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Pubbl. Mar, 21 Feb 2017

L'estromissione dell'obbligato dal processo civile.

Eva Aurilia


Gli effetti del deposito e dell´estromissione dell´obbligato dal giudizio.


Sommario: 1.Presupposti. 2. Effetti del deposito ed effetti dell’estromissione. 3. Forma del provvedimento e sentenza conclusiva.

Sommario: 1.Presupposti. 2. Effetti del deposito ed effetti dell’estromissione. 3. Forma del provvedimento e sentenza conclusiva.

Se si contende a quale di più parti spetta una prestazione e l’obbligato si dichiara pronto ad eseguirla a favore di chi ne ha diritto, il giudice può ordinare il deposito della cosa o della somma dovuta e, dopo il deposito, può estromettere l’obbligato dal processo”[1].

1. Presupposti.

L’art. 109 c.p.c. disciplina una delle tre ipotesi tipiche di estromissione previste dal codice di rito, unitamente a quelle disciplinate dagli articoli 108 e 111 c.p.c. rubricati rispettivamente “Estromissione del garantito” e “Successione a titolo particolare nel diritto controverso”.

L’interpretazione della norma in commento conduce a sostenere che ai fini della sua applicazione è necessario che ricorrano due presupposti: una pluralità di soggetti che pretendono una prestazione dal debitore e che quest’ultimo provveda al deposito della res o della somma pretesa.

È necessario, dunque, che il giudizio si svolga nei confronti di almeno tre soggetti, due dei quali pretendono la medesima prestazione dal debitore. Ciò può accadere, in sostanza:

  • quando l’attore incardini il giudizio proponendo un’azione di condanna nei confronti del debitore e un’azione di accertamento del proprio diritto nei confronti dell’altro pretendente, di guisa che anche su questo vi sarà una statuizione idonea al passaggio in giudicato;
  • quando il pretendente intervenga spontaneamente ex art. 105[2]c.p.c. (intervento volontario), vantando un diritto incompatibile con quello vantato dall’attore ed asserendo, dunque, di essere lui ad aver diritto alla prestazione;
  • quando il pretendente intervenga nel giudizio su chiamata del convenuto/debitore ex art. 106[3] c.pc. ovvero per ordine del giudice ex art. 107[4].

La dottrina non è unanime in merito alle ipotesi di chiamata in causa ex artt. 106 e 107[5].

Quanto al primo caso, infatti, non sembra possa sostenersi la possibilità che il convenuto, al fine di ottenere una pronuncia di rigetto della domanda, chiami in causa un terzo individuandolo come soggetto legittimato a ricevere la prestazione. A dire diversamente, si ammetterebbe l’esistenza di una litis denuntitatio ad opera del debitore convenuto, senza che venga a crearsi neppure quella situazione di contestuale ed identica pretesa da parte di più soggetti nei suoi confronti. Affinché, infatti, possa crearsi una situazione litigiosa sarebbe almeno necessario che il terzo chiamato formuli un’apposita domanda di accertamento del proprio diritto nei confronti dell’attore. Diversamente, non si ricade nell’ipotesi di cui all’art. 109 c.p.c. anche perché verrebbe a mancare quel necessario atteggiamento di neutralità del debitore richiesto dalla norma nella parte in cui recita “..l’obbligato si dichiara pronto ad eseguirla nei confronti di chi ne ha diritto”. È di facile intuizione, invece, che con la chiamata in causa, il debitore individuerebbe il soggetto che ha diritto alla prestazione. Quanto alla chiamata per ordine del Giudice, si ritiene che questa sia possibile soltanto laddove siano trascorsi i termini di cui all’art. 269 c.p.c. e, dunque, il Giudice venga a tanto sollecitato dal convenuto ormai decaduto dalla possibilità di proporre chiamata in causa ex art. 106. Anche per questa ipotesi, tuttavia, permangono i rilievi critici appena evidenziati.

Affinché operi la norma di cui all’art. 109, è necessario anche che il debitore, su disposizione del Giudice,  esegua il deposito “della cosa o della somma dovuta”. Soltanto dopo il deposito, infatti, può chiedere al Giudice di essere estromesso in quanto, dichiarandosi pronto ad eseguire la prestazione e, dunque, riconoscendosi obbligato, con il deposito della res potrebbe non esserci più motivo a che il debitore continui a stare in giudizio.

2. Effetti del deposito ed effetti dell’estromissione.

La dottrina non si presenta unanime sulla natura degli effetti da attribuire al deposito.

Una parte della stessa ritiene che il deposito abbia natura liberatoria per il debitore in quanto questi, con esso, non contesterebbe il suo dovere di adempiere alla prestazione[6], ovvero rinuncerebbe ad ogni altro diritto sul bene conteso. In tal modo il debitore estinguerebbe la sua obbligazione, perdendo così la legittimazione a resistere che ne giustificherebbe l’uscita dal processo.

Una delle conseguenze processuali consisterebbe nella cessazione della materia del contendere in relazione alle domande proposte dai pretendenti nei confronti del debitore, in particolare in relazione all’azione di condanna. Disposta l’estromissione, infatti, il giudizio verterà soltanto sull’individuazione del soggetto titolare del diritto sulla res depositata.

La tesi dottrinale in commento equiparerebbe il deposito di cui all’art. 109 a quello previsto dall’art. 1210[7] cod. civ.  Quest’ultima norma, infatti, riconnette effetti liberatori al deposito fatto dal debitore, che estingue l’obbligazione, quando è accettato dal creditore o è dichiarato valido con sentenza passata in giudicato. Il deposito, pertanto, ha natura satisfattoria. Tali condizioni non sono invece richieste dalla norma di cui all’art. 109 c.p.c.: in particolare, non vi è un creditore che potrebbe accettare il deposito in quanto questo non è ancora individuato e, dunque questo non ha natura satisfattoria. Tuttavia si ritiene che entrambe le ipotesi richiedano l’accertamento della validità del deposito e, pertanto, sarebbero equiparabili proprio sul piano dell’efficacia.

Un altro filone dottrinale, invece, ritiene che il deposito non abbia efficacia liberatoria[8]. Con esso, infatti, il debitore non rinuncerebbe ad alcun diritto sul bene e non riconoscerebbe alcun debito. Di conseguenza non perde alcun diritto su quanto depositato. Non bisogna, infatti, dimenticare che l’obbligato estromesso, come le parti estromesse negli altri casi disciplinati, perde la qualità di parte in senso processuale ma non sostanziale e, dunque, sarà destinatario degli effetti del provvedimento conclusivo del giudizio. A dare valenza pregnante a tale dato vi è la circostanza che, a differenza di quanto accade nelle altre ipotesi di estromissione, non vi è nessun soggetto che “subentra” al posto dell’estromesso in veste di sostituto processuale dal quale, eventualmente, pretendere la prestazione. Ad avviso di tale ultimo orientamento, il deposito in questione avrebbe, dunque, efficacia cautelativa: consente di conservare la res, di evitare che il debitore possa incorrere in responsabilità ex art. 1218 cod. civ. e di evitare la mora debendi ex art. 1222 cod. civ..

La conseguenza di natura processuale di questo indirizzo dottrinale consisterebbe nel fatto che, disposta l’estromissione, il giudizio avrebbe ad oggetto l’accertamento dell’esistenza dell’obbligo in capo al debitore nei confronti della parte che riuscirà a fornire la prova del proprio diritto ad ottenere la prestazione ed è per tale motivo che questo continua tra i pretendenti.

Ci si chiede, allora, che cosa accada ove nessuno dei pretendenti riesca a fornire la prova della titolarità attiva del proprio diritto. Le conseguenze sono diverse a seconda dell’orientamento dottrinale che si predilige.

Ad avviso di coloro che sostengono l’efficacia liberatoria del deposito per il debitore, a quest’ultimo non potrebbe comunque essere restituito il bene perché avrebbe rinunciato ad ogni diritto sullo stesso. Il Giudice dovrebbe, in tal caso, comunque assegnare il bene ad uno dei pretendenti con una pronuncia sui generis che non individuerebbe il soggetto cui lo stesso spetterebbe in via definitiva ma che si rende necessaria per il sol fatto che il giudizio non potrebbe concludersi con un non liquet. Secondo altri, ancora, il bene potrebbe essere restituito al debitore, non già perché egli è proprietario del bene ma in quanto è stato l’ultimo possessore dello stesso.

Diversamente, invece, per i sostenitori dell’efficacia non liberatoria il bene dovrebbe ritornare al proprietario debitore.

3. Forma del provvedimento e sentenza conclusiva.

La norma in commento riserverebbe una facoltà al Giudice, il quale “può estromettere l’obbligato dal processo” dopo aver verificato l’effettività del deposito. Tuttavia la dottrina ritiene che vi sia un vero e proprio diritto dell’obbligato ad ottenere l’estromissione qualora non vi siano ragioni che lo impediscano. Semplicemente la norma farebbe riferimento alla possibilità per il Giudice di estromettere l’obbligato anche in assenza di un’apposita richiesta.

Quanto al provvedimento da adottare la norma nulla dispone.

Alcuni ritengono che questo si sostanzi in un’ordinanza, secondo quanto previsto per la diversa ipotesi dell’art. 108 c.p.c. Per altri autori sarebbe, invece, necessario che il provvedimento assuma la forma della sentenza, quale forma di provvedimento a carattere generale nel silenzio del Legislatore. Inoltre, la sentenza si renderebbe necessaria anche in considerazione del fatto che il Giudice disporrebbe parzialmente anche su talune delle domande formulate in giudizio, quale quella di condanna del debitore e sul suo difetto di legittimazione a resistere[9]. Un orientamento intermedio, invece, ritiene sufficiente la forma dell’ordinanza laddove non vi siano contestazioni in ordine ai presupposti che giustificano l’estromissione in quanto, in tal caso, non vi sarebbe esercizio di poteri autoritativi del Giudice ma un “accordo” tra le parti[10].

Le diverse opinioni circa la natura del provvedimento da adottare si riflettono sulle possibilità di impugnazione del provvedimento stesso.

Per coloro che ritengono che il deposito abbia efficacia liberatoria, il debitore non può impugnare la sentenza conclusiva del giudizio in quanto, con l’estromissione, questa non potrà avere alcun effetto nei suoi confronti[11]. Se si tratta di ordinanza, invece, questa non potrà essere impugnata perché resa su istanza dello stesso debitore[12].

I fautori dell’efficacia non liberatoria, invece, ritengono che la sentenza esplichi effetti anche nei confronti del debitore in quanto conterrebbe una statuizione circa l’esistenza del suo obbligo, con la ovvia conseguenza che lo stesso potrà proporre impugnazione.

È opinione, inoltre, condivisa che la sentenza conclusiva del giudizio abbia caratteristiche peculiari in quanto, seppure non statuisce sull’esistenza dell’obbligo in capo al debitore ma soltanto sull’accertamento del diritto in capo a taluno dei pretendenti, costituirebbe comunque titolo esecutivo nei confronti dell’obbligato, anche in assenza di statuizione di condanna.

 

[1] Art. 109 c.p.c.

[2]Ciascuno può intervenire in un processo tra le altre persone e far valere, in confronto di tutte le parti o alcune di esse, un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo”.

[3]Ciascuna parte può chiamare nel processo un terzo al quale ritiene comune la causa o dal quale pretende essere garantita”.

[4]Il Giudice, quando ritiene opportuno che il giudizio si svolga in confronto di un terzo al quale la causa è comune, ne ordina l’intervento”.

[5] Tommaseo, L’estromissione di una parte dal giudizio, Milano 1975.

[6] In tal senso anche Cass. n. 18740/3003.

[7]Se il creditore rifiuta di accettare l’offerta reale o non si presenta per ricevere le cose offertegli mediante intimazione, il debitore può eseguire il deposito.

Eseguito il deposito, quando questo è accettato dal creditore o è dichiarato valido con sentenza passata in giudicato, il debitore non può ritirarlo ed è liberato dalla sua obbligazione”.

[8] Andrioli, Commento al codice di procedura civile, I, Napoli, 1961. Sul punto, per la dottrina civilistica, Cattaneo, Della mora del creditore, in Comm. Scialoja, Branca (sub art. 1210 c.c.), Bologna, 1973.

[9] Negri, Sull'estromissione dell'obbligato, in CorG, 2001, 1106.

[10] Menchini, Pretendenti (lite tra), cit. 326.

[11] Tommaseo, L’estromissione di una parte dal giudizio, Milano 1975.

[12] Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, 4ª ed., Padova, 2004.