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Pubbl. Sab, 16 Set 2017

La linea di confine tra il delitto di estorsione e quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni

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Ilaria Ferrara


Analogie e differenze tra i delitti di estorsione e di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Il parere della giurisprudenza.


Sommario: 1. Premessa - 2. Analogie - 3. Elementi distintivi e dibattito giurisprudenziale

1. Premessa

L'analisi della tematica e dell'annoso dibattito giurisprudenziale scaturisce dalla necessità di dirimere l'apparente concorso di norme che, talvolta, si configura tra la fattispecie dell'estorsione (art. 629 c.p.) e quella dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone (art. 393 c.p.). Per giungere all'individuazione dei criteri distintivi tra le due ipotesi criminose è necessaria una preventiva disamina sugli elementi comuni che caratterizzano entrambe le fattispecie di reato.

Il delitto di estorsione si configura qualora il soggetto agente "mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno". Integra la condotta di cui all'art. 393 c.p. chiunque, al fine di esercitare un preteso diritto "e potendo ricorrere al giudice, si fa arbitrariamente ragione da sé medesimo usando violenza o minaccia alle persone".

2. Analogie

Poste tali premesse, appare evidente che i primi tratti in comune delle due fattispecie sono la violenza e la minaccia. La fattispecie di cui all'art. 393 c.p. si configura con una portata plurioffensiva, di talché la condotta può risolversi con l'uso della violenza o minaccia sulle persone, ledendo, allo stesso tempo, due beni giuridici diversi. Infatti, il primo bene giuridico aggredito è quello dell'amministrazione della giustizia, cioè dell'interesse pubblico a garantire il processo; in secondo luogo assume rilevanza il bene giuridico privatistico attinente alla sfera del soggetto destinatario della violenza o della minaccia.

Allo stesso modo, il delitto di estorsione si caratterizza per una condotta con portata plurioffensiva, infatti, oltre alla lesione dell'incolumità individuale, vi è la lesione o l'esposizione a pericolo del patrimonio, inteso quale bene giuridico.

Da ciò, è dato evincere che il momento di sovrapposizione tra le due fattispecie è quello che riguarda la condotta tipica di minaccia e di violenza. La dottrina prevalente si è orientata nel senso di far confluire in entrambi i reati le sole condotte violente che raggiungono il limite delle percosse, infatti, superato tale limite, la violenza sarà punita autonomamente, in base al singolo reato integrato in concreto, attraverso le regole che governano il concorso di reati o la continuazione. Per quanto riguarda, invece, la condatta della minaccia, nel caso dell'estorsione, sarà finalizzata all'ottenimento del profitto ingiusto con l'altrui danno, mentre qualora fosse orientata a costringere il soggetto passivo ad adempiere a una pretesa sentita come legittima dall'autore del reato (dunque, una pretesa giuridicamente azionabile), si configurerà il delitto di esercizio arbitrario ex art. 393 c.p.[1].

3. Elementi distintivi e dibattito giurisprudenziale

Stabiliti i caratteri comuni alle due fattispecie, la stessa dottrina si è soffermata a sottolinearne i criteri distintivi. Relativamente alla configurabilità del reato di "ragion fattasi", per l'aspetto relativo alla possibilità alternativa di azionare la giustizia e, quindi, di ricorrere al giudice, una prima tesi richiede l'azionabilità in concreto ovvero la possibilità concreta ed effettiva, data dall'ordinamento, di ricorrere al giudice (a prescindere dalla fondatezza o meno della pretesa); altro orientamento ritiene sia sufficiente l'azionabilità astratta ovvero la mera possibilità di fatto del ricorso alla giustizia, indipendentemente dalla sua ammissibilità, o anche la sola opinione dell'agente sull'esistenza del diritto.

Poste tali basi interpretative, la distinzione tra le due fattispecie appare fondata sull'elemento soggettivo. Infatti, la minaccia o la violenza commesse con il fine di esercitare la pretesa anzionabile, anche, per via giurisdizionale (o nella convinzione errata dell'azionabilità) farebbe sorgere l'ipotesi del delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, al contrario, la convinzione dell'ingiustizia della pretesa vantata, dal soggetto agente, configurerebbe il delitto ex art. 629 c.p.

Tuttavia anche la giurisprudenza, nel tempo e in alcune decisioni, ha valorizzato fortemente l'elemento intenzionale, mentre in altri casi ha ritenuto che per la configurazione del reato della "ragion fattasi", sia necessario un rapporto di proporzionalità tra la condotta dell'agente e il diritto da questi vantato. Infatti, in base al primo orientamento, più recente, "nel delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni la violenza e la minaccia non sono fini a sé stesse, ma sono strettamente connesse alla condotta dell'agente, diretta a far valere il preteso diritto, rispetto al cui conseguimento si pongono come elementi accidentali, per cui non possono mai consistere in manifestazioni sproporzionate e gratuite di violenza"[2]di talché nel momento in cui la violenza o la minaccia si manifestano in modo da andare oltre ogni ragionevole intento di far valere il proprio diritto, il profitto voluto conseguire dall'agente sarebbe qualificabile come ingiusto, integrando in questo modo il più grave delitto di estorsione.

Secondo altra interpretazione giurisprudenziale, risalente nel tempo, ma ritornata in auge recentemente e, dunque, ritenuta, dai più, preferibile, la Corte di Cassazione afferma che i due reati si distinguono solo e unicamente per l'elemento soggettivo: "nell’estorisione l’agente mira a conseguire un ingiusto profitto con la coscienza che quanto pretende non gli è dovuto; nella ragion fattasi, invece, l’agente è animato dal fine di esercitare un preteso diritto nella ragionevole convinzione, anche errata, della sua esistenza pur se contestata o contestabile"[3]. Inoltre vi è da sottolineare come il comma terzo dell'art. 393 c.p. preveda un'aggravante nel caso in cui la violenza o la minaccia sia commessa con l'uso di armi; ciò a dimostrazione del fatto che il legislatore ha inteso risolvere il problema di qualificazione dell'eventuale particolare intensità delle forme di coartazione della volontà altrui, prevedendo una specifica aggravante al reato della "ragion fattasi", invece che permettere la configurazione del più grave delitto di estorsione (si veda sentenza in nota 2).

Note e riferimenti bibliografici

[1] C. Baccaredda-Boy-S. Lalomia , I delitti contro il patrimonio mediante violenza, in G. Marinucci-E. Dolcini, Trattato di diritto penale. Parte speciale, Milano, 2010.
[2] Cass. Pen. Sez. I, 23 settembre 2003, in CED 228156;
[3] Cass. Pen. Sez. II, 19 dicembre 2013, in n. 51433.