Legge spazzacorrotti e art. 4-bis dell´ordinamento penitenziario: il dibattito sulla disciplina intertemporale
Modifica paginaLa legge n.3/2019 ha esteso il regime ostativo ex art. 4-bis ord. penit. ai principali delitti contro la P.A., senza prevedere una norma volta a limitarne l’applicazione ai soli fatti di reato successivi alla riforma. Tale novità ha riaperto il dibattito circa la disciplina intertemporale applicabile alle norme in tema di esecuzione penale.
Sommario: 1. La riforma. – 2. Il divieto di concessione dei benefici penitenziari: i cc.dd. reati ostativi – 3. La mancata previsione ex lege di una specifica disciplina intertemporale e i dubbi sulla natura delle nuove disposizioni. – 4. Gli orientamenti sui profili intertemporali della novella. – 4.1. (Segue): L’orientamento “tradizionalista” e la recente pronuncia della Corte di cassazione. – 4.2. (Segue): L’interpretazione costituzionalmente (e convenzionalmente) orientata e le ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale. – 5. Conclusione.
1. La riforma.
Con la legge 9 gennaio 2019, n. 3 – entrata in vigore in data 31 gennaio 2019 – il legislatore ha inteso contrastare il fenomeno della corruzione – e, più in generale, quello dei reati contro la Pubblica Amministrazione – attraverso la predisposizione di un sistema sanzionatorio particolarmente rigido. Non a caso alla riforma è stato attribuito, nel recente dibattito mediatico-politico, l’appellativo di “spazzacorrotti”[1].
Come prontamente evidenziato dalla dottrina, la novella ha portato ad una sostanziale equiparazione tra il trattamento normativo dei cc.dd. white collar crimes – con specifico riferimento ai crimini politico-economici – e quello riservato ai delitti di criminalità organizzata[2]. Basti pensare all’introduzione dell’agente sotto copertura per le indagini vertenti su tali categorie di reati[3], alla previsione del c.d. “daspo a vita per i corrotti”, nonché alla estensione ai delitti contro la Pubblica Amministrazione del regime di ostatività previsto dall’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario[4].
L’ultima delle anzidette scelte normative ha suscitato, in particolare, non poche perplessità. Difatti, pur volendo collocare la disposizione ampliativa del regime ostativo all’interno dell’area di legittimo esercizio della discrezionalità politico-criminale[5], la previsione – per come predisposta dal legislatore della riforma – parrebbe stridere, secondo alcune pronunce, con il principio di irretroattività della legge penale sfavorevole, in forza della mancata introduzione di una norma transitoria volta a escluderne l’applicazione con riferimento ai reati commessi prima dell’entrata in vigore della legge.
Alla luce dei recenti sviluppi sul punto[6] – che hanno portato alcuni giudici di merito a sollevare questione di legittimità costituzionale – è opportuno approfondire, in questa sede, le problematiche sottese ai profili intertemporali dell’innesto normativo, con specifica disamina delle posizioni assunte dalla giurisprudenza in punto di applicazione retroattiva (o meno) dello stesso. A tal fine, è fondamentale innanzitutto procedere ad una preliminare analisi dei complessi automatismi ostativi previsti dall’art. 4-bis ord. penit., per comprenderne l’incidenza sul trattamento sanzionatorio del condannato.
2. Il divieto di concessione dei benefici penitenziari: i cc.dd. reati ostativi.
Il sistema preclusivo in questione – la cui operatività viene meno in presenza di specifiche condizioni – comporta l’applicazione del divieto di concessione dell’assegnazione al lavoro all’esterno, dei permessi premio e delle misure alternative – ad esclusione della libertà anticipata – per talune categorie di soggetti, individuate sulla base del reato oggetto di condanna.
In sostanza, con l’introduzione dell’art. 4-bis ord. penit., avvenuta con il decreto legge 13 maggio 1991, n. 152, il legislatore ha voluto disciplinare le modalità esecutive della pena sulla base di un doppio binario trattamentale, caratterizzato da un regime di accesso ai benefici più rigido per talune categorie di condannati – in ragione della gravità del reato commesso e della pericolosità del reo, oggetto di presunzione ex lege[7] – ed un circuito trattamentale “ordinario” – contraddistinto da una più ampia accessibilità agli istituti premiali – per gli autori degli illeciti non rientranti nel novero dei cc.dd. reati ostativi.
Alla luce dell’attuale formulazione della disposizione de qua è possibile distinguere, con riferimento agli illeciti per cui opera il regime preclusivo, tra reati ostativi di prima fascia (la cui disciplina è sancita dai commi 1 e 1-bis dell’art. 4-bis ord. penit.) e reati ostativi di seconda fascia (previsti dal comma 1-ter della medesima disposizione). Il criterio discretivo tra le predette categorie è da individuarsi nelle condizioni richieste perché il soggetto possa liberarsi della presunzione di pericolosità e, di conseguenza, dell’operatività delle preclusioni.
Per il primo gruppo di reati, in particolare, viene disposto un divieto assoluto di concessione dei benefici penitenziari, vincibile esclusivamente per mezzo della collaborazione del reo con la giustizia nei termini previsti dall’art. 58-ter ord. penit.[8] o a norma dell'articolo 323-bis, comma 2, c.p.[9]
Al fine di temperare la rigidità del divieto sono stati previsti, al comma 1-bis, due “ammortizzatori” penitenziari. Trattasi, in primis, dell’ipotesi in cui la collaborazione sia oggettivamente irrilevante – in quanto inidonea ad incidere sulle conseguenze dell’attività criminosa o sull’accertamento dei fatti –; in tale ipotesi la concessione dei benefici è ammessa purché sia stata applicata una delle diminuenti previste agli artt. 62, n. 6, 114 e 116, comma 2, c.p. e a condizione che siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’esistenza di collegamenti tra il reo e la criminalità organizzata, terroristica o eversiva. Il secondo caso di superamento del divieto ex art. 4-bis ord. penit. è quello in cui la collaborazione sia impossibile – in virtù della scarsa partecipazione del soggetto al fatto criminoso, accertata con la sentenza di condanna – o inutile – poiché si è già addivenuti ad un completo accertamento dei fatti –, sempre a condizione che siano emersi elementi attestanti l’insussistenza di rapporti con la criminalità organizzata.
Ad una minore rigidità è invece sottoposto il regime preclusivo riguardante i reati ostativi cc.dd. di seconda fascia. In tali casi, difatti, la concessione dei benefici è vietata solo ove vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti tra l’istante e la criminalità organizzata, terroristica o eversiva.
È da notare, poi, come la complessità del sistema in esame sia dovuta, oltre che alla pervenuta copiosità del novero dei reati ostativi ed alla differenziazione delle condizioni necessarie per il superamento del divieto, anche ai numerosi rinvii all’art. 4-bis ord. penit. operati dalle altre disposizioni preclusive in tema di esecuzione penale.
Il più rilevante, ai fini della problematica in esame, è quello stabilito dall’art. 656 c.p.p., nella parte in cui disciplina il meccanismo di sospensione dell’ordine di esecuzione per le pene detentive brevi. Con riferimento ai soggetti condannati per reati ostativi tale disposizione prevede, al nono comma, che il Pubblico Ministero non può emettere, contestualmente all’ordine di esecuzione, il relativo decreto di sospensione. Viene così prevista l’immediata carcerazione per il condannato appartenente a tale categoria, il quale non potrà richiedere – e attendere – la concessione della misura alternativa da libero, ma potrà farlo soltanto nello status di soggetto in vinculis.
3. La mancata previsione ex lege di una specifica disciplina intertemporale e i dubbi sulla natura delle nuove disposizioni.
Chiarito per sommi capi il funzionamento del meccanismo ostativo di cui all’art. 4-bis ord. penit., occorre soffermarsi sugli effetti derivanti dall’ampliamento di detta disciplina a seguito dell’entrata in vigore della legge spazzacorrotti.
La novella ha difatti introdotto all’interno della lista dei reati ostativi cc.dd. di prima fascia alcuni dei delitti previsti dal titolo II del libro II del codice penale, ossia quelli di cui agli artt. 314, comma 1, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, comma 1, 320, 321, 322 e 322-bis c.p.
Va da sé che l’inserimento di tali ipotesi delittuose nel primo comma dell’art. 4-bis ord. penit. non può che precludere, ai condannati per detti reati, la possibilità di fruire delle misure alternative alla detenzione e degli altri benefici penitenziari indicati dal legislatore. Opera dunque, per tali soggetti, il regime “assolutamente” ostativo già analizzato: essi potranno aver accesso alle misure premiali solo ove abbiano collaborato – o collaborino – con la giustizia, ovvero nei casi in cui tale collaborazione sia irrilevante, impossibile o inutile.
È poi fondamentale segnalare che, in virtù del rinvio operato dall’art. 656, comma 9, c.p.p. all’art. 4-bis ord. penit., il soggetto condannato per taluno dei reati prima menzionati non può beneficiare della sospensione dell’esecuzione ex art. 656, comma 5, c.p.p., ancorché la pena espianda sia compresa nei limiti edittali previsti per l’applicazione del meccanismo sospensivo[10].
Di talché, a prescindere dal quantum di pena da espiare, l’emissione dell’ordine di esecuzione segnerà inevitabilmente, nei confronti del condannato per taluno dei “nuovi” reati ostativi, l’avvio dell’esperienza inframuraria, con la possibilità di richiedere l’accesso a forme di espiazione extra moenia soltanto dall’interno dell’istituto penitenziario, e non già da “libero sospeso”.
Orbene, il punto più critico di tale scelta legislativa è, come accennato, quello relativo all’assenza di una norma transitoria che disponga l’operatività delle nuove disposizioni esclusivamente pro futuro (soluzione, peraltro, non certo peregrina nella prassi legislativa[11]).
Preso atto dell’assenza di una previsione di tale tenore, resta da domandarsi quanto possa considerarsi praticabile il percorso ermeneutico intrapreso sin da subito da diversi organi giurisdizionali, concretizzatosi nell’applicazione delle nuove preclusioni anche nei confronti di quei soggetti che hanno commesso il reato prima del 31 gennaio 2019. In particolare, il quesito da porsi non può che riguardare la natura processuale o sostanziale del divieto di concessione dei benefici penitenziari e delle modifiche ad esso apportate dalla legge spazzacorrotti.
È innanzitutto da evidenziare come in materia vi sia un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui vige, in riferimento alle norme relative alle modalità esecutive della pena, il principio tempus regit actum[12], stante la natura processuale – e non già sostanziale – delle stesse[13]. Pertanto, volendo aderire a tale presa di posizione, le modifiche apportate all’art. 4-bis ord. penit. sono da considerarsi applicabili anche con riferimento ai reati posti in essere prima dell’entrata in vigore della legge spazzacorrotti, non trovando luogo, in tali casi, il principio di irretroattività della norma sfavorevole di cui agli artt. 25, comma 2 Cost. e 2 c.p., sancito altresì dall’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Trattasi, in particolare, dell’orientamento secondo cui “in caso di successione di disposizioni diverse concernenti misure alternative alla detenzione, che non attengono né alla cognizione dei reato, né all'irrogazione della pena, ma alle modalità esecutive di questa, non operano le regole dettate dall'art. 2 cod. pen., né il principio costituzionale di irretroattività delle disposizioni in peius, ma quelle vigenti al momento della loro applicazione in quanto la normativa che regola la concessione di benefici penitenziari non ha natura sostanziale, ma processuale e pertanto non soggiace alle regole dell'art. 2 cod. pen., ma al principio tempus regit actum”[14].
Tuttavia, come evidenziato da eminente dottrina, è indubbio come l’adesione a tale indirizzo nel caso in esame comporti l’insorgere di un certo disappunto, soprattutto in ordine alla conformità di detta scelta ermeneutica con l’approccio “sostanzialistico” oramai consolidatosi, riguardo alla natura delle disposizioni vigenti in materia penale, all’interno della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo[15], che tende a ricomprendere nel perimetro applicativo dell’art. 7 CEDU anche quelle disposizioni che, pur non vertendo prettamente sull’accertamento del reato o sull’irrogazione della pena, abbiano una incidenza afflittiva sul trattamento sanzionatorio del reo[16].
A ben vedere, poi, adottare tale orientamento significherebbe, nel caso in esame, mettere quantomeno in crisi i principi di certezza del diritto e di affidamento – inteso quest’ultimo in termini di prevedibilità della sanzione applicabile per una determinata condotta –, nonché il diritto di difesa e, più in generale, il principio del giusto processo[17].
Difatti, l’immediata applicazione di norme peggiorative di tale entità non può che significare, per coloro che abbiano commesso il reato prima dell’entrata in vigore di queste e per i quali sia già stato avviato l’iter procedimentale, una consistente modifica in itinere delle “regole del gioco”, conseguenza che stride inevitabilmente con il diritto di difesa, nella parte in cui include la scelta del rito processuale più idoneo a tutelare l’interesse dell’imputato.
Si pensi, ad esempio, al soggetto – autore di un delitto contro la Pubblica Amministrazione commesso prima del 31 gennaio 2019 – che abbia chiesto ed ottenuto, ai sensi dell’art. 444 c.p.p., l’applicazione di una pena inferiore ai quattro anni, al fine di scongiurare un possibile esito sfavorevole del procedimento di cognizione, da cui sarebbe potuta derivare l’irrogazione di una pena più severa e, di conseguenza, l’emissione di un ordine di esecuzione con carcerazione. Ebbene, costui, in forza dell’applicazione retroattiva delle modifiche apportate all’art. 4-bis ord. penit., vedrebbe travolta, ove la sentenza non fosse già divenuta irrevocabile al momento dell’entrata in vigore della novella (o, seguendo altre linee di pensiero[18], anche dopo la pervenuta irrevocabilità), la propria aspettativa di evitare l’ingresso in carcere, decisiva nell’ottica della scelta del rito alternativo operata – scelta che, si tenga presente, ha significato rinunciare alle garanzie tipiche del contraddittorio dibattimentale –.
4. Gli orientamenti sui profili intertemporali della novella.
L’assenza di una norma transitoria e la conseguente necessità di procedere ad una valutazione circa la natura – processuale o sostanziale – delle novità introdotte dalla legge spazzacorrotti – al fine di vagliarne l’applicabilità retroattiva o meno – ha portato a reazioni diverse sul piano giurisdizionale, nel quale si è tentato, in certe occasioni, di porre rimedio alla défaillance legislativa.
Sul punto sono venuti a formarsi, sino ad ora, due orientamenti: il primo, coerente con l’approccio tradizionale assunto dalla giurisprudenza legittimità, ha confermato la natura processuale del divieto di concessione dei benefici penitenziari e delle modifiche ad esso apportate dal legislatore; il secondo, facendo leva su una lettura convenzionalmente orientata delle norme penali, ha sostenuto, per converso, il carattere sostanziale dell’istituto de quo, ovvero ne ha quantomeno posto in dubbio quello processuale, rimettendo la questione alla Corte costituzionale.
4.1. (segue): L’orientamento “tradizionalista” e la recente pronuncia della Corte di cassazione.
Fedeli alla soluzione ermeneutica già consolidata in materia, molteplici organi giurisdizionali si sono espressi in favore dell’applicazione retroattiva delle modifiche apportate all’art. 4-bis ord. penit.
Una delle prime pronunce sulla questione è stata quella del Tribunale di Napoli, chiamato a decidere, in sede di incidente di esecuzione, in merito ad un ordine di esecuzione emesso dalla locale Procura della Repubblica con il quale, a fronte dell’intervenuta entrata in vigore della legge spazzacorrotti, era stata disposta la revoca della sospensione dell’esecuzione precedentemente concessa.
In tale occasione il Giudice partenopeo ha rilevato la natura processuale delle norme concernenti l’esecuzione della pena detentiva; ciò in quanto esse “non riguardano l’accertamento del reato o l’irrogazione della pena, ma soltanto le modalità esecutive della stessa”[19]. Sicché tali disposizioni, secondo il Tribunale, hanno natura processuale ed esulano, di conseguenza, dall’ambito di applicazione del principio di irretroattività della legge penale sfavorevole[20].
Dello stesso avviso la Procura Generale della Repubblica di Reggio Calabria, la quale, con una direttiva orientativa del marzo 2019, ha evidenziato l’inevitabilità dell’applicazione ex tunc della novazione legislativa – purché non sia già intervenuta sentenza di condanna irrevocabile –, stante la collocazione della stessa nel perimetro applicativo del principio tempus regit actum in virtù del suo carattere processuale[21].
Un primo allontanamento dall’orientamento “tradizionalista” è quello posto in essere, in seguito, dalla Suprema Corte di cassazione, chiamata a vagliare il ricorso proposto avverso una sentenza con cui il G.I.P. di Roma aveva applicato, previa richiesta dell’imputato ex art. 444 c.p.p., la pena di anni due mesi nove giorni dieci di reclusione. Tra le doglianze del ricorrente – che aveva optato per il rito alternativo in vista della futura sospensione dell’esecuzione della pena infraquadriennale – vi era quella attinente all’intervenuta applicazione “a sorpresa” della modifica peggiorativa del meccanismo di cui all’art. 656 c.p.p., che si poneva in contrasto, secondo la tesi difensiva, con il principio di affidamento e di prevedibilità della sanzione penale evincibile dall’art. 7 CEDU – rilevante, quale obbligo internazionale, ai fini dell’art. 117 Cost. – così come interpretato dalla più recente giurisprudenza sovranazionale. Dal che la richiesta difensiva, alla luce della mancata previsione di una disciplina intertemporale conforme ai principi propri delle norme penali sostanziali, di rimettere la questione alla Corte costituzionale.
Nella sentenza della Corte di cassazione è possibile rinvenire una lucida analisi della vexata quaestio, posto che il Giudice di legittimità, pur riconoscendo la granitica presa di posizione della giurisprudenza nomofilattica in materia, ha affermato la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale prospettata dalla difesa alla luce dei recenti approdi ermeneutici della Corte europea dei diritti dell’uomo, dai quali è possibile evincere come “i concetti di illecito penale e di pena abbiano assunto una connotazione “antiformalista” e “sostanzialista”, privilegiandosi alla qualificazione formale data dall’ordinamento (l’”etichetta” assegnata), la valutazione in ordine al tipo, alla durata, agli effetti nonché alla modalità di esecuzione della sanzione o della misura imposta”[22].
Tuttavia, la predetta questione di legittimità non è stata considerata rilevante nel caso di specie, essendo questa afferente non già alla sentenza di patteggiamento oggetto del ricorso per Cassazione, bensì all’esecuzione della pena applicata con la stessa sentenza, dunque ad uno snodo processuale diverso da quello in cui è stata eccepita. Sicché la Corte, rigettando la richiesta di attivare l’incidente di legittimità costituzionale, ha suggerito la riproposizione della stessa innanzi al giudice dell’esecuzione.
4.2. (segue): L’interpretazione costituzionalmente (e convenzionalmente) orientata e le ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale.
La non manifesta infondatezza rilevata dalla Corte di cassazione con riferimento alla possibile violazione, da parte del legislatore della riforma, dell’art. 117 Cost. – assumendo, quale norma interposta, l’art. 7 CEDU – non è stato l’unico punto di rottura con l’indirizzo assunto dalla giurisprudenza maggioritaria, che suole intendere il sistema ostativo di cui all’art. 4-bis ord. penit. quale istituto di tipo processuale, e non già di diritto sostanziale.
Difatti, ancor più temeraria si è dimostrata la lettura offerta dal G.I.P. presso il Tribunale di Como – chiamato a pronunciarsi su un incidente di esecuzione proposto avverso l’ordine di esecuzione cui, alla luce del novum legislativo, non era stata affiancata la sospensione ex art. 656, comma 5, c.p.p. –, il quale ha espressamente preso le distanze dalla tradizionale soluzione interpretativa, ritenuta ancorata ad un approccio formalistico oramai superato dalla giurisprudenza costituzionale e convenzionale[23].
I passaggi logico-argomentativi su cui si fonda il provvedimento del G.I.P. di Como sono di seguito sintetizzati.
In primis, secondo il Giudice, occorre considerare, quale punto di partenza, la ratio intrinseca dei principi di cui agli artt. 25, comma 2, Cost., 7 CEDU e 2 c.p. Tali disposizioni si fondano su un minimo comun denominatore, ossia il fine – tipico della concezione liberale del diritto penale – di tutelare il cittadino da abusi del legislatore e, più nello specifico, di rendere prevedibili ad ogni soggetto le possibili conseguenze penali della propria condotta prima che questa venga posta in essere.
Dunque, se da un lato viene subordinata l’irrogabilità della pena alla sua prevedibilità al momento della commissione del fatto, è opportuno, dall’altro, individuare cosa debba intendersi per sanzione penale. Criterio dirimente, a tal fine, non può che essere il carattere dell’afflittività. Sicché il quesito da porsi, al fine di inquadrare una norma all’interno diritto penale sostanziale e non già nel mero ambito processuale, è quello circa l’incidenza in concreto della stessa sulla natura afflittiva della pena.
Ebbene, secondo il G.I.P. di Como la natura sostanziale o processuale delle norme esaminate non può che essere valutata alla stregua di due capisaldi: la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e quella della Corte costituzionale.
Per quanto riguarda il primo punto, la posizione il Giudice di Strasburgo in materia è da tempo cristallizzata su una impostazione “sostanzialistica”, volta ad “andare al di là delle apparenze”, nonché oltre le etichette utilizzate da legislatore nell’indicazione della norma[24], sondando il carattere punitivo della stessa sulla base di elementi concreti quali, ad esempio, la natura e lo scopo della misura cui il soggetto viene sottoposto e le procedure esperite per la sua adozione ed esecuzione.
Tale lettura “sostanzialistica” delle norme di diritto penale, prosegue il Giudice, è stata più volte accolta, peraltro, dalla Corte costituzionale, la quale in passato, chiamata a pronunciarsi sulla possibilità di applicare, a prescindere dal tempus commissi delicti, le nuove forme di confisca obbligatoria, ha proceduto saggiando il contenuto afflittivo – o comunque intrinsecamente punitivo – di dette misure, andando al di là del nomen iuris utilizzato dal legislatore[25].
Di talché la stessa valutazione va fatta con riferimento alle disposizioni della legge n. 3/2019, nella parte in cui precludono la sospensione dell’esecuzione in favore dei condannati per taluno dei reati contro la Pubblica Amministrazione ivi previsti. In particolare, sostiene il G.I.P. di Como, esse si riverberano “non semplicemente sulla modalità di esecuzione della pena ma sulla stessa natura della sanzione”. La deroga in peius prevista dall’art. 656, comma 9, c.p.p. alla regola della sospensione dell’esecuzione non può, pertanto, “aprioristicamente etichettarsi come norma processuale”, incidendo questa sulla pena, “facendola ri-espandere nella sua pienezza di istituto privativo della libertà con tutte le ricadute del caso sulla libertà personale”.
Il Giudice per le indagini preliminari, procedendo ad una lettura costituzionalmente (e convenzionalmente) orientata della norma, ha dunque sostenuto la non applicabilità delle nuove preclusioni con riferimento ai condannati per reati posti in essere prima dell’entrata in vigore delle stesse – e ciò in ragione della loro natura sostanziale –, sottolineando come, anche alla luce della giurisprudenza convenzionale e costituzionale, sia oramai opportuno “superare la classica dicotomia in base alla quale si intende attribuire aprioristica natura sostanziale alla norme che influiscono sul quantum della pena e aprioristica natura processuale alle norme che incidono sulla qualità della pena, anche quando ne trasfigurano completamente il contenuto, così incidendo in modo significativo sulla libertà personale tanto quanto le variazioni del quantum della pena edittale”.
Una presa di posizione, quella appena analizzata, che ha aperto inevitabilmente una breccia nell’orientamento sinora consolidato in ordine alla natura delle norme sull’esecuzione penale, e di recente corroborata, peraltro, da ulteriori provvedimenti di merito[26].
Ad intervenire sul tema sono stati, da ultimo, il G.I.P. di Napoli[27] e la Corte D’Appello di Lecce[28]. Detti organi giudiziari hanno preferito, in luogo dell’interpretazione costituzionalmente orientata[29], attivare il giudizio incidentale di costituzionalità, sancendo la non manifesta infondatezza della relativa questione – anche in virtù di quanto recentemente affermato dalla Corte di cassazione – e la sua rilevanza nei casi di specie trattati.
Con i predetti provvedimenti è stata rilevata, in particolare, la possibile violazione, a fronte della omessa previsione ex lege di un regime intertemporale conforme ai principi vigenti per le norme penali di natura sostanziale, degli artt. 25, comma 2, Cost. e 117 Cost. (assumendo l’art. 7 CEDU quale norma interposta).
Di particolare interesse si è poi dimostrata, sul punto, una ulteriore ordinanza di rimessione, emessa dal Tribunale di Sorveglianza di Venezia[30], con la quale è stato evidenziato come, a seguito dei mutamenti normativi sviluppatisi nell’ambito dell’esecuzione penale, sia de facto vigente, nell’attuale scenario legislativo, una “diversificazione tipologica del trattamento sanzionatorio realizzabile anche in sede esecutiva post iudicatum”. Ciò ha comportato, secondo i magistrati veneziani, il superamento della visione del giudicato quale dato immutabile e cristallizzato, lasciando spazio “ad un modello che, in vista dell’obiettivo della risocializzazione della persona condannata, ammette ed anzi impone la duttile flessibilità della pena stessa”[31]. Di talché tutte le modifiche afferenti alla esecuzione della pena possono senz’altro incidere “sulla qualità essenziale della pena stessa, trasformando ad esempio una pena detentiva in una sanzione non detentiva”.
Alla luce di tale moderna visione dell’esecuzione penale, è alquanto arduo, secondo il Tribunale di Sorveglianza, continuare a sostenere la natura processuale delle norme che escludono la sospensione dell’esecuzione e la concessione delle misure alternative, in quanto queste, lungi dal limitarsi ad una mera regolazione dell’esecuzione della pena, incidono sul grado di afflittività della stessa, aggravandola inevitabilmente.
La novella stride inoltre, secondo il medesimo Giudice, con il principio di affidamento – inteso quale legittima aspettativa del cittadino di non essere destinatario di un trattamento sanzionatorio più severo rispetto a quello prevedibile al momento della commissione dell’illecito –, evincibile dagli stessi artt. 25, comma 2 Cost. e 7 CEDU, e interpretato alla luce della giurisprudenza della Corte E.D.U. in materia (su tutte, la già citata sentenza Del Rio Prada c. Spagna).
Affiancandosi a quanto rilevato dalla Corte D’Appello di Lecce, il Tribunale di Sorveglianza di Venezia ha individuato, altresì, un altro possibile profilo di incostituzionalità, ossia quello inerente alla violazione dei principi di ragionevolezza ed eguaglianza enunciati dall’art. 3 Cost. Ciò in quanto il novum legislativo, applicato anche con riferimento a fatti posti in essere ante-riforma, importa una irragionevole disparità di trattamento tra quei soggetti che, sia pur condannati per fatti avvenuti in un medesimo contesto temporale, sono risultati destinatari o meno della disciplina peggiorativa in ragione di circostanze casuali, quali ad esempio le diverse tempistiche, strettamente collegate al carico di lavoro degli uffici giudiziari territorialmente competenti, necessarie per addivenire alla decisione sull’istanza di misura alternativa.
Infine, è stata parimenti rilevata la possibile violazione degli artt. 3 e 27 Cost., posto che l’applicazione retroattiva delle preclusioni incide sui singoli percorsi rieducativi già intrapresi dai condannati senza alcuna correlazione con una valutazione sul grado di rieducazione raggiunto. Tale dubbio emerge con più vigore, peraltro, alla luce della recente sentenza della Corte costituzionale n. 149/2018, la quale ha nuovamente ribadito il carattere di “imperativo costituzionale” della funzione rieducativa della pena e il principio di non regressione incolpevole del trattamento penitenziario[32].
5. Conclusione.
Allo stato attuale, dunque, spetterà alla Corte costituzionale esprimersi sulla vexata quaestio. Tale decisione appare sin d’ora di particolare rilevanza, in quanto destinata a divenire un punto di riferimento per le successive problematiche inerenti al regime intertemporale applicabile alle norme concernenti l’esecuzione penale. Ciò soprattutto ove la Consulta dovesse accogliere l’approccio “sostanzialistico” di ispirazione sovranazionale, superando il “dogma” della natura processuale delle norme in materia di esecuzione penale, così come auspicato da gran parte della dottrina[33].
Si rammenti, peraltro, come la crescente difficoltà, rispetto all’evoluzione dell’ordinamento, della tradizionale concezione secondo cui a tali norme non potrebbe riconoscersi natura sostanziale sia già stata posta in risalto in epoca recente, insieme alla possibilità di assumere, quale discrimen per l’individuazione delle norme di diritto sostanziale, l’idoneità di queste ad incidere sugli elementi nucleari del trattamento punitivo[34].
Note e riferimenti bibliografici
[1] La legge in questione è rubricata, invero, “misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici”.
[2] In tal senso, V. Manes, L'estensione dell'art. 4-bis ord. pen. ai delitti contro la p.a.: profili di illegittimità costituzionale, in www.penalecontemporaneo.it.
[3] Per un approfondimento sul tema, si veda P. Ielo, L’agente sotto copertura per i reati di corruzione nel quadro delle tecniche speciali di investigazioni attive e passive, in www.penalecontemporaneo.it.
[4] Sin dalla presentazione del disegno di legge è stato rilevato come il contenuto della riforma – in cui rientra l’ampliamento del novero dei reati ostativi – sia proclive alla creazione di un sottosistema di pene per i corrotti “nel quale prevale la funzione general-preventiva e di difesa sociale e soccombe sempre più la funzione rieducativa” (N. Pisani, Il disegno di legge “spazza corrotti”: solo ombre, in Cass. pen., fasc. 11, 1 novembre 2018, p. 3589).
[5] Si noti, peraltro, come all’interno della giurisprudenza costituzionale sia consolidato l’orientamento secondo cui le presunzioni assolute, specie se incidenti su un diritto fondamentale della persona – quali sono quelle contenute nell’art. 4-bis ord. penit. –, debbano trovare fondamento, alla luce del principio di ragionevolezza, in peculiari profili di pericolosità sociale del destinatario. Tale assunto vale, a fronte delle pronunce del Giudice delle leggi (si vedano, ex multis, Corte cost., 25 marzo 2013, n. 57 e Corte cost., 25 febbraio 2015, n. 48), in materia cautelare, ma può essere senz’altro ripreso con riferimento ai meccanismi preclusivi vigenti nell’ordinamento penitenziario (in tal senso, V. Alberta, L’introduzione dei reati contro la pubblica amministrazione nell’art. 4 bis, co. 1, OP: questioni di diritto intertemporale, in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 2).
[6] Sul tema si veda anche L. Masera, Le prime decisioni di merito in ordine alla disciplina intertemporale applicabile alle norme in materia di esecuzione della pena contenute nella cd. legge spazzacorrotti, in www.penalecontemporaneo.it.
[7] La previsione legislativa si traduce, invero, in una sottrazione alla magistratura di sorveglianza del potere di valutare in concreto la pericolosità e la meritevolezza del detenuto (cfr. P. Corso, Manuale della esecuzione penitenziaria, 6a ed., 2015, Milano, Monduzzi, p. 197).
[8] Sicché il soggetto che sta espiando la pena relativa ad un reato ostativo di prima fascia può fruire dei benefici penitenziari ove si sia adoperato per evitare le ulteriori conseguenze derivanti dalla condotta delittuosa posta in essere, ovvero ove abbia aiutato concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria “nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l'individuazione o la cattura degli autori dei reati”.
[9] Il riferimento all'articolo 323-bis, comma 2, c.p. è stato introdotto con la legge spazzacorrotti – le cui novità principali in tema di preclusione dei benefici saranno di seguito analizzate – e consente il superamento del divieto di concessione delle misure premiali a condizione che il condannato per uno dei delitti collocati dalla novella nel novero dei cc.dd. reati ostativi si sia “efficacemente adoperato per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati per l'individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite”.
[10] Da segnalare che la Corte costituzionale ha recentemente dichiarato l’illegittimità dell’art. 656, comma 5, c.p.p. “nella parte in cui si prevede che il pubblico ministero sospende l’esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di maggior pena, non superiore ai tre anni, anziché a quattro anni”, ponendo fine al lungo dibattito relativo alla sospendibililtà o meno dell’ordine di esecuzione in caso di pena compresa tra i tre e i quattro anni (Corte cost., 2 marzo 2018, n. 41).
[11] Si veda, in particolare, il decreto legge 13 maggio 1991, n. 152, con il quale veniva stabilito che le disposizioni dell’art. 4-bis ord. penit. trovassero applicazione “esclusivamente nei confronti dei condannati per delitti commessi dopo la data di entrata in vigore del presente decreto”. Si veda altresì quanto previsto dall’art. 4 della legge 23 dicembre 2002, n. 279, il quale, a fronte dell’introduzione nel novero delle fattispecie ostative di alcuni delitti contro la persona, limitava l’applicabilità dell’automatismo preclusivo ai soli reati posti in essere successivamente all’entrata in vigore della legge stessa.
[12] Brocardo che costituisce la trasposizione, sul piano del diritto processuale, del principio generale dell'efficacia immediata dell'atto, e la cui applicazione comporta due conseguenze essenziali. Innanzitutto, a seguito dell’introduzione di una nuova legge processuale, questa regola lo svolgimento del processo dal momento dell’entrata in vigore. Inoltre, per quanto concerne gli atti procedimentali posti in essere prima dell’introduzione della novella, questi mantengono il proprio vigore (cfr. L. Barone, M. Brancaccio, P. Di Geronimo, G. Fidelbo, P. Silvestri, “Riforma Orlando” e questioni di diritto intertemporale: soluzioni organizzative presso la corte di cassazione in funzione della nomofilachia, in Cass. pen., fasc. 9, 1 settembre 2017, p. 3029B).
[13] Sicché, a partire dall’entrata in vigore della novazione legislativa, “gli atti processuali ancora da compiere saranno regolati dalla nuova disciplina; gli atti processuali istantanei già compiuti (e cioè con effetti esauriti) restano regolati dalla vecchia normativa; gli atti processuali già compiuti, i cui effetti devono essere sottoposti a controllo in tempi successivi, vedranno tali effetti regolati dalla nuova disciplina” (P. Tonini, Manuale di procedura penale, 19a ed., 2018, Milano, Giuffrè, p. 52).
[14] Orientamento da ultimo richiamato da Cass., Sez. I, 9 settembre 2016, n. 37578. Si vedano, altresì, Cass., Sez. I, 11 novembre 2009, n. 46649; Cass., Sez. I, 26 giugno 2009, n. 33890 e Cass., Sez. Un., 30 maggio 2006, n. 24561.
[15] Ex multis, la sentenza Corte eur. dir. uomo, 21 ottobre 2013, Del Rio Prada c. Spagna, con cui la Grand Chamber della Corte E.D.U. ha affermato l’operatività del principio di irretroattività con riferimento ad alcune modifiche peggiorative in materia di esecuzione penitenziaria – e, in particolare, in relazione al mutamento interpretativo del Tribunal Supremo attinente ad un istituto assimilabile alla liberazione anticipata –, alla luce della considerevole incidenza, nel caso di specie, delle stesse sulla durata in concreto della pena. Incidenza di una portata tale, secondo il Giudice di Strasburgo, da indurre ad inquadrare l’istituto oggetto d’indagine all’interno del substantive criminal law.
[16] Giova altresì richiamare, sul punto, l’oramai celebre sentenza Scoppola c. Italia, con cui la Grand Chamber si è espressa sulla natura delle disposizioni processuali in tema di rito abbreviato, evidenziando come l'art. 442, comma 2, c.p.p. sia da ritenersi “una disposizione di diritto penale materiale riguardante la severità della pena da infliggere in caso di condanna secondo il rito abbreviato” che ricade, dunque, nel campo di applicazione dell'art. 7 CEDU (in tal senso, Corte eur. dir. Uomo, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia).
[17] Sul punto, si veda V. Manes, L'estensione dell'art. 4-bis ord. pen. ai delitti contro la p.a.: profili di illegittimità costituzionale, cit.
[18] Si veda, in particolare, Procura Generale presso la Corte di Appello di Catania, ricorso per Cassazione, 28 marzo 2019, in www.giurisprudenzapenale.com, in cui è possibile leggere come, secondo la Procura Generale di Catania, la data del passaggio in giudicato della sentenza di condanna non cristallizzi il contesto normativo che definisce le modalità di esecuzione della pena.
[19] Trib. Napoli, Sez. VII penale, 28 febbraio 2019, Pres. Di Stefano, in www.giurisprudenzapenale.com.
[20] Dal che l’applicazione del principio tempus regit actum, in base al quale il Tribunale di Napoli ha però affermato, nel caso di specie, l’illegittimità della revoca dell’ordine di esecuzione con sospensione – avvenuta in ragione delle nuove disposizioni –, posto che lo stesso era stato emesso in un periodo antecedente all’entrata in vigore della legge spazzacorrotti e che, sempre secondo il Tribunale, “le successive modifiche di legge non possono interferire con i provvedimenti di esecuzione con sospensione già emessi”, in quanto con essi si “esaurisce” il rapporto esecutivo.
[21] Procura Generale della Repubblica di Reggio Calabria, Direttiva orientativa dell’11 marzo 2019, in www.penalecontemporaneo.it. Nella stessa direttiva, peraltro, è stata affrontata la problematica relativa al trattamento normativo applicabile in caso di sentenza di condanna per reati commessi ante-riforma, divenuta irrevocabile prima del 31 gennaio 2019 e non ancora eseguita. Sul punto la Procura Generale ha riconosciuto quale disciplina applicabile quella anteriore all’innesto normativo, sostenendo che “il fatto processuale al quale doversi riferire in punto di successione di norme riguardanti l’esecuzione della pena non può che essere l’irrevocabilità della condanna” (dello stesso avviso, Corte D’Appello di Catania, Sez. II penale, 22 marzo 2019, Pres. Quartarato, in www.giurisprudenzapenale.com) e precisando tuttavia come tale presa di posizione non giustifichi in alcun modo “una torsione in termini sostanzialistici di norme processuali che tali sono e restano”.
[22] Cass., Sez. VI, 14 marzo 2019, n. 12541, in www.giurisprudenzapenale.com.
[23] Tribunale di Como, Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari, 8 marzo 2019, in www.giurisprudenzapenale.com.
[24] Il G.I.P. di Como ha citato, tra le pronunce di tale tenore, Corte eur. dir. uomo, 9 febbraio 2005, Welch c. Regno Unito.
[25] Vengono indicate, in particolare, Corte cost., 4 giugno 2010, n. 196 e Corte cost., 25 novembre 2018, n. 223.
[26] Si veda, ex multis, Corte D’Appello di Reggio Calabria, Sez. II, ordinanza 10 aprile 2019, Pres. Palumbo, in www.giurisprudenzapenale.com, in cui è stato evidenziato come “la nuova norma introdotta dalla Legge n. 3/2019, che ha inserito l’art. 314 c.p. nell’elenco di cui all’art. 4-bis O.P., richiamato dall’art. 656 comma 9 lett. a) c.p.p., non possa trovare applicazione nel caso di specie avendo un contenuto intrinsecamente afflittivo e sanzionatorio”.
[27] Tribunale di Napoli, Sezione del Giudice per le Indagini Preliminari, 2 aprile 2019, in www.giurisprudenzapenale.com.
[28] Corte di Appello di Lecce, Sez. Unica Penale, 4 aprile 2019, in www.giurisprudenzapenale.com.
[29] In particolare, i summenzionati organi giurisdizionali hanno ritenuto di non procedere direttamente ad una lettura conforme alla Costituzione e alla CEDU proprio alla luce della pressoché inamovibile posizione della giurisprudenza nomofilattica in ordine alla natura processuale delle norme de quibus.
[30] Tribunale di Sorveglianza di Venezia, ordinanza 8 aprile 2019, in www.giurisprudenzapenale.com.
[31] Tale concezione del sistema sanzionatorio – con riferimento, in particolare, al regime delle misure alternative – si è da tempo affermata in dottrina, ove si tende a considerare l’ordinamento penitenziario “una legge che rimodella sia i contenuti della pena detentiva, sia la gamma delle sanzioni penali – ampliata a ricomprendere le “misure alternative alla detenzione” –, secondo una logica integralmente ispirata al principio della rieducazione del condannato” (E. Dolcini, La rieducazione: dalla realtà ai percorsi possibili, in Riv. it. dir. e proc. pen., fasc. 3, 1 settembre 2018, p. 1667)
[32] Principio sancito, per la prima volta, dalla sentenza 14 aprile 1999, n. 137, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit. “nella parte in cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere concesso nei confronti dei condannati che, prima della entrata in vigore dell’art. 15, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto e per i quali non sia accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata”. Tale principio, in particolare, si concretizza nella “tutela della legittima aspettativa del condannato a non vedere nullificati da una legge successiva gli sforzi trattamentali già realizzati” (Mag. Sorv. Vercelli, ord. 19 giugno 2014, Est. Fiorentin, in www.penalecontemporaneo.it).
[33] Si veda, in tal senso, M. Gambardella, Il grande assente nella nuova “legge spazzacorrotti”: il microsistema delle fattispecie di corruzione, Cass. pen., fasc. 1, 1 gennaio 2019, p. 44.
[34] Così G. Giostra, I delicati problemi applicativi di una norma che non c’è (a proposito di presunte ipotesi ostative alla liberazione anticipata speciale), in Dir. pen. cont., riv. trim., fasc. 3-4/2014, p. 326.