Pubbl. Dom, 10 Feb 2019
Tutela cautelare conservativa del patrimonio del fallito: il decreto ex art. 25 l.fall.
Modifica paginaLa Corte d’Appello di Firenze, sent. 11 giugno 2018, n. 1300, statuisce che la formazione del giudicato, all’esito di un giudizio a cognizione piena che presuppone quale antecedente logico, la validità del decreto ex art. 25 l. fall. preclude la successiva impugnabilità dello stesso provvedimento, anche per motivi di nullità o di inesistenza
Sommario: 1. Premessa: il giudice delegato, funzioni e poteri; 2. In particolare il potere di emettere provvedimenti cautelari e conservativi del patrimonio del fallito. Natura del provvedimento ex art. 25, comma 1, n. 2, l. fall.; 3. Il caso in esame; 4. Pregiudizialità della questione relativa all’invalidità del decreto ex art. 26, n. 2, l. fall.; 5. Considerazione conclusive.
1. Premessa: il giudice delegato, funzioni e poteri
La figura del giudice delegato ha assunto nuovi connotati in seguito alla novella di cui al d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, che attribuendo una maggiore autonomia al curatore, ha attenuato la funzione tipica del giudice quale organo direttivo e propulsivo dell’intera procedura fallimentare[1].
L’originaria impostazione dirigistica che permeava la versione originaria della legge fallimentare del 1942, improntata ad una logica sanzionatoria e liquidatoria, viene quindi attenuata dal’intervento riformatore del 2006, attraverso il riconoscimento al giudice delegato di un ruolo amministrativo di vigilanza e di mero controllo formale della procedura[2]. Nelle intenzioni del legislatore, i poteri di vigilanza e controllo sono stati rafforzati allo scopo di evitare che la maggiore autonomia gestionale riconosciuta al curatore non si risolva in una gestione incontrollata della procedura concorsuale[3].
Rispetto all’impianto originario della legge fallimentare, viene dunque confermata la sola funzione del giudice delegato in ordine alla tutela di situazioni giuridiche soggettive nonché alla composizioni dei conflitti eventualmente insorti nel corso della procedura.
Nella versione vigente della legge fallimentare, l’intervento dell’autorità giudiziaria viene quindi escluso in tutte quelle situazioni in cui i poteri gestori del giudice delegato finirebbero per imbrigliare la procedura fallimentare all’interno di inutili “giri” di autorizzazioni[4].
Inoltre, restano appannaggio del giudice delegato il potere di liquidare i compensi su proposta del curatore, nonché di autorizzare la revoca degli incarichi ai soggetti nominati da quest’ultimo che hanno prestato la propria opera all’interno della procedura concorsuale.
2. In particolare il potere di emettere provvedimenti cautelari e conservativi del patrimonio del fallito. Natura del provvedimento ex art. 25, comma 1, n. 2, l. fall.
Invariata rispetto all’originaria formulazione, è la disposizione di cui al n. 2, comma 1, art. 25, l. fall., che attribuisce al giudice delegato il potere di emettere e provocare dalle competenti autorità provvedimenti urgenti per la conservazione del patrimonio. L'unico intervento riformatore[5] che tuttavia non ha intaccato la ratio originaria della norma, è stato l’aggiunta di un inciso finale che ha posto un limite all’esercizio del potere conservativo del giudice delegato.
L’intervento riformatore ha recepito un costante orientamento giurisprudenziale antecedente alla novella del 2006, secondo il quale l'acquisizione al fallimento di beni posseduti da terzi, i quali rivendichino la titolarità di un proprio diritto esclusivo e incompatibile con la pretesa dell'organo fallimentare non è ricompresa tra i poteri del giudice delegato e non è attuabile con l'emissione del decreto di cui all’art. 25, comma 1, n. 2, l. fall.[6].
La norma nell’impianto originale rifletteva, quindi, la finalità di tutela del patrimonio del fallito con lo scopo ulteriore di preservarlo nella sua entità nonché, in ultima analisi, la finalità di tutela della par condicio creditorum all’interno della procedura concorsuale. La nuova formulazione, conseguente al d.lgs. 12 settembre 2007 n. 269, conferma la predetta finalità di tutela, ma limita il potere del giudice delegato di emettere provvedimenti conservativi su beni del fallito quando questi sono posseduti da soggetti terzi che non sono consenzienti in ordine alla restituzione di detti beni, assumendo di possederli animo domini in base a titolo opponibile al fallimento[7].
Discussa è la natura del provvedimento di acquisizione ex art. 25, comma 1, n. 2, l. fall. In giurisprudenza, si è affermata la natura cautelare del provvedimento, in quanto diretto ad assicurare la conservazione dei beni ai fini propri della procedura concorsuale. La natura cautelare è inoltre confermata dalla inidoneità ad incidere su diritti sostanziali e la conseguente non ricorribilità per cassazione, ex art. 111 Cost. La Suprema Corte ha più volte confermato la natura eminentemente amministrativa dei provvedimenti di acquisizione nonché la conseguente inattitudine ad acquistare gli effetti propri del giudicato ex art. 2909 c.c.[8].
Il provvedimento che incide su diritti di terzi incompatibili con l’acquisizione all’attivo fallimentare deve ritenersi perciò abnorme. La radicale nullità e conseguente inidoneità a produrre effetti giuridici esclude il ricorso per cassazione del provvedimento del giudice delegato[9]. Non appare perciò contestabile sotto il profilo sostanziale il principio di diritto per il quale il provvedimento che invade l’area di lecita esplicazione della potestà recuperatoria del giudice preposto alla procedura è sanzionato con la nullità e la conseguente improduttività di effetti.
3. Il caso in esame
La banca C., tra il luglio e il novembre 1995, effettuava dieci anticipazioni su fatture emesse da F. nei confronti di I S.p.a.. C., divenuta cessionaria dei relativi crediti, notificava regolarmente a I., debitore ceduto, l’intervenuta cessione. In seguito alla dichiarazione di fallimento di F., la banca C. chiedeva ammissione al passivo per la somma anticipata sulle predette fatture. Il giudice delegato del Tribunale di Livorno ammetteva la banca cessionaria al passivo in via chirografaria.
In seguito, su istanza della Curatela del fallimento di F. s.r.l., il giudice delegato emetteva provvedimento ex art. 25 l. fall. nei confronti di I. S.p.a. debitore ceduto, il quale, non contestando la debenza della somma al fallimento, provvedeva al versamento dell’importo indicato nel decreto.
La banca C. contestava tuttavia la validità del pagamento effettuato e agiva in via monitoria davanti al Tribunale di Milano, ottenendo decreto ingiuntivo con cui si intimava a I S.p.a. di pagare alla banca l’importo di cui alle predette fatture. L’ingiunta proponeva opposizione, poi riassunta davanti al competente Tribunale di Livorno, sostenendo di aver versato la somma per cui era causa alla Curatela del fallimento, in esecuzione del provvedimento ex art. 25 l. fall emesso dal giudice delegato, avverso il quale la banca C. non aveva proposto reclamo ex art. 26 l. fall.. Nelle more del giudizio, la banca C. cedeva il credito a P., che a sua volta cedeva a N..
Il Tribunale di Livorno, accogliendo l’opposizione, revocava il decreto ingiuntivo. Contro la sentenza, N. dapprima proponeva appello, ma in seguito rinunciava agli atti, facendo così passare in giudicato del provvedimento.
N. chiedeva, inoltre, alla Curatela la restituzione della somma versata a suo tempo da I. S.p.a., come credito prededucibile da soddisfarsi al di fuori del piano di riparto, presupponendo il diritto al rimborso della somma pagata da I. S.p.a. al fallimento. Il giudice delegato, su parere conforme del curatore, rigettava la richiesta.
S. S.r.l., cessionaria del credito di N., sempre sostenendo il diritto al rimborso della somma, nonché la nullità e la inesistenza del decreto del giudice delegato, proponeva domanda di insinuazione tardiva. La Curatela sollevava l’eccezione di giudicato, ritenendo che la questione della validità del decreto fosse già stata affrontata incidentalmente dal giudice del procedimento di opposizione al decreto ingiuntivo, sul quale era intervenuto il giudicato. Il Tribunale di Livorno accoglieva quindi la domanda di ammissione al passivo in prededuzione avanzata da S. S.r.l..
La tesi difensiva della Curatela veniva rigettata sulla base del presupposto che il provvedimento ex art. 25 l. fall. del giudice delegato, emesso in carenza di potere, non potesse dispiegare alcuno effetto e che non ostasse quindi alla pretesa restitutoria vantata dal S. s.r.l.. La Curatela proponeva appello domandando, in totale riforma della sentenza, il rigetto della domanda ultratardiva di ammissione al passivo avanzata da I. S.p.a., previo accertamento della definitiva validità del provvedimento ex art. 25 l. fall., o in alternativa, della legittimità del versamento effettuato da I. S.p.a. alla Curatela sulla base del provvedimento del giudice delegato.
Resisteva S. S.r.l. che chiedeva il rigetto della domanda avanzata dalla Curatela in quanto infondata in fatto e in diritto nonché la conferma della sentenza di prime cure.
4. Pregiudizialità della questione relativa all’invalidità del decreto ex art. 26, n. 2, l. fall.
Al centro della motivazione della sentenza in commento si trova la questione dell’antecedente logico necessario costituito dal giudizio implicito di validità del provvedimento acquisitivo del giudice delegato ex art. 25, comma 1, n. 2 l. fall..
La complessa questione era stata affrontata dal Tribunale di Livorno nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, promosso da I. S.p.a. contro N., all’esito del quale l’opposizione veniva accolta, sul presupposto che il pagamento di I. S.p.a. alla Curatela era stato effettuato sulla base del provvedimento ex art. 25 l. fall. del giudice delegato.
Il Tribunale, ritenendo legittimo il versamento oggetto di contestazione aveva perciò revocato il decreto ingiuntivo e accolto l’opposizione, statuendo quindi implicitamente sulla validità ed efficacia del provvedimento del giudice delegato. Il successivo gravame non era stato poi coltivato dalla parte soccombente, determinando così il passaggio in giudicato della sentenza.
Appare quindi chiaro che il giudizio implicito in ordine al provvedimento del giudice delegato, conosciuto in via incidentale dal Tribunale di Livorno con sentenza ormai coperta da giudicato, ha consentito alla Corte d’Appello di ritenere ormai incontestabile il suddetto provvedimento ex art. 25 l. fall. quanto a efficacia e validità, nonostante si trattasse, in astratto, di provvedimento non suscettibile per sua natura di passaggio in giudicato.
Nella motivazione, la Corte fa richiamo ai limiti oggettivi del giudicato che copre il dedotto e il deducibile, ossia non soltanto le questioni giuridiche e di fatto oggetto del giudizio ma anche le possibili questioni proponibili in via di azione o eccezione che, quantunque non dedotte, costituiscono precedente logico necessario della pronuncia[10].
Il tema dei limiti oggettivi del giudicato, con particolare riguardo alla estensibilità degli effetti del giudicato sostanziale all’antecedente logico necessario è tutto’ora aperto, in particolare quando questo riguarda una questione affrontata dal giudice solo incidenter tantum.
La soluzione adottata dalla sentenza in commento in commento impone quindi alcune riflessioni in ordine alla questione del precedente logico necessario e più in generale al rapporto di pregiudizialità tra questioni giuridiche che costitusicono passaggio obbligato dell’iter logico-motivazionale della decisione.
Nella motivazione della sentenza in commento la Corte dichiara che l’accertamento, in senso negativo per il cessionario, della nullità o inesistenza del provvedimento del giudice delegato, è ormai coperto dal giudicato intervenuto sulla sentenza emessa all’esito del procedimento di opposizione al decreto ingiuntivo e quindi incontrovertibile. L’accertamento della invalidità è stato affrontato incidentalmente dal giudice dell’opposizione, che, revocando il decreto ingiuntivo, ha implicitamente statuito sulla efficacia e validità del provvedimento di acquisizione. Il giudizio sulla piena validità del decreto del giudice delegato ha quindi costituito il presupposto logico e giuridico del provvedimento di accoglimento dell’opposizione il quale, essendo intervenuto il giudicato, non sarebbe più contestabile.
Occorre pertanto procedere ad una più dettagliata analisi degli aspetti del rapporto di pregiudizialità tra questioni giuridiche. La questione pregiudiziale, nel senso indicato dall’art. 34 c.p.c., è la questione che, nell’iter logico-argomentativo del giudice, costituisce un passaggio obbligato che può formare oggetto di autonomo giudizio tale da comportare, qualora ne ricorrano i presupposti, una modifica per competenza del giudice. Deve perciò trattarsi di un diritto autonomo e distinto e non di una mera questione preliminare di merito o di un fatto o di una semplice questione di fatto o di diritto[11].
Radicalmente differente dalla cognizione sulla questione pregiudiziale è la cognizione incidenter tantum che non presuppone l’esplicita domanda di parte in ordine alla pronuncia di una questione giuridica che si pone quale antecedente logico della decisione oggetto di causa.
La differenza concettuale esposta, risponde alla impostazione tradizionale di chiovendiana memoria, per la quale il giudice dell’azione è anche giudice dell’eccezione; alla luce del principio espresso, qualora le parti non abbiano richiesto, nemmeno implicitamente, una statuizione con efficacia di giudicato sulla questione pregiudiziale, essa rimane oggetto di accertamento incidenter tantum.
Anche in giurisprudenza va tuttavia riscontrato che l’adesione alla ripartizione tradizionale tra questione pregiudiziale e accertamento incidenter tantum assume un significato puramente formale, specialmente con riferimento ai limiti oggettivi del giudicato, che si estenderebbe a tutte le questioni che costituiscono presupposto logico necessario della decisione.
5. Considerazione conclusive
Alla luce di quanto espresso occorre operare una valutazione conclusiva in ordine alla questione del rapporto di pregiudizialità e al problema dell’antecedente logico necessario, alla luce del richiamo alla norma di cui all’art. 34 c.p.c..
Ebbene, sulla base dei principi espressi dalla Corte di Cassazione, la cognizione meramente incidentale su un necessario presupposto logico non determina, un limite oggettivo al dispiegarsi degli effetti del giudicato, che copre anche il giudizio implicito sulla questione affrontata incidenter tantum. La Suprema Corte[12] ha cercato di motivare tale impostazione che solo a prima vista sembra carente quanto a coerenza sistematica. La giurisprudenza fonda, infatti, il predetto principio sulla preesistenza, in ambito di rapporto di pregiudizialità in senso astratto, di una implicazione logico giuridica tra due questioni oggetto di medesimo giudizio che necessariamente supera il formalismo di cui all’art. 34 c.p.c., che lungi dall’assurgere a principio generale della materia, è da intendersi limitato alle sole questioni di competenza.
Da questo punto di vista, il principio espresso appare perfettamente coerente con la funzione di jus dicere che nella sua estrinseca razionalità precede logicamente e sistematicamente il mero tecnicismo procedurale della norma di riparto di competenza, riconfermando il ruolo prioritario del giudicato (e la collocazione topografica dell’art. 2909 c.c. lo conferma) quale pietra angolare su cui si fonda l’intera tutela giurisdizionale dei diritti.
Ebbene, nella pronuncia in commento, il giudicante aderisce a questa impostazione che risponde ad una ben precisa logica di giustizia sostanziale. In particolare il riferimento al dedotto e al deducibile, quali limiti oggettivi del giudicato consente di superare il motivo di appello incidentale, per il quale, la questione della presunta nullità o invalidità non avrebbe potuto formare oggetto di giudicato in quanto il provvedimento, emesso in totale carenza di potere, avrebbe dovuto reputarsi nullo o addirittura inesistente. Invero, la scelta operata dalla Corte d’Appello di Firenze è improntata ad evitare un contrasto fra provvedimenti in ordine alla stessa questione e ciò non soltanto per una mera ragione etica di giustizia sostanziale (trattare casi uguali in modo uguale, casi diversi in modo diverso) ma anche per una fondata ragione d’ordine logico alla quale la Corte d’Appello di Firenze ha aderito incondizionatamente.
Una soluzione diversa da quella adottata avrebbe dato causa a pronunce fra loro contrastanti (validità e successivo giudizio di nullità del decreto ex art. 25 l. fall.) che si sarebbero reciprocamente private di giustificazione, determinando, dal punto di vista sistematico, un effettivo vulnus ai generali principi processualcivilistici nonché, dal punto di vista etico, un limite alla coerenza che deve connotare l’attività giurisdizionale intesa quale ius dicere.
Pertanto, alla luce dell'analisi svolta, è possibile sintetizzare il principio di diritto enunciato dalla Corte Appello con la sentenza in commento: Il giudicato formatosi su una sentenza copre anche le questioni pregiudiziali, sebbene non dedotte esplicitamente dalle parti, che costituiscono antecedente logico essenziale e necessario della pronuncia. Pertanto, la formazione del giudicato all’esito di un giudizio a cognizione piena che presuppone quale antecedente logico la validità del decreto ex art. 25 l. fall., preclude la successiva impugnabilità dello stesso provvedimento, anche per motivi di nullità o di inesistenza.
[1] Si riporta il previgente testo dell’art. 25 l. fall: Il giudice delegato dirige le operazioni del fallimento, vigila l'opera del curatore, ed inoltre:
1) riferisce al tribunale su ogni affare per il quale è richiesto un provvedimento del collegio;
2) emette o provoca dalle competenti autorità i provvedimenti urgenti per la conservazione del patrimonio;
3) convoca il comitato dei creditori nei casi prescritti dalla legge e quando lo ritiene opportuno;
4) autorizza il curatore a nominare le persone la cui opera è richiesta nell'interesse del fallimento, salvo che la nomina sia a lui riservata per legge;
5) provvede nel più breve termine sui reclami proposti contro gli atti del curatore;
6) autorizza per iscritto il curatore a stare in giudizio come attore o come convenuto; nomina gli avvocati ed i procuratori; autorizza il curatore a compiere gli atti di straordinaria amministrazione, salvo quanto disposto dall'articolo 35. L'autorizzazione deve essere sempre data per atti determinati, e per i giudizi deve essere data per ogni grado di essi;
7) sorveglia l'opera prestata nell'interesse del fallimento da qualsiasi incaricato, revocandogli l'incarico se occorre, e ne liquida i compensi, sentito il curatore;
8) procede con la cooperazione del curatore all'esame preliminare dei crediti, dei diritti reali vantati dai terzi, e della relativa documentazione.
I provvedimenti del giudice delegato sono dati con decreto.
[2] Come si evince dalla Relazione al D.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 “il giudice delegato non è più l’organo motore della procedura, essendo stata sostituita l’attività di direzione con quella di vigilanza e controllo. Nondimeno, proprio questi poteri di sono stati rafforzati in funzione di verificare che la maggiore autonomia del curatore non si risolva in una gestione incontrollata”
[3] CAIAFA, A.,a cura di, Commentario alla legge fallimentare, Roma, Dike Giuridica Editore, 2017, pp. 168 e ss.
[4] SANTANGELI, F., a cura di, Il nuovo fallimento, Le nuove leggi civili, Milano, Giuffrè, 2006, pp. 136 e ss.
[5] Introdotto con il D.lgs. 12 settembre 2007, n. 169 “decreto correttivo”.
[6] Ex multis vedasi Cass. 15 marzo 2001, n. 3746 che ha affermato che“il provvedimento di autorizzazione del giudice delegato emesso ai sensi dell'art. 25 della legge fallimentare per consentire al curatore di recuperare, su semplice richiesta, beni detenuti da terzi che ne contestino la restituzione rivendicando un loro diritto, sia pure di natura personale, incompatibile con la pretesa del fallimento, nonché, a maggior ragione, la richiesta stessa del curatore, non sono idonei a decidere su diritti soggettivi di terzi, essendo espressioni di un potere di direzione e di sorveglianza, da una parte, e di amministrazione, dall'altra, all'interno di una procedura meramente amministrativa”
[7] CAIAFA, A.,a cura di, Commentario alla legge fallimentare, Roma, Dike Giuridica Editore, 2017, pp. 171 e ss.
[8] Si ricorda, in particolare, Cass. 18 agosto 2004, n. 16083 la quale, argomentando a contrario, ha implicitamente statuito sulla natura dei provvedimenti di acquisizione del giudice delegato, con riferimento ai cosiddetti provvedimenti abnormi “essi, lungi dal mantenersi nell'alveo dell'attività amministrativa di gestione del patrimonio fallimentare, finiscono per statuire, in via definitiva, su questioni di diritti soggettivi, che non possono essere certamente risolte nell'ambito della procedura ex artt. 25-26 legge fall., ma vanno decise in un ordinario processo di cognizione nel contraddittorio tra le parti contendenti) secondo cui, decreti siffatti, risultando emessi in radicale carenza di potere ed essendo, quindi, inidonei a disporre della situazione giuridica in contestazione, non sono suscettibili di passare in cosa giudicata;
[9] Vedi ex multis Cass. SS.UU. 9 aprile 1984, n. 2270 che ha statuito che “la facoltà del giudice delegato, a norma dell'art. 25 n. 2 l. fall., di adottare provvedimenti urgenti per la conservazione del patrimonio implica il potere di emettere decreti di acquisizione alla procedura concorsuale di eventuali sopravvenienze attive, in possesso del fallito, o del coniuge o di altri soggetti che non ne contestino la spettanza al fallimento, ma non anche di disporre l'acquisizione di beni sui quali il terzo possessore rivendichi un proprio diritto esclusivo incompatibile con la loro successiva inclusione nell'attivo fallimentare (nella specie, immobile, detenuto dalla moglie del fallito, in forza di vincolo di destinazione a fondo patrimoniale costituito in epoca anteriore alla dichiarazione di fallimento), in tale seconda ipotesi, il decreto del giudice delegato, così come il provvedimento reso dal tribunale in esito a reclamo, devono ritenersi giuridicamente inesistenti, per carenza assoluta del relativo potere, con l'ulteriore conseguenza che avverso i medesimi, non suscettibili di acquistare autorità di giudicato, non è esperibile il ricorso per cassazione, a norma dell'art. 111 cost., restando in facoltà di qualsiasi interessato di farne valere, in ogni tempo ed in ogni sede, la radicale nullità ed inidoneità a produrre effetti giuridici”, nonché, tra le ultime pronunce in materia si ricorda Cass. 5 luglio 2018, n. 17648 che ha nuovamente affermato che “il provvedimento di acquisizione del giudice delegato deve ritenersi giuridicamente inesistente, per carenza assoluta del relativo potere, con la conseguenza che avverso il medesimo, non suscettibile di acquistare autorità di giudicato, non è esperibile il ricorso per cassazione, a norma dell'art. 111 Cost., restando in facoltà di qualsiasi interessato di farne valere, in ogni tempo ed in ogni sede, la radicale nullità ed inidoneità a produrre effetti giuridici”.
[10] Significativa, tra le sentenze citate dalla Corte d’Appello, è Cass. 28 ottobre 2011, n. 22520 che nella motivazione statuisce che,” il Collegio intende dare continuità[alla giurisprudenza di legittimità resa a sezione unite] secondo la quale:
1) l'autorità del giudicato copre non solo il dedotto ma anche il deducibile in relazione al medesimo oggetto, cioè non soltanto le ragioni giuridiche fatte valere in giudizio (giudicato esplicito), ma anche tutte quelle altre - proponibili sia in via di azione che di eccezione - le quali, sebbene non dedotte specificamente, costituiscono, tuttavia, precedenti logici, essenziali e necessari della pronuncia (giudicato implicito);
2) detto principio concerne in particolare le ragioni non dedotte che si presentino come un antecedente logico necessario rispetto alla pronuncia, nel senso che deve ritenersi precluso alle parti stesse la proposizione, in altro giudizio, di qualsivoglia domanda avente ad oggetto situazioni soggettive incompatibili con il diritto accertato;
3) gli effetti del giudicato sostanziale si estendono conclusivamente non solo alla decisione relativa al bene della vita chiesto, ma a tutte le statuizioni inerenti all'esistenza e alla validità del rapporto dedotto in giudizio necessarie e indispensabili onde pervenire a quella pronuncia su di esso: e quindi anche al deducibile in relazione al medesimo oggetto, comprendente tutte le possibili questioni proponibili sia in via di azione, sia in via di eccezione, le quali sebbene non dedotte specificamente costituiscono tuttavia precedenti logici essenziali e necessari della pronuncia medesima”.
[11] Vedasi ex multis Cass. 16 luglio 2016 n. 14961 “l'accertamento con tale pronuncia effettuato non ha avuto ad oggetto una questione pregiudiziale - quale contemplata dall'art. 34 c.p.c. - ma ha riguardato uno degli elementi costitutivi del diritto alla rendita, che, come tale, per quanto si è detto, non è suscettibile di autonomo accertamento, ma può essere accertato dal giudice soltanto come fondamento della relativa pretesa fatta valere in giudizio, non di per sè e per gli effetti futuri eventualmente ricavabili da tale accertamento”, Cass. 03 maggio 2005, n. 11329 “dedotto il causa un rapporto giuridico previdenziale, diverso per soggetti, oggetto e contenuto dal rapporto di impiego, che del primo costituisce soltanto il presupposto, la tutela in sede di giurisdizione ordinaria dei diritti soggettivi di cui all'art. 442 c.p.c. non soffre deroga per il fatto che la consistenza della pretesa previdenziale dipenda da accertamenti inerenti al rapporto di impiego, dal momento che le relative questioni devono essere esaminate solamente in via incidentale e senza efficacia di giudicato (art. 34 c.p.c.), salvo che taluna delle parti, che dimostri di avervi un concreto interesse che trascenda quello immediato alla risoluzione della controversia, non chieda, nei confronti delle parti del rapporto di impiego, una pronuncia con efficacia di giudicato sulla specifica questione”.
[12] Vedasi in particolare Cass. 11 maggio 2012 n. 7405 “quando si afferma che il giudicato copre anche l'indispensabile presupposto logico-giuridico della pronuncia, altro non si vuoi dire se non che è la logica interna al rapporto giuridico a qualificare come necessario il giudicato sui vari effetti che ne possono derivare, affrancandolo dall'esplicita richiesta della parte o dalla volontà di legge, sol che si consideri che la funzione del rapporto è, appunto, quella di tenere insieme conseguenze le quali, altrimenti, vivrebbero di vita autonoma nel mondo del diritto contraddicendosi e privandosi reciprocamente di giustificazione. Si tratta di un'implicazione (appunto logico-giuridica, o meglio) di logica giuridica (espressa dall'operatore logico "se a allora è"), che come tale per la sua intrinseca razionalità precede la stessa scelta legislativa di cui all'art. 34 c.p.c. limitandone ontologicamente l'ambito di applicazione.