Pubbl. Lun, 11 Dic 2017
Parere di diritto penale: ammissibilità della c.d. scriminante culturale
Modifica paginaFocus Esame Avvocato: esempio di traccia e svolgimento del parere in tema di ammissibilità delle esimenti culturali quali cause di giustificazione ex art. 51 c.p.
Traccia
Mevio, di origine indiana, vive da diversi anni nel territorio italiano. Un giorno, nel mentre si trovava per strada, Mevio viene fermato da due agenti della polizia locale per dei controlli di routine. Nel corso della perquisizione gli agenti accertano che Tizio detiene un lungo coltello di cm 18 attaccato alla cintola e lo invitano a consegnarlo.
Tizio, tuttavia, rifiuta di consegnare l’arma adducendo che tale comportamento si conforma ai precetti della sua religione, essendo egli un indiano "sick".
Tizio veniva così deferito all’Autorità Giudiziaria per il reato di cui all’art. 4 della legge n. 110 del 1975.
Il candidato, assunte le vesti di legale di tizio, rediga parere motivato soffermandosi sull’esimente ex art. 51 c.p. con particolare riferimento alla “scriminante culturale”.
Svolgimento
Nella vicenda in commento Mevio viene deferito all’Autorità Giudiziaria per la presunta violazione di cui all’art. 4 legge n. 110 del 1975, per aver portato fuori dalla propria abitazione, e senza un giustificato motivo, un coltello della lunghezza complessiva di cm 18 idoneo, dunque, all’offesa per le sue caratteristiche.
Va premesso, in termini generali, che il reato contestato a Mevio ha natura contravvenzionale, è punito anche a titolo di colpa, ed è escluso se ricorre un "giustificato motivo".
Nella fattispecie, occorrerà dunque chiarire se la professione della fede religiosa possa costituire un “giustificato motivo” che escluda il carattere illecito della condotta oppure se la stessa possa essere “giustificata” dall’esercizio del diritto ex art. 51 c.p. con particolare riferimento alla c.d. scriminante culturale.
Nel caso specifico Mevio, al momento del controllo di polizia, si trovava per strada e deteneva il coltello nella cintola. A fronte di tale circostanza, di obiettivo rilievo dimostrativo essendo stata accertata da due agenti di PG, scatta l'onere dell'imputato di fornire la prova del giustificato motivo del trasporto.
Sul punto la giurisprudenza pressoché unanime ha costantemente affermato che il giustificato motivo di cui alla L. n. 110 del 1975, art. 4, comma 2, la cui assenza si badi è elemento costitutivo della fattispecie tipica, ricorre allorquando le esigenze dell'agente siano corrispondenti a regole relazionali lecite rapportate alla natura dell'oggetto, alle modalità di verificazione del fatto, alle condizioni soggettive del portatore, ai luoghi dell'accadimento e alla normale funzione dell'oggetto (ex multis, Sez. 1 n.4498 del 14.1.2008, rv. 238946). Si pensi, ad esempio, al medico che porta con sé, all’interno della borsa, un bisturi o al giardiniere che viene trovato in possesso di un coltello nel mentre si sta recando sul luogo di lavoro per potare delle piante.
Orbene, nella fattispecie in esame, Mevio ha sostenuto che il porto del coltello fuori dalla sua abitazione era giustificato da tradizioni squisitamente di carattere religioso essendo notoriamente "uno dei simboli della religione monoteista sikh" e invocato, quindi, la garanzia posta dall'articolo 19 della Costituzione.
Tuttavia, tale circostanza non appare affatto riconducibile al concetto di “giustificato motivo” come sopra richiamato non potendo le riferite esigenze di carattere personale prevalere sulla più meritevole esigenza di tutela della pubblica sicurezza. In definitiva, la libertà religiosa, garantita dall’articolo 19 della Costituzione pure invocato da Tizio, incontra dei limiti, stabiliti dalla legislazione nazionale in vista della tutela di altre esigenze, tra cui quelle della pacifica convivenza e della sicurezza, compendiate nella formula generale dell’ordine pubblico.
Tra l’altro sul punto è di recente intervenuta la Suprema Corte di Cassazione proprio su un’ipotesi di porto abusivo di armi, confermando l’orientamento della giurisprudenza di legittimità sopra richiamato: “Nessun credo religioso può legittimare il porto in luogo pubblico di armi o di oggetti atti ad offendere, non ponendo in tal modo alcun ostacolo alla libertà di religione. Quest’ultima, anzi, garantita dall’art. 19 Cost., incontra dei limiti, stabiliti dalla legislazione, in vista della tutela di altre esigenze, tra cui quelle della pacifica convivenza e della sicurezza, compendiate nella formula dell’ordine pubblico.” (Cass. pen., Sez. I, 31 marzo 2017, n. 24084).
Escluso, quindi, che l’esercizio della fede religiosa possa costituire un “giustificato motivo” che esclude la fattispecie tipica di cui all’art. 4 legge n. 110 del 1975, occorre adesso valutare se, in ogni caso, tale circostanza possa rilevare causa di giustificazione “culturale” ex art. 51 c.p.
Tuttavia, al fine di meglio comprendere il concetto di “scriminante culturale” risultano necessari alcuni brevi cenni sulle cause di giustificazione in generale.
Orbene, seguendo la teoria della tripartizione del reato, la presenza di una causa di giustificazione esclude l’antigiuridicità del fatto con conseguenza non punibilità dell’agente.
L’esercizio del diritto (o l’adempimento di un dovere) di cui all’art 51 c.p. costituisce, appunto, una delle cinque cause di giustificazione previste dal codice Rocco del 1930 e si affianca al consenso dell’avente diritto (art. 50), alla legittima difesa (art 52), all’uso legittimo delle armi (art. 53) e allo stato di necessità (art 54).
Si badi, tuttavia, come il termine “cause di giustificazione" (a volte denominate anche esimenti o scriminanti) è di puro conio dottrinale in quanto non si rinvengono, neppur indirettamente, riferimenti codicistici dell’appartenenza di detti istituti ad una categoria unitaria; il codice infatti si limita semplicemente ad inserirli nel Titolo III del Libro Primo nell’ambito del Capo denominato “del reato consumato e tentato”. Non deve essere fuorviante, inoltre, il dato letterale (ogni articolo esordisce con la locuzione “non è punibilie…”) che li vedrebbe inseriti nell’ambito delle c.d. cause di non punibilità. È bene ricordare, quindi, come le cause di giustificazione non escludono la punibilità del reo bensì l’antigiuridicità del fatto: in presenza di determinati presupposti, pertanto, il fatto, seppur tipico, non è considerato antigiuridico e viene meno da parte dell’ordinamento l’interesse a perseguire determinate condotte seppur astrattamente riconducibili ad un fatto-reato.
Passando ora più nel dettaglio alla disamina dell’art. 51 c.p. non può non notarsi come la norma sia affetta da sinteticità e incompletezza, intenta a prestare meglio attenzione alla seconda scriminante contenuta nella medesima disposizione ovvero all’adempimento di un dovere. In particolare, essa si limita semplicemente a dire che “l’esercizio di un diritto... esclude la punibilità”.
È indubbio, tuttavia, come il suo configurarsi necessita di alcuni presupposti: in primo luogo l’esercizio di un diritto presuppone l'esistenza dello stesso, da intendersi, secondo la dottrina prevalente, in senso ampio ovvero come ogni potere giuridico di agire e quindi diritto soggettivo, potestativo, potestà o facoltà giuridica, eccetto gli interessi legittimi e i c.d. interessi semplici. In secondo luogo tale diritto può trovare la propria fonte in una legge in senso stretto, in un regolamento, in un atto amministrativo, in un provvedimento giurisdizionale, in un contratto di diritto privato, nella consuetudine, o in una fonte comunitaria. In terzo luogo il diritto deve essere esercitato dal suo titolare o dal suo rappresentante, al quale si estenderà la scriminante in esame, qualora si tratti di diritto non personale.
Affinché possa poi essere esclusa la punibilità del fatto commesso, la stessa norma che riconosce il diritto deve consentire, almeno implicitamente, di poterlo esercitare mediante quella determinata azione che di regola costituirebbe reato. Si tratta dei c.d. “limiti all'esercizio del diritto”, che possono essere intrinseci, se desumibili dalla ratio e dal contenuto astratto della norma da cui promana il diritto (si pensi al potere di distruggere la cosa propria incontra come limiti intrinseci quelli fissati dall'art. 423, comma 2, secondo cui è punito chi incendia la cosa propria se dal fatto deriva pericolo per la incolumità pubblica), oppure estrinseci, se si possono ricavare dal complesso dell'ordinamento giuridico, compreso quello penale, in quanto volti alla salvaguardia di diritti o interessi che risultano avere valore uguale o maggiore di quello da esercitarsi. Per chiarire, come casi rilevanti di esercizio del diritto, si ricorda ad esempio il diritto di cronaca giornalistica (il diritto di narrare, attraverso parole o fotografie, i fatti che avvengono), garantito dall'art. 21 Cost. Nell'esercizio di tale diritto, possono figurarsi situazioni che offendono l'onore e la reputazione di una persona (anch'essi beni costituzionalmente tutelati (v. artt. 2 e 3 Cost.), presupposti del reato di diffamazione (art. 595 c.p.), tuttavia qui interviene la scriminante, a patto che vengano rispettati determinati limiti ricavabili dall'ordinamento.
La genericità della norma, la quale si presta a molteplici interpretazione soprattutto di carattere estensivo tali da ricomprendervi qualsiasi diritto anche latu sensu, unitamente all’evolversi del contesto politico-sociale degli ultimi decenni, ha posto una serie di problematiche di carattere ermeneutico proprio con riferimento ai reati culturalmente orientati, diretta conseguenza del fenomeno dell’immigrazione.
Invero, in uno stato multiculturale come il nostro si è posto il problema di individuare il trattamento penale applicabile agli immigrati che violino una norma incriminatrice, assumendo condotte conformi alle regole che connotano il loro bagaglio etnico–culturale o, comunque, consentite negli stati di provenienza. Ci si riferisce, in particolare, a quelle ipotesi in cui un cittadino straniero compia nel territorio italiano una attività astrattamente configurabile come reato nel nostro ordinamento, nell’esercizio di una facoltà riconosciutagli dalla cultura dello stato di appartenenza. Tali condotte, in altri termini, integrano un reato per il nostro ordinamento nonostante siano facoltizzate, se non addirittura imposte, dalla cultura o dalle leggi del paese di provenienza.
Il problema, volendo sintetizzare, ruota intorno alla configurabilità o meno nel nostro ordinamento della causa di giustificazione atipica della cd. esimente culturale che dovrebbe costituire, per l’appunto, una sottocategoria dell’esercizio di un diritto ex art 51 c.p.
Giova premettere che in Italia manca una norma che disciplini espressamente la questione. Si rileva, tuttavia, un solo intervento settoriale da parte del legislatore consistente nell’introduzione dell’art. 583 bis c.p. che punisce con la reclusione da 4 a 12 anni le pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili. La norma è il frutto proprio della descritta problematica di cui al fenomeno della multiculturalità nell’ambito della quale molti immigrati, nel mutilare i genitali femminili, assumevano di aver esercitato una facoltà prevista dal loro stato di provenienza o comunque dalla loro credo religioso.
L’intervento legislativo, seppur isolato, appare comunque sintomatico di una volontà implicita da parte del legislatore, e quindi dell’ordinamento, di non estendere le regole culturali dello straniero al concetto di “diritto” di cui all’ art. 51 c. p. .
La tesi estensiva, seppur minoritaria, vede infatti le condotte dello straniero, seppur contrastanti con l’ordinamento penale interno, scriminate proprio in applicazione del concetto di esercizio del diritto quale esimente culturale. Secondo altra tesi, invece, l’autore del reato culturalmente orientato non percepirebbe il disvalore insito nel fatto realizzato di guisa che non sarebbe punibile, per difetto dell’elemento psicologico, spostando pertanto l’attenzione più sul fatto tipico che sull’antigiuridicità.
Il ragionamento tuttavia è privo di pregio giuridico.
Anzitutto appare evidente come l’introduzione nel nostro ordinamento della c.d. esimente culturale, aprirebbe il campo a tutte una serie di condotte che, seppur lesive di beni giuridici primari, sarebbero scriminate dal “motivo culturale” che, in quanto tale, difetterebbe del principio di determinatezza. Il sistema penale italiano, infatti, ispirato ai principi di legalità e determinatezza, non potrebbe accogliere una causa di giustificazione “in bianco”, il cui contenuto sarebbe addirittura demandano alle previsioni normativo-culturali di uno Stato estero. Ciò aprirebbe la strada ad una serie infinita di condotte, non previamente determinate dal legislatore né previamente determinabili dall’interprete, che sarebbero “scriminate” per il sol fatto di essere consentite nello stato di provenienza.
Non può non notarsi, infine, come la problematica del se concedere rilevanza giuridica o meno alle condotte culturalmente orientate dello straniero, si rivela essere un “non problema” alla luce delle statuizioni dell’art. 3 c.p. che tra l’altro costituisce principio fondamentale del sistema giuridico penale italiano: “La legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato, salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale". In altre parole la presenza dello straniero nel Paese ospitante legittima la pretesa dello Stato a che questi si impegni a conoscere e rispettare le vigenti regole e che abbia coscienza del significato della propria condotta affinché possa essere punito non potendo invocare a propria scusa né l’esimente culturale né l’ignoranza della legge penale (art. 5 c.p.).
Di tanto ne è convinta anche la Suprema Corte di Cassazione che in una recente sentenza, nel negare qualsivoglia rilevanza alle c.d. scriminanti culturali ha affermato come “in una società multiculturale non è possibile scomporre l'ordinamento giuridico in tanti ordinamenti quante sono le etnie presenti, poiché l'ordinamento giuridico è e deve rimanere unico. Peraltro proprio l'art. 3 della Costituzione prevede che tutti i cittadini siano uguali davanti alla legge, qualunque sia il loro sesso, la loro religione, la loro etnia e la loro lingua…” (Cass. n. 14960 del 13 aprile 2015)
In estrema sintesi, pertanto, il motivo culturale di Mevio, lungi dal poter ergersi ad “esimente” o “giustificato motivo”, potrà essere solo ed esclusivamente utilizzato dal giudice nell’ambito della determinazione della pena da infliggersi, non potendo passare inosservata la circostanza che quella determinata condotta, seppur in contrasto con l’ordinamento interno, sia considerata lecita nello Stato di origine.
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