Pubbl. Sab, 21 Mag 2016
Facebook: condividere contenuti offensivi non integra sempre il reato di diffamazione aggravata
Modifica paginaCon la sentenza n. 3981/2016, la V sezione della Cassazione Penale ha affermato che non ricorre il reato di diffamazione aggravata qualora l’utente si limiti a condividere i post offensivi in un gruppo Facebook, aggiungendo soltanto un commento critico privo di insulti. Il ragionamento della Corte.
Nel volgere di pochi anni, i social network, ed in primo luogo Facebook e Twitter, frequentati in particolar modo dai più giovani, hanno raggiunto una diffusione talmente capillare da sostituire in parte i principali canali di comunicazione di massa. Non c’è da stupirsi, pertanto, del fatto che i processi relativi a casi di diffamazione, aventi ad oggetto proprio la pubblicazione di post offensivi su Facebook, siano, ormai, all’ordine del giorno.
Secondo un indirizzo giurisprudenziale consolidato, visto che un commento sulla bacheca, propria o altrui, di un social network è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone, la pubblicazione dello stesso, dal contenuto offensivo, su Facebook integrerebbe la fattispecie del reato di diffamazione, così come previsto dall’art. 595 c.p..
Inoltre, le offese poste in essere attraverso i social network devono ritenersi aggravate, come se fossero commesse a mezzo stampa, presumendo che la condotta di "postare" un commento sulla bacheca Facebook realizzi la pubblicizzazione e la diffusione di esso tra più persone. Viene così in rilievo il comma terzo dell’art 595 c.p., il quale recita che “se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a € 516”.
Tutto ciò è stato affermato dalla Corte di Cassazione in numerose sentenze, ed in particolare con la sentenza n. 24431/2015, concernente proprio la pubblicazione di un commento ingiurioso sulla bacheca Facebook della persona offesa, e con la recente sentenza n. 8328/2016.
Con la sentenza n. 3981/2016, depositata il 29 gennaio, però, la V Sezione penale della Corte di Cassazione ha specificato che la condivisione di un post scritto da altri, anche se di contenuto offensivo, non sempre è idonea a configurare il reato di cui all’art. 595 c.p..
Il caso in esame.
Con sentenza del 25/06/2014, la Corte d’appello di Trieste, in riforma della pronuncia assolutoria di primo grado, ha condannato ai soli effetti civili l’imputato per il reato di diffamazione aggravata, commesso “postando” su Facebook un messaggio ritenuto offensivo della reputazione del soggetto passivo.
Contro la suddetta sentenza, l’imputato proponeva ricorso in Cassazione, lamentando in particolare che la frase in oggetto sarebbe in realtà priva di contenuto offensivo intrinseco o anche solo indiretto, e che comunque difetterebbe la prova della comunicazione con un numero indeterminato di persone, non essendo stato accertato se il gruppo di discussione cui ha aderito l’imputato fosse “aperto” o “chiuso”.
Inoltre, l’imputato lamenta il mancato riconoscimento dell’esimente dell’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero.
La Corte d’appello di Trieste, al riguardo, ha ritenuto di dover affermare il carattere diffamatorio della frase “postata” dall’imputato, alla luce del contesto nel quale essa è stata pubblicata: una discussione telematica durante il cui svolgimento altri partecipanti avevano, precedentemente, inviato messaggi contenenti espressioni che devono considerarsi palesemente offensive. In tal modo l'imputato, sempre a parere dei giudici di appello, mediante la propria condotta, avrebbe prestato "una volontaria adesione e consapevole condivisione" di tali espressioni, determinando dunque la lesione della reputazione della persona offesa.
A questo punto, occorre comprendere se l’illecito diffamatorio possa effettivamente estendersi ad una condotta che per sua natura è inoffensiva ma che, cionondimeno, acquista un certo grado di offensività per la sola adesione a quella a carattere chiaramente diffamatorio e lesiva dell’altrui reputazione.
Sul punto la Suprema Corte, con una interpretazione restrittiva dell’art. 595 c.p., ha ritenuto del tutto irragionevole e contra ius far rientrare nell’ambito applicativo del reato di diffamazione una condotta che di per sé non ha portata offensiva.
Difatti, secondo la Corte, attribuire carattere offensivo ad una condotta che per sua natura risulta essere inoffensiva, sarebbe causa di un duplice e progressivo effetto: da un lato, attribuirebbe all’art. 595 c.p. contenuti ulteriori rispetto a quelli che possono essere effettivamente ricavati dalla lettera della norma e, dall’altro, finirebbe per negare qualsiasi effettività alla libertà di manifestazione del pensiero, garantita costituzionalmente tramite il disposto dell’art. 21 Cost..
È evidente, secondo gli Ermellini, che la condivisione del post altrui da parte del soggetto imputato implica sicuramente un’adesione alla critica della persona offesa, ma non necessariamente anche delle forme illecite attraverso cui questa sia stata promossa dagli altri partecipanti alla discussione.
È da sottolineare, comunque, che la “condotta contestata potrebbe assumere in astratto rilevanza penale soltanto qualora potesse affermarsi che con il proprio messaggio l’imputato aveva consapevolmente rafforzato la volontà dei suoi interlocutori di diffamare”.
La Corte ritiene, quindi, che si tratti di esercizio della libertà di manifestazione del pensiero, ed in particolare ciò rientra nel diritto dell’imputato di manifestare un’opinione apertamente ostile nei confronti di un altro soggetto. Questa conclusione è dovuta al fatto che, a differenza degli altri partecipanti alla discussione, l’imputato ha esercitato tal diritto in maniera del tutto corretta, senza ricorrere alle espressioni offensive utilizzate dagli altri e senza dimostrare di volerle ampliare attraverso la propria condotta.
Concludendo, contrariamente a quanto sostenuto dal sostituto procuratore generale, a parere della quinta sezione della Cassazione Penale, l'uomo è da considerarsi innocente e la sentenza deve essere annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste.
Riflessioni critiche.
L’aspetto più rilevante della pronuncia in commento riguarda il fatto che la condotta consistente nel “postare” un messaggio anche piuttosto colorito sul conto altrui, che però non si riveli realmente diffamatorio ovvero abbia caratteristiche tali da rientrare nell’ambito dell’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero, non integra sempre e necessariamente gli estremi del reato previsto dall’art. 595 c.p..
Prendendo, inoltre, in esame la professione giornalistica, molto spesso accusata di adottare toni diffamatori, si registra che numerose sentenze sono dirette all’accertamento della possibilità di invocare le scriminanti del diritto di critica e del diritto di cronaca, entrambe espressione della libera manifestazione del pensiero costituzionalmente tutelata (cfr. art. 21 Cost.).
Secondo parte della dottrina, i siti internet, i blog o, appunto, i social network, non costituiscono mezzi di informazione giornalistica e, pertanto, nei loro confronti non sono invocabili tali scriminanti.
È da sottolineare, però, che il diritto di critica può non essere invocabile esclusivamente da chi esercita l’attività giornalistica, in quanto non viene sempre inteso come una mera specificazione del diritto di cronaca.
Si può ritenere, dunque, che il diritto di critica abbia un proprio carattere autonomo e che possa essere esercitato da chiunque, nel rispetto dei limiti apposti dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione: utilità sociale dell’informazione, verità, utilizzo di un linguaggio continente.
FONTI E BIBLIOGRAFIA
(1) Cass. n. 3981/2016
- F. Mantovani “Diritto Penale – Parte Speciale, Delitti contro la persona”, V Edizione, 2014, CEDAM
- G. Catalisano "Il ruolo del diritto di cronaca e di critica nell'attività giornalistica. Profili di diritto dell'informazione", 2013, Giuffrè