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Pubbl. Mar, 4 Lug 2017

Diritto a una morte dignitosa: il caso di Totò Riina

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Antonella Storti


Analisi della pronuncia della Suprema Corte circa la carenza di motivazione dell´ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Bologna


Il presente lavoro si prefigge l'obiettivo di chiarire i limiti e la portata della pronuncia della Suprema Corte con cui è stata annullata con rinvio l'ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Bologna, la quale rigettava l'istanza dell'Avvocato del noto boss mafioso Totò Riina, volta ad ottenere la sospensione della pena o gli arresti domiciliari per il proprio assistito, stanti le condizioni di salute in cui lo stesso verte. Trattasi di una sentenza che ha creato un ampio dibattito ed è, pertanto, opportuno procedere ad un'analisi puntuale della questione.                                                                                                    

Nel maggio del 2016 il tribunale di sorveglianza di Bologna rigettava l'istanza del difensore di Riina, sulla base del seguente ragionamento. Le condizioni di salute del boss erano, senza dubbio alcuno, di rilevante gravità. Tuttavia, il regime carcerario non poteva considerarsi incompatibile con la prosecuzione delle cure e, pertanto, assolutamente non contrastante col divieto di trattamenti inumani, presidiato dalla Costituzione e dalle Carte internazionali.

Precisamente, rilevava il Tribunale di sorveglianza: «lo stato di detenzione nulla aggiungeva alla sofferenza della patologia, essendo il rischio dell’esito infausto pari e comune a quello di ogni altro cittadino, anche in stato di libertà». 

Peraltro, si sosteneva che il detenuto dovesse essere considerato ancora socialmente pericoloso, sicché al rigetto delle istanze di parte erano sottese esigenze di tutela della pubblica incolumità.

Ma veniamo alla posizione della Suprema Corte.

La Cassazione, in qualità di Giudice di legittimità, cui risulta precluso l'accertamento di merito in ordine alle questioni sottoposte al proprio vaglio, ha semplicemente ritenuto la pronuncia del Tribunale di sorveglianza affetta da un vizio di motivazione; pertanto, l'ha annullata con rinvio.

In particolare, la motivazione offerta a suffragio del diniego delle istanze di parte sarebbero, a giudizio della Suprema Corte, "carenti" e "contraddittorie." E ciò per le ragioni che seguono.

Ai fini della decisione in ordine al differimento della pena occorre tenere conto dello stato di salute generale del soggetto sottoposto a misura detentiva; pertanto, non è possibile sostenere che il continuo monitoraggio del detenuto, stante la patologia da cui è affetto, renda automaticamente compatibile il regime carcerario con lo status di salute del sottoposto a detenzione.

Altro punto in cui la motivazione del Tribunale di sorveglianza risulta carente è, poi, la riaffermazione della pericolosità sociale del ricorrente, dal momento che nella pronuncia cassata non è chiarito in che modo suddetta pericolosità sociale possa essere considerata attuale, stanti le gravi condizioni di salute in cui lo stesso versa ed il suo stato di decadimento fisico, richiedendo che le esigenze di tutela della pubblica incolumità, poste a sostegno del ragionamento logico del Tribunale debbano fondarsi «su precisi argomenti di fatto rapportati all’attuale capacità del soggetto di compiere, nonostante lo stato di decozione in cui versa, azioni idonee in concreto ad interagire il pericolo di recidivanza».

Pertanto, la Suprema Corte null'altro ha fatto se non rilevare che la pronuncia ad essa sottoposta non potesse superare quel vaglio di legittimità che i Giudici di Cassazione sono tenuti a presidiare, alla luce delle evidenziate carenze motivazionali, che non consentono di ricostruire il ragionamento logico seguito dal Tribunale di Sorveglianza per arrivare a rigettare le istanze formulate dal difensore di Totò Riina.

Spetterà, di conseguenza, a quest'ultimo Tribunale il compito di motivare in maniera più puntuale ed approfondita le ragioni poste a sostegno del proprio convincimento. 

Fondamentale rimarcare che la decisione della Corte si è basata sull'esigenza di rispettare i principi sanciti dalla Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti umani, pur tuttavia incorrendo in critiche, stante la differenza di trattamento riservata, invece, a Bernardo Provenzano, morto in carcere, in regime ex art. 41 bis, nonostante fosse da tempo in stato quasi vegetativo e di incapacità di intendere e volere.

Con riguardo a tale vicenda, infatti, la Cassazione ha ritenuto di confermare l'opportunità di tale regime alla luce del percorso criminale dell'imputato. 

Peraltro, occorre sottolineare che l'attualità della pericolosità sociale di Totò Riina è stata confermata anche dal Pubblico Ministero, Di Matteo, che ha definito il boss "perfettamente lucido e orientato nel contesto". 

In particolare, dalla relazione di servizio di un agente penitenziario emergerebbero alcune esternazioni di Riina che darebbero modo di confermare la lucidità cognitiva dello stesso, andando a confermare la necessità della sua permanenza in carcere.