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Pubbl. Gio, 6 Dic 2018

L´azione contrattuale può essere modificata in quella di indebito arricchimento

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Francesco Scicutella


Le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza n. 22404 del 2018, proseguono nel rendere sempre più evanescente la tradizionale distinzione tra “mutatio” ed “emendatio libelli”, in ossequio al solco tracciato dall’ultima giurisprudenza di legittimità.


Sommario: 1. Massima; 2. La vicenda; 3. Le Questioni; 4. Le Soluzioni giuridiche; 5. Osservazioni conclusive.

1. Massima

È ammissibile la domanda subordinata di arricchimento senza causa, ex articolo 2041 c.c., proposta con la prima memoria di cui all’articolo 183, comma 6 c.p.c. durante un processo introdotto con domanda di adempimento contrattuale, qualora si riferisca alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, consistendo in una domanda connessa per incompatibilità a quella formulata in principio.

2. La vicenda

Un ingegnere adiva l’autorità giudiziaria al fine di vedere condannato un Comune al pagamento del corrispettivo pattuito in sede di stipulazione di una convenzione per la progettazione di un’opera pubblica.

Costituitasi in giudizio, la parte convenuta chiedeva il rigetto della domanda attorea per mancato avveramento della condizione sospensiva apposta nella convenzione e in via subordinata, nella denegata e non creduta ipotesi suesposta, eccepiva la nullità delle deliberazioni del conferimento dell’incarico, in quanto deficitarie del corrispettivo e delle modalità di pagamento.

In estremo subordine, essa chiedeva l’accertamento della non debenza degli interessi legali fino all’avveramento della condizione e la prescrizione del diritto di credito per il periodo antecedente al quinquennio precedente alla domanda.

In conseguenza a dette eccezioni, l’attore proponeva domanda di indennizzo per arricchimento senza causa, subordinata al rigetto di quella principale, con memoria ex articolo 183, comma 6, n. 1) c.p.c.

Ad ogni modo, i giudici di prime cure dichiaravano l’inadempimento del Comune e, per l’effetto, lo condannavano al pagamento del corrispettivo pattuito.

Sennonché, il soccombente proponeva appello, che veniva accolto dai giudici del gravame, i quali procedevano alla riforma della sentenza, dichiarando nulle le delibere assembleari e il contratto d’opera del professionista.

Essi ritenevano, altresì, inammissibile la domanda ex articolo 2041 c.c. riproposta in appello dal professionista, reputandola “domanda nuova”, implicitamente inammissibile ex articolo 183, comma 6, n. 1) c.p.c.

Contro detto provvedimento proponevano, allora, ricorso per cassazione gli eredi dell’attore, succeduti nel processo, deducendo l’erronea applicazione delle norme in tema di delibere comunali che importano spese e di quelle in materia di arricchimento senza causa, ritenendo ammissibile la relativa domanda proposta con la memoria di cui all’articolo 183, comma 6 c.p.c.

A loro volta i giudici di legittimità, rilevata la complessità della questione prospettata e l’ondivago orientamento giurisprudenziale in materia, interrogavano il Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, sulla modificabilità della domanda principale di adempimento di un’obbligazione in una richiesta di indennizzo per arricchimento senza causa con memoria ex articolo 183, comma 6, n. 1) c.p.c.

Da ultimo, il Primo Presidente, confermate le argomentazioni addotte dalla Sezione Semplice ed attestata la rilevanza della questione, rinviava con ordinanza interlocutoria la questione al vaglio delle Sezioni Unite.

3. Le questioni

Le questioni giuridiche prospettate alla Suprema Corte sono due:

1. la prima attiene ai requisiti di validità dell’obbligazione assunta dall’Ente locale mediante deliberazione assembleare;

2. la seconda concerne l’ammissibilità della modificazione della domanda principale in quella presentata in via subordinata, attesa la sua connessione con quella iniziale.

In riferimento alla questione sub 1), i ricorrenti deducevano la validità delle delibere assunte dall’Ente locale, atteso che il mezzo per adempiere all’obbligazione era rinvenibile nella previsione della condizione sospensiva di finanziamento dell’opera.

Per contro il resistente ne assumeva la nullità, ai sensi del combinato disposto degli articoli 284 e 288 R.D. 383/1934, in quanto le delibere difettavano della quantificazione del corrispettivo e dei mezzi per farvi fronte.

Per quanto concerne la questione sub 2), l’Ente locale, contrariamente a quanto affermato dagli eredi del professionista, denunciava l’inammissibilità della domanda subordinata di indennizzo per arricchimento senza causa ex articolo 2041 c.c., in quanto riconosceva in essa una mutatio libelli, impraticabile mediante le memorie ex articolo 183, comma 6 c.p.c.

Nella specie, detta domanda andava promossa nella prima difesa utile successiva alle deduzioni del Comune, ossia nell’udienza di comparizione, ai sensi dell’articolo 183, comma 5 c.p.c.

4. Le soluzioni giuridiche

Per quanto concerne la prima questione sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite, breviter, occorre affermare che sia la Corte d’Appello, sia le Sezioni Semplici si sono attenute all’orientamento maggioritario ed ormai assestato della giurisprudenza di legittimità, secondo cui le delibere comunali e provinciali con le quali si commissiona ad un professionista la realizzazione di un’opera pubblica sono valide e vincolanti soltanto ove contengano la previsione dell’ammontare del compenso dovuto e dei mezzi per farvi fronte, sulla scorta del combinato disposto degli articoli 284 e 288 R.D. 383/1934.

Conseguentemente, ove questi requisiti non siano soddisfatti, la nullità della delibera si riverbera anche sul contratto di prestazione d’opera professionale, successivamente concluso col professionista, determinando la decadenza del titolo legittimante il diritto al compenso (cfr., Cass., SS.UU., 10 giugno 2005, n. 12195; Cass., 29 ottobre 2009, n. 22922; Cass., 17 luglio 2013, n. 17469).

Sulla scorta di tale argomentazione, quindi, le Sezioni Unite hanno rigettato il primo motivo di ricorso.

Per quanto attiene, invece, alla seconda e più rilevante questione sottoposta all’attenta attività di nomofilachia, occorre rilevare che la materia relativa ai limiti tra mutatio ed emendatio libelli ha da sempre attanagliato la dottrina e la giurisprudenza, dando luogo a conclusioni ondivaghe e spesso contraddittorie.

Un prima datata pronuncia, contraria alla modifica dell’originaria domanda di adempimento contrattuale in quella ex articolo 2041 c.c., fa leva sull’eterodeterminatezza di entrambi i diritti, ossia sul ruolo primario giocato dai fatti costitutivi per la loro individuazione. Sicché, l’attore che sostituisce la prima domanda alla seconda, muta il petitum della domanda ed introduce degli elementi costitutivi (rectius l’impoverimento e l’altrui locupletazione) irrilevanti nella prima domanda ed opera, dunque, una mutatio libelli (cfr. Cass., SS.UU., 22 maggio 1996, n. 4712).

Tutto quanto da essa affermato è stato, successivamente, ribadito dalle Sezioni Unite con sentenza n. 26128/2010, le quali in relazione alla proponibilità della domanda di ingiustificato arricchimento in sede di opposizione a decreto ingiuntivo hanno sancito che le domande di adempimento contrattuale e di arricchimento senza causa sono distinte in relazione alla causa petendi (assenza di impoverimento e di locupletazione nella prima domanda, che invece sono indispensabili nella seconda) e al petitum (rectius, il pagamento del corrispettivo nella prima e l’indennizzo nella seconda).

Ne consegue che in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, è ammissibile la domanda ex articolo 2041 c.c. compiuta dal soggetto opposto, soltanto laddove l’opponente abbia introdotto dei temi di indagine che ne giustifichino la proposizione e che la prima difesa utile per effettuarla sarebbe la comparsa di costituzione.

Fuori da questa limitata ipotesi, infatti, si assiste ad una mutatio libelli inammissibile e rilevabile ex officio.

In termini più generali la questione è stata affrontata e chiarita, questa volta definitivamente ed in senso contrario rispetto al passato, dalle Sezioni Unite con sentenza n. 12310/2015. In essa, infatti, la Suprema Corte ripercorre esegeticamente tutto il tema dello ius variandi, il quale principia necessariamente da una ricognizione della struttura dell’udienza.

In essa, in particolare, i giudici di legittimità affermano che è possibile effettuare le sole modificazioni della domanda introduttiva che costituiscono emendatio libelli, ossia quelle variazioni che non intaccano la causa petendi e il petitum; mentre sarebbe assolutamente vietata la mutatio libelli, rinvenibile nell’introduzione di un petitum diverso e più ampio rispetto al precedente o di una causa petendi fondata su un fatto costitutivo fino a quel momento non sottoposto al vaglio del giudice.

Sebbene detto divieto non possa essere rinvenuto espressamente nell’articolo 183, co. 5 c.p.c., esso è implicitamente ricavabile dal divieto di nova in appello, sancito dall’articolo 345 c.p.c. e confermato dalla possibilità di modificare le domande introduttive all’atto della precisazione delle conclusioni, ex articolo 189 c.p.c.

Orbene, da quest’ampia rassegna è dato scorgere tre tipi di domande proponibili in sede processuale:

  1. Domande nuove, proponibili soltanto nell’ipotesi in cui il convenuto presenti domanda riconvenzionale ex art. 36 c.p.c., ovvero quando esse siano dirette conseguenze delle sue eccezioni;
  2. Domande modificate, pur sempre le stesse domande iniziali, modificate nelle circostanze attinenti ai fatti storici, senza tuttavia mutare la causa petendi, ossia la fattispecie concreta;
  3. Domande precisate, le medesime domande introduttive, immacolate nei propri tratti identificativi, che hanno subito dei meri chiarimenti o puntualizzazioni.

Sulla base di tali argomentazioni, i giudici della Suprema Corte hanno concluso che “La modificazione della domanda può riguardare anche uno o entrambi gli elementi identificativi della medesima sul piano oggettivo (petitum e causa petendi), sempre che la domanda modificata risulti in ogni caso connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio, e senza che per ciò solo si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte ovvero l'allungamento dei tempi processuali. Ne consegue che deve ritenersi ammissibile la modifica, nella memoria all'uopo prevista dall'art. 183 c.p.c.”.

Siffatta interpretazione non si pone in contrasto con il principio di economia processuale, né mina la ragionevole durata del processo, in quanto incide positivamente sui tempi della giustizia, favorendo una soluzione della complessiva vicenda sostanziale ed esistenziale in un unico contesto, invece di determinare la proliferazione dei processi.

Tale interpretazione rivoluzionaria così inaugurata non determina neanche alcuna "sorpresa" per la controparte né svilisce le potenzialità difensive, poiché l'eventuale modifica avviene sempre in riferimento e in connessione alla medesima vicenda sostanziale in relazione alla quale la parte è stata chiamata in giudizio e alla controparte è, in ogni caso, assegnato un congruo termine per potersi difendere e controdedurre anche sul piano probatorio.

Nel solco così tracciato si pone la sentenza in rassegna, la quale, sposando in toto quanto sancito da quest’ultimo orientamento, esclude il contrasto decisionale prospettato dalla Sezione Semplice e derivante dalla valorizzazione dell’orientamento più datato, ovvero della sentenza n. 12310/2015.

Il primo orientamento, infatti, riferendosi al procedimento monitorio si rivela più settoriale e si fonda sul criterio della diversità del petitum e della causa petendi, giudicato anacronistico dalla giurisprudenza più recente, la quale ha sostituito a detto canone quello della valutazione dell’invarianza degli elementi oggettivi della domanda.

L’esame dell’interprete deve essere, dunque, teso a verificare che la domanda originale e quella modificata ineriscano alla stessa vicenda sostanziale devoluta al giudice e rispetto alla quale la domanda modificata risponda più esattamente agli interessi della parte.

Ebbene, applicando quanto asserito al caso di specie, i giudici di legittimità hanno appurato l’esistenza di un rapporto di connessione per “incompatibilità”, tanto logica quanto normativa, tra la domanda di adempimento contrattuale e quella di arricchimento senza causa, stante il carattere sussidiario della seconda rispetto alla prima ex articolo 2042 c.c.

Inoltre, le domande si riferiscono alla stessa vicenda sostanziale e allo stesso bene della vita, inquadrabile in una pretesa di contenuto patrimoniale.

Per questo ordine di ragioni, dunque, cassando con rinvio al giudice di seconde cure, i giudici di legittimità hanno sancito la modificabilità dell’azione contrattuale in quella di indebito arricchimento, con la prima memoria ex articolo 183, comma 6 c.p.c.

5. Osservazioni conclusive

Quanto sancito dalla sentenza in rassegna non deve sorprendere, in quanto si pone in consonanza col filone inaugurato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 12310/2015, direttamente rivolto a perseguire l’economia processuale e la concentrazione dei processi presso il medesimo giudice (c.d. simultaneus processus).

In quest’ottica, dunque, la giurisprudenza ha concesso la modifica nella memoria prevista dall’articolo 183, comma 6, n. 1) c.p.c. dell’iniziale domanda di esecuzione specifica di concludere un contratto, disciplinata dall’articolo 2932 c.c., in quella di accertamento dell’avvenuto effetto traslativo (cfr. Cass., SS.UU., sent. 12310/2015).

Fuori dall’ambito contrattuale, nel rito societario è stata reputata ammissibile la modifica dell’iniziale domanda di accertamento della nullità del contratto di intermediazione finanziaria in quella di risarcimento del danno (cfr. Cass., sent. 29/2017; Cass., sent. 816/2016).

Da ultimo, in tema di responsabilità aquiliana, si registra la possibilità di modificare l’iniziale domanda ex articolo 2043 c.c. in quella di cui all’articolo 2050 c.c. (cfr. Cass., sent. 10513/2017).

Non si escludono, pertanto, ulteriori interventi dei giudici di legittimità tesi ad ampliare i confini dell’emendatio libelli, a scapito della mutatio, al precipuo scopo di adeguare la disciplina processuale alla mutata realtà normativa e di velocizzare i tempi processuali, deflazionando il carico processuale.