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Pubbl. Lun, 1 Apr 2019
Sottoposto a PEER REVIEW

Concorso da Procuratore di Stato: invalidità del contratto e suoi rimedi

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Vito Fiorentino


Il contratto: invalidità e rimedi (aspetti sostanziali e processuali) alla luce dei principi di conservazione e buona fede.


Sommario: 1. L’invalidità del contratto: annullabilità e nullità; 1.1. Quid iuris per l’inesistenza?; 2. Il recupero del contratto invalido; 2.1. La convalida del contratto annullabile; 2.2. La conversione del contratto nullo; 2.2.1. E’ ammissibile la convalida del contratto nullo?; 2.3. Alcuni congegni recuperatori nella legislazione speciale.

1. L’invalidità del contratto: annullabilità e nullità.

L’invalidità è lo strumento messo a disposizione dall’ordinamento giuridico per i casi in cui il contratto presenti delle anomalie tali da renderlo inidoneo ad acquisire pieno valore legale e, come tale, improduttivo di effetti giuridici meritevoli di tutela ex art. 1322 comma 2 c.c.[1].

La principale conseguenza della patologia del contratto è, pertanto, l’inefficacia. Tale esito negativo può essere automatico, come nell’ipotesi della nullità, o necessitare di un’apposita pronuncia giudiziale di carattere costitutivo, come accade per l’annullabilità. Nullità ed annullabilità sono dunque, entrambi, species del genus invalidità.

Occorre, a questo punto, differenziare l’una e l’altra figura disciplinate, rispettivamente, dagli artt. 1418 e 1425 c.c..

In un primo momento, la dottrina più tradizionale ha fatto ricorso ad un criterio di carattere quantitativo, per il quale la distinzione tra tali due qualificazioni negative dipende dalla più o meno ampia divergenza dell’atto di autonomia privata concretamente adottato dalla norma che lo disciplina. Nel primo caso si tratta di nullità, nel secondo di annullabilità.

Oggi, però, il suddetto approccio può dirsi (quasi) completamente battuto dall’impiego di un criterio distintivo di tipo qualitativo, il quale fa leva sulla natura e l’importanza degli interessi tutelati. In tale ottica, allora, la nullità interviene, almeno di regola, a protezione di interessi di portata generale, di cui è titolare l’intera collettività; di contro, l’annullabilità, pur derivante dall’inosservanza di regole poste a tutela di tutti i consociati, incide, più direttamente, su interessi particolari, relativi ai singoli contraenti.

Volendo tracciare, in modo schematico, le caratteristiche dell’una e dell’altra sistematica, possiamo affermare che: contrassegni della nullità sono l’insanabilità, l’imprescrittibilità e l’assolutezza dell’azione; quelli dell’annullabilità, invece, sono la sanabilità, la prescrittibilità e la relatività dell’azione. Prescrittibilità dell’azione, si badi bene, e non anche della corrispondente eccezione: quest’ultima, infatti, può essere sollevata sine die dalla parte convenuta in giudizio per l’esecuzione del contratto (in virtù del pricipio espresso dal brocardo latino quae temporalia ad agendum, perpetua ad excipiendum). Attributi, quelli appena elencati, evidentemente opposti, giustificati dalla diversa funzione cui i due istituti sono preordinati ed a cui s’è precedentemente accennato[2].

Sul piano degli effetti, poi, il negozio nullo, stante la gravità dell’invalidità da cui è affetto, è radicalmente inabile alla produzione dei suoi effetti tipici (anche qui viene in soccorso l’adagio di derivazione romanistica, secondo cui quod nullum est, nullum producit effectum). Diversamente, il contratto annullabile produce tutti i suoi effetti, almeno fino a quando una delle parti a ciò legittimata proponga azione di annullamento e questa venga accolta. Si parla, a tal proposito, di efficacia interinale, provvisoria o temporanea del contratto annullabile.

Occorre, tuttavia, precisare che, nel corso degli ultimi anni, la distanza tra nullità ed annullabilità ed il criterio qualitativo su cui essa è stata edificata sono state messe in discussione da tutta una serie di eccezioni normative, parecchio diffuse nella legislazione speciale, le quali prescrivono la nullità non a tutela di interessi generali o a protezione dell’ordine pubblico economico, come vorrebbe la tradizionale regola iuris, ma a fini di tutela di uno dei contraenti. Ciò avviene, per esempio, nell’ambito della normativa posta a tutela dei consumatori (Codice del Consumo) e degli investitori (Testo Unico Finanziario). Si parla, in questi casi, di nullità cd. di protezione, deducibile esclusivamente ad opera della parte nel cui interesse essa è posta a presidio[3].

1.1. Quid iuris per l’inesistenza?

Diversa dalla nullità è la categoria dell’inesistenza. Da sempre controversa è la natura giuridica di tale figura. In particolare, il dibattito si è incentrato sui rapporti tra le due sistematiche della nullità e dell’inesistenza.

Per una prima e risalente opzione ermeneutica, l’inesistenza non costituisce una categoria giuridica autonoma distinta dalla nullità, essendo la prima del tutto sfornita di un addentellato normativo all’interno del codice civile. Il silenzio del legislatore sul punto è da interpretarsi, dunque, come una chiara ed inequivoca manifestazione di disinteresse del medesimo nei confronti di tale nozione, ritenuta inutile in quanto facente riferimento ad un quid che non esiste, privo di effetti e, pertanto, giuridicamente irrilevante. Tale impostazione, dunque, finisce col sovrapporre i due concetti, intendendo l’inesistenza come mancanza di effetti, la quale è, a sua volta, il sintomo tipico della nullità.

L’impostazione più recente è, tuttavia, di diverso avviso e riconosce piena autonomia alla categoria dell’inesistenza. I sostenitori di tale teoria criticano, invero, le valutazioni fondate su un criterio meramente effettuale effettuate dalla dottrina più tradizionale. Secondo tale orientamento, infatti, occorre distinguere nettamente il profilo dell’inesistenza da quello dell’inefficacia: in tal senso, un negozio è esistente ogni qual volta esso sia qualificato, seppur in senso negativo, dall’ordinamento, indipendentemente dal fatto che esso produca o meno effetti. Il negozio nullo, dunque, ancorché viziato, è pur sempre esistente. Viceversa, nel caso di sua assoluta inqualificazione si ci trova al cospetto di un’ipotesi di inesistenza: in tale evenienza, a ben vedere, viene a mancare lo scheletro negoziale che ne permetterebbe la sussunzione entro uno degli schemi astratti previsti dalla legge.

2. Il recupero del contratto invalido.

Con l’espressione “recupero del contratto del contratto invalido” ci si riferisce al riacquisto di condizioni positive o vantaggiose oggetto di un atto di autonomia negoziale, la cui totale o parziale attuazione è intralciata dalla sussistenza di cause di invalidità del medesimo. Obiettivo del recupero è, come rileva autorevole dottrina, la massima valorizzazione ed esaltazione della volontà dei paciscenti e del loro potere di governare, come meglio credono e ritengono opportuno, i loro reciproci interessi; essa, pertanto, non deve semplicisticamente essere qualificata come mera rinuncia al diritto potestativo di chiedere l’annullamento dell’atto viziato. Il sintagma sopra impiegato, dunque, non allude né ad una precisa tecnica normativa né ad una precipua categoria negoziale; si tratta, invece, di un effetto, la cui realizzazione può essere frutto dell’impiego di diversi strumenti predisposti dalla legge[4].

Tra di essi si annoverano per primi, per la loro indubbia baricentricità nel mondo civilistico, la convalida e la conversione. La prima predisposta per i contratti annullabili (art. 1444 c.c.) e la seconda per quelli nulli (art. 1424 c.c.). Entrambe dette figure giuridiche, secondo l’opinione ad oggi largamente prevalente, sono utilizzabili anche per tutti gli altri atti di autonomia negoziale aventi contenuto patrimoniale.

2.1. La convalida del contratto annullabile.

Ai sensi dell’art. 1444 comma 1 c.c. “il contratto annullabile può essere convalidato dal contraente al quale spetta l’azione di annullamento […]”. La convalida, quindi, ha ad oggetto un contratto annullabile, ossia, stipulato da un soggetto incapace di contrattare (art. 1425 comma 1 c.c.), ovvero (secondo l’art. 1427 c.c) da un soggetto il cui consenso fu dato per errore (artt. 1428, 1429 e 1431 c.c.), estorto con violenza (artt. 1434 e ss. c.c.) o carpito con dolo (art. 1439 c.c.) o, ancora, ricorrendo le condizioni di cui all’art. 428 c.c., da persona incapace di intendere e di volere (art. 1425 comma 2 c.c.).

Proprio l’imprecisa formulazione della disposizione ult. cit. ha dato adito al sorgere di problemi ermeneutici ai quali gli studiosi hanno fornito, col passare del tempo, differenti risposte, il cui contenuto è condensato oggi in due diverse linee di pensiero. Per un primo orientamento, il rinvio interno operato dal secondo comma dell’art. 1425 c.c. è da intendersi riferito all’art. 428 nel suo complesso, compreso anche il suo primo comma: da ciò discende che, ai fini dell’annullamento di un contratto, è necessario non solamente dar prova della mala fides dell’altro contraente ma, altresì, della situazione di grave pregiudizio in cui il suo autore s’è venuto a trovare per effetto della stipula. Una diversa e maggioritaria impostazione, di contro, interpretando in chiave restrittiva la lettera dell’art. 428, considera necessaria e sufficiente, ai fini dell’annullamento, la sola mala fede dell’altro stipulante: viene incoraggiata, dunque, un’esegesi mutuamente autonoma tra i due commi della disposizione in commento (il primo facente generico riferimento agli atti; il secondo più specificamente ai contratti)[5].

Aspramente dibattuta è la natura giuridica dell’istituto della convalida.

Per un primo orientamento, si tratta di un negozio integrativo della validità del primo (invalido): si verrebbe così a profilare una fattispecie complessa, composta anche dal negozio annullabile, che, solo una volta portata a compimento, produce gli effetti di un negozio valido[6]. Tale tesi, però, non tiene conto del fatto che il negozio annullabile è, almeno finché non si decida di esercitare l’azione di annullamento, valido ed efficace anche senza necessità di ricorrere a nessun ulteriore espediente normativo.

Secondo altri Autori, invece, ci troviamo di fronte ad un negozio di sanatoria. Tale teoria, però, presuppone, erroneamente, che compito della convalida sia quello di eliminare il vizio da cui è affetto il negozio verso il quale essa si dirige. Tesi, tuttavia, non corroborata da dottrina e giurisprudenza dominanti, le quali hanno, a più riprese, sottolineato che essa non produce alcun effetto limitativo dei vizi di cui il primo negozio è asseritamente affetto.

Per altri ancora, la convalida si traduce in un atto di mera rinuncia all’azione di annullamento[7]. Se così fosse però, si è obiettato, non si spiega come mai il legislatore abbia inteso disciplinare expressis verbis tale figura giuridica. La possibilità di rinunciare all’azione di annullamento dovrebbe considerarsi, infatti, immanente all’intero impianto codicistico; la previsione di una norma ad hoc appare assolutamente superflua.

Per un’altra e prevalente tesi ancora, infine, la convalida è un negozio di accertamento: attraverso di essa, infatti, si pone fine alla situazione d’incertezza conseguente al rilievo del vizio del negozio, i cui effetti vengono a cristallizzarsi risolutivamente (teoria autorevolmente difesa da Piazza).

Vero punctum pruriens, con riguardo alla convalida, è stabilire quale forma essa deve assumere.

Da un lato, è indiscutibile che essa sia vincolata: lo stesso art. 1444 c.c. prevede, infatti, che all’interno della convalida si faccia menzione e del vizio invalidante e dell’animus convalidandi. Dall’altro, però, ci si interroga sul fatto se essa debba essere redatta o meno in forma scritta. Tre sono gli orientamenti che si contendono il campo in materia.

Per il primo e maggioritario di essi, trova applicazione, in tale ambito, il generale principio della libertà delle forme ex artt. 1325 e 1350 c.c. e 41 Cost.: nessuna norma, invero, prescrive né espressamente né implicitamente il requisito della forma scritta per quanto riguarda la convalida[8]. L’onere formale imposto dalla legge, in quanto limitativo della libertà delle parti, deve considerarsi come prescrizione di carattere eccezionale e, pertanto, inapplicabile ai casi non specialmente previsti, ostando a ciò il divieto di analogia previsto per le leggi eccezionali dall’art 14 delle Preleggi. Inoltre, non può sottacersi la circostanza che la legge, laddove ha voluto, si è preoccupata di dettare minuziosamente alcuni stringenti requisiti di sostanza della convalida; cosa che, all’opposto, non ha fatto per quel che concerne il problema della forma scritta: in assenza di specifici postulati, allora, non potrà che farsi riferimento a quelli d’ordine generale dettati in materia di forma contrattuale. Per di più, laddove si avallasse l’opposta tesi della necessità della forma scritta, si svuoterebbe di contenuto il dettato del secondo comma dell’art. 1444 c.c., il quale tratta della convalida tacita: se quest’ultima deve essere redatta in ogni caso per iscritto, non potrà mai esprimersi a mezzo di comportamenti concludenti. Tale opzione è, per i motivi di cui si è detto, fortemente condivisa da quegli studiosi che qualificano la convalida come mero atto di rinuncia all’azione di annullamento.

Per un secondo indirizzo ermeneutico, la convalida deve rivestire la stessa forma del negozio viziato cui si riferisce: trattasi del principio della simmetria delle forme previsto per tutti i negozi accessori (così, Gazzoni). A tale tesi, evidentemente, accedono soprattutto coloro i quali vedono nella convalida un negozio integrativo di quello annullabile.

Infine, secondo una diversa impostazione, la forma della convalida deve essere sempre scritta. Viene appoggiata, dunque, un’interpretazione letterale fortemente restrittiva dell’art. 1444 comma 1 c.c., secondo la quale l’atto – inteso come sinonimo di documento scritto - deve contenere l’esplicita menzione sia del vizio invalidante che della volontà convalidante[9].

Legittimato alla convalida è, giusta la previsione di cui all’art. 1441 c.c., colui nel cui interesse l’annullamento è stabilito dalla legge “mediante un atto che contenga la menzione del contratto, del motivo di annullabilità e la dichiarazione che s’intende convalidarlo” ovvero dandone volontaria esecuzione pur conoscendo il motivo invalidante, così dimostrando di essere comunque interessato al consolidamento della sua efficacia. Nel primo caso si parla di convalida espressa, nel secondo di convalida tacita (art. 1444 comma 2 c.c.).

Controversa è la natura giuridica di quest’ultima. Su tale terreno si fronteggiano due distinte tesi. Per un primo indirizzo interpretativo, si tratta di un negozio giuridico: in quanto tale, produce i suoi effetti se e solo se essa è sorretta da una corrispondente volontà convalidante. Per un opposto e minoritario orientamento, diversamente, si tratta di atto giuridico in senso stretto capace di produrre l’effetto convalidante anche in assenza della corrispondente volontà: basterebbe, pertanto, che il convalidante sia capace di intendere e di volere (capacità naturale) affinché la convalida sia perfetta. Tesi, quest’ultima, difficilmente sostenibile, però, se si ritiene, in un’ottica generale, che la convalida, indipendentemente dalla sua precisa tipologia, è comunque un negozio e non un atto giuridico; a meno di non cadere in un’insanabile contraddizione.

Non v'è unanimità di vedute, tra gli studiosi, neppure sul carattere recettizio o meno della convalida.

La tesi positiva, alla luce dei principi di buona fede e correttezza, parte dal presupposto della necessità, per l'altra o le altre parti contraenti diverse dal convalidante, di non versare in una situazione di perpetua incertezza in merito alla sorte del negozio. Per converso, altri Studiosi, prendendo le mosse dalla previsione della convalida tacita e della legittimazione relativa della convalida in generale, ritengono che essa non deve necessariamente essere conosciuta dalla/e controparte/i ai fini della sua compiuta operatività.

Condicio sine qua non della convalida, espressa o tacita sia, è che il convalidante versi, al momento in cui pone in essere la convalida stessa, “in condizione di concludere validamente il contratto”, ossia palesi una volontà cosciente e consapevole (art. 1444 comma 3 c.c.). Ciò significa, in altri termini, che la convalida deve essere immune dai vizi che colpivano l’atto annullabile[10].

Lo stesso principio vale per i contratti conclusi dalle PP.AA. in assenza delle dovute autorizzazioni: anche in questo caso, infatti, la convalida deve provenire dal soggetto (rectius organo) autorizzato per legge alla valida conclusione del contratto e munito delle necessarie autorizzazioni, pareri, nulla osta etc.[11].

Questioni spigolose affiorano, poi, nell’ipotesi in cui vi sia una pluralità di parti astrattamente legittimate alla convalida. Secondo la tesi prevalente, la convalida parziale cd. soggettiva è senz’altro ammissibile: è possibile, dunque, che l’annullamento riguardi il vincolo di una sola e non di tutte le parti senza che ciò comporti, in automatico, l’annullamento dell’intero contratto, salvo che la partecipazione di quella, in virtù dell’art. 1446 c.c., non debba, secondo le circostanze, considerarsi essenziale.

Analoga apertura viene mostrata dalla dottrina più recente anche nel caso di convalida parziale cd. oggettiva, ossia quella che si riferisce ad una parte soltanto dell’oggetto del contratto. Ciò però, in analogia a quanto previsto dall’art. 1419 c.c., a patto che non risulti che i contraenti non avrebbero concluso il contratto senza quella parte che non ne forma oggetto[12].

Da non confondere con l’ipotesi della convalida di contratto plurilaterale annullabile di cui s’è appena accennato, è la circostanza in cui l’annullabilità possa essere fatta valere da una parte plurisoggettiva. In quest’ultimo caso l’omogeneo centro di interessi di cui una parte è ambasciatrice nei confronti dell’altra è comune a più di un soggetto.

In tali evenienze, la regola è quella per la quale la legittimazione alla convalida spetta singolarmente e disgiuntamente a ciascuna delle persone colpita direttamente dalla causa di annullamento; di contro, se essa è di pertinenza di tutti i soggetti che costituiscono la parte, dovrà essere posta in essere inscindibilmente da tutti loro[13].

Non può senz’altro essere convalidato, secondo la dottrina dominante, il negozio viziato da annullabilità assoluta: ossia quella annullabilità – che potremmo definire eccezionale – che può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse, alla stessa stregua della nullità (artt. 591 comma 3, 606 comma 2, 624 comma 1 e 1441 comma 2 c.c.). Lo stesso divieto vige altresì per tutte quelle annullabilità deducibili, oltre che dai contraenti interessati (come vorrebbe la regola generale), anche da specifiche categorie di terzi o dal pubblico ministero (artt. 23 comma 1, 117 e 2098 c.c. e art. 9 comma 2 disp. att. c.c.). In tutte tali circostanze, a ben vedere, la valutazione positiva del negozio ad opera di uno dei soggetti a ciò legittimato non rimuove l’alone di incertezza legato alla sua caducacità, posto che esso continua comunque ad essere esposto al serio rischio di impugnativa da parte degli altri legittimati, i quali potrebbero essere spinti ad agire in tal senso per ragioni di interesse generale preminenti rispetto a quelle di ordine particolare di cui sono custodi i singoli paciscenti[14]. È tuttavia possibile per i privati legittimati all’annullamento rinunciare previamente a tale diritto: con la precisazione, però, che la rinuncia può avere esclusivamente carattere abdicativo e non anche convalidativo.

Un ulteriore interrogativo, ancora, concerne l’ammissibilità della convalida di tipo generico, rilasciata preventivamente o contestualmente al contratto cui si riferisce. La tesi preminente dà risposta negativa: la convalida, infatti, come s’è già sottolineato, presuppone, ai fini della sua validità, la piena conoscenza ed addirittura anche la menzione del vizio di cui il negozio, già venuto ad esistenza, è affetto. Ne discende che la convalida, per dirsi tale, non può mai né precedere il negozio cui accede né avere connotati di genericità ed astrattezza: a rigor di logica, effettivamente, il contraente non dispone di alcun mezzo materiale e giuridico per convalidare presunti vizi futuri non ancora percepibili al momento della conclusione dell’accordo. 

A questo punto della trattazione, appare utile distinguere l’istituto della convalida appena passato in rassegna con altre figure giuridiche affini, allo scopo di fugare eventuali inquietudini sistematiche e classificatorie.

Un altro congegno normativo che permette il recupero del negozio annullabile è la rettifica, disciplinata dall’art. 1432 c.c.. Tale disposizione prevede che “la parte in errore non può domandare l’annullamento del contratto se, prima che ad essa possa derivarne pregiudizio, l’altra offre di eseguirlo in modo conforme al contenuto e alle modalità del contratto che quella intendeva concludere”: trattasi, dunque, di un negozio unilaterale recettizio mediante il quale la parte non errante corregge in itinere il contenuto del contratto così da conformarlo al volere della controparte ed evitare la sua caducazione.

Nonostante la somiglianza terminologica, la rettifica, e men che mai la convalida, non va confusa con la ratifica. In quest’ultimo caso, infatti, ci troviamo di fronte a quell’istituto che permette al rappresentato-interessato di appropriarsi del negozio posto in essere dal rappresentante senza potere (art. 1399 c.c.).

Non può non notarsi, per ultimo, che la convalida presenta molti punti in comune con l’istituto della prescrizione: in entrambi i casi, in effetti, è impedito alla parte legittimata di ottenere l’annullamento del contratto. Tuttavia, le due situazioni non coincidono del tutto. Con la prescrizione, infatti, non viene mai meno la facoltà di eccepire l’annullabilità per la parte convenuta nel giudizio avente ad oggetto l’esecuzione del contratto asseritamente invalido; a contrario, a seguito di convalida, il convalidante resta privo, per il futuro, della possibilità di sindacare, anche solo in via d’eccezione, la validità dello stesso[15].

Ciò detto sul piano sostanziale, occorre, come richiesto dalla traccia, volgere l’attenzione al regime processuale della fattispecie recuperatoria in commento e, più nel dettaglio, interrogarsi sulla sua rilevabilità d’ufficio o meno.

La posizione maggiormente condivisa, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, è quella che dà risposta affermativa al quesito innanzi posto (isolato è, infatti, il principio opposto di cui s’è fatta portavoce la Cass., sez. III, in n. 5794 dell’8 marzo 2017).

Militano a sostegno di tale assunto diversi argomenti.

In primo luogo, uno di tipo letterale: nessuna norma del codice civile vieta espressamente al giudice di rilevare ex officio l’intervenuta convalida (espressa o tacita) del contratto invalido. Ciò in linea con il canone ermeneutico d’ordine generale (espresso dal brocardo latino ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit) secondo il quale il silenzio della legge implica l’assenza di qualsiasi previsione normativa di segno contrario.

In secondo luogo, siffatta impostazione risulta coerente con il dettato dell’art. 112 c.p.c., a mente del quale “il giudice […] non può pronunciare d’ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti”. Ciò vuol dire che la rilevabilità d’ufficio delle eccezioni costituisce regola generale nel processo civile; tale potere è precluso al giudice, invece, in quei soli casi in cui la legge lo riserva espressamente alla parte ovvero in cui il fatto scaturente l’eccezione corrisponda all’esercizio di un diritto potestativo azionabile in giudizio in via esclusiva da parte del suo titolare.

Detto impianto appare perfettamente in linea, inoltre, con i principi elaborati dalla costante giurisprudenza di legittimità relativamente all’individuazione dei criteri utili ai fini della distinzione tra eccezioni cd. in senso stretto ed eccezioni cd. in senso lato. Mentre le seconde sono rilevabili d’ufficio, le prime costituiscono un’ipotesi eccezionale, che ricorre quando la legge riserva alla sola parte interessata la deduzione del fatto impeditivo, modificativo o estintivo ovvero quando esse corrispondono all’esercizio di un’azione di carattere costitutivo. In quest’ultimo caso, dunque, è necessaria una specifica manifestazione di volontà dell’interessato affinché possa realizzarsi compiutamente la nuova situazione pianificata dalle parti, non essendo sufficiente la mera allegazione del fatto[16].

Ciò detto, non può revocarsi in dubbio che la proprietà tipica delle azioni in senso stretto (o, come taluno dice, in senso proprio) manchi del tutto nella convalida, la quale, anzi, fa totalmente venir meno lo ius ad impugnandum. A mezzo di essa, di fatto, il convalidante non dà volontariamente seguito all’azione di annullamento cui sarebbe teoricamente legittimato, così fissando immutabilmente gli effetti del contratto.

2.2. La conversione del contratto nullo.

L’altra figura che domina il panorama degli strumenti di carattere recuperatorio in materia di contratti all'interno del codice "Vassalli" è la conversione.

Di regola, il contratto nullo, proprio perché tale, non produce effetti giuridici. Nonostante ciò, la legge, talvolta, ammette che il negozio giuridico nullo possa, a seguito di un processo metamorfico, produrre gli effetti di un diverso contratto, del quale contenga i requisiti di forma e di sostanza/contenuto: tale fenomeno di trasformazione prende il nome di conversione (art. 1424 c.c.). A tal fine, però, è necessario che le parti diano prova che, ove avessero conosciuto la causa della nullità al momento della chiusura dell’accordo negoziale, non avrebbero proceduto alla stipula del medesimo optando, di contro, per il diverso contratto idoneo, questo sì, a produrre gli effetti desiderati. Si tratta, pertanto, di dimostrare non un qualcosa di effettivamente e realmente accaduto, quanto, invece, una volontà ipotetica: il ché, come si intuisce agilmente, costituisce uno sforzo quasi erculeo per dei soggetti verosimilmente già in lite tra loro. Laddove non fossero in contesa, con tutta probabilità, non ricorrerebbero, infatti, all’espediente della conversione, preferendo il più agevole strumento della rinnovazione: in questo caso, le parti, attraverso una nuova manifestazione di volontà, pongono in essere un negozio del tutto nuovo e scevro dai vizi invalidanti di cui era affetto il precedente[17].

Terreno di stimolanti dispute è quello relativo all’individuazione del fondamento giuridico della conversione. Alcuni lo rinvengono nel principio di conservazione degli atti ed economicità espresso dal brocardo latino utile per inutile non vitiatur, il quale consente di evitare che un atto già concluso venga caducato e posto nel nulla; altri, in modo più convincente, lo ritrovano in quello di buona fede, così valorizzando quel generale dovere di correttezza e di reciproca lealtà di comportamento che dovrebbe connotare i rapporti tra le parti nel corso delle trattative.

Secondo la più attenta dottrina, anche il contratto illecito può essere convertito. Ciò, nondimeno, a patto che ad essere illecito non sia lo scopo perseguito dalle parti: tale evenienza, infatti, renderebbe illecito, a cascata, anche il contratto convertito, in quanto volto pur sempre al conseguimento di un risultato non meritevole di tutela.

Deve ritenersi parimenti inconvertibile il contratto annullato. In questo caso, invero, la parte ha già chiaramente manifestato l’intento di non mantenere in vita il contratto in quanto viziato: volontà del tutto antitetica rispetto a quella che giustificherebbe la richiesta di conversione.

Abbiamo innanzi detto che la conversione impone, di regola, di saggiare, quasi diabolicamente, l’ipotetica volontà dei contraenti. Vi sono alcuni casi, però, in cui essa opera in automatico: ciò accade quando si ci trova al cospetto di fattispecie negoziali che possono essere validamente compiute in più forme; si parla, all’occorrenza, di conversione cd. formale o legale. Tipico esempio, a tal proposito, è quello della conversione dell’atto pubblico di cui all’art. 2701 c.c., a mente del quale “il documento formato da ufficiale pubblico incompetente o incapace ovvero senza l’osservanza delle formalità prescritte, se è sottoscritto dalle parti, ha la stessa efficacia probatoria della scrittura privata”. O ancora, può richiamarsi, in argomento, l’art. 607 c.c., il quale, in combinato disposto con gli artt. 602 e 605 c.c. e 137 disp. att., prescrive che “ il testamento segreto, che manca di qualche requisito suo proprio, ha effetto come testamento olografo, qualora di questo abbia i requisiti”.

2.2.1. È ammissibile la convalida del contratto nullo?

Il contratto nullo, come già apoditticamente dispone la rubrica dell’art. 1423 c.c. (inammissibilità della convalida [del contratto nullo]), non può essere convalidato. È fatta salva, però, la possibilità che la legge disponga diversamente. Il legislatore del ’42, dunque, ha previsto delle ipotesi eccezionali in cui è possibile che oggetto di convalida sia anche il negozio colpito dai più fastidiosi vizi invalidanti.

Si pensi, a tal riguardo, alla conferma ed esecuzione volontaria di disposizioni testamentarie e donazioni nulle ex artt. 590 e 799 c.c.. Ad onor del vero, però, la dottrina più recente e parte della giurisprudenza rifuggono oggi dall’idea secondo la quale le disposizioni in commento permetterebbero di riconoscere cittadinanza nel nostro diritto civile all’eccentrica figura della convalida del contratto nullo. Si è, in tal senso, dato rilievo alle sensibili differenze disciplinatorie previste per le une e l’altra ipotesi: nel caso del testamento e della donazione, invero, legittimati alla “convalida” sono solamente gli eredi o aventi causa ed essa può aver luogo solo dopo la morte del testore o del donante. Sulla scorta di siffatte considerazioni, allora, la tesi maggiormente convincente propende per la qualificazione della convalida, nei casi de quibus, quale elemento essenziale di una fattispecie complessa di cui fa ugualmente parte la disposizione testamentaria o donativa nulla: nel loro insieme, atto nullo e convalida, costituiscono la disposizione nulla confermata, la quale produce effetti non del tutto identici ma comunque analoghi a quelli che essa avrebbe prodotto laddove fosse stata conforme alla lettera della legge ab initio[18].

Un’altra ipotesi confermativa di contratto invalido è quella prevista dall’art. 2332 c.c. relativamente al contratto di società per azioni. Una volta avvenuta l’iscrizione presso il registro delle imprese, la nullità può essere pronunciata soltanto nei casi espressamente previsti dal comma 1 e la sua dichiarazione, ai sensi del successivo comma, non pregiudica l’efficacia degli atti compiuti dalla società stessa successivamente all’iscrizione nel registro. Anche in questo caso, però, pochi sono i tratti in comune con la disciplina dell’art. 1444 c.c., di talché pare forse più corretto disquisire più di operatività limitata della nullità piuttosto che di convalida di negozio nullo.

Le stesse considerazioni, infine, paiono estensibili anche all’ipotesi di nullità del contratto di lavoro subordinato ex art. 2126 c.c. .

2.3. Alcuni congegni recuperatori nella legislazione speciale.

Parecchi esempi di recupero del contratto nullo si rinvengono anche nella legislazione speciale. Senza alcuna pretesa di esaustività, se ne elencano di seguito tre.

Il primo che merita menzione è il caso della registrazione tardiva del contratto di locazione immobiliare. Ai sensi dell’art. 1 comma 346 della legge n. 311 del 2004, detto contratto, sia ad uso abitativo che ad uso diverso, contenente fin dall’inizio l’indicazione del canone regolarmente pattuito, è nullo se non registrato nei termini di legge. La registrazione, pertanto, si atteggia a vero e proprio requisito di validità del contratto, in linea con la tesi secondo la quale, al fine di debellare il pernicioso fenomeno delle locazioni in nero, il legislatore del ’98 ha voluto superare definitivamente l’opposta teoria dell’irrilevanza della violazione degli obblighi tributari ai fini della validità del contratto. Tale nullità è però sanata retroattivamente in caso di registrazione tardiva, da ritenersi consentita alla luce della normativa tributaria, ferme restando le sanzioni dovute per il ritardo nell’adempimento. La registrazione, ancorché intempestiva, risulta invero funzionalmente indirizzata alla realizzazione del risultato voluto dalla norma, ossia il contrasto all’evasione fiscale mirando, nel contempo, a mantenere stabili gli effetti negoziali voluti dalle parti (cioè la causa in concreto del contratto) alla luce del canone di buona fede.

Ancora, si segnala quanto previsto con riguardo a contratti, aventi ad oggetto beni immobili, stipulati in violazione delle norme edilizie di cui alla legge n. 47/1985 ed al d.P.R. n. 380/2001, che impongono alle parti specifiche dichiarazioni o allegazioni urbanistiche (cd. menzione urbanistica). Essi, sebbene nulli in quanto privi dei requisiti previsti per la loro validità, possono successivamente essere confermati attraverso la produzione tardiva della documentazione mancante. In tali casi, secondo la dottrina più accorta, ci si trova di fronte a contratti inizialmente solo apparentemente, ma non anche sostanzialmente, nulli[19].

Per ultimo, occorre volgere lo sguardo alla convalida delle clausole negoziali colpite dalla nullità di protezione prevista dal cd. Codice del Consumo (cd. nullità consumeristica, per distinguerla dalla più ampia categoria della nullità posta a protezione di qualunque contraente che versi, secondo la legge, in condizione di debolezza rispetto alla controparte, anche diverso dal consumatore in senso stretto [si pensi al locatore nell’esempio innanzi analizzato]). In ordine al regime processuale di tale peculiare figura di nullità, bisogna rilevare come la giurisprudenza di legittimità, così come quella europea, già da tempo, è decisa nell’avallare la tesi della sua rilevabilità officiosa ad opera del giudice, a condizione, però, che a tale rilievo d’ufficio non si opponga il consumatore[20]. Tale ultimo aggiustamento, invero, è imprescindibile al fine di rendere conciliabile il regime generale della rilevabilità ex officio delle nullità tutte con il peculiare profilo della legittimazione relativa (limitata al solo consumatore) di quelle di protezione[21]. Parafrasando le parole della Suprema Corte, dunque, la ratio di tale disciplina è quella di riservare al contraente più fragile, nell’esercizio della propria legittimazione esclusiva all’azione, la facoltà di non avvalersi della nullità officiosamente rilevata dal giudice a suo astratto favore, così impendendo a quest’ultimo di accertare poi in giudizio l’invalidità di cui il negozio potrebbe essere colpito. Giova puntualizzare, peraltro, che la suddetta ricostruzione pretoria, oggi estesamente condivisa anche a livello dottrinario, si mostra perfettamente coerente con il tenore letterale degli artt. 1421 (ultimo inciso) c.c. e 36 comma 3 d.lgs. 206/2005 (cod. cons.) i quali sanciscono, senza sottintesi, che “la nullità […] può essere rilevata d’ufficio dal giudice” e che “la nullità opera soltanto a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice”: rilevata appunto e non anche accertata e dichiarata se ciò intralci gli interessi del consumatore. È proprio tale disponibilità riconosciuta al contraente debole in sede processuale a costituire, in senso lato almeno, una forma di recupero del contratto (rectius clausola) invalido/a.

Movendo da tale approdo, parte della dottrina è giunta alla conclusione per la quale, anche prima dell’instaurazione di un eventuale contenzioso, il consumatore può convalidare clausole affette da nullità di protezione mediante apposita manifestazione di volontà in tal senso. Viene corroborata, dunque, la possibilità di estendere l’applicazione di norme processuali al diritto sostanziale, così concretizzando una delle ipotesi genericamente evocate dall’art. 1423 c.c. .

Il meccanismo così delineato appare tuttavia, per altri studiosi, ictu oculi lacunoso ed insufficiente a giustificare compiutamente il fenomeno della convalida extraprocessuale delle clausole viziate da invalidità di protezione. In primo luogo, si fa presente la totale mancanza di un addentellato normativo in materia all'interno tanto del codice civile che del codice del consumo: l’art. 143 cod. cons., invero, non dispone diversamente rispetto all’art. 1423 c.c., limitandosi a ribadire il principio di irrinunciabilità dei diritti attribuiti dal codice al consumatore e quello di nullità di eventuali disposizioni contrastanti con tale assioma. L’assenza di un qualche appiglio normativo costituisce, a ragione, uno steccato difficilmente scavalcabile da parte dei fautori della teoria possibilista precedentemente passata in rassegna. In aggiunta ciò, è stato fatto notare che, per tale via, si introdurrebbe surrettiziamente nel nostro ordinamento uno strumento, di fatto, volto a raggirare il sistema di tutele offerto dalla legge in favore della parte debole del rapporto contrattuale. Si darebbe vita, in definitiva, ad un impianto addirittura eccessivamente garantista per il consumatore (ai limiti della configurazione di un’inaccettabile fattispecie di abuso “legale” del diritto), in spregio ai principi di buona fede, proporzionalità ed equilibrio contrattuale.

 


Note e riferimenti bibliografici

[1] M. Fratini, Manuale di diritto civile (diritto privato), IV ed., Nel Diritto Editore, 2018, p. 458.

[2] Ivi, p. 459.

[3] Ibidem.

[4] R. Caprioli, Progetto per la voce “convalida e conversione” (diritto civile di un’enciclopedia), in www.juscivile.it, 2013, 8.

[5] M. Fratini, Compendio di diritto civile, III Ed., Nel Diritto Editore, 2015-2016, p. 555.

[6] G. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Jovene Ed., 1989, p. 257.

[7] G. Giampiccolo, La dichiarazione recettizia, Giuffrè Editore, 1959, pp. 94 – 98.

[8] C. M. Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, II Ed., Milano, 2000, p. 677.

[9] G. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, cit., p. 258.

[10] A. Torrente, P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, XIX Ed., Giuffrè Editore, 2009, pp. 616 – 617.

[11] Cass. n. 3553/1979 e n. 5983/1986.

[12] M. Balloriani, R. De Rosa, S. Mezzanotte, Manuale breve – Diritto civile, Giuffrè Editore, 2011, p. 645.

[13] G. Piazza, La convalida nel diritto privato, I. , La convalida espressa, Napoli, 1973, pp. 108 e ss.

[14] Ivi, pp. 148 e ss.

[15] A. Torrente, P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, cit., pp. 616 – 617.

[16] Cass. SS.SS.UU. UU. nn. 1099/1998 e 226/2001.

[17] A. Torrente, P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, cit., p. 612.

[18]R. Caprioli, La conferma delle disposizioni testamentarie e delle donazioni nulle,  Napoli, 1985, pp. 121 e ss.

[19]G. Alpa, Abusi edilizi e categorie civilistiche, in Contr. e impr., 1986, I, 156; diversamente, invece, C. Donisi, Abusivismo edilizio e invalidità negoziale, Napoli, 1986, pp. 82 e ss.

[20]Cass. n. 14828/2012.

[21] 21.      V. Morgante, La Corte di Cassazione torna sulla rilevabilità d’ufficio delle c. nullità di protezione poste dal T.U.F. a tutela del risparmiatore, in http://www.diritto24.ilsole24ore.com/art/dirittoCivile/2016-11-28/la-corte-cassazione-torna-rilevabilita-d-ufficio-cd-nullita-protezione-poste-tuf-tutela-risparmiatore-170626.php, 28/11/2016.