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Pubbl. Gio, 16 Mar 2017
Sottoposto a PEER REVIEW

Il diritto del nato da parto anonimo a conoscere le proprie origini

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Simona Iachelli
Funzionario della P.A.Università degli Studi di Catania


Le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1946 del 25 gennaio 2017, sono intervenute in tema di parto anonimo, risolvendo il contrasto esistente nella giurisprudenza, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 278 del 2013.


Sommario: 1. La disciplina del parto anonimo. 2. Il carattere fondamentale del diritto a conoscere le proprie origini e il problema del suo contemperamento con il diritto della madre a rimanere anonima. 3. Il caso. 4. Il  principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite.

1. La disciplina del parto anonimo.

L’Italia, così come la Francia, è uno dei pochi Paesi europei che prevede l’istituto del “parto anonimo”, uno strumento volto a garantire alla donna di poter partorire non clandestinamente, ma in condizioni sanitarie adeguate, senza dover subire l’automatica costituzione del vincolo giuridico di filiazione.

In particolare, a livello nazionale, il quadro normativo che disciplina il parto anonimo si fonda sull’art. 28, comma 7, della Legge 4 maggio 1983, n. 184 (cosiddetta Legge sull’adozione), che si inserisce in un contesto normativo di più ampia portata volto a disciplinare il tema dei rapporti tra il minore adottato con adozione legittimante e la sua famiglia di origine. (1)

La scelta di fondo da cui muoveva il legislatore di allora era quella di configurare per l'adottato una nuova famiglia da sostituire in toto a quella di origine per cui era indispensabile non solo recidere qualsiasi legame giuridico e biologico del minore con la famiglia d'origine, ma segretare qualsivoglia informazione circa l'identità dei genitori biologici.

Tale scelta era giustificata dall'obiettivo principale di preservare la serenità del minore e dei nuovi genitori adottivi da possibili interferenze esterne dei genitori biologici nella convinzione che il rapporto di filiazione - e quindi anche quello adottivo per il principio della imitatio naturae -, dovesse fondarsi sul carattere di esclusività del modello genitoriale (2)

Successivamente, la Legge n. 149/2001 (3), modificando l'art. 28 della l. n. 184/1983, ha riconosciuto il diritto di accesso alle informazioni dell'adottato. In particolare, si è stabilito il diritto dell'adottato di essere informato del suo status e il dovere dei genitori adottivi di informarlo, nonché il diritto dell'adottato che abbia raggiunto il venticinquesimo anno di età di accedere, previa autorizzazione del Tribunale, alle informazioni che riguardano le proprie origini e l'identità dei propri genitori biologici.

Con una nuova disposizione del 2003 (4), il diritto dell'adottato alle informazioni viene invece escluso nel caso in cui la madre biologica abbia deciso di rimanere anonima, con conseguente preclusione, irreversibile e senza eccezioni, alla conoscibilità del rapporto genitoriale ex latere matris.

In tal modo, il legislatore del 2003 ha cercato di operare un raccordo con la disciplina sulla raccolta e divulgazione dei dati sensibili. La norma in rilevo è l'art. 93 del Codice in materia di protezione dei dati personali (D.lgs. 30 giugno 2003, n. 196), il quale, pur garantendo la riservatezza dell'anonimato materno quanto al profilo della identificazione della partoriente, diversifica la disciplina a seconda della natura delle informazioni da richiedere in sede di accesso, qualora la madre biologica abbia dichiarato di non voler essere nominata.

Pertanto, a differenza della legge sull'adozione, nella quale il divieto di informazioni appare assoluto e trasversale ove ricorra la scelta del parto anonimo, la legge in materia di protezione dei dati personali opera una distinzione tra dati (informazioni) identificativi della partoriente e le “altre” informazioni cui l'adottato avrebbe comunque diritto di accedere. Si tratta di informazioni relative alla nascita ed alla salute che non permettono l'identificazione della partoriente e che possono essere reperite tramite l'accesso alla cartella clinica e al certificato di assistenza al parto (ora sostituito dall'attestazione di nascita).

In definitiva, la legge esclude il diritto dell’adottato alle informazioni nel caso in cui la madre biologica abbia deciso di rimanere anonima, consentendo all'adottato adulto l'accesso cosiddetto "semplificato" alle informazioni sulle proprie origini, purché la stessa non sia identificabile.

La possibilità per la madre di rimanere anonima, dichiarandolo al momento del parto, è una soluzione minoritaria in Europa e rappresenta l’eccezione alla regola per cui il vincolo di filiazione materna sorge automaticamente per il solo fatto della nascita.

Tale soluzione è giustificata dall’esigenza di tutelare tanto il diritto alla vita del nascituro quanto il diritto alla salute della madre, evitando le interruzioni di gravidanza e gli abbandoni dei neonati e favorendo l’utilizzo di strutture sanitarie adeguate per il parto.

Al diritto all'anonimato della madre, tuttavia, si contrappone il diritto a conoscere le proprie origini del figlio, che rischia comprovate ripercussioni psicologiche dalla totale assenza di informazioni al riguardo.

2. Il carattere fondamentale del diritto a conoscere le proprie origini e il problema del suo contemperamento con il diritto della madre a rimanere anonima.

Il diritto a conoscere le proprie origini sorge e riceve forma all’interno del dibattito dottrinale e giurisprudenziale, nazionale ed europeo, che prende avvio dall’idea in virtù della quale il bambino non è più posto su un piano di inferiorità rispetto agli adulti, ma è considerato persona in formazione e, in quanto tale, oggetto di una significativa attenzione da parte del diritto.

Tale diritto trova fondamento, sul piano internazionale, negli artt. artt. 7 e 8 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, che sanciscono il diritto del figlio di conoscere, nella misura del possibile, i propri genitori (art. 7), considerato quale presupposto necessario per la costruzione dell’identità personale (art. 8), nonché nell’art. 30 della Convenzione dell’Aja del 1993, che prevede l’obbligo per gli Stati firmatari di conservare con cura le informazioni che detengono sull’origine del bambino, in particolare, quelle relative all’identità della madre e del padre e di assicurare l’accesso del figlio o del suo rappresentante legale a tali informazioni, nella misura in cui sia consentito  dalle leggi dello Stato. A tali fonti si aggiunge la Raccomandazione “per il rispetto dei diritti del bambino nell’adozione internazionale”, con cui l’Assemblea del Consiglio d’Europa invita gli Stati ad “assicurare il diritto dei bambini adottati a sapere delle proprie origini al più tardi al raggiungimento della maggiore età ed eliminare dalla legislazione nazionale ogni clausola contraria”.

La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha svolto un ruolo fondamentale nella costruzione e nel riconoscimento del diritto del figlio a conoscere le proprie origini. In particolare, le pronunce con le quali la Corte ha contribuito a delineare il contenuto del diritto in esame sono state rese nel caso Odièvre c. Francia (5)  e nel caso Godelli c. Italia (6).

In entrambi, l’aspirazione del figlio adottato a conoscere l’identità della madre biologica si scontra con la volontà di quest’ultima di rimanere nell’anonimato.

In particolare, nel caso Odièvre, la Corte di Strasburgo ha salvato la legislazione francese in ragione della reversibilità del segreto materno. A giudizio della Corte, infatti, l’ordinamento francese ha stabilito un equilibrio tra la tutela dell’anonimato della madre biologica e la domanda della figlio concernente le proprie origini, in quanto consente al medesimo di sollecitare, tramite un organo ad hoc, la rimozione del segreto sull’identità della propria madre, una volta ottenutone il consenso.

In tal modo, la Corte fornisce un’interpretazione molto chiara delle caratteristiche che la normativa sul parto anonimo dovrebbe avere per essere conforme all’art. 8 della Convenzione, precisando che il diritto del figlio a conoscere le proprie origini, riconosciuto quale aspetto fondante dell’identità personale, va contemperato con il diritto della madre all’anonimato.

La Corte Costituzionale italiana, adita sulla disciplina del parto anonimo nel 2005 (7), ha mostrato tuttavia di non aver recepito l’orientamento della Corte europea: questo atteggiamento, unito all’inattività del legislatore, ha condotto nel 2012 alla condanna dell’Italia (sentenza Godelli c. Italia) per il fatto di accordare una preferenza incondizionata alla madre che vuole rimanere anonima.

Ad un anno di distanza, tenendo conto stavolta della giurisprudenza di Strasburgo, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 278/2013, ha modificato la sua posizione, dichiarando la parziale incostituzionalità dell’art. 28, comma 7, L. n. 184/1983, che preclude tout court al figlio l’accesso alle informazioni sulla madre che ha scelto di partorire nell’anonimato.

In particolare, la norma contrasta con i principi costituzionali nella parte in cui non prevede la reversibilità della scelta, mancando nella disciplina italiana una procedura di verifica dell’attuale volontà della madre, quale la possibilità per il giudice di interpellare, su richiesta del figlio, la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, ai fini di un’eventuale revoca di tale dichiarazione.

Secondo l’interpretazione della Consulta, il diritto all’anonimato della madre e il diritto del figlio a conoscere le proprie origini rappresentano valori costituzionali di primario rilievo. Il primo, quello della madre all’anonimato, si fonda sull’esigenza di salvaguardare i beni primari della vita e della salute della madre e del neonato, che possono essere posti in pericolo da qualsiasi perturbamento, derivante da situazioni più disparate (personali, sociali, culturali, ambientali e così via), più che sulla preoccupazione di tutelare il suo diritto alla riservatezza. Il secondo, ossia il diritto del figlio a conoscere le proprie origini fa parte del diritto all’identità personale e contribuisce all’armonico sviluppo della personalità, costituendo un “elemento significativo del sistema costituzionale della persona, come pure riconosciuto in varie pronunzie della Corte europea dei diritto dell’uomo”,

Per effetto delle modalità di realizzazione, tali diritti incidono l’uno sull’altro, al punto che l’ambito della tutela del diritto all’anonimato della madre non può non condizionare, in concreto, il soddisfacimento dell’opposta aspirazione del figlio alla conoscenza delle proprie origine e viceversa.

Pertanto, la Corte Costituzionale, accogliendo l’impostazione della Corte europea, ha ritenuto che la soluzione del difficile contemperamento tra i due diritti in gioco non è rappresentata dalla totale ablazione del diritto della madre, bensì dalla reversibilità della scelta. A tal fine, dichiara incostituzionale la normativa italiana nella parte in cui sembra prefigurare una sorta di cristallizzazione o di immobilizzazione, allorché prevede che la manifestazione di volontà prestata una sola volta al momento del parto assuma connotati di irreversibilità tali da espropriare sostanzialmente la persona titolare del diritto da qualsiasi ulteriore opzione.

Le considerazioni svolte mettono in luce un ulteriore questione, oggetto di confronto tra i giudici di merito e di legittimità, concernente l’opponibilità o meno al figlio dell’anonimato dopo la morte della madre.

La Cassazione ha più volte affermato che l'anonimato materno di una donna non ha alcuna rilevanza dopo la sua morte.

La decisione sull'irrilevanza dell'anonimato materno, dopo la morte, infatti, si basa sulla diversa posizione dell'anonimato, prima del parto, quando la donna sceglie tra l'aborto e il parto anonimo. Prima della nascita è in gioco il suo diritto alla vita e quello del figlio, mentre, dopo la nascita del figlio, l'anonimato ha la sola funzione di proteggere la donna dalle conseguenze sociali e giuridiche che verrebbero a ripercuotersi sulla persona della madre, fino al termine della vita. Dopo la morte, la donna non può più decidere se revocare la sua scelta di rimanere anonima in relazione al venir meno di quell'esigenza di protezione che le ha consentito la personale soluzione finora tutelata dall'ordinamento, anche se in contrasto con la responsabilità genitoriale. Poiché dopo la morte non c'è più il soggetto da tutelare non si comprende perché impedire al figlio che non ha conosciuto, né è stato allevato dalla madre, di poter identificare il genitore materno, anche se è stato inadempiente rispetto ai suoi doveri genitoriali. (8)

Secondo la Corte, la ratio del venir meno del diritto all'anonimato materno dopo la morte va ravvisata nell’irreversibilità del segreto. La donna che ha scelto l'anonimato può cambiare idea su richiesta del figlio o spontaneamente. Il diritto alla reversibilità del segreto viene, però, a cessare con la morte della madre e, pertanto, non può ritenersi operativo oltre il limite della sua vita, perché la conseguenza della morte della madre che ha partorito in anonimo sarebbe quella di reintrodurre quella cristallizzazione della scelta per l'anonimato che la Corte costituzionale ha ritenuto lesiva degli artt. 2 e 3 della Carta costituzionale.

La Corte di Cassazione, sulla base delle argomentazioni sostenute dalla Corte europea e dalla Corte Costituzionale, ha ritenuto illegittima la tutela dell'anonimato oltre la vita della madre, in virtù dei principi costituzionali, nonché dei diritti previsti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'U.E., e le Convenzioni di New York e dell'Aja.

3. Il caso.

La Suprema Corte di Cassazione, a sezioni unite, con la sentenza n. 1946 del 2017, è stata chiamata a pronunciarsi sul delicato tema relativo al diritto del figlio nato da parto anonimo a conoscere le proprie origini. Tale intervento è stato determinato dalla richiesta del pubblico ministero intervenuto in un procedimento nel corso del quale un soggetto – figlio adottivo nato da madre anonima - aveva fatto istanza al Tribunale competente di attivare le procedure per interpellare la propria madre biologica sulla sua volontà di mantenere l’anonimato o, viceversa, di voler rivelare la propria identità al figlio. Il Tribunale, come la Corte d’appello, avevano rigettato la richiesta del figlio, sulla base della sentenza della Corte Costituzionale n. 278 del 2013.

In particolare, la richiesta sottoposta all'esame delle Sezioni Unite pone la questione se la sentenza della Corte Costituzionale n. 278 del 2013 - che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, in parte qua, dell’art. 28, comma 7, L. n. 184 del 1983 - rimetta la sua stessa efficacia ad un successivo intervento del legislatore recante la disciplina del procedimento di interpello riservato, in assenza della quale il giudice di merito, sollecitato dal figlio interessato a conoscere i suoi veri natali, non potrebbe procedere a contattare la madre per verificare se intenda tornare sopra la scelta per l'anonimato fatta al momento del parto; o se, al contrario, il principio somministrato dalla Corte con la citata pronuncia, in attesa dell’organica e compiuta normativa da parte del Parlamento, si presti ad essere tradotto dal giudice comune in regole sussidiariamente individuate dal sistema, ancorché solo a titolo precario.

Nel caso di specie, secondo i giudici di merito (Corte d’appello di Milano), in attesa dell’intervento legislativo e in presenza della espressa previsione, da parte della Corte Costituzionale, di una riserva di legge sul procedimento di interpello riservato della madre anonima, non sarebbe consentita al giudice un'attività giurisdizionale surrogatoria volta a dare immediata attuazione ai diritti costituzionali dei soggetti coinvolti. 

Sul punto si registra un contrasto tra i giudici di merito, atteso che mentre alcuni hanno dato immediata attuazione al dictum della Corte, delegando il giudice relatore a verificare l’attuale volontà della madre biologica dei soggetti ricorrenti, altri (tra cui la Corte d’appello di Milano), hanno ritenuto che la sentenza della Corte Costituzionale non sia immediatamente efficace, a causa dell’esplicita riserva di legge in essa contenuta.

Per questo secondo orientamento, quindi, il dictum della Corte potrebbe trovare applicazione da parte degli organi della giurisdizione ordinaria solo quando si sarà trasformato in diritto positivo ad opera di una conforme regola legislativa.

4. Il  principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite.

La Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto fondata la richiesta del pubblico ministero e non corretta l’interpretazione dei giudici di merito (nella specie della Corte milanese).

Secondo gli ermellini, la sentenza n. 278 del 2013 della Corte Costituzionale è una pronuncia di accoglimento che non contiene soltanto l’addizione di un principio, ma anche una regola chiara circa la possibilità d’interpello della madre da parte del giudice su richiesta del figlio.

In particolare, la Corte afferma che il mancato intervento del legislatore non può giustificare la violazione del diritto del figlio, ormai riconosciuto mediante la declaratoria d’incostituzionalità.

La norma dichiarata costituzionalmente illegittima – che impediva la possibilità per il figlio nato da parto anonimo di attivare un procedimento finalizzato a raccogliere l’eventuale revoca della dichiarazione originaria da parte della madre naturale – cessa di avere efficacia e non può essere più applicata dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Essa, infatti, produce gli effetti di cui all'art. 136 Cost. e dell’art. 30, comma 3, della L. 11 marzo 1953, n. 87 (sulla costituzione e sul funzionamento della Corte Costituzionale), per cui è stata rimossa dall'ordinamento fin dalla pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale. Ne discende che il giudice non può negare tout court al figlio l'accesso alle informazioni sulle origini per il solo fatto che la madre naturale aveva dichiarato, al momento della nascita, di voler essere celata dietro l'anonimato, perché altrimenti si finirebbe per continuare a dare applicazione al testo dell’art. 28, comma 7, della L. n. 184 del 1983, preesistente alla pronuncia della Corte Costituzionale.

Per effetto di tale pronuncia, la disposizione dell'art. 28, comma 7, non è rimasta identica, perché continua ad esistere nell'ordinamento con l'aggiunta di questo principio ordinatore, che fissa un punto di equilibrio tra la posizione del figlio adottato e i diritti della madre. Questo punto di equilibrio si sostanzia nella riconosciuta possibilità per il giudice di interpellare in via riservata la madre biologica per raccogliere la sua volontà attuale quando c'è un figlio interessato a conoscere la sua vera origine, ma anche nella preferenza da accordare alla scelta della donna, perché il figlio non ha un diritto incondizionato a conoscere la propria origine e ad accedere alla propria storia parentale, non potendo ottenere le informazioni richieste ove persista il diniego della madre di svelare la propria identità.

Secondo le Sezioni Unite, la riserva espressa della competenza del legislatore si riferisce alla normazione primaria e quindi non esclude l’operato del giudice comune, il quale ha un ruolo costituzionalmente diverso da quello affidato al legislatore.

Il giudice è chiamato a individuare e dedurre la regola del caso concreto a lui sottoposto, desumendola dai testi normativi e dal sistema, di cui fa parte anche il principio vincolante dichiarato dalla Corte Costituzionale con la sentenza additiva.

In difetto di ciò, si determinerebbe un deficit di tutela riguardo a un diritto fondamentale riconosciuto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, mantenendo una situazione di violazione analoga a quella constatata dalla CEDU.

In definitiva, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione enunciano il seguente principio di diritto: "in tema di parto anonimo, per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 278 del 2013, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativo e dal principio somministrato dalla Corte Costituzionale, idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna; fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l'anonimato non sia rimossa in seguito all'interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità".

 

Note e riferimenti bibliografici

1) Art. 28, L. 4 maggio 1983 n. 184:
1. Il minore adottato è informato di tale sua condizione ed i genitori adottivi vi provvedono nei modi e termini che essi ritengono più opportuni.
2. Qualunque attestazione di stato civile riferita all'adottato deve essere rilasciata con la sola indicazione del nuovo cognome e con l'esclusione di qualsiasi riferimento alla paternità e alla maternità del minore e dell'annotazione di cui all'articolo 26, comma 4.
3. L'ufficiale di stato civile, l'ufficiale di anagrafe e qualsiasi altro ente pubblico o privato, autorità o pubblico ufficio debbono rifiutarsi di fornire notizie, informazioni, certificazioni, estratti o copie dai quali possa comunque risultare il rapporto di adozione, salvo autorizzazione espressa dell'autorità giudiziaria. Non è necessaria l'autorizzazione qualora la richiesta provenga dall'ufficiale di stato civile, per verificare se sussistano impedimenti matrimoniali.
4. Le informazioni concernenti l'identità dei genitori biologici possono essere fornite ai genitori adottivi, quali esercenti la potestà dei genitori, su autorizzazione del tribunale per i minorenni, solo se sussistono gravi e comprovati motivi. Il tribunale accerta che l'informazione sia preceduta e accompagnata da adeguata preparazione e assistenza del minore. Le informazioni possono essere fornite anche al responsabile di una struttura ospedaliera o di un presidio sanitario, ove ricorrano i presupposti della necessità e della urgenza e vi sia grave pericolo per la salute del minore.
5. L'adottato, raggiunta l'età di venticinque anni, può accedere a informazioni che riguardano la sua origine e l'identità dei propri genitori biologici. Può farlo anche raggiunta la maggiore età, se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica. L'istanza deve essere presentata al tribunale per i minorenni del luogo di residenza.
6. Il tribunale per i minorenni procede all'audizione delle persone di cui ritenga opportuno l'ascolto; assume tutte le informazioni di carattere sociale e psicologico, al fine di valutare che l'accesso alle notizie di cui al comma 5 non comporti grave turbamento all'equilibrio psico-fisico del richiedente. Definita l'istruttoria, il tribunale per i minorenni autorizza con decreto l'accesso alle notizie richieste.
7. L'accesso alle informazioni non è consentito se l'adottato non sia stato riconosciuto alla nascita dalla madre naturale e qualora anche uno solo dei genitori biologici abbia dichiarato di non voler essere nominato, o abbia manifestato il consenso all'adozione a condizione di rimanere anonimo.
8. Fatto salvo quanto previsto dai commi precedenti, l'autorizzazione non è richiesta per l'adottato maggiore di età quando i genitori adottivi sono deceduti o divenuti irreperibili.

2) Bianca Checchini, “ANONIMATO MATERNO E DIRITTO DELL'ADOTTATO ALLA CONOSCENZA DELLE PROPRIE ORIGINI”, in Riv. Dir. Civ., 2014, 3, 10709;
3) L. 28 marzo 2001, n. 149 (in Gazz. Uff., 26 aprile, n. 96), Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, recante " Disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori ", nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile;
4) Art. 177 del D.lgs. 30 giugno 2003, n. 196;
5) Corte eur. Dir. Uomo, Odièvre c. Francia n. 42326/98, del 13 febbraio 2002, in www.echr.coe.int/echr. Nel caso  Odièvre, la ricorrente, abbandonata da madre avvalsasi del diritto all'anonimato, in età adulta, aveva cercato di ricostruire le sue origini, ma era venuta a conoscenza solo di informazioni parziali, fra cui la presenza di fratelli e sorelle. Impossibilitata a conoscerne l'identità, la donna si rivolgeva alla Corte europea, che giudicava ragionevole il sistema francese di bilanciamento tra il diritto dell'adottato alla conoscenza delle proprie origini e quello della madre all'anonimato del parto. La legge francese infatti, basata sul principio del consenso, istituisce un ente (il CNAOP) preposto, a richiesta dell’adottato, a mettersi in contatto con la madre naturale rimasta anonima, per ricercarne il consenso a rivelare la sua identità al figlio abbandonato; solo nel caso la donna lo accetti, le sue generalità verranno rivelate, in caso contrario rimarranno sconosciute.
6) Corte eur. Dir. Uomo, Godelli c. Italia, n. 33783/09 del 25 settembre 2012, in www.echr.coe.int/echr. Nel caso Godelli, la ricorrente, dopo aver attivato un iter amministrativo e giurisdizionale per avere informazioni sull'identità della madre, si vede negare tali notizie in applicazione dell'art. 28, comma 7 della l. 184/1983; adisce dunque la Corte europea per violazione del suo diritto alla vita privata e familiare, ai sensi dell'art. 8 Cedu, in quanto tale norma ricomprende il diritto del bambino a conoscere le proprie origini, così come sancito da numerose fonti del diritto internazionale;
7) Corte Cost., 16 novembre 2005, n. 425 in www.cortecostituzionale.it: la Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente legittimo l’art. 28, comma 7, della legge sull’adozione;
8) Vincenzo Carbone, “Con la morte della madre al figlio non è più opponibile l’anonimato: i giudici di merito e la Cassazione a confronto”, in Corriere Giur., 2017, 1, 24;