• . - Liv.
ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Ven, 13 Mag 2016
Sottoposto a PEER REVIEW

Il revirement della Corte di Cassazione sulla responsabilità aggravata per iscrizione di ipoteca eccessiva e sproporzionata.

Modifica pagina

Giovanni Sicignano


Nella recente sentenza n. 6533 del 2016, la Terza Sezione Civile della Cassazione ha operato un revirement in tema di responsabilità aggravata per iscrizione ipotecaria eccessiva e sproporzionata. Ecco un esame della disciplina normativa prevista per la responsabilità aggravata, la giurisprudenza relativa alle forme di condanna previste dal primo e secondo comma dell´art. 96 c.p.c., infine il commento di questa recente sentenza che ha ribaltato l´orientamento ermeneutico consolidato.


Il revirement della Corte di Cassazione sulla responsabilità aggravata per iscrizione di ipoteca eccessiva e sproporzionata.

1. La disciplina delle spese e le forme di responsabilità aggravata di cui all’art. 96 c.p.c. - 2. La giurisprudenza relativa alle forme di condanna previste dai primi due commi dell’art. 96 c.p.c. - 3. La Cassazione si pronuncia contro chi iscrive ipoteche eccessive e sproporzionate (n. 6533 del 2016), ribaltando il precedente orientamento.

 

1. La disciplina delle spese e le forme di responsabilità aggravata di cui all’art. 96 c.p.c.

La disciplina delle spese processuali nell’ordinamento italiano è estremamente importante. Le spese processuali seguono il principio di soccombenza: la parte soccombente in giudizio infatti è tenuta al pagamento delle spese processuali. Il principio di soccombenza, subisce alcune eccezioni. Una prima eccezione è collegata alla violazione del dovere di lealtà e probità. L’art. 92 c.p.c. infatti stabilisce che il giudice, può, indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese nel caso di trasgressione del dovere di lealtà e probità di cui all’art. 88 c.p.c.. Quindi il giudice potrebbe condannare alle spese anche la parte vincitrice, se questa ha violato l’art. 88 c.p.c.. Una seconda eccezione al principio di soccombenza è rappresentata dal principio della compensazione delle spese.  La compensazione delle spese, ormai è confinata a ipotesi molto specifiche perché l’art. 92 c.p.c. prevede che il giudice possa compensare le spese quando vi è soccombenza reciproca ovvero quando vi è un’assoluta novità nella questione trattata o quando vi è un mutamento di giurisprudenza. 

Un istituto estremamente importante, che sarà approfondito nei prossimi paragrafi è rappresentato dalla responsabilità aggravata di cui all’art. 96 c.p.c.; si tratta di un’ulteriore condanna che il giudice può infliggere alla parte soccombente che abbia violato il dovere di correttezza. L’art. 96 c.p.c. prevede tre ipotesi di responsabilità aggravata. La prima ipotesi riguarda la parte soccombente che abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave: in tal caso il giudice condanna la parte non solo al pagamento delle spese ma anche al risarcimento del danno su domanda di parte. La liquidazione del danno in tal caso viene effettuata d’ufficio dal giudice sulla base di criteri meramente equitativi. La seconda ipotesi di responsabilità aggravata colpisce la parte che senza la normale prudenza abbia chiesto e ottenuto un provvedimento cautelare o iniziato un processo esecutivo, o abbia iscritto un’ipoteca ovvero abbia trascritto una domanda giudiziale a danno dell’altra parte. Anche in questa seconda ipotesi, per il risarcimento del danno, la domanda di parte è necessaria ma il danno viene liquidato d’ufficio dal giudice.  Queste prime due ipotesi di responsabilità aggravata sono circoscritte a casi molto specifici: mala fede o colpa grave della parte soccombente e la scarsa cautela di chi ha compiuto atti di aggressione del patrimonio del convenuto. Del tutto peculiare e foriera di enormi discussioni tra la dottrina e la giurisprudenza è la previsione di cui al terzo comma dell’art. 96 c.p.c.. Infatti il terzo comma recita “in ogni caso quando pronuncia sulle spese, il giudice, anche d’ufficio, può condannare la parte soccombente al pagamento a favore delle controparte di una somma equitativamente determinata”. Questa disposizione ha avuto un effetto dirompente sul sistema della responsabilità civile nel nostro ordinamento. Infatti nel nostro ordinamento vengono risarciti i danni che la parte ha provocato con la sua condotta. E’ il principio del nesso di causalità: c’è una stretta dipendenza eziologica tra la condotta e l’evento indipendentemente dal disvalore o dalla pericolosità della condotta. Secondo autorevole dottrina il terzo comma dell’art. 96 c.p.c. rappresenta una norma ispirata alla logica del danno punitivo: il giudice, nel condannare la parte al risarcimento del danno tiene conto del disvalore della condotta.  Questa tesi dottrinale fa leva sull’inciso “in ogni caso” di cui al terzo comma dell’art. 96 c.p.c.. La critica mossa a questa tesi è duplice. Infatti il terzo comma dell’art. 96 c.p.c. è inserito nell’ambito delle forme di responsabilità aggravata. Ciò significa che il presupposto per l’applicazione del terzo comma è comunque l’esistenza di un dolo o colpa grave, perché altrimenti la norma sarebbe fuori contesto. Inoltre, dato che il legislatore parla di condanna d’ufficio di una somma equitativamente determinata, questa condanna non può essere collegata ad una forma di risarcimento del danno punitivo perché altrimenti ci troveremmo di fronte ad una norma incostituzionale per violazione del principio della domanda poiché il giudice potrebbe condannare il soccombente al risarcimento del danno anche se il danneggiato non lo chiede. Per questi motivi è auspicabile ritenere che il terzo comma dell’art. 96 c.p.c. abbia un’applicazione più limitata e sia una forma di specificazione dei primi due commi.

 

2. La giurisprudenza relativa alle forme di condanna previste dai primi due commi dell’art. 96 c.p.c.

Negli ultimi anni la giurisprudenza ha avuto modo di affrontare e risolvere alcune problematiche relative alla condanna per responsabilità aggravata. Nel caso della responsabilità aggravata di cui al primo comma dell’art. 96 c.p.c. è richiesta la domanda di parte anche se la liquidazione della somma dovuta è officiosa. Le Sezioni Unite [1] hanno chiarito che “Costituisce causa di responsabilità processuale aggravata, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 96 cod. proc. civ., la proposizione di regolamento di giurisdizione senza il riscontro preventivo - nell'esercizio di un minimo di elementare diligenza - dell'erroneità della propria tesi alla stregua della disciplina positiva e della giurisprudenza, costituendo tale difetto di diligenza un elemento rivelatore di un uso distorto del regolamento ai fini meramente dilatori, oltre che, secondo nozioni di comune esperienza, fonte di conseguenze pregiudizievoli per le controparti. I due elementi costitutivi della condanna di cui al primo comma, sono l’elemento soggettivo (mala fede o colpa grave) e la soccombenza totale. Parte accreditata della scienza giuridica[2] infatti ritiene inapplicabile la norma nel caso di soccombenza reciproca. Per quel che concerne l’elemento soggettivo, la valutazione è rimessa al giudice di merito. La colpa grave, inoltre non è configurabile in ogni caso di soccombenza. Infatti si può “presentare quando, anche in mancanza di consapevolezza dell’infondatezza di difese svolte, vi sia stata inusuale negligenza nella verifica della plausibilità delle tesi sostenute ed è pertanto esclusa in radice quando sul punto vi siano contrasti giurisprudenziali”[3]. In tema di svolgimento del processo, la domanda volta alla condanna del litigante temerario (indipendentemente dal suo valore) non può comportare spostamenti di competenza ex art 34 e 36 c.p.c.[4] e quindi deve essere formulata nello stesso grado di giudizio in cui si è tenuta la condotta temeraria. Quid iuris se viene proposta successivamente? Se la domanda viene proposta nel successivo grado di giudizio dovrà essere ritenuta inammissibile per tardività[5] a meno che l’illecito sia compiuto al termine di quella fase. I giudici di Piazza Cavour hanno inoltre affermato che “La domanda ex art. 96, secondo comma, cod. proc. civ., in relazione a provvedimenti cautelari adottati nel corso del giudizio di primo grado deve essere proposta in detto grado di giudizio, dovendosi al fine della valutazione della tempestività della stessa avere riguardo al momento del fatto generativo del danno (cioè al momento in cui il comportamento asseritamente dannoso è stato posto in essere) e non a quello, successivo, dell'accertamento della inesistenza del diritto a tutela del quale il provvedimento è stato richiesto, adottato e posto in esecuzione.”[6]

Particolarmente significativa è la condanna di cui al secondo comma dell’art. 96 c.p.c. perché “si riferisce a iniziative particolarmente aggressive nei confronti della sfera giuridica della controparte da ritenersi indicate tassativamente <…> In presenza di tali condotte rilevano due elementi costitutivi: l’inesistenza del diritto a tutela del quale si sono compiute e l’elemento psicologico dell’imprudenza.”[7]. Anche in tal caso, la domanda viene proposta dalla parte anche se la liquidazione della somma dovuta è officiosa. La Cassazione[8]ha chiarito che “è sufficiente l'aver agito senza la normale prudenza, che si ha anche quando si esegue un provvedimento cautelare nei confronti di soggetto sfornito di legittimazione passiva”. Inoltre in materia cautelare le ipotesi di condanna dei primi due commi possono cumularsi: “la condanna ai sensi del co.2 si configura quando sia inesistente il diritto cautelato, quella ai sensi del co.1 quando la soccombenza nel procedimento cautelare derivi dalla mancanza del periculum in mora.”[9]. La competenza segue la proposizione dell’istanza cautelare. Infatti “La domanda ex art. 96, secondo comma, cod. proc. civ., in relazione a provvedimenti cautelari adottati nel corso del giudizio di primo grado deve essere proposta in detto grado di giudizio, dovendosi al fine della valutazione della tempestività della stessa avere riguardo al momento del fatto generativo del danno (cioè al momento in cui il comportamento asseritamente dannoso è stato posto in essere) e non a quello, successivo, dell'accertamento della inesistenza del diritto a tutela del quale il provvedimento è stato richiesto, adottato e posto in esecuzione".[10] La condanna di cui al secondo comma esiste anche in tema di esecuzione forzata quando il credito non esiste o quando esista verso un soggetto che non sia l’esecutato. Autorevole dottrina[11] ha chiarito che “a sua volta l’imprudente iscrizione dell’ipoteca giudiziale è fonte di responsabilità ai sensi del co. 2 solo quando risulti inesistente il diritto, e non anche quando l’iscrizione sia stata illegittima ma a tutela del diritto esistente”. La recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 6533 del 2016) che sarà analizzata nel prossimo paragrafo verte proprio su un’ipoteca iscritta su beni aziendali. In tema di trascrizione della domanda si è sempre ritenuto che sia le trascrizioni illegittime sia le trascrizioni ingiuste ricadessero nell’ambito di applicazione dell’art. 96 c.p.c.. Nel 2011[12] però la Corte di Legittimità ha stabilito che e trascrizioni illegittime (diversamente dalle trascrizioni ingiuste) non rientrano nell’ambito applicativo dell’art. 96 c.p.c. ma bensì ricadono nella sfera applicativa della responsabilità ex art. 2043 c.c.

3. La Cassazione si pronuncia contro chi iscrive ipoteche eccessive e sproporzionate (n. 6533 del 2016), ribaltando il precedente orientamento.

Nel caso di specie il quesito sottoposto al vaglio della Suprema Corte è stato il seguente: “se, nell’ipotesi in cui – come nella specie – risulti accertata l’inesistenza del diritto per cui è stata iscritta ipoteca giudiziale e la normale prudenza del creditore nel procedere all’iscrizione dell’ipoteca giudiziale, sia o meno configurabile in capo al suddetto creditore la responsabilità ex art. 96, secondo comma c.p.c., per non aver egli usato la normale diligenza nell’iscrivere ipoteca sui beni di valore sproporzionato rispetto al credito garantito, con conseguente eccedenza del valore dei beni rispetto alla cautela e abuso del diritto della garanzia patrimoniale". Nel caso di specie il debitore aveva visto accogliere la propria opposizione al decreto ingiuntivo e aveva proseguito il giudizio per ottenere la condanna del creditore ai sensi del secondo comma dell’art. 96 c.p.c.. Nella sentenza in esame si nota un revirement giurisprudenziale rispetto alla consolidata corrente ermeneutica. Infatti per lungo tempo la Cassazione ha ritenuto che nel caso di iscrizione ipotecaria esorbitante o su beni eccedenti il credito vantato, il creditore non potesse rispondere ai sensi del secondo comma dell’art. 96 c.p.c., restando possibile una responsabilità del creditore ai sensi del primo comma dell’art. 96 c.p.c. nel caso in cui avesse resistito alla domanda di riduzione dell’ipoteca con dolo o colpa grave. Alla base di quest’impostazione interpretativa vi sono gli art. 2740 e 2828 c.c.. Infatti secondo l’orientamento dominante non vi è illiceità nel comportamento del creditore che iscrive un’ipoteca sproporzionata perché “da un lato l’art. 2740 c.c. fissa il principio che il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri; - dall’altro l’art. 2828 c.c. abilita il creditore ad iscrivere ipoteca su qualunque immobile del debitore. Si trova conferma nell’art. 2877 c.c. che, nel disciplinare le spese per eseguire la riduzione di ipoteca acconsentita dal creditore le pone a carico del richiedente, e quindi del debitor che l’abbia domandata, quando la riduzione è stata chiesta adducendo il valore eccedente dei beni compresi nella iscrizione rispetto alla cautela". Tale orientamento viene superato nella sentenza in esame alla luce dei principi costituzionali rinvenibili nell’art. 111 della Costituzione. Infatti la Terza Sezione Civile della Suprema Corte sostiene che “non c’è una ragione stringente per la quale la funzione di generale garanzia per il creditore assolta dall’intero patrimonio, presente e futuro, del debitore (art. 2740 c.c.) non debba incontrare il limite dell’abuso del diritto". Per quel che concerne l’art. 2828 c.c. “non si vede per quale stringente ragione si debba leggere l’art. 2828 c.c., che abilita il creditore ad iscrivere ipoteca su qualunque immobile, presente e sopravvenuto del debitore, e quindi a scegliere su quanti e quali immobili iscrivere ipoteca, come abilitazione ad iscrivere ipoteca su tutti gli immobili". Inoltre l’art. 111 della Costituzione ha come obiettivo il giusto processo. Giusto è quel processo in cui non vi è abuso del diritto: “giusto non può essere un processo frutto di abuso per l’esercizio in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale, che individua la ragione dell’attribuzione dei poteri processuali e, quindi, i limiti dell’attribuzione della potestas al titolare". Alla luce di questo ragionamento la Suprema Corte, ribaltando l’orientamento precedente, afferma che il creditore che iscrive un’ipoteca eccessiva abusa dello strumento della cautela rispetto al fine per cui è conferito il mezzo cautelare. Non rileva la possibilità per il debitore (nel caso di ipoteca eccessiva) di addivenire ad un accordo con il creditore per la riduzione. Pertanto la Terza Sezione Civile della Suprema Corte afferma in principio di diritto in base al quale “Nell’ipotesi in cui risulti l’accertata l’inesistenza del diritto per cui è stata iscritta ipoteca giudiziale e la normale prudenza del creditore nel procedere all’iscrizione dell’ipoteca giudiziale, è configurabile in capo al suddetto creditore la responsabilità ex art. 96, secondo comma c.p.c., quando non ha usato la normale diligenza nell’iscrivere ipoteca sui beni per un valore proporzionato rispetto al credito garantito, secondo i parametri individuati nella legge (artt. 2875 e 2876 c.c.), così ponendo in essere, mediante l’eccedenza del valore dei beni rispetto alla cautela, un abuso del diritto della garanzia patrimoniale in danno del debitore".

 

[1] SS.UU. Cass, 9.2.2009, ordinanza n.3057, in Riv.dir.int.priv.proc. 2009,934. Principio affermato con riguardo al ricorso per regolamento erroneamente diretto ad ottenere la declaratoria del difetto della giurisdizione italiana sulla istanza di fallimento contro società avente sede in Italia al momento del deposito di tale atto e successivamente trasferitasi in Stato extracomunitario.

[2] Andrea Giussani, Responsabilità aggravata, in Diritto on line 2013, pag. 2. Tale elemento costitutivo risulta essere criticato in dottrina da L.P. Comoglio, Abuso del processo e garanzie costituzionali, in Riv. Dir.proc., 2008, 348 ss.

[3] Andrea Giussani, Responsabilità aggravata, in Diritto on line 2013, pag. 3 che richiama Cass., terza sezione Civcile,3.5.2011,. n. 9697 che afferma –“ l'accertamento, ai fini della condanna al risarcimento dei danni da responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., dei requisiti dell'aver agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave (comma primo) ovvero del difetto della normale prudenza (comma secondo) implica un apprezzamento di fatto normalmente non censurabile in sede di legittimità, ma pur sempre ove la sua motivazione in ordine alla sussistenza o meno dell'elemento soggettivo ed all'an ed al quantum dei danni di cui è chiesto il risarcimento risponda ad esatti criteri logico-giuridici.

[4] Cass.,sezione seconda, 19.5.1999, n.4849. in Giudice di Pace, 2000,99. In tale sentenza si afferma che necessariamente la domanda debba essere proposta al giudice competente per il merito che è funzionalmente competente.

[5] Andrea Giussani, Responsabilità aggravata, in Diritto on line, 2013, pag.4.

[6] Cass., sezione prima, 14.5.2007, n. 10993.

[7] Andrea Giussani, Responsabilità aggravata, in Diritto on line, 2013, pag. 4.

[8] Cass., 13.5.2002, n. 6808.  

[9] Andrea Giussani, Responsabilità aggravata, in Diritto on line, 2013, pag. 5.

[10] Cass., sezione prima, 14/05/2007, numero 10993.

[11] Andrea Giussani, Responsabilità aggravata, in Diritto on line,2013, pag.5.

[12] SS.UU. Cass., 23.3.2011, n.6597, in Giust.civ., 2011, I, 1199 che a conferma di tale ragionamento afferma che “In questo caso, infatti, l'accertamento che il giudice è chiamato a compiere - relativo alla verifica dell'esistenza di una norma sostanziale che consenta o meno la trascrizione della domanda giudiziale - ha per oggetto un fatto diverso da quello dell'altro giudizio; tale lettura del sistema, idonea alla maggiore tutela del diritto di difesa costituzionalmente garantito, consente al danneggiato di ottenere il risarcimento anche in ipotesi di colpa lieve, che rimarrebbero escluse ove la domanda risarcitoria fosse proponibile solo in base all'art. 96 del cod. proc. civ.