Pubbl. Mar, 21 Gen 2025
La Corte di Cassazione si pronuncia ancora sull´applicabilità della sospensione condizionale in sede esecutiva
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Lorenzo Vasile
La Sez. I della Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 2539 del 15 ottobre 2024, torna a pronunciarsi in tema di applicabilità della sospensione condizionale della pena in sede esecutiva, in particolare, sulla sua ammissibilità in concomitanza del riconoscimento della riduzione della pena ex art. 442 c.p.p.
Sommario: 1. Premessa; 2. Breve excursus sull’art. 442 co. II-bis c.p.p.; 3. L’art. 163 c.p. e la fase esecutiva; 4. La Sentenza n. 2539 del 15 ottobre 2024; 5. Ricostruzione della giurisprudenza di legittimità sul tema; 6. Conclusioni.
1. Premessa
L’applicabilità in executivitis della sospensione condizionale della pena, art. 163 c.p., è dilemma, di certo, non dell’ultim’ora; l’interrogativo sottoposto alla Suprema Corte, nel caso di specie, rientra nel più ampio dibattito giurisprudenziale e dottrinale incentrato sui limiti cognitivi del giudice dell’esecuzione, stimolato da una delle tante novità normative introdotte dalla riforma c.d. "Cartabia".
La presente riflessione prende spunto dalla sentenza n. 2539/2024, n. 37899/24 (massimario) della Sez. I Penale, pubblicata il 15 ottobre 2024; sollecitata, la Corte degli Ermellini è intervenuta a perimetrare codesti poteri in sede di riduzione di pena conseguenti al comma 2-bis dell’art. 442 del codice di rito, di nuovissima genesi.
In una tanto concisa quanto incisiva pronuncia di rigetto la Sezione I, oltre a stimolare la curiosità dell’autore, ribadisce la necessità di ancorare il riconoscimento della sospensione condizionale ad una prognosi cognitiva che, tuttavia, a tacer d’altro (espressa previsione di legge e ius superveniens) esula l’imperio del giudice dell’esecuzione.
2. Breve excursus sull’art. 442 co. II-bis, c.p.p.
Appare doverosa una concisa ouverture in ordine al comma II-bis, introdotto con la riforma c.d. "Cartabia". La norma dispone che in caso di giudizio abbreviato sia previsto uno “sconto” di un ulteriore sesto, rispetto al terzo già garantito, «quando né l’imputato né il suo difensore hanno proposto impugnazione contro la sentenza di condanna…».
In sintesi, allorquando il condannato in abbreviato rinunci all’impugnazione si vedrà ridotta la pena di un sesto, oltre il terzo già scontato per la scelta del rito; tale riduzione è operata dal giudice dell’esecuzione, che, a norma dell’art. 676 c.p.p., espleterà il proprio compito nei modi e nelle forme di cui all’art. 667, co. IV, c.p.p..
La succitata norma appare, agli occhi di chi scrive, prodotto «… di quella ricchissima e variegata produzione legislativa spesso indotta dall’esigenza di “fare cassa” …»[1] che si è posta quale obiettivo ultimo lo sfoltimento del carico di lavoro delle oberate aule di giustizia e in particolare, delle stracolme Corti territoriali (ad onor del vero, il trend è in netto miglioramento[2]).
Seppur alfiera di una lotta necessaria, talvolta, questa tendenza legislativa lascia trasparire un cenno di superficialità e leggerezza nel partorire “sconti di pena” e cause di esclusione della punibilità, che appaiono slegate da finalità giuspenalistiche e protese al solo profitto “economico-politico”.
La norma qui analizzata appare perfettamente in linea al detto sistema premiale e di tal avviso è anche la Suprema Corte, nel passaggio in cui si legge che «…determina la riduzione della pena quale beneficio premiale per la scelta di non proseguire il giudizio stesso in sede impugnatoria».
Difatti, affinché l’eventuale imputato possa godere dei vantaggi del co. II-bis, deve esimersi totalmente dall’impugnare la sentenza di prime cure, non producendo una rinuncia in itinere effetto alcuno (Cass. Pen. Sez. I, Sent. n. 51180 del 12 ottobre 2023); circostanza, questa, che invera la natura extra cognitiva dell’istituto, da applicarsi aprioristicamente ed automaticamente in concomitanza all’inerzia volontaria del condannato.
Ciò riflette una ratio deflattiva “pura”, scevra da prognosi e/o valutazioni nel merito, che si estrinseca, all’apparenza, in un’attività giudiziaria esecutiva fredda ed avulsa da cognizione critica.
3. L’art. 163 c.p. e la fase esecutiva
Sebbene possa apparire superfluo, è sempre buona abitudine del giurista affrontare qualsiasi istituto giuridico partendo dalla base, quindi, dalla norma sostanziale preposta agli istituti processuali e il caso di specie non fa eccezione; è quindi proprio dagli artt. 163 ss. c.p. che inizierà questa disamina (ovviamente attenzionando gli aspetti rilevanti al fine della trattazione).
In particolare, è l’art. 164, co. I, c.p. a fornirci le nozioni più utili stabilendo che «La sospensione condizionale della pena è ammessa soltanto se, avuto riguardo alle circostanze indicate nell'articolo 133, il giudice presume che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati.»; il passaggio in appendice subordina l’applicabilità della misura ad un’indispensabile valutazione cognitiva che non si limiti al fatto, ma che trasbordi, attenzionando anche la personalità del reo, fino ad immergersi in un’inedita e presuntiva prognosi circa la possibilità che l’imputato possa in futuro compiere ulteriori nequizie.
Dal canto suo, invece, l’art. 163 c.p. parrebbe ammettere l’applicabilità della misura solo in sede di emissione di una sentenza di condanna (richiamando gli artt. 444, 445, 460, 532, 533, 597 e 605 c.p.p.), ma trattasi di conclusione parziale; è, infatti, eccezionalmente previsto che la sospensione condizionale possa essere disposta anche dal giudice esecutivo, ma non in maniera generalizzata od arbitraria.
Orbene, il procedimento esecutivo è «…quel particolare procedimento cognitivo eventuale che è promosso, a richiesta od istanza delle parti, per ottenere dall’organo giurisdizionale competente la decisione su questioni «non decise nel processo di cognizione in quanto sorgono dopo la conclusione di questo» (Carnelutti)…» [3].
L’assunto in appendice, dalla paternità eccellentissima e dal notevolissimo pregio restituisce un concetto chiave per la perimetrazione delle attribuzioni del giudice dell’esecuzione, che si riflette anche nel caso di specie, ovvero che la sua attribuzione è limitata, a questioni sorte in un momento successivo al giudizio di merito e, comunque, in esso non decise.
Di tal che la sospensione condizionale della pena è esperibile in sede esecutiva solo ed esclusivamente se non esclusa nel processo principale.
Operata siffatta premessa, la concessione della sospensione ex art. 163 c.p. in executivitis, è prevista per espressa previsione dell’art. 671 co. III c.p.p.; di natura apparentemente pretoria la concessione in sede di incedente esecutivo ex art. 673 c.p.p..
Illustre autore[4] è riuscito ad individuate quattro fattispecie in cui il principio dell'intangibilità del giudicato soccombe rispetto ai valori a cui il legislatore assicura un primato, riconosciuto in sede incidentale ex art. 673 c.p.p.: «
Abolitio criminis, per cui è prevista la revoca della sentenza di condanna (art. 673 c.p.p..) e la cessazione degli effetti penali (art. 2, co. II, c.p.);
Dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice ex art. 673 c.p.p.;
Incostituzionalità di una norma, non nella parte incriminatrice, ma in quella relativa al trattamento penale, e, quindi, all’art. 30, co. IV, della L. 11 marzo 1953, n. 87, secondo cui cessano l'esecuzione e tutti gli effetti penali della sentenza irrevocabile di condanna pronunciata in applicazione della norma dichiarata incostituzionale;
Art. 2, co. III c.p.».
Per l’appunto, «…questioni «non decise nel processo di cognizione in quanto sorgono dopo la conclusione di questo».
Si precisa che, entrambi gli istituti rappresentano forme procedimentali incidentali volte all’accertamento di fatti sostanziali[5], quale è anche la sospensione condizionale; tale classificazione diventa fondamentale se raffrontata, come si vedrà più avanti, al diverso procedimento incidentale di cui all’art. 442, co. II, c.p.p..
3. La Sentenza n. 2539 del 15 ottobre 2024
Come anticipato, la sentenza è incentrata sulla concessione della sospensione condizionale della pena da parte del giudice dell’esecuzione in sede di riduzione automatica della pena ex art. 442 co. II c.p.p.; al tal che si è voluto premettere una rapida esposizione degli istituti processuali e sostanziali ad esse preposti.
Il ricorso de quo paventava una manifesta contrarietà ai principi di parità di trattamento e legalità inverati dagli artt. 3, 25 e 27 Cost. da parte del Tribunale di Ancona in funzione di giudice dell’esecuzione.
Le doglianze di parte si sostanziavano in una violazione dell’art. 442, co. II in ordine all’art. 676 c.p.p. ed in una conseguente disparità di trattamento in sede esecutiva rispetto alle analoghe (a suo dire) casistiche degli artt. 671 e 673 c.p.p..
Siffatta tesi fondava l’asserita violazione di legge nella circostanza che, sebbene la pena così come rideterminata a seguito della rituale riduzione rientrasse ora nei limiti legali di cui all’art. 163 c.p., il giudice dell’esecuzione adito non avesse concesso la sospensione condizionale.
Parte ricorrente, presumendo la titolarità di siffatta facoltà in capo proprio al giudice dell’esecuzione, lamentava una disparità di trattamento, inverata dal dettato letterale dell’art. 671, co. III, c.p.p. e dalla giurisprudenza favorevole alla concedibilità della misura nelle casistiche relative all’art. 673 c.p.p..
Secondo la Suprema Corte, si premette, che sillogismo in appendice, è, sic et simpliciter, privo di pregio giuridico, in quanto fondato su una protasi errata, per cui siffatto potere rientri nell’imperio scaturente l’art. 676 c.p.p..
Come alacremente enunciato dalla Chiarissima Corte, vi è una distanza siderale tra la predetta norma e l’art. 671 c.p.p. e neppure troverebbe fortuna l’agitata analogia con gli istituti dell’abolitio criminis o dell’illegittimità costituzionale della norma incriminatrice in executivitis.
Sul primo punto, la Corte si limita a licenziare la lamentata accusa di iniquità chiosando che, a differenza dell’art. 671 c.p.p., l’art. 676 c.p.p. non abbia alcuna espressa previsione di legge che investa il giudice del potere di concedere sua sponte la sospensione condizionale della pena in sede di riduzione della pena.
L’asserita disparità sarebbe frutto di un apoftegma parziale, scevro di una base normativa che possa supportare una grave accusa di «disparità di trattamento».
Detto questo, è chiaro che la Corte abbia attenzionato con ben più enfasi la seconda tesi “a carico”, ovvero quella che agita un’interpretazione analogica di quella giurisprudenza volta a ricondurre la sospensione condizionale all’imperio del giudice in sede di incidente d’esecuzione ex art. 673 c.p.p. del codice di rito.
A siffatta arringa, gli Ermellini controbattono richiamando quella copiosa giurisprudenza – di cui si tratterà in seguito – che effettivamente ha riconosciuto spazio vitale in sede esecutiva ex art. 673 alla sospensione condizionale, tuttavia, sublimandone le diversità rispetto al procedimento incoato da parte ricorrente.
In un saggio pubblicato su Il Caffè, Pietro Verri affermava che “…il legislatore comanda, il giudice fa eseguire il comando” [6]; e difatti è così ancora oggi.
Nella motivazione della Sezione I, viene citato un bellissimo periodo di una sentenza che ha “fatto scuola”, la “Catanzaro” delle Sezioni Unite: «…una volta "che la legge processuale demanda al giudice una determinata funzione, allo stesso giudice è conferita la titolarità di tutti i poteri necessari all'esercizio di quella medesima funzione"» orbene, se raffrontata al caso di specie, la conclusione a cui approdano i giudici della Sezione I appare lapalissiana.
Invero, il procedimento incidentale avviato ex art. 673 è un procedimento attinente al piano sostanziale del giudizio, mutato in itinere per via di abrogazione (normativa o giurisprudenziale/costituzionale).
Al giudice dell’esecuzione spettando l’onere di riconoscere la caducazione della norma incriminatrice, si riconosce anche, metaforicamente, il compito di estirparne gli effetti penali, tra cui, l’esecuzione.
In poche parole, l’ordinamento sacrifica l’intangibilità del giudicato a favore dei principi della retroattività illimitata dell’abolizione[7],di cui all’art. 2 c.p. e a quello statuito dall’art. 30 co. III della L. 11 marzo 1953, n. 53 per cui, in ossequio all’art. 136 Cost, la norma dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale cessa di produrre effetti penali venendo ab origine riconosciuta quale invalida.
La logica vorrebbe investito il giudice dell’esecuzione di un potere più pregnante ed incisivo nella seconda ipotesi, ma la Corte di legittimità approda a differente apodosi[8].
La conclusione a cui giunge la Corte è che l’art. 673 c.p.p.[9], in entrambi i casi, investe il giudice di una decisione incidente sul quadro sanzionatorio c.d. “genetico”, rendendo ora possibile una prognosi, quella dell’art. 164 c.p., prima ostacolata dalla concorrenza del reato abrogato.
La ragione anteposta a questo potere incisivo riconosciuto in codesta sede al giudice dell’esecuzione è sostanziata nell’elemento da cui scaturisce l’accessibilità allo e nella natura del procedimento instaurato con l’istituto di cui all’art. 673 c.p.p.: trattandosi, come predetto, di procedimento inerente il piano sostanziale e conseguenza di un ius superveniens retroattivo, conferisce al giudice il potere di incidere per mezzo di una misura sostanziale operando una valutazione altrimenti esclusa in questa fase procedurale.
Al giudice dell’esecuzione è conferita la possibilità di concedere la sospensione condizionale perché «…la valutazione prognostica da effettuarsi ai sensi dell’art. 164 c.p. diviene possibile alla stregua del novum sopravvenuto, idoneo a incidere sull’ammissibilità della valutazione che avrebbe dovuto farsi se esso fosse maturato in sede cognitiva.» (Cass. Pen. Sez. I, sent. N. 2539 del 15 ottobre 2024).
Quindi, si compie una fictio iuris, per cui, al fine di correggere una sopravvenuta sbavatura dell’ordinamento, il giudice esecutivo prende le veci del giudice della cognizione.
Siffatta attività “correttiva” è, però, circostanziata ai limiti posti dalla cognizione del giudice del merito e si fonda, per quanto attiene la valutazione del fatto, meramente sulla base probatoria ex ante riversata in atti: al giudice dell’esecuzione non è concesso, infatti, contraddire o contravvenire a quanto statuito nella sentenza, pur dovendo tener conto, nella propria attività valutativa (inerente alla persona del colpevole), degli elementi sopravvenuti ex post (Sez. I, n. 33817 del 20.06.2014, Lamberti).
L’assunto in appendice sublima la distanza dell’istituto analizzato dall’art. 442 c.p.p.; quest’ultimo apponendo una semplice riduzione aprioristica della pena, incide sul quantum già deciso dal giudice del merito (e fuori limiti d’applicabilità della sospensione), sostanziandosi, quindi, in un procedimento incidentale esclusivamente inerente al solo piano processuale.
Vieppiù, raffrontando le disposizioni la tesi prospettata in appendice trova conferma nel richiamo all’art. 667, co. IV, c.p.p. effettuato dall’art. 676; è, infatti, disposto che il giudice nell’applicare la riduzione di cui all’art. 442, co. II-bis, agisca nelle forme e nei modi di cui al comma IV dell’art. 667 e, quindi, «senza formalità».
Appare evidente l’ossimoro tra la previsione in appendice e una prognosi, quella di cui all’art. 164 c.p., tutt’altro che banale.
Come chiosato dalla Corte, quindi, la protasi di parte ricorrente è errata, in quanto attribuisce al giudice dell’esecuzione un potere decisorio esorbitante rispetto al dettato letterale di cui all’art. 676 c.p.p.; orbene, “…interpretare vuol dire (…) indagare cosa il legislatore avrebbe verisimilmente deciso nel tale o talaltro caso, su cui non parla chiaramente la legge.”[10]; e, almeno in questo caso la legge è chiara nel ricondurre la riduzione di cui all’art. 442 ad una mera apprensione di un fatto storico, ovvero la mancata impugnazione, senza riconoscere ulteriori conseguenze sostanziali.
5. Ricostruzione della giurisprudenza di legittimità in tema
Come evidenziato in premessa, sebbene la giurisprudenza della Suprema Corte appaia “vergine” dinnanzi al quesito de quo, esso, in realtà, va ad inserirsi in un annoso e più ampio dibattito giurisprudenziale incentrato sui limiti applicativi dell’art. 163 c.p. in executivitis.
Dibattito che ad interrogarsi[11] sulla vastità e fattura del potere decisorio del giudice dell’esecuzione; la natura tutt’altro che peregrina del quesito è supportata dalla fiorente e contraddittoria produzione di legittimità in tema.
La presente disamina sinottica non può che partire dalla vetusta sentenza della VI Sez. Penale, 7.7.1995, CED 202837, De Rosa, in cui la Corte Suprema statuiva che «Non è consentito al giudice dell’esecuzione di integrare, e tanto meno di modificare, il contenuto del giudicato, dovendosi ritenere preclusa, nella sede di cui all’art. 673 c.p.p., una valutazione diversa di quella manifestatamente palesata dal giudice di cognizione.» (in senso conforme, da ultimo, Cass. Pen. Sez. III, 25.10.2016, Managò, CED 269011).
Codesto orientamento giurisprudenziale, quindi, investirebbe il giudice dell’esecuzione di un potere decisorio molto limitato, tanto da non poter integrare o modificare il contenuto del giudicato; seguendo siffatto orientamento egli dovrebbe limitarsi alle decisioni inerenti al titolo esecutivo e, al massimo, al compiere valutazioni in sintonia con quanto palesato dal giudice di cognizione.
A contraddire una visione così rigida soggiunge un orientamento giurisprudenziale contrario, fondato sulle statuizioni delle Sezioni Unite della Corte di cassazione cc.dd. “Catanzaro” e, soprattutto “Gatto” e “Ercolano”, affiancate da un’autorevole pronuncia della Corte costituzionale, che hanno restituito un quadro complesso, ma coordinato, il cui punto di luce nasconde un principio immanente comune.
«Il giudice dell’esecuzione, qualora, in applicazione dell’art 673 c.p.p., pronunci per intervenuta abolitio criminis ordinanza di revoca di precedenti condanne, le quali siano state a suo tempo di ostacolo alla concessione della sospensione condizionale della pena per altra condanna, può, nell’ambito dei “provvedimenti conseguenti” alla suddetta pronuncia, concedere il beneficio, previa formulazione del favorevole giudizio prognostico richiesto dall’art. 164, co. I, c.p., sulla base non solo della situazione esistente al momento in cui era stata pronunciata la condanna in questione, ma anche di elementi sopravvenuti» (Cass. SS. UU. 6.2.2006, n. 4687, Catanzaro, CED 232610) con questa pronuncia – ripresa in motivazione anche dalla sentenza ut supra – le Sezioni Unite hanno inaugurato una tendenza espansiva della giurisprudenza che ha via via riconosciuto poteri più incisivi al giudice.
A dar man forte e a confluire in questa corrente è la sentenza n. 210 del 2013 della Corte costituzionale che ha condiviso l'individuazione di possibili strumenti di intervento del giudice in executivis nelle disposizioni del codice di procedura penale, tanto da sostenere che, esso giudice, «…non si limita a conoscere delle questioni sulla validità e sull'efficacia del titolo esecutivo ma è anche abilitato, in vari casi, ad incidere su di esso (art. 669 c.p.p., art. 670 c.p.p., comma 3, artt. 671, 672 e 673 c.p.p.)».
Partendo da siffatto assunto, la Corte di cassazione ha evidenziato che alla giurisdizione esecutiva sono riconosciuti "ampi margini di manovra", non circoscritti alla sola verifica della validità e dell'efficacia del titolo esecutivo, ma incidenti anche sul contenuto di esso, «allorquando imprescindibili esigenze di giustizia, venute in evidenza dopo l'irrevocabilità della sentenza, lo esigano»; ed ha affermato che il procedimento di esecuzione è il mezzo con cui investire il giudice dell'esecuzione «di tutti quei vizi che, al di là delle specifiche previsioni espresse, non potrebbero farsi valere altrimenti, considerata l'esigenza di garantire la permanente conformità a legge del fenomeno esecutivo» (SS. UU., n. 18821 del 2014, Ercolano, cit.).
Ad elargire chiarezza nella caligine normativa è un’altra pronuncia delle SS.UU., ovvero, la n. 42858, del 29 maggio 2014, “Gatto” che riconoscendo al giudice dell’esecuzione il potere di effettuare il bilanciamento tra circostanze a seguito di dichiarazione di illegittimità costituzionale di norma imponente un divieto di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata, contribuiva a perimetrarne l’imperio: «Nè a tale conclusione può opporsi la supposta carenza di poteri valutativi da parte del giudice dell'esecuzione giacché, da un lato, penetranti poteri di accertamento e di valutazione, ben più complessi di quelli richiesti da un giudizio di comparazione tra circostanze, sono stati espressamente attribuiti dal legislatore a tale organo in materia di concorso formale e reato continuato (art. 671 c.p.p.). E ciò è stato previsto dal legislatore per rimediare al limite di conoscenza e di conoscibilità che impedisce al giudice della cognizione di esaminare e valutare l'eventuale sussistenza del medesimo disegno criminoso tra reati separatamente giudicati.»
Quindi, secondo la Corte, la possibilità di avvalersi di poteri valutativi non si fonda soltanto su quanto il legislatore ha specificamente previsto con gli artt. 671 ss. c.p.p., ma anche «…sulla razionalità del sistema processuale: infatti, una volta "che la legge processuale demanda al giudice una determinata funzione, allo stesso giudice è conferita la titolarità di tutti i poteri necessari all'esercizio di quella medesima funzione" (Cass. SS. UU., n. 4687 del 2006, Catanzaro, ut supra cit.).» quindi, un potere giuridico che trova la propria fonte nella norma (e, quindi, nella legge) e nella funzione giuridica perseguita dalla stessa.
Vale a dire, in parole povere, che se la legge investe il giudice dell’esecuzione dell’onere di riconoscere la continuazione, un istituto sostanziale, in executivitis, al giudice dell’esecuzione saranno attribuiti tutti i poteri necessari all’esercizio di quella funzione, pertanto, anche poteri sostanziali quale la sospensione condizionale.
Potere-dovere di certo non illimitato, ça va sans dire, ma ossequioso della cognizione del giudice del merito e di quanto già riversato in atti: «Ovviamente, nell'esercizio di tale potere-dovere, il giudice dell'esecuzione non ha la stessa libertà del giudice della cognizione, dovendo procedere - non diversamente da quanto è previsto negli artt. 671 e 675 c.p.p., - nei limiti in cui gli è consentito dalla pronuncia di cognizione, ossia potrà pervenire al giudizio di prevalenza sempre che lo stesso non sia stato precedentemente escluso nel giudizio di cognizione per ragioni di merito, cioè indipendentemente dal divieto posto dall'art. 69 c.p., comma 4: in sintesi, le valutazioni del giudice dell'esecuzione non potranno contraddire quelle del giudice della cognizione risultanti dal testo della sentenza irrevocabile».
A parere di chi scrive, questa è la vera pietra filosofale della materia, la cornice entro cui opera il nostro: da un lato la legge «…prima e principale fonte di legittimazione del potere giudiziario»[12] - secondo il noto modello illuminista[13] «del giudice bocca della legge» - e dall’altra il giudicato, che egli mai potrà contraddire.
6. Conclusioni
Quello penale è un sistema processuale «…delimitato giuridicamente, nei presupposti e nei contenuti…»[14], queste le parole del grande giurista e fondatore della c.d. Scuola Moderna tedesca, Franz Von Liszt.
Parafrasando quanto chiarito dalla Corte, affinché si possano perimetrare i poteri di volta in volta riconosciuti al giudice dell’esecuzione è necessario attenzionare in primis la norma-fonte del procedimento incidentale (ovvero i suoi presupposti), per poi poterne ricavare il piano giuridico sul quale essa si inserisce (i contenuti).
Gli artt. 671 e. 673 c.p.p. condividono un comun-denominatore: disciplinano l’interazione tra il giudicato – statico – ed un novum sostanziale – dinamico – sopravvenuto.
Tale mutazione viene definita «genetica» in quanto incidente sul piano sostanziale e quindi sull’ante giudicato; è come se al giudice dell’esecuzione fosse concesso di sostituire dalla panchina il giudice del merito perché sopravvenuta una novità che, se fosse partorita in pendenza di processo «…avrebbe dovuto farsi se esso fosse maturato in sede cognitiva…».
Egli applica la sospensione perché, se in sede cognitiva la norma incriminatrice fosse stata abrogata, certamente il giudice della cognizione avrebbe compiuto la prognosi di cui all’art. 164 c.p.; in altre parole, la legge lo investe del compito di immedesimarsi nei panni del collega che lo ha preceduto.
È per questo che egli non può contravvenire a risultanze o concedere misure, (continuazione, sospensione, bilanciamento) espressamente escluse in prime cure.
D’altro canto, al giudice dell’esecuzione, non è concesso applicare la sospensione condizionale della pena in sede di riduzione ex art. 442, co. II-bis, c.p.p., per via della natura prettamente processuale di siffatto procedimento incidentale che, non investendo la stessa il giudice di alcuna funzione decisoria sul piano sostanziale, gli preclude «…la titolarità di tutti i poteri necessari all'esercizio di quella medesima funzione…».
[1] E. Squillaci, Le moderne cause di non punibilità “susseguente” nel sistema penale, Napoli, 2016, p. 15.
[2] Nel post-Cartabia si registra un: – 14,3% nel 2023 e – 4,2 % nel I semestre del 2024 del numero di procedimenti penali pendenti presso le Corti d’Appello, rispetto all’annata precedente (dati facilmente riscontrabili sul sito www.giustizia.it).
[3] A. De Marsico, Lezioni di diritto processuale penale, terza edizione, 1952, p. 329.
[4] G. Canzio, La giurisdizione e la esecuzione della pena, in Diritto penale contemporaneo, 2016.
[5] S. Furfaro, I procedimenti nel processo penale, Pisa, 2018, p. 52.
[6] P. Verri, op. cit;
[7] G. Marinucci-E. Dolcini-G. Gatta, Manuale di diritto penale – parte generale, Milano, 2022, p. 150.
[8] In tema si riportano le parole di S. Finocchiaro, Gli effetti dell’abolitio criminis e della dichiarazione di incostituzionalità sul giudicato e sulla confisca, in Diritto penale contemporaneo, fascicolo 5/2018, «La diversificazione degli effetti sul giudicato da parte della sopravvenienza legislativa, da un lato, e della dichiarazione d’incostituzionalità, dall’altro, è stata ad oggi già affermata in giurisprudenza, ma solo in relazione all’ipotesi – diversa da quella che ci occupa – in cui la sopravvenienza abbia riguardato una norma diversa da quella incriminatrice, ad esempio attinente a una circostanza (si pensi all’aggravante della clandestinità, dichiarata incostituzionale con la sentenza della Corte costituzionale n. 249/2010: su cui cfr. Cass. pen., sez. I, 27 ottobre 2011, n. 977, Hauohu, e da Cass. pen., sez. I, 24 febbraio 2012, n. 19361, Teteh Assic) o al trattamento sanzionatorio (si pensi, in materia di stupefacenti, alla pronuncia della Consulta n. 32/2014: su cfr. Cass. pen., Sez. Un., 26 febbraio 2015, n. 37107, Marcon). In questi casi è ormai pacifico che, mentre l’efficacia retroattiva della lex mitior, incontrando il limite del giudicato ex art. 2, comma 4 c.p., non può incidere sulla pena definitivamente inflitta, al contrario la sopravvenuta sentenza della Corte costituzionale permette, ai sensi dell’art. 30, comma 4 l. 87/1953, di ottenere dal giudice dell’esecuzione una rideterminazione della pena inflitta (cfr., in particolare, Cass. pen., Sez. Un., 29 maggio 2014 (dep. 14 ottobre 2014), n. 42858, Gatto, con nota, ex multis, di S. RUGGERI, Giudicato costituzionale, processo penale, diritti della persona, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., n. 1/2015, p. 31 ss.)».
[9] Ad abundantiam: l’art. 673 c.p.p. riconosce la tutela in executivitis in caso di intervenuta abrogazione o dichiarazione di illegittimità costituzionale della pena, al fine di garantire il rispetto del principio di legalità ed attualità della punizione ex art. 2, co. II, c.p.
[10]P. Verri, Sulla interpretazione delle leggi, in Il Caffè, II, 1765, in Id., Scritti vari di Pietro Verri ordinati da Giulio Carcano, II, 1854, Firenze, 162-171;
[11] G. Canzio, op. cit.;
[12]L. Ferrajoli, La giurisdizione, le sue fonti di legittimazione e il suo futuro, in Il ruolo del giudice nel rapporto tra i poteri, a cura di G. Chiodi e D. Pulitanò, Giuffrè, Milano 2013, pp. 21-22.
[13] Modello delineato da Montesquieau e ripreso, tra gli altri, anche da C. Beccaria, ne Dei delitti e delle pene, Milano, 1764; così come brillantemente ricostruito da V. Maiello, in Legge e interpretazione nel “sistema” di Beccaria, Napoli, 2021.
[14] F. Von Liszt, Die deterministischen Gegner der Zweckstrafe, in Strafrechtliche Aufsätze und Vorträge, 1905, II, 59.