Pubbl. Mer, 26 Giu 2024
La legittimità del licenziamento per giusta causa deve essere verificata sulla scorta di diversi elementi considerati congiuntamente
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Sofia Greco
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La Sezione lavoro della Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 14042 del 21 maggio 2024, ha ritenuto che, al fine di verificare la legittimità del licenziamento per giusta causa di cui all’art. 2119 c.c., il giudice di merito debba avere riguardo a tutte le circostanze del caso concreto e, segnatamente, alla maggiore o minore gravità dell´infrazione rispetto ad eventuali precedenti disciplinari del lavoratore, agli interessi del datore di lavoro, agli eventuali danni arrecati, alla posizione soggettiva del dipendente in seno all´azienda, all´intensità del dolo o al grado della colpa, ai motivi della condotta, all´entità della lesione del rapporto fiduciario.
Sommario: 1. Premessa; 2. Il caso; 3. Brevi cenni sul licenziamento per giusta causa; 4. Il giudizio di rinvio; 5. L’esito del (secondo) giudizio in cassazione; 6. Conclusione.
1. Premessa
Con l’ordinanza n. 14042 del 21 maggio 2024, la Sezione lavoro della Corte di cassazione ha stabilito che, per la verifica della sussistenza di una giusta causa di licenziamento ex art. 2119 c.c., occorre che il giudice vada alla ricerca di un quid pluris che connoti in termini di gravità la condotta disciplinarmente rilevante. A seguito di un’analisi in concreto dei fatti su cui poggia il rimprovero disciplinare, si richiede che le condotte contestate siano talmente gravi da compromettere irrimediabilmente la relazione di fiducia intercorrente tra il dipendente e il proprio datore di lavoro.
2. Il Caso
Nell’agosto 2009, un dipendente di Telecom Italia Spa veniva licenziato per motivi disciplinari, senza preavviso, per avere effettuato alcuni (3) accessi abusivi al sistema informatico della società per motivi estranei (non attinenti) all’attività lavorativa.
A settembre 2012, il Tribunale di Napoli, ritenendo sproporzionata la sanzione del licenziamento, la annullava e ordinava la reintegra del dipendente nel posto di lavoro; condannava inoltre la società al pagamento dell’integralità delle retribuzioni dovute, dal momento del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione.
In riforma della decisione del giudice di prime cure, nell’ottobre 2015, la Corte d’Appello di Napoli ribaltava l’esito della precedente decisione, accogliendo il gravame proposto da Telecom Spa.
A seguito del ricorso per cassazione proposto dal dipendente, con la sentenza n. 13016 del maggio 2019, la Corte cassava la sentenza d’appello e la rinviava per un ulteriore accertamento al fine di verificare «se la condotta posta in essere […], sebbene non compresa in alcuna delle ipotesi di licenziamento tipizzate dall'art. 48 c.c.n.l. telecomunicazioni» avesse potuto comunque rientrarvi «in via di interpretazione ex art. 1365 c.c., alla stregua d'una indagine di fatto (…) o se avrebbe potuto comunque ascriversi o meno alla nozione legale di giusta causa o giustificato motivo soggettivo» (par. 4 della sentenza in commento). Chiedeva, pertanto, una nuova analisi dei fatti, dovendosi accertare se, nonostante alcuna delle ipotesi contemplate dall’art. 48 menzionasse la condotta concretamente perpetrata dal dipendente, quest’ultima avrebbe potuto essere ugualmente posta alla base del licenziamento mediante un’interpretazione di tipo estensivo della lettera della disposizione. Il solo fatto che le medesime condotte fossero state penalmente ricondotte alla fattispecie di cui all’art. 615 ter c.p. non era elemento sufficiente ad assurgere a motivo di licenziamento senza preavviso ai sensi dell’art. 48 co. 1, lett. B), lett. l) del c.c.n.l. telecomunicazioni[1]. La Corte d’appello avrebbe dovuto svolgere una nuova valutazione in ordine alla possibile estensione in via interpretativa, ex art. 1365 cc[2], delle ipotesi elencate nel c.c.n.l. ovvero ricondurre, gli stessi fatti, all’interno della nozione legale di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo.
Il metodo interpretativo-estensivo consente di individuare «tutte le ipotesi disciplinate dalla norma, che solo apparentemente ne sono estranee a causa della non espressa menzione, onde il legislatore minux dixit quam voluit»[3].
3. Brevi cenni sul licenziamento per giusta causa
Il potere di licenziamento, prerogativa del datore di lavoro, presuppone, per essere legittimamente esercitato, l’esistenza di una giustificazione ascrivibile a due concetti diversi fra loro: la giusta causa e il giustificato motivo soggettivo. Il discrimine fra i due sarebbe di tipo qualitativo e si riferirebbe alla gravità dell’inadempimento posto in essere dal lavoratore. In tal modo, la giusta causa si posiziona sulla stessa scala del giustificato motivo soggettivo, ma ad un livello superiore; mediante le indicazioni dei C.C.N.L. è possibile differenziare i vari comportamenti, includendoli in una casella o nell’altra.
L’idea di giustificazione è stata introdotta con la legge 604/1966, al cui art. 1 si legge «nel rapporto di lavoro […] il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell'art. 2119 del Codice civile o per giustificato motivo». La giustificazione diviene un requisito minimo del potere di recesso del datore di lavoro che, per essere legittimo, deve essere, oltre che preceduto da un preavviso (salvo l’ipotesi di giusta causa ex art. 2119 c.c.), determinato da giusta causa o da un giustificato motivo.
La giusta causa, riconducibile a un comportamento del lavoratore, «non consente la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro» (ex co. 1, art. 2119 c.c.) comportando la rimozione immediata del dipendente dal suo posto di lavoro, senza che vengano rispettati i requisiti di forma di tale licenziamento e assumendo importanza preminente l’elemento soggettivo. Il lavoratore, non rispettando le obbligazioni derivanti dal contratto di lavoro, pone in essere un inadempimento di ‘notevolissima’ entità[4] che induce il datore di lavoro all’interruzione in tronco del rapporto, senza che sia apposto un preavviso (strumento a garanzia di ambedue le parti e che permette a quella che subisce l’atto di recesso di fruire di un lasso di tempo che consenta di far fronte alle conseguenze). L’inadempimento funge pertanto non solo da presupposto, ma anche da giustificazione al valido esercizio del potere di recesso da parte del datore di lavoro.
La condotta inadempiente, di estrema gravità, è tale da pregiudicare in modo irreparabile il legame di fiducia, tale da rendere giustificata (previa procedura disciplinare) l’estromissione immediata del lavoratore dall’azienda. L’elemento fiduciario ha un peso tanto maggiore, quanto più è importante il ruolo professionale del dipendente, venendo dunque in rilievo la posizione da questi ricoperta all’interno dell’impresa. La giusta causa non si esaurirebbe quindi nella mera violazione degli obblighi contrattuali, ma è integrata da qualsiasi fatto o accadimento (anche) esterno all’area dell’inadempimento, purché così grave da incrinare il legame di fiducia caratterizzante il rapporto di lavoro.
Anche nel licenziamento per giustificato motivo soggettivo viene in considerazione il comportamento del lavoratore all’interno dell’azienda. In questo caso, però, l’inadempimento risulta di grado inferiore – di ‘notevole’ entità ai sensi dell’art. 3 della legge 609/1966 – rispetto a quello utile a integrare la giusta causa. Le condotte non risultano di gravità tale da portare alla rimozione immediata del dipendente, senza preavviso. In questo tipo di licenziamento, infatti, il datore di lavoro è obbligato a concedere un preavviso al dipendente in vista del suo licenziamento. Il preavviso, insieme alla giustificazione, fa parte della struttura legale del potere di recesso: si tratta di posporre (differire) nel tempo (per la durata del preavviso medesimo) il momento di produzione degli effetti del licenziamento.
Il limite di tolleranza dell’inadempimento posto in essere dal dipendente è esemplificato all’interno di alcuni elenchi predisposti dai vari C.C.N.L., contenenti esemplificazioni dei principali fatti costituenti giustificato motivo di licenziamento.Il giudice deve compiere un’analisi ad ampio spettro, soffermandosi, in particolare, sull’elemento soggettivo (doloso o colposo) mediante cui l’inadempimento si è verificato; dovrà valutarsi, ulteriormente, il contesto aziendale in cui i fatti si sono verificati, ponendo in evidenza, per esempio, se alcune irregolarità fossero tollerate. Difatti, può accadere che una sanzione risulti sproporzionata rispetto alle previsioni dei contratti collettivi, proprio in ragione delle circostanze del caso concreto.
4. Il giudizio di rinvio
In sede di rinvio, la Corte d’appello ha posto in evidenza il ruolo ricoperto dal dipendente all’interno di Telecom Spa, operativo presso i Servizi per l’Autorità Giudiziaria – S.A.G. di Napoli, struttura adibita alla gestione delle richieste dell’Autorità Giudiziaria in ordine al traffico, ai tabulati telefonici e alle intercettazioni. Il suo compito era di evadere le richieste della A.G., mediante l’accesso a due sistemi informatici utili all’acquisizione di dati sensibili, il Minerva, tramite previa richiesta dell’A.G., e il Motore Servizi Prepagati M.S.P., la cui richiesta di accesso poteva pervenire in seguito. Nella contestazione disciplinare si menzionava un utilizzo abusivo dei citati sistemi, per motivi strettamente personali, in difetto di richiesta dell’A.G.
Come anticipato prima, per gli stessi fatti aveva preso avvio un procedimento penale[5], costituente, a detta della Corte d’appello, occasione per l’acquisizione della prova delle condotte abusive e per la (conseguente) contestazione disciplinare da parte della società, nonostante delle iniziali trentadue visualizzazioni abusive contestate, ne fossero state ritenute solo tre: due sul numero in dotazione al dipendente e una sul numero di un rivenditore di materiali edili che il dipendente aveva interesse a rintracciare per fini (sempre) personali. Veniva dunque definito l’abuso dovuto alla mancanza di autorizzazione, ragioni di servizio, in violazione dei doveri relativi alla funzione, alle norme e alle procedure aziendali. Le condotte, volontariamente perpetrate, integravano una giusta causa di licenziamento ex art. 2119 c.c. in ragione del ruolo ricoperto dal dipendente e del potere allo stesso attribuito (finalizzato all’evasione delle richieste dell’A.G). Dalla lesione del vincolo fiduciario derivava l'intervenuta impossibilità, per la società, di fare affidamento sul dipendente.
Avverso tale sentenza, il lavoratore presentava ricorso per cassazione.
Secondo i primi due motivi di ricorso, le due interrogazioni al sistema M.S.P., eseguite per informazioni all'utenza, erano avvenute a distanza di pochi secondi l'una dall'altra, sul numero assegnato al dipendente; dello stesso tenore la consultazione al rivenditore di materiali edili (avvenuta anch’essa per fini personali). In tal guisa, le condotte contestate potevano considerarsi irrilevanti (le prime due) o di marginalissimo rilievo disciplinare (la terza). La Corte d’appello, avrebbe compiuto un percorso ermeneutico ex art. 1365 c.c. in violazione delle regole di interpretazione negoziale.
5. L’esito del (secondo) giudizio in Cassazione
La Corte di cassazione, dopo l’esame congiunto dei (2) motivi, li ha ritenuti fondati.
Valutare se il fatto possa sussumersi nella nozione di giusta causa ex art. 2119 c.c., è la prima operazione da compiere per appurare la legittimità del licenziamento senza preavviso. I giudici del rinvio avrebbero ritenuto sufficienti il ruolo ricoperto dal dipendente e i motivi personali delle interrogazioni al sistema. Secondo la Cassazione: «per assurgere alla soglia minima di disvalore disciplinare, e quindi di antigiuridicità, il fatto deve avere un grado apprezzabile di offensivitàrispetto agli interessi del datore di lavoro». I primi due accessi sono certamente avvenuti per fini estranei all’attività lavorativa, ciononostante, la consultazione sarebbe stata richiedibile ed effettuabile presso un qualunque call center commerciale della società. Ne deriva che, sul piano degli interessi datoriali nessuna lesione, né pericolo di lesione sono riferibili alla condotta.
Dalle lettere A) e B) dell’art. 48 del c.c.n.l., contenenti ambedue le ipotesi di licenziamento, con o senza preavviso, si evince che per integrare gli estremi di un'infrazione sanzionabile, occorre rilevare un quid pluris in cui sia ravvisabile una particolare connotazione di gravità della condotta disciplinarmente rilevante, consistente:
- in un lucro per il dipendente e/o un danno per la società (lett. A), co. 2, lett. f),
- nell’integrazione dei ben più gravi delitti di violazione del segreto sugli interessi aziendali, del segreto telefonico e/o di quello delle comunicazioni (lett. B), co. 3, lett. l).
Anche al di fuori delle ipotesi tassativamente previste, occorre stabilire, a seguito di un’analisi in concreto dei fatti su cui poggia il rimprovero disciplinare, se le condotte siano gravi a tal punto da sfociare nella misura espulsiva del licenziamento. Prendendo le mosse dalla contestazione disciplinare, il giudice, può ritenere o meno integrata la giusta causa ex art. 2119 c.c. Trattandosi di una clausola generale dal contenuto elastico, l’esame di merito sulla sussistenza della giusta causa va effettuato caso per caso, sul singolo legame fiduciario (tra dipendente e datore di lavoro) in oggetto. La fiducia è messa a repentaglio in maniera talmente evidente da sfociare nell’impossibilità di continuare la relazione lavorativa, la cui unica soluzione possibile è l’eliminazione della risorsa dall’azienda.
La Corte di cassazione già nella prima decisione (sentenza n. 13016 del 15/05/2019) aveva indicato alla Corte di rinvio i parametri da seguire per determinare la sussistenza, o meno, dei requisiti necessari al recesso unilaterale della parte datoriale. Riprendendo quanto riportato dalla Corte di cassazione nella decisione del 2019, la Corte d’Appello avrebbe dovuto considerare ogni circostanza del caso concreto e, in particolare:
- la maggiore o minore gravità dell'infrazione rispetto ad eventuali precedenti disciplinari del ricorrente agli interessi del datore di lavoro;
- gli eventuali danni arrecati,
- la posizione soggettiva del dipendente in seno all’azienda;
- l'intensità del dolo o il grado della colpa;
- i motivi della condotta;
- l’entità della lesione del rapporto fiduciario.
Tali parametri erano stati stilati dalla Cassazione col preciso fine che se ne facesse un’analisi congiunta, e non alternativa. Ciò malgrado, i giudici del rinvio ne avrebbero fatto un uso solo parziale, avendo unicamente considerato la posizione ricorrente in seno all'azienda e i suoi motivi personali, facendo derivare da questi (unici) due elementi l’intera entità della lesione del rapporto fiduciario, trascurando il resto.
Avendo ritenuto il solo carattere personale dei motivi ispiratori della condotta, la Corte d’appello non ha verificato il grado di discostamento dagli obblighi di diligenza del lavoratore, dovendo valutarsi, ulteriormente, se lo stesso fosse minimo o addirittura non dotato di sufficiente disvalore disciplinare, secondo i parametri di valutazione diffusi nella coscienza sociale, cui rinvia la nozione di giusta causa di cui all’art. 2119 c.c.
La sentenza della Corte d’appello è stata pertanto cassata con rinvio (gli ulteriori tre motivi sono stati ritenuti assorbiti).
6. Conclusione
La verifica sulla sussistenza di una giusta causa di licenziamento va eseguita in concreto tenendo conto di ogni elemento utile, rintracciando un quid pluris da cui è possibile scorgere una gravità tale per cui il rapporto di lavoro non sia più suscettibile di continuazione, potendo essere per ciò interrotto nell’immediatezza, senza che al dipendente venga concesso alcun preavviso.
[1] Art 48 co. 1 c.c.n.l. telecomunicazioni: lett. B) licenziamento senza preavviso – «In tale provvedimento incorre il lavoratore che provochi all'azienda grave nocumento morale o materiale o che compia, in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, azioni che costituiscono delitto a termine di legge.
[…] lett. l) la violazione del segreto sugli interessi dell’azienda, del segreto telefonico e/o di quello delle comunicazioni come definiti dalla vigente legislazione penale (titolo XII, libro II, capo III, sez. V del Codice Penale)».
[2] Art. 1365 c.c.: «Quando in un contratto si è espresso un caso al fine di spiegare un patto, non si presumono esclusi i casi non espressi, ai quali, secondo ragione, può estendersi lo stesso patto».
Cfr. Cass. civ., sez. lav., n. 30420/2017: «Nell’interpretazione di un contratto collettivo, soggetto, per la sua natura privatistica, alle disposizioni dettate dagli artt. 1362 e ss. c.c. […] il giudice, ai sensi dell’art. 1365 c.c., può estendere, mediante un’interpretazione estensiva, una pattuizione ad un caso non espressamente contemplato dalle parti ma ragionevolmente assimilabile a quello regolato».
Cfr. Cass. civ., sez. lav., sent. n. 2173/2022.
Cfr. Cass. civ., sez. lav., sent. n. 11666/2022.
[3] Francesco Gazzoni, Manuale di diritto privato, Edizioni Scientifiche Italiane, 2024, p. 50.
[4] Tribunale Sulmona, sez. lav., sent. n. 91/2021.
[5] Procedimento conclusosi, inizialmente, con la condanna nel 2014 del dipendente alla pena di 4 mesi di reclusione per il delitto di cui all'art. 615 ter, co. 2, n. 1), c.p.; dichiarato poi estinto nel febbraio 2018 dalla Corte d’Appello di Napoli per intervenuta prescrizione.