazione nei contratti ad evidenza pubblica", in Gior. dir. amm., 2003, pag. 505

[17] Cons. Stato, sez. IV, sent. n. 6004/2002

[18] Cons. Stato, sez. V, sent. n. 2969/2004

[19] Medesimo principio vale, in base all’art. 175 c.c.p., per le concessioni, su cui ci si soffermerà in seguito.