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Pubbl. Mar, 3 Apr 2018
Sottoposto a PEER REVIEW

Ammissibilità dei danni punitivi: le argomentazioni delle Sezioni Unite

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Renata Maddaluna


Il riconoscimento, nel nostro ordinamento, di una sentenza straniera che condanni alla corresponsione di danni punitivi: il dictum delle Sezioni Unite n. 16601 - 2017


Sommario: 1. Introduzione - 2. Il caso - 3. L'istituto dei danni punitivi - 4. Le funzioni della responsabilità civile nel nostro ordinamento - 5. Il superamento della concezione monofunzionale della responsabilità civile - 6. La responsabilità civile nella giurisprudenza di legittimità e nella giurisprudenza costituzionale - 7. La natura polifunzionale della responsabilità civile e i limiti di ammissibilità dei danni punitivi - 8. Il dictum delle Sezioni Unite n. 16601/2017 - 9. Conclusioni

1. Introduzione

La controversa questione dell’ammissibilità nel nostro ordinamento dei cosiddetti danni punitivi[1] sembra avere trovato finalmente soluzione nella recente pronuncia delle Sezioni Unite del 5 luglio 2017.

2. Il caso

La nota sentenza prende le mosse da un giudizio di delibazione di una sentenza statunitense, denunciata dalla società ricorrente – sulla scorta del tradizionale orientamento espresso da Cassazione n. 1183/2007 – come contraria all’ordine pubblico ai sensi dell'art. 64 l. n. 218/1995, come contenente una statuizione (anche) di danni punitivi.

Pur dichiarando infondati i primi due motivi di ricorso e inammissibile il terzo, le Sezioni Unite hanno affrontato, ex art. 363, co. 3, c.p.c., la questione in esso dibattuta – in quanto ritenuta di particolare importanza – in ordine alla riconoscibilità o meno anche nel nostro ordinamento, per contrasto con l’ordine pubblico, delle sentenze straniere di condanna al pagamento dei punitive damages.

La pronuncia in commento offre uno spunto non solo per ripercorrere le tappe dell’evoluzione della responsabilità civile nel pensiero dottrinario e giurisprudenziale, ma anche per riflettere sull’impatto della soluzione della Suprema Corte  nel nostro sistema giuridico.

3. L'istituto dei danni punitivi

L'istituto dei danni punitivi è noto al diritto anglosassone e, in generale, agli ordinamenti di common law,  nei quali con il termine punitive damages ci si riferisce ad una pronuncia giudiziale di condanna al pagamento di una somma che oltrepassa l'ammontare dei danni effettivamente patiti, al fine di punire comportamenti lesivi dell'altrui sfera giuridica.

Pertanto, i danni punitivi consistono nel riconoscimento al danneggiato di una somma ulteriore rispetto a quella necessaria a compensare il danno subito (compensatory damages), qualora il danneggiante abbia agito con malice (forma simile al dolo) o gross negligence (colpa grave). L'importo del risarcimento è infatti commisurato alla gravità dell’offesa ed all’intensità dell’elemento soggettivo[2].

Negli ordinamenti di common law, dunque, alla funzione compensativo- reintegratoria propria della responsabilità civile si affianca una finalità punitiva e di deterrenza, tipica della pena; come e' stato autorevolmente sostenuto, non è un caso che i punitive damages si siano diffusi in un sistema, come quello americano, in cui si apprezza una forte dipendenza dell’illecito civile da quello penale e, dunque, la tendenziale assenza di ostacoli a che anche gli strumenti del diritto civile espletino una funzione sanzionatoria[3].

Tuttavia, il nostro ordinamento, quantomeno a livello codicistico, non dà riconoscimento a tale istituto, a causa della funzione - eminentemente riparatoria - che  attribuisce al risarcimento del dannoa[4], risultando, per converso, esclusa qualunque valenza sanzionatoria della medesima.

Come efficacemente messo in luce[5], i termini del problema si riducono, allora, essenzialmente ad un bilanciamento tra due principi di rango costituzionale: da un lato, il principio di effettività della tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive ex art. 24 Cost.; dall’altro, il vincolo racchiuso nell’art. 23 Cost. che, ponendo una riserva di legge quanto ai fatti-fonte dell’obbligo di eseguire una prestazione patrimoniale, ne preclude la creazione diretta in via pretoria.

4. Le funzioni della responsabilità civile nel nostro ordinamento

Pertanto, la riflessione in ordine all’ammissibilità nell'ordinamento italiano dei danni punitivi non può che prendere le mosse dall'esame delle funzioni che la responsabilità civile è chiamata ad assolvere attualmente nel nostro ordinamento[6].

La disciplina in materia di responsabilità civile si caratterizza, nell'esperienza giuridica italiana, per una progressiva evoluzione, segnata dal passaggio da una tradizionale impostazione per così dire "sanzionatoria", mutuata dalla tradizione romanistica e cristallizzata nel codice civile del 1865, ad una funzione, viceversa, riparatoria.

Sulla scorta della tradizione romanistica, il nostro codice civile, all'art. 2043, ha fornito una descrizione della responsabilità aquiliana non in termini soggettivi – ossia basata sulla figura dell’autore dell’illecito – ma oggettivi, in cui, cioè, il connotato dell’ingiustizia viene riferita, in una prospettiva vittimologica, al danno e non più al fatto (id est al comportamento dell’agente).

In tale contesto, alla responsabilità civile è affidato il compito di restaurare la sfera patrimoniale del danneggiato, mediante il pagamento di una somma di denaro che tenda a ristorarlo delle conseguenze arrecate dal pregiudizio. Logico corollario di quest'impostazione risiede nel principio dell'integralità del risarcimento: sul presupposto della necessità di coprire tutte le conseguenze negative immediate e dirette del danno, il risarcimento, al tempo stesso,  non deve diventare occasione, per il danneggiato, di indebita locupletazione; non deve, cioè, dar luogo a cosiddette forme di overcompensation [7].

Nonostante questa nuova impostazione "riparatoria" sposata dal codice del ’42, gli interpreti hanno a lungo tempo continuato a ritenere, come sotto la vigenza del pregresso codice del 1865, che l’art. 2043 c.c. prevedesse l’obbligo del risarcimento del danno quale sanzione per una condotta illecita; che il carattere dell’illiceità discendesse sia dalla colpa del suo autore, sia dalla lesione di una posizione giuridica della vittima tutelata erga omnes da altra norma primaria; che ex art. 2043 c.c. fosse attributo della condotta; che “la responsabilità aquiliana postulasse quindi che il danno inferto presenti la duplice caratteristica di essere contra ius, e cioè lesivo di un diritto soggettivo (assoluto), e non iure, e cioè derivante da un comportamento non giustificato da altra norma[8].

Occorre giungere agli anni ’60 del secolo scorso ed alla progressiva erosione della concezione sanzionatoria della responsabilità civile, per approdare al definitivo riconoscimento della sua esclusiva funzione compensativo - riparatoria. Tale evoluzione è culminata e plasticamente cristallizzata nella storica pronuncia resa a Sezioni Unite, della Corte di Cassazione n. 500/1999 che ha chiaramente affermato che l’area della risarcibilità non è definita da altre norme recanti divieti, bensì da una clausola generale, espressa dalla formula del “danno ingiusto”, in virtù della quale è risarcibile il danno che presenti le caratteristiche dell’ingiustizia, e cioè sia inferto in difetto di una causa di giustificazione (non iure), e che si risolva nella lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento (contra ius).

Viene così riconosciuta all’art. 2043 c.c. una valenza precettiva, dovendo la stessa considerarsi, come affermano le Sezioni Unite[9], non più norma secondaria volta a sanzionare la violazione di norme primarie a tutela di diritti soggettivi assoluti, bensì essa stessa norma primaria attributiva di un nuovo ed autonomo diritto alla riparazione del danno ingiustamente patito da un soggetto per effetto dell’attività illecita altrui.

Il carattere precettivo riconosciuto all’art. 2043 c.c. e la correlativa nuova prospettiva vittimologica  accolta da dottrina e giurisprudenza hanno determinato il tramonto del dogma della funzione sanzionatoria della responsabilità civile con attribuzione alla stessa di una finalità esclusivamente compensativo- riparatoria, in cui il risarcimento assolve al fondamentale compito di restaurare la sfera patrimoniale o non patrimoniale del danneggiato, mediante l’attribuzione di una somma di danaro che tenda ad eliminare le conseguenze del fatto dannoso. Infatti, lo scopo perseguito dal legislatore con l'art. 2043 c.c. non è tanto quello di stigmatizzare condotte colpevoli, quanto, per l'appunto, di mandare esente dal pregiudizio la vittima dell’illecito, traslando il peso economico del danno sul soggetto sul quale si ritiene più equo che esso debba gravare[10].

5. Il superamento della concezione monofunzionale della responsabilità civile

La concezione monofunzionale della responsabilità civile – quale strumento di riparazione del danno patito dal soggetto leso dall’illecito altrui - è stata per lungo tempo dominante in dottrina e nella giurisprudenza di legittimità e da ultimo ribadita dalla Cassazione a Sezioni Unite del 22 luglio 2015 n. 15350 che, nel sancire l’irrisarcibilità del danno da morte immediata (c.d. danno tanatologico), ha chiaramente affermato che “l’attuale impostazione, sia dottrinaria che giurisprudenziale [...] evidenzia come risulti primaria l’esigenza (oltre che consolatoria) di riparazione (e redistribuzione tra i consociati, in attuazione del principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost.) dei pregiudizi delle vittime di atti illeciti, con la conseguenza che il momento centrale del sistema è rappresentato dal danno”; pertanto “la progressiva autonomia della disciplina della responsabilità civile da quella penale ha comportato l’obliterazione della funzione sanzionatoria e di deterrenza e l’affermarsi della funzione reintegratoria e riparatoria (oltre che consolatoria), tanto che si è ritenuto non delibabile, per contrarietà all’ordine pubblico interno, la sentenza statunitense di condanna al risarcimento dei danni “punitivi” (Cass. n. 1183 del 2007, n. 1781 del 2012), i quali si caratterizzano per un’ingiustificata sproporzione tra l’importo liquidato ed il danno effettivamente subito”.

Le citate Sezioni Unite, oltre a dire che la funzione della responsabilità civile è quella reintegrativo- riparatoria, hanno, dunque, richiamato e ribadito l’orientamento prevalente nella giurisprudenza di legittimità - fino al recente arresto di luglio 2017 in commento - da sempre contrario alla non riconoscibilità delle sentenze straniere contenenti statuizioni di condanna alla corresponsione di danni punitivi.

Il leading case in materia è costituito dalla evocata sentenza della Suprema Corte n. 1183/2007, secondo la quale “errata è da ritenere qualsiasi identificazione o anche solo parziale equiparazione del risarcimento del danno morale con l’istituto dei danni punitivi. […]. Nel vigente ordinamento l’idea della punizione e della sanzione è estranea al risarcimento del danno, così com’è indifferente la condotta del danneggiante. Alla responsabilità civile è assegnato il compito precipuo di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, mediante il pagamento di una somma di denaro che tenda ad eliminare le conseguenze del danno arrecato. E ciò vale per qualsiasi danno, compreso il danno non patrimoniale o morale[11].

Nel medesimo ordine di idee si pone poi Cass. n. 1781/2012, la quale ha precisato che, altrimenti, si produrrebbe un arricchimento senza causa da un soggetto all’altro[12].

Se questa è la posizione sui cui si è assetata la giurisprudenza di legittimità – almeno fino alle recentissime Sezioni Unite n. 16601/2017 – già da tempo una parte della dottrina aveva tuttavia messo in dubbio sia l'esclusività della funzione riparatorio - compensativa del rimedio risarcitorio nel nostro ordinamento, sia la tenuta dell’assunto dell'impossibilità di dare riconoscimento e stura a statuizioni risarcitorie straniere, con funzione sanzionatoria.

Le ragioni sottese a tale rinnovata impostazione dottrinaria risiedevano nella necessità di assicurare l’effettività della tutela civile dei diritti tutte le volte che la condanna al risarcimento del danno in funzione puramente riparatoria fosse risultata inadeguata a tale scopo.

E' stato così evidenziato che la presa d’atto anche da parte del legislatore dell’inadeguatezza, sul piano dell’effettività, di una tutela imperniata esclusivamente sul rimedio risarcitorio- compensativo costituisca la ratio dell'introduzione di una moltitudine di disposizioni normative che “segnalano la già avvenuta introduzione, nel nostro ordinamento, di rimedi risarcitori con funzione non riparatoria, ma sostanzialmente sanzionatoria[13].

Il riferimento, a titolo meramente esemplificativo, è innanzitutto all'art. 158 della l. n. 633/1941 e, soprattutto,  all'art. 125 del d.lgs. n. 30/2005, i quali riconoscono al danneggiato un risarcimento corrispondente ai profitti realizzati dall’autore del fatto, connotato da una funzione preventiva e deterrente, laddove l’agente abbia lucrato un profitto di maggiore entità rispetto alla perdita subita dal danneggiato. Al di là di queste due norme, anche l'art. 12 della l. 47/1948, in materia di diffamazione a mezzo stampa, prevede il pagamento di una somma “in relazione alla gravità dell’offesa ed alla diffusione dello stampato”; a sua volta, l'art.  art. 187 undecies, co 2 del d.lgs. 58/1998, in tema di intermediazione finanziaria, prevede, nei procedimenti penali per i reati di abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione del mercato, che la Consob possa costituirsi parte civile e “richiedere, a titolo di riparazione dei danni cagionati dal reato all’integrità del mercato, una somma determinata dal giudice, anche in via equitativa, tenendo comunque conto dell’offensività del fatto, delle qualità del colpevole e dell’entità del prodotto o del profitto conseguito dal reato”. Oltre all'ordinamento di diritto sostanziale, anche nelle norme processuali si rinvengono esempi di danni punitivi: l’art. 709 ter c.p.c. stabilisce, in particolare, che nelle controversie tra i genitori circa l’esercizio della responsabilità genitoriale o le modalità di affidamento della prole, il giudice ha il potere di emettere pronunce di condanna al risarcimento dei danni, la cui natura assume sembianze punitive; l’art. 96 c.p.c., co 3 prevede la condanna della parte soccombente al pagamento di una “somma equitativamente determinata”, in funzione sanzionatoria dell’abuso del processo[14]; l’art. 614 bis c.p.c. contempla poi il potere del giudice di fissare una somma pecuniaria per ogni violazione ulteriore o ritardo nell’esecuzione del provvedimento, “tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile" [15]; da ultimo, il d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7 (artt. 3 – 5), che ha abrogato varie fattispecie di reato previste a tutela della fede pubblica, dell’onore e del patrimonio ha affiancato al risarcimento del danno, irrogato in favore della parte lesa, se i fatti sono dolosi, lo strumento afflittivo di sanzioni pecuniarie civili, con finalità sia preventiva che repressiva[16].

Si considerino ancora: l'art. 18 co 2 del cosiddetto Statuto dei lavoratori, che prevede che in ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto; nonché l’art. 18 co 14 ove, a fronte dell’accertamento dell’illegittimità di un licenziamento di particolare gravità, la mancata reintegrazione è scoraggiata da una sanzione aggiuntiva; l'art. 28 co 2 del d.lgs. n. 81/2015, in materia di tutela del lavoratore assunto a tempo determinato e la anteriore norma di cui all'art. 35 co 5, 6 e 7 della l. 183/2010 che prevede, nei casi di conversione in contratto a tempo indeterminato per illegittimità dell’apposizione del termine, una forfettizzazione del risarcimento.

Tutti questi indici normativi sono sicuro indizio di un’evoluzione del nostro sistema giuridico che imprime alla responsabilità civile una curvatura diversa rispetto a quella che le era tradizionalmente propria, segnando il definitivo superamento della concezione monofunzionale, nonché l’abbandono di ogni “tentativo di ricostruire l’istituto aquiliano attorno ad un presupposto unificante[17].

6. La responsabilità civile nella giurisprudenza di legittimità e nella giurisprudenza costituzionale

Del resto, l’apprezzamento di un aspetto anche sanzionatorio nella responsabilità civile si rinviene tanto nella giurisprudenza di legittimità tanto nella giurisprudenza costituzionale.

Tra le più significative si richiamano le Sezioni Unite n. 9100/2015 che, in tema di responsabilità degli amministratori, afferma che “negli ultimi decenni sono state qua e là introdotte disposizioni volte a dare un connotato lato sensu sanzionatorio al risarcimento (si pensi, ad esempio, all’art. 96 c.p.c., u.c., in materia di responsabilità processuale aggravata), ma non lo si può ammettere al di fuori dei casi nei quali una qualche norma di legge chiaramente lo preveda, ostandovi il principio desumibile dall’art. 25 Cost., comma 2, nonchè dall’art. 7 della Convenzione Europea sulla salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali”.

Ancora, si pensi alla sentenza della Cassazione n. 7613/2015 che, in tema di compatibilità con l’ordine pubblico di una sentenza straniera che preveda astreintes, riconosce come “allo strumento del risarcimento del danno, cui resta affidato il fine primario di riparare il pregiudizio patito dal danneggiato, vengano ricondotti altri fini con questo eterogenei, quali la deterrenza o prevenzione generale dei fatti illeciti [...]. Si riscontra, dunque, l’evoluzione della tecnica di tutela della responsabilità civile verso una funzione anche sanzionatoria e deterrente, sulla base di vari indici normativi […] specialmente a fronte di un animus nocendi; pur restando la funzione risarcitoria quella immediata e diretta cui l’istituto è teso, tanto da restare imprescindibile il parametro del danno cagionato”.

Tra le pronunce del giudice delle leggi vengono, invece, in rilievo, in particolare, la sentenza della Corte Cost. n. 303/ 2011, che, in relazione al c.d. Collegato lavoro (l. n. 183/2010), ha chiarito che trattasi di una novella “diretta ad introdurre un criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa ed omogenea applicazione”, avente “l’effetto di approssimare l’indennità in discorso al danno potenzialmente sofferto a decorrere dalla messa in mora del datore di lavoro sino alla sentenza”, senza ammettere la detrazione dell’aliunde perceptum e così facendo assumere all’indennità onnicomprensiva “una chiara valenza sanzionatoria”. Ancora, Corte Cost. n. 152/2016, investita di questione relativa all’art. 96 c.p.c., ha sancito la natura “non risarcitoria (o, comunque, non esclusivamente tale) e, più propriamente, sanzionatoria, con finalità deflattive” di questa disposizione e dell’abrogato art. 385 c.p.c.

7. La natura polifunzionale della responsabilità civile e i limiti di ammissibilità dei danni punitivi

E' proprio dai suindicati indici normativi e dai citati arresti giurisprudenziali che muovono prima la sezione remittente e poi le Sezioni Unite del 5 luglio 2017, n. 16601, per sancire il definitivo tramonto della concezione monofunzionale della responsabilità civile.

Il supremo consesso ha riconosciuto, infatti, che “accanto alla preponderante e primaria funzione compensativo riparatoria dell’istituto (che immancabilmente lambisce la deterrenza) è emersa una natura polifunzionale […], che si proietta verso più aree, tra cui sicuramente principali sono quella preventiva (o deterrente o dissuasiva) e quella sanzionatorio-punitiva”. Le ipotesi normative richiamate rappresentano, infatti, “il complessivo segno della molteplicità di funzioni che contraddistinguono il problematico istituto”; mentre le citate pronunce del giudice delle leggi costituiscono “un riscontro a livello costituzionale della cittadinanza nell’ordinamento di una concezione polifunzionale della responsabilità civile, la quale risponde soprattutto a un’esigenza di effettività (cfr. Corte Cost. 238/2014 e Cass. n. 21255/13) della tutela che in molti casi, della cui analisi la dottrina si è fatta carico, resterebbe sacrificata nell’angustia monofunzionale”.

Pertanto, secondo la Cassazione, il riconoscimento dei danni punitivi costituisce segno della dinamicità o polifunzionalità del sistema della responsabilità civile nel nostro sistema civile, nella prospettiva della globalizzazione degli ordinamenti giuridici che presuppone la circolazione delle norme giuridiche e non la loro frammentazione.

Dunque, se in passato dottrina e giurisprudenza ritenevano che il nostro sistema sanzionatorio non consentisse fenomeni di overcompensation, essendo unicamente teso a reintegrare la perdita subita dalla vittima ed a ripristinare lo status quo ante sulla falsariga di quanto disposto dall'art. 1223 c.c. (carattere monofunzionale della responsabilità civile), le Sezioni Unite in commento, invece, predicano il carattere polifunzionale dell'attuale sistema della responsabilità civile.

Pur riconoscendo la natura polifunzionale della responsabilità civile, le Sezioni Unite si affrettano, tuttavia, a precisare che “ciò non significa che l’istituto aquiliano abbia mutato la sua essenza e che questa curvatura deterrente/sanzionatoria consenta ai giudici italiani che pronunciano in materia di danno extracontrattuale, ma anche contrattuale, di imprimere soggettive accentuazioni ai risarcimenti che vengono liquidati”. Il potere del giudice di quantificare il risarcimento deve, infatti, fare sempre i conti con precisi limiti normativi, sanciti a livello costituzionale; e, invero, “ogni imposizione di prestazione personale esige una intermediazione legislativa”, in forza del principio di cui all’art. 23 Cost. (correlato agli artt. 24 e 25).

8. Il dictum delle Sezioni Unite n. 16601/2017

Pertanto, premesso che, ai sensi  e per gli effetti dell'art. 64 lett. g) della l. n. 218/1995, che contiene la disciplina del diritto internazionale privato, la sentenza straniera può essere riconosciuta in Italia senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento quando, tra le altre cose, “le sue disposizioni non producono effetti contrari all’ordine pubblico”, si tratta stabilire se l’istituto dei danni punitivi sia in aperta contraddizione con l’intreccio di valori e norme che rilevano ai fini della delibazione.

Ebbene, appurata la polifunzionalità del sistema della responsabilità civile, l’attenzione del supremo consesso si sposta sui presupposti che la condanna ai punitive damages deve avere per non confliggere con i valori che presidiano la materia, individuati negli artt. 23, 24 e 25 Cost.

L'argomentare della giurisprudenza di legittimità si diparte, allora, da due premesse maggiori: da un lato, una lettura "aggiornata" del principio dell'ordine pubblico; dall'altro, la ricerca, all'interno del nostro ordinamento, di indizi, sottoforma di disciplina positiva, che inducano a ritenere che un determinato istituto straniero, poiché affine ad altri disciplinati nell'ordinamento nazionale, non possa dirsi, per questa ragione, estraneo o contrario all'ordine pubblico interno[18].

Se, come detto, in base alle norme richiamate, ogni prestazione patrimoniale di carattere sanzionatorio o deterrente non può essere imposta dal giudice italiano senza espressa previsione normativa, analogamente ciò dovrà essere richiesto per ogni pronuncia straniera.  Ciò vuol dire che nell'ordinamento straniero (non per forza in quello italiano) dovrà esservi un fondamento normativo ad ogni ipotesi di condanna a risarcimenti punitivi. Il principio di legalità postula, precisamente, che una condanna straniera a danni punitivi provenga da fonte normativa[19].

In altri termini, la pronuncia delle Sezioni Unite in commento, previo riconoscimento della natura polifunzionale della responsabilità civile, individua nel rispetto del principio di riserva di legge e, quindi, di tipicità della fattispecie (artt. 23 e 25 Cost., art. 7 Cedu), nonché del principio di prevedibilità della sanzione e di proporzionalità della stessa (art. 25 e 27 Cost., art. 49 Carta UE, art. 7 Cedu) lo sbarramento all’ingresso nel nostro ordinamento di sentenze straniere contenenti risarcimenti punitivi.

Dal carattere polifunzionale della responsabilità civile discende, dunque, che, accanto alla preponderante e primaria funzione compensativo- riparatoria, è emersa una natura dinamica e una funzione anche sanzionatoria della responsabilità civile.

In conclusione, sulla base delle suesposte argomentazioni le Sezioni Unite approdano al seguente principio di diritto: “nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poichè sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile. Non è quindi ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi. Il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve però corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell’ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell’atto straniero e alla loro compatibilità con l’ordine pubblico”.

In definitiva, i danni punitivi non sono ontologicamente incompatibili col nostro sistema; ciò comporta che, affinché nel nostro ordinamento, si possa condannare al pagamento di una somma ulteriore rispetto a quella necessaria per ristabilire lo status quo ante, è necessaria l'intermediazione di una norma ad hoc, in ossequio al principio di riserva di legge sancito negli art. 23, 25 co 2 Cost. e art. 7 CEDU[20].

In altri termini, i danni punitivi non sono immanenti al sistema della responsabilità civile e, quindi, non trovano applicazione tout court, ma costituiscono un'eccezione che, in quanto tale, deve essere legittimata da una specifica previsione legislativa.

9. Conclusioni

Alla luce della sentenza delle Sezioni Unite sin qui esaminata, può oggi ritenersi che il sistema della responsabilità civile come delineato dall'art. 2043 c.c. assolva ad una funzione, in linea generale, di tipo ripristinatorio- compensativa e, solo in via del tutto eccezionale ed in presenza di una espressa previsione normativa, ad una funzione anche deterrente e sanzionatoria.

La pronuncia in commento suggella, pertanto, con l'avallo e l'autorità della Corte di Cassazione nel suo supremo consesso, l'evoluzione subita negli ultimi anni dal sistema della responsabilità civile nel nostro ordinamento giuridico.

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] Anche detti “rimedi risarcitori con funzione non riparatoria ma sostanzialmente sanzionatoria”.
[2] V. OLISTERNO, L'avvento della concezione polifunzionale della responsabilità civile e i limiti di ammissibilità dei c.d. danni punitivi. Riflessione a margine di Corte di Cassazione, Sez. Un., 5 luglio 2017, n. 16601, in www.iurisprudentia.it.
[3] Così V. OLISTERNO, cit.
[4] E' noto infatti che la disciplina della responsabilità extracontrattuale si caratterizza, nell'esperienza giuridica italiana, per una progressiva evoluzione segnata dal passaggio da una tradizionale impostazione sanzionatoria mutuata dalla tradizione romanistica e cristallizzata nell'art. 1151 del codice civile del 1865 ad una funzione riparatoria. Tale valenza riparatoria implica l'assegnazione alla responsabilità civile del compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che abbia subito una lesione mediante il pagamento di una somma di denaro che tenda ad eliminare le conseguenze pregiudizievoli del danno arrecato. Conseguenza di tale impostazione è il corollario della cosiddetta integralità del risarcimento: sul presupposto che il risarcimento copra tutte le conseguenze negative immediate e dirette del danno, è necessario che lo stesso "non vada oltre" e non diventi quindi per il danneggiato occasione di indebita locupletazione.
[5] Così V. OLISTERNO, cit.
[6] Nella tradizione romanistica, l’illecito aquiliano altro non era che il risvolto civilistico del delitto: la responsabilità extracontrattuale ricorreva nelle ipotesi di illecito penale (c.d. delictum) o di un illecito comunque ad esso assimilabile (c.d. quasi delictum). Il fondamento della responsabilità aquiliana riposava, così, prevalentemente sul carattere riprovevole del fatto illecito, a fronte del quale l’ordinamento reagiva comminando una “sanzione risarcitoria”. In altri termini, secondo la concezione tradizionale – sposata anche dal codice civile del 1865 e fondata sul dogma della funzione sanzionatoria – la responsabilità civile, incentrandosi sulla persona del danneggiante, si configurava in presenza di un fatto ingiusto (contra ius), ovvero connotato da un atteggiamento doloso o colposo dell’agente e determinante un’offesa ad un diritto tutelato erga omnes da norme primarie dell’ordinamento. La lesione di tale diritto (c.d. assoluto) veniva sanzionata, pertanto, con la condanna del danneggiante al risarcimento del danno, secondo un meccanismo simile a quello proprio del diritto penale. Tale posizione (sulla matrice sanzionatoria della responsabilità civile) è stata mantenuta dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalenti anche all’indomani dell’entrata in vigore del codice del 1942.
[7] Il principio in esame è stato sancito dalla Corte di Cassazione a più riprese e, specialmente, con riguardo alle ipotesi di risarcibilità del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., al fine di evitare duplicazioni risarcitorie tramite la surrettizia liquidazione di più voci di danno, come il danno biologico e il danno morale, che, invece, vanno liquidati sotto un'unica voce di danno. Infatti, come predicato dalle Sezioni Unite sin dalla storica sentenza 11 novembre 2008, n. 28972 (anche dette "Sezioni Unite di San Martino"), la categoria del danno non patrimoniale è una categoria unitaria, all'interno della quale non è possibile rinvenire sottocategorie, se non per fini meramente descrittivi.
[8] Così V. OLISTERNO, cit.
[9] Cass., Sez. Un., n. 500/1999.
[10] Quali corollari di questa impostazione: a) si scardina l’idea dell’irrinunciabilità della colpa quale criterio di addebito della responsabilità aquiliana in favore di un sistema che vede concorrere più criteri di addebito di matrice oggettiva o semioggettiva; b) il danno risarcibile è sempre il danno-conseguenza – da allegare e provare – essendo incompatibile con il sistema un danno in re ipsa, dal momento che, altrimenti, si snaturerebbe la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso quale pena privata per un comportamento lesivo, con ingiustificabile duplicazione delle poste risarcitorie; c) infine, ai fini della liquidazione del danno, sono irrilevanti la gravità dell’offesa, il rango dell’interesse leso, l’intensità dell’elemento psicologico, dovendosi avere riguardo solo all’entità della perdita subita dal danneggiato sul piano patrimoniale o non patrimoniale.
[11] La Corte si è pronunciata sui danni punitivi per la prima volta con questa pronuncia, affermando che, in ragione dell'estraneità della concezione italiana della responsabilità aquiliana, in ogni connotazione sanzionatoria incentrata sulla condotta del danneggiante, non poteva darsi applicazione nel nostro ordinamento ad una sentenza dell'Alabama che aveva condannato una società italiana a pagare ad un cittadino americano una ingente somma di denaro a titolo risarcitorio "esemplare" dei danni derivanti dalla morte del figlio. Con questa pronuncia la Corte disattese il rilievo della difesa del cittadino americano ricorrente secondo cui esisterebbero "frammenti di norme" e, in particolare, l'art. 1382 c.c. in tema di clausola penale, che consentirebbero di ritenere non estranea al nostro ordinamento la concezione punitiva del danno. La Corte, al contrario, evidenziò che la clausola penale, lungi dal rispondere a logiche sanzionatorie, assolve piuttosto una funzione di rafforzamento dell'obbligo contrattuale  e, nel contempo, di anticipazione della liquidazione del danno, in un'ottica riparatoria, tant'è che l'art. 1384 c.c. consente al giudice, anche d'ufficio, di ridurne l'importo ove manifestamente eccessivo, così da garantire la corrispondenza della somma corrisposta a titolo di penale al pregiudizio subito.
Sempre nell'ottica di rinvenire ipotesi di danni punitivi nel nostro ordinamento, sono stati oggetto di analisi istituti del diritto processuale introdotti dal legislatore al dichiarato fine di operare una coercizione indiretta: a fronte dell'inadempimento di obblighi non coercibili in forma specifica, viene esercitata una pressione sulla volontà del soggetto inadempiente, a mezzo della minaccia di una sanzione pecuniaria, che si accresce col protrarsi o il reiterarsi dell'inadempimento o, più in generale, della condotta indesiderata, le cosiddette "astreintes". Si pensi, in particolare, agli artt. 614-bis c.p.c., introdotto nel 2015, e, per quanto concerne il processo amministrativo, all'analoga previsione di cui all'art. 114 co 7 c.p.a. In particolare, in relazione alle "astreintes" la Corte di Cassazione, nel 2015, pronunciandosi in ordine ad una sentenza emessa da un giudice belga che aveva dichiarato dovuto, per un certo numero di giorni di ritardo nell'adempimento all'obbligo di consegna al sequestratario di azioni rappresentative del capitale sociale di una società, un importo complessivo, ha ritenuto la radicale diversità tra l'istituto dei danni punitivi e l'istituto delle "astreintes". Nonostante la presenza di tratti comuni e pur trattandosi di istituti stranieri, l'uno di origine anglosassone e, specialmente, statunitense, le altre di matrice francese, si tratta di misure diverse, l'uno con funzione reintegrativa e le altre con funzione coercitiva, essendo volte a propiziare l'adempimento.
[12] Anche secondo Cass. n. 15814/2008, in linea generale, “nel vigente ordinamento il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione di un diritto soggettivo non è riconosciuto con caratteristiche e finalità punitive ma in relazione all’effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso nè il medesimo ordinamento consente l’arricchimento se non sussista una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto ad un altro”.
[13] Così Cass., 16 maggio 2016, n. 9978.
[14] Nel processo amministrativo analoga statuizione è prevista dall'art. 26 co 2 del d.lgs. 104/2010 (cosiddetto codice del processo amministrativo).
[15] Nel processo amministrativo analoga statuizione è prevista dall'art. 114 c.p.a. che attribuisce analogo potere al giudice dell’ottemperanza.
[16] L'importo di tali sanzioni è determinato dal giudice sulla base dei seguenti criteri: gravità della violazione, reiterazione dell’illecito, arricchimento del soggetto responsabile, opera svolta dall’agente per l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze dell’illecito, personalità dell’agente, condizioni economiche dell’agente.
[17] C. Scognamiglio, Quale futuro per i danni punitivi? (aspettando la decisione delle Sezioni Unite), in Giustizia Civile.com, 2017.
[18] Sotto il primo profilo, le Sezioni Unite in commento affermano che il concetto di ordine pubblico processuale ha subito una evoluzione: almeno a partire dalla sentenza Krombach (Corte Europea dei diritti dell'uomo, 13-02-2001) si è avviato un fenomeno definito di comunitarizzazione/europeizzazione del diritto internazionale privato e processuale, in forza del quale l'ordine pubblico, da strumento di tutela dei valori nazionali da opporre alla circolazione della giurisprudenza, è divenuto progressivamente "veicolo di promozione" della ricerca di principi comuni agli Stati membri in relazione ai diritti fondamentali. Pertanto, da "complesso di principi fondamentali che caratterizzano la struttura etico- sociale della comunità nazionale in un determinato periodo storico e nei principi inderogabili immanenti nei più importanti istituti giuridici" (così Cass. 1680/84), l'ordine pubblico è divenuto il distillato del "sistema di tutele approntate a livello sovraordinato rispetto a quello della legislazione primaria, sicché occorre far riferimento alla Costituzione e, dopo il Trattato di Lisbona, alle garanzie approntate ai diritti fondamentali dalla Carta di Nizza".
[19] Per dirla, più esattamente, con le parole dei giudici di legittimità: “il principio di legalità postula che una condanna straniera a “risarcimenti punitivi” provenga da fonte normativa riconoscibile, cioè che il giudice a quo abbia pronunciato sulla scorta di basi normative adeguate, che rispondano ai principi di tipicità e prevedibilità”. [...]Ne discende che dovrà esservi precisa perimetrazione della fattispecie (tipicità) e puntualizzazione dei limiti quantitativi delle condanne irrogabili (prevedibilità)”.
[20] La Corte, più precisamente, afferma che: "il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell'ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell'atto straniero e alla loro compatibilità con l'ordine pubblico".