Pubbl. Gio, 30 Apr 2015
Errori cognitivi e valutazione della prova scientifica nel processo penale: il test del DNA e la fallacia dell´accusatore
Modifica paginaI calcoli probabilistici e i dati statistici hanno un grande ruolo nella fase probatoria del processo, ma appaiono difficili da elaborare, acquisire ed interpretare. Un´analisi degli errori più frequenti ed una critica ai recenti orientamenti giurisprudenziali.
"I medici i loro errori li nascondono sotto terra, i giudici in galera"
(Edoardo Mori, giudice)
Siamo soliti paragonare il nostro sistema cognitivo ad una macchina perfetta, infallibile. Tuttavia importanti studi scientifici hanno dimostrato come, a causa della limitatezza della nostra memoria (in particolare della memoria a breve termine), ricorriamo a tecniche di semplificazione del pensiero (euristiche) e non utilizziamo in modo sempre corretto i modelli di ragionamento che si è soliti riferire alla disciplina giuridica (metodo deduttivo ed induttivo).
In particolare il metodo induttivo, o modello baconiano, è un processo conoscitivo che parte dal particolare per arrivare al generale. Si è soliti riferirlo alle scienze empiriche, nelle quali lo scienziato inizia dall'osservazione di fenomeni particolari e concreti per giungere all'enunciazione di leggi generali ed universali in grado di spiegare anche altri fenomeni simili.
Taruffo, ne La semplice verità (2009), ha elaborato il modello dell'inferenza induttiva, secondo il quale il giudice per operare un'induzione si trova davanti alle seguenti scelte:
- Utilizzo della prova scientifica
-
Utilizzo di nozioni di comune esperienza, le quali vengono distinte in:
- Leggi scientifiche di carattere universale
- Generalizzazioni non universali ma caratterizzate da un elevato grado di probabilità
- Id quod plerumque accidit
- Generalizzazioni spurie, ovvero empiricamente non accertate
Secondo l'autore gli errori insiti nell'applicazione del modello possono essere risolti attraverso il ricorso al contraddittorio in sede processuale. Per certi versi questo modello risulta essere insufficiente in quanto non spiega come la nostra mente ragiona e perchè erriamo nell'utilizzo della prova scientifica.
Nel processo penale un punto saliente è costituito dal momento dell'acqusizione della prova scientifica, ovvero la considerazione dell'impatto, determinato dall'attività investigativa svolta su basi scientifiche e tecnologiche, sul contesto di acquisizione probatoria. Il problema posto dall'acquisizione della prova scientifica consiste nella necessità di integrazione della stessa con il materiale già a disposizione del giudice (1).
Una integrazione corretta tra informazione scientifica e materiale già agli atti può essere svolta applicando il teorema di Bayes, il quale offre un modello grazie al quale si può determinare se un individuo ha aggiornato in maniera ottimale l'opinione o la probabilità iniziale (a priori) in funzione della quantità di informazione che ha via via ricevuto (2).
Purtroppo non è tutto così semplice.
Le scienze cognitive sono arrivate a dimostrare che il ragionamento umano è controllato da due sistemi:
- il primo sistema, o sistema implicito, include i comportamenti istintivi che si ritiene siano programmati innatisticamente sia nell'uomo che nell'animale. Ivi si ricomprendono i processi caratterizzati da elaborazioni rapide;
- il secondo sistema, o sistema esplicito, si è evoluto più recentemente ed appartiene solo all'essere umano. E' caratterizzato da processi lenti e laboriosi.
La coesistenza di questi due sistemi (di due menti a servizio del ragionamento) spiega gli errori nell'integrazione dell'informazione disponibile. La prova scientifica, offrendo un'informazione vivida e saliente sollecita il primo sistema, il quale tende a rispondere in via automatica. Questo può portare a non considerare tutta l'informazione possibile ed a provocare errori, come la fallacia dell'accusatore.
Proviamo a concretizzare quanto detto fin'ora ricorrendo a casi giurisprudenziali ai molti noti.
Il processo a O. J. Simpson costituisce il leading case americano sul tema. Nel 1995, dopo 253 giorni di processo e l'escussione di 126 testi, la giuria dichiara il celebre giocatore di football Simpson non colpevole dell'omicidio della moglie Nicole e dell'amante di lei Ronald Goldman, nonostante vi fossero prove schiaccianti nel senso della sua colpevolezza (3). Il famoso penalista Dershowitz, insieme ai difensori di Simpson, riuscì a smontare l'accusa fondata sull'argomento che i maltrattamenti in famiglia portarono all'omicidio. Dershowitz asserì che in un processo per omicidio non possono essere portati come prove i maltrattamenti e le percosse in famiglia. A sostegno della sua tesi il penalista argomentò che ogni anno in America 4 milioni di donne vengono picchiate da mariti e conviventi; di queste però solo 1500 vengono successivamente uccise. Dividendo il numero delle donne assassinate per il numero delle donne picchiate si ottiene una percentuale infinitesima (0.04%) di donne picchiate che vengono successivamente uccise. Ma questo calcolo è corretto? No, si considera solo la classe delle "donne picchiate" e si omette il dato cruciale costituito dalle "donne picchiate dai compagni e successivamente uccise". Consultando i dati annuali della criminalità statunitese, su 100 mila donne picchiate dal marito, 40 vengono uccise dallo stesso e 5 da qualcun'altro. Da ciò deriva che su 45 omicidi, la percentuale di donne uccise dal marito è del 90%!
Questo è un tipico esempio di "fallacia dell'accusatore", quell'errore costituito dall'identificare la probabilità di concordanza causale (4) con la probabilità di non colpevolezza dell'imputato (5).
Su questo errore cognitivo si basa anche l'argomentazione di Francesca Poggi (professoressa associata presso il dipartimento di scienze giuridiche dell'Università degli Studi di Milano) a favore di Massimo Bossetti, imputato per l'omicidio di Yara Gambiarasio (Diritto e questioni pubbliche, 2010). La prova regina su cui si basa l'accusa è costituita dalla corrispondenza del DNA del Bossetti e quello ritrovato sul corpo della vittima. Sulla qualificazione del test del DNA come prova nel processo penale si è espressa la Cassazione nel 2004, dichiarando che "gli esiti dell’indagine genetica condotta sul Dna, atteso l’elevatissimo numero delle ricorrenze statistiche confermative, tale da rendere infinitesimale la possibilità di un errore, presentano natura di prova, e non di mero elemento indiziario ai sensi dell’art. 192 c.p.p., comma secondo". Più semplicemente può essere considerata alla stregua di una prova e quindi sufficiente per condannare il Bossetti.
Tuttavia sul test del DNA esistono zone d'ombra tali da poter mettere in dubbio l'attendibilità dello stesso e dei suoi risultati. Ma nel caso in esame come si è svolto il test del DNA? In generale, per accertare se un individuo possa essere l’autore di un dato reato, si confronta il suo DNA con quello rinvenuto sulla scena del crimine o sul corpo della vittima, impiegando un procedimento che, per analogia con quello relativo alle impronte digitali, viene chiamato fingerprinting genetico. Siccome due soggetti qualunque, non legati da rapporti di parentela, hanno in comune circa il 99,9% del patrimonio genetico, la comparazione riguarda solo alcune sezioni di DNA, dette loci: sequenze monotone (cioè che presentano una ripetitività casuale di una coppia di basi), non codificando proteine, variano da individuo a individuo con una probabilità di corrispondenza casuale che si aggira attorno allo 0,0001%.
Dopo un processo complicatissimo, in cui, tra le altre cose, si rendono confrontabili i risultati presi in laboratori diversi e si depurano i diversi DNA da parti corrotte e contaminate, si confrontano i genotipi. Nel caso collìmino perfettamente o quasi (come nel caso del Bossetti) si dice che i DNA corrispondono (6). Da un'analisi superficiale delle risultanze potrebbe affermarsi che la possibilità che la corrispondenza sia causale è nell'ordine di una su miliardi.
Ma l'errore, afferma la prof.ssa Poggi, appare essere un altro. Anche in questo caso ci si è fatti guidare dalla fallacia dell'accusatore, in altre parole l’imputato potrebbe essere innocente, pur essendo la fonte del materiale genetico. Quindi anche se il DNA rinvenuto sulla scena del reato (o sul corpo della vittima) appartenesse all’imputato, ciò non implicherebbe che sia il colpevole, potendo ben esserci altre spiegazioni di tale rinvenimento.
Nonostante le resistenze dei periti, le possibilità di falso positivo - quindi di un errore nel test del DNA - possono essere svariate: problemi tecnici come un mal funzionamento degli enzimi o delle apparecchiature impiegate; errori umani, dalle possibili contaminazioni, fino ad erronee interpretazioni del genotipo. Proprio il caso Simpson ricordato sopra ha dimostrato come le possibilità di falsi positivi si aggirino intorno all'1% (ben lontano dall'uno su un miliardo di corrispondenza causale!). Più che sulla corrispondenza causale, la difesa dovrebbe appellarsi alla possibilità di essere davanti ad un falso positivo (7).
Nel caso di Yara Gambirasio il match iniziale inoltre era solo parziale (nonostante siano state confrontate 18mila persone) e l'imputato pare essere stato incastrato solo dopo una rocambolesca ricerca dei parenti. Questo tipo di indagini familiari a ritroso che partono da campioni di migliaia di persone non è una novità, ma è considerato particolarmente vulnerabile a errori statistici.
In realtà il test del DNA è di vitale importanza, ma solo se considerato insieme a tutti gli altri indizi. Nel caso dell’omicidio di Yara vi sono altre circostanze che hanno portato all’arresto: la presenza vicino al luogo del delitto proprio il giorno dell’omicidio, per esempio, e il fatto che il sospettato sia un muratore, come l’assassino, secondo numerose tracce. Tutto questo se verificato rende più plausibile che il match del DNA non sia una coincidenza: quante persone con lo stesso profilo del DNA sono coerenti anche con il resto dello scenario del delitto? Vi sono una serie di domande aperte la cui soluzione è lasciata, si spera anche da parte dei mass media, allo svolgimento del processo.
(1) U.E. 2008, La prova scientifica in materia penale. Sintesi dei lavori presentati da Jean-Marie HUET, Direttore degli Affari Criminali e delle Grazie: "Anche il prof. Champod ha confermato nella sua presentazione la necessità di osservare una grande circospezione nel recepire questa prova scientifica che è necessariamente relativa ed ha un valore di probabilità. Il suo intervento ci ha consentito di misurare meglio gli obiettivi legati all'integrazione della prova scientifica in campo penale. Il relatore ha richiamato (...) la nostra attenzione sulla necessità che ogni attore della procedura, che si tratti di autorità giudiziarie o di esperti, sia perfettamente consapevole del ruolo da svolgere a livello di raccolta della prova o del suo utilizzo nella procedura e dell'esigenza di non oltrepassarlo. La parola dell'esperto non deve essere considerata come una verità assoluta ma come elemento sottoposto all'apprezzamento dell'autorità giudiziaria (...).
(2) Carlo Bona, Rino Rumiati, Psicologia cognitiva per il diritto. Ricordare, pensare, decidere nell'esperienza forense, il Mulino, 2013, p.110.
(3) Il guanto che faceva coppia con il guanto insanguinato che giaceva abbandonato vicino ai due cadaveri era stati trovato nel cestino di casa Simpson.
(4) Ovvero la probabilità che un individuo risponda alle caratteristiche note del colpevole.
(5) La probabilità che un individuo non sia colpevole nel caso in cui corrisponda punto per punto a tutte le caratteristiche note di chi ha commesso il fatto.
(6) Link
(7) Nel Regno Unito, le ricerche effettuate nelle banche dati di profili del dna davano, da dati ufficiali, un risultato ambiguo nel 27,6% dei casi, infatti i casi di persone arrestate per sbaglio sulla base del solo test del dna si sprecano.