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Pubbl. Mar, 16 Lug 2024

Credito su pegno e anatocismo

Emanuele Caimi
AvvocatoUniversità Carlo Cattaneo LIUC



Il contributo , dopo aver ricostruito succintamente la vicenda dell´anatocismo bancario, quale categoria autonoma rispetto alla disciplina di diritto comune, vuole rivolgere l´attenzione alla configurabilità di interessi anatocistici in quella particolare operazione bancaria che è il credito su pegno. Si tratta di un tema tutt´altro che teorico, considerato il rafforzamento dei metalli preziosi e dei cosiddetti ”beni rifugio” in generale.


Sommario: 1. Sull’interesse: considerazioni storiche e teologiche. 2.Sull’anatocismo; 3.Gli usi e il loro superamento; 4. Sull’anatocismo bancario; 5.E’ possibile l’anatocismo nel credito su pegno.

Sommario: 1. Sull’interesse: considerazioni storiche e teologiche. 2.Sull’anatocismo; 3.Gli usi e il loro superamento; 4. Sull’anatocismo bancario; 5.E’ possibile l’anatocismo nel credito su pegno.

1. Sull’interesse: considerazioni storiche e teologiche

La comprensione dell’interesse ed in generale della remunerazione del capitale presuppone una disamina storico e teologica. Il presente contributo limiterà l’indagine al periodo basso medioevale[1].

Un ruolo centrale tra la legittimazione dell’interesse e la remunerazione del capitale in generale lo svolge, nell’età media, la tensione tra le istanze provenienti dallo sviluppo dei commerci ed il divieto di ricavare frutti dal denaro. Fondamentale nello sviluppo del credito su pegno, ed in generale dell’attività bancaria modernamente intesa, è poi il contributo della Chiesa Cattolica; in particolare degli ordini monastici che, con l’istituzione del Monte di Pietà, si sono impegnati ad assicurare l’emancipazione dei ceti meno abbienti dal fenomeno dell’usura, attraverso la promozione dell’erogazione di credito nella forma del prestito su pegno[2], sia quale argine al fenomeno dell’usura[3]  (espressione dell’avarizia) che per costituire un valido contrasto alla crisi di liquidità verificatasi nel XII e XIII secolo[4].

L’attività bancaria era già nota agli antichi[5] - che si interrogavano sulla naturale produzione di interessi[6] - ed era vietata ai cristiani[7] poiché si riteneva illecito percepire un interesse sul capitale prestato, dal momento che ciò che veniva accordato dal prestatore al beneficiato non era il denaro in sé, o il servizio organizzato per la sua erogazione, ma il tempo per la sua restituzione.

La ratio sottesa al precetto è espressione del fatto che il tempo appartiene a Dio e non può costituire oggetto di remunerazione o di negoziazione tra gli uomini.

L’attività bancaria [8]veniva intesa e se vogliamo risolta nella sola concessione del termine in favore del debitore per la restituzione della somma ricevuta, esclusa ogni rilevanza ai fattori organizzati per l’erogazione del servizio.  In concreto l’attività veniva però svolta principalmente da ebrei[9] all’uopo autorizzati dall’autorità[10], a fronte sia del pagamento di un tributo annuo ai singoli Stati, sia dell’impegno a non superare una determinata soglia d’interesse[11].

Un primo passaggio interessante nell’economia di questo discorso è contenuto in Lc, 6, 35 “mutuum date nihil inde sperantes”, “prestate senza sperare nulla”; per Ambrogio, il buon cristiano: “se ne ha, dia il suo denaro senza attendere la restituzione, o almeno attendendosi solo la restituzione del capitale prestato”[12].

D’interesse per il contributo al tema del prestito e della sua remunerazione sono alcuni passaggi del Vangelo secondo [13]: “servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse” (Matteo, 14; 26,27) ed ancora Mt, 5,42 “dà a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle”. Ma lo sono anche alcuni passaggi veterotestamentari, che riconoscono la legittimità dell’usura Dt, 18, 12 “non presterai ad usura al tuo fratello, ma allo straniero” ed ancora “il Signore benedirà tutte le opere delle tue mani, tu presterai a molte genti, ma tu non prenderai a prestito nulla”.

Con la progressiva evoluzione dell’economia e la ripresa della circolazione della moneta, si determina un mutamento della produzione con lo spostamento dei contadini nelle città; si verifica altresì un’evoluzione dell’approccio al prestito, a cui non è estranea la riscoperta e la valorizzazione del diritto romano, che distingue l’usura, come tale condannata quale espressione dell’avarizia[14], dall’interesse, o “foenus”[15]: “il termine “interesse”, quindi,  non viene più usato come sinonimo di “usura” – rigorosamente condannata - , ma applicato a quei casi nei quali era possibile giustificare razionalmente la ricezione di un corrispettivo, senza commettere peccato”[16].

La discussione teologica sul punto vede da una parte i domenicani[17] e dall’altra i francescani; in particolare Bernardino da Siena si cura dell’interesse connesso al prestito, della condotta dell’usuraio che vende il tempo donato da Dio[18].

Oltre a Bernardino da Siena fondamentale la figura di Bernardino da Feltre, che si impegnò nella predicazione evidenziando il danno causato alla collettività ed all’economia dall’usura, coniugando la predicazione con l’azione concreta. Promosse i Monti di Pietà appunto, con lo scopo di aiutare i ceti più bisognosi a sollevarsi dal peso dell’usura e divenendo attivo promotore di questi istituti; a lui è dovuta la fondazione degli istituti di Mantova, Padova e molti altri sul finire del XV secolo.

Si ritiene tuttavia che il primo Monte di Pietà sia quello di Perugia, fondato nel 1462 da Michele Carcano da Milano[19].

Bisogna sottolineare che ai tempi di Bernardino da Feltre il contesto storico economico vedeva tassi di interesse anche superiori al cento per cento annuo[20].

Alla fondazione dei Monti di Pietà contribuivano i fedeli, ma non è mancato il diretto coinvolgimento di principi, laici ed ecclesiastici del tempo, che dotavano i “monti” delle necessarie risorse finanziarie per poter costituire una valida alternativa al prestito feneratizio affidato agli ebrei[21].

Se all’inizio dei Monti di Pietà il denaro veniva prestato con un tasso di interesse pari al rimborso dei costi necessari al mantenimento della struttura[22], progressivamente prevalse la necessità di contemperare l’esigenza sociale di assicurare l’accesso al credito ai ceti meno abbienti a condizioni vantaggiose, a quella di dotare l’istituzione di ulteriori risorse, e quindi consentire al Monte di percepire interessi miti, usualmente compresi tra il 4 ed il 6% annuo[23]. Questa remunerazione assolveva ad una duplice funzione: la prima, espressione di una antesignana politica di rafforzamento patrimoniale dell’operatore finanziario in senso lato, la seconda il presupposto per assicurare l’autonomia dell’ente da ingerenze di natura politica: il Monte doveva poter operare senza condizionamenti esterni, disponendo delle necessarie risorse. Questa moderata remunerazione era ritenuta compatibile con il “nihil” del passaggio evangelico di Luca, poiché assolveva alla funzione di remunerare un servizio e non costituiva corrispettivo del denaro prestato (o del tempo per la sua restituzione), d’altro canto nessuno è tenuto a lavorare senza remunerazione.

Se con il Concilio Ecumenico Laternanense IV indetto da Innocenzo III, si fa strada la distinzione tra usura ed interesse, sarà Gregorio IX a riconoscere la legittimità del foenus nauticus, ma si dovrà attendere la bolla Inter multiplices promulgata da papa Leone X nel 1515 per il definitivo accoglimento della legittimità di richiedere il pagamento di un interesse, purché esso sia contenuto e comunque non sia dannoso per il prenditore di un prestito.

L’Enciclica riconosce una concorrenza di poteri tra l’iniziativa fondativa dell’ente, da riservarsi all’autorità civile, e la conferma dell’istituzione da parte dell’autorità religiosa, che ha il compito di validare l’atto fondativo – istitutivo e quindi di far sorgere l’ente[24].

Oltre al passo evangelico di Luca influiva l’assunto che il denaro fosse sterile (“pecumia natura sua sterilis est”) e come tale improduttivo di frutti naturali: se il denaro viene prestato e non muta nella sua consistenza, non v’è ragione ch’esso renda un frutto; diverso è il caso in cui il prenditore – mutuatario impieghi il denaro ricevuto per trarne guadagno, in questo caso (titulus extrinsecus rispetto al contratto di prestito) è legittimo che il prestatore riceva un onesto guadagno[25], un moderato compenso[26] quale corrispettivo del prestito. Del resto chi presta denaro lo sottrae a sé stesso rinunciando ad impiegarlo e a trarne a sua volta un profitto, quindi non è ingiusto che si aspetti una ricompensa, soprattutto se il prenditore ricava un’utilità dal suo utile impiego[27].

Dunque l’interesse può assimilarsi, per lo meno con finalità descrittive, al frutto e costituisce il corrispettivo per il godimento del capitale ricevuto.

E’ presente da sempre nella percezione collettiva la necessità di distinguere la giusta remunerazione del denaro prestato dall’usura[28], ed ancora ai nostri giorni emerge la necessità di individuare un limite tra un’adeguata remunerazione – del lavoro svolto da chi è direttamente coinvolto nella struttura organizzativa dell’intermediario e dell’opportunità di impiego del denaro a cui rinuncia il prestatore – e l’usura illecita, tant’è vero che la previsione di cui all’art. 644 del codice penale è da coordinarsi con la legge 7 marzo 1996 n. 108, che determina la rilevanza penale di un operazione di finanziamento, al superamento delle soglie individuate dai Decreti ministeriali che, di trimestre in trimestre, rilevano per le diverse tipologie di operazioni finanziarie la media delle remunerazioni percepite dagli operatori, così individuando la soglia di rilevanza penale dell’operazione di prestito che superi la remunerazione ivi prevista.

L’interesse, nell’accezione contemporanea, è il risultato della riflessione di quei secoli e della riscoperta del diritto romano; oggi come in passato emerge l’esigenza di limitarne la produzione sia prevedendo limiti massimi di remunerazione del capitale, come già in passato, sia impedendo agli interessi di produrne di nuovi, capitalizzandosi.

2. Sull’anatocismo

Quest’ultimo fenomeno, comunemente indicato con il termine ”anatocismo” dal greco “anatokismos”, da “ana” (sopra, di nuovo) e “tokos” (interesse in senso lato) esprime la capacità degli interessi di produrre interessi .

Gli interessi maturati, in altre parole, alla scadenza convenuta (decorsa la scadenza convenuta), divengono a loro volta capitale, base sulla quale calcolare e quindi riaddebitare gli interessi dovuti.

Il fenomeno della capitalizzazione degli interessi non si sottrae alle medesime considerazioni sull’interesse poc’anzi svolte ed è stato più volte avversato sino, per quanto d’interesse, ad esser contemplato (sia pure con alcune limitazioni), nell’art. 1232 del Codice Pisanelli, ma soltanto dal giorno della domanda giudiziale ovvero dalla stipula di una convezione successiva alla loro scadenza[29]; nel primo caso nella misura del saggio legale e nel secondo nella misura rimessa alla volontà del le parti.

Nel diritto positivo l’istituto ha visto, a far tempo dalla nota sentenza della Suprema Corte di Cassazione 16 marzo 1999 n. 2374[30], un susseguirsi di disposizioni normative[31]; la fattispecie è contemplata, per la generalità delle obbligazioni, nell’art. 1283 codice civile[32] e nella legislazione bancaria all’art. 120 TUB, quest’ultimo articolo oggetto di plurimi interventi novellatori.

Non si rinviene nella legge positiva una definizione dell’interesse[33] limitandosi il legislatore ad individuare un interesse (o meglio un saggio d’interesse), definito legale (art. 1284 c.c.), quale parametro di remunerazione del capitale in assenza di specifiche pattuizioni tra le parti, ovvero un tasso (saggio) di interesse di mora per le transazioni commerciali (artt. 4 e 5 del d. lgs. 9 ottobre 2002 n. 231).

L’interesse legale viene aggiornato periodicamente e, dal primo gennaio 2024, è pari al 2,5% annuo in contrazione rispetto al 5% in vigore nell’anno 2023.

La carenza di una definizione di interesse viene giustificata nella “non competenza di quest’ultimo a definire bensì a fornire regole” oltre che nel fatto che per il giurista: “il problema degli interessi si manifesta essenzialmente nella definizione di una categoria di obbligazione, vale a dire dell’obbligazioni degli interessi o, se si preferisce, della disciplina degli interessi”[34].

Non mancano casi, soprattutto nell’esperienza straniera, in cui il legislatore stabilisce il tasso di interesse da praticarsi per talune specifiche operazioni bancarie, tra le quali il credito su pegno[35].

Esemplificativamente l’interesse può assimilarsi al frutto (civile), figurativamente frutto derivato dallo svolgimento di una determinata attività giuridica, equiparata, idealmente, a quello derivante dalla naturale produzione della cosa in natura[36].

In economia l’interesse viene individuato nel corrispettivo per il godimento di un capitale o, se vogliamo, nella remunerazione per la perdita di utilità che il titolare della liquidità subisce per effetto della sua dazione ad altro soggetto che, a sua volta, lo impiega per il conseguimento di una propria utilità[37] misurabile in termini monetari ed in ogni caso quale remunerazione dei fattori impiegati per l’esercizio dell’attività bancaria.

La peculiarità dell’obbligazione d’interessi è la sua accessorietà[38], sebbene essa sia da circoscrivere al momento genetico, che si risolve nell’accertare l’insorgenza dell’obbligazione che origini da un credito liquido ed esigibile, mentre il  suo successivo sviluppo è dotato di autonomia, tant’è vero che l’obbligazione d’interessi si prescrive, ex art. 2948 comma 1 n. 4 c.c., in cinque anni, nonostante, per esempio, il credito da cui origina ed accede si prescriva in dieci anni.

Ricollegandosi alle considerazioni svolte, appare difficile, in questa prospettiva, considerare l’interesse maturato sull’interesse derivante dal capitale quale remunerazione per la liquidità ricevuta, essendo esso stesso “remunerazione” del capitale.

Salvo che si valorizzi la volontà del creditore di lasciare la liquidità rappresentata dall’interesse medio tempore maturato al debitore, al di fuori dell’ipotesi dell’inadempimento. In questo caso, sia pure a livello di finzione, è come se il creditore consegnasse nuova liquidità al debitore. 

Alla progressiva ammissibilità dell’interesse, si è accompagnata la possibilità che gli interessi ne producano di nuovi dal momento che “da un punto di vista economico la produzione di interessi anche per quella parte di capitale che definitiva giuridicamente come interessi già maturati. Una piena applicazione a questi dell’art. 1282 non potrebbe che comportare la produzione di pieno diritto degli interessi, che una volta già maturati, altro non sono che una somma di denaro liquida ed esigibile”[39].

Il legislatore del 1942, al pari del legislatore del 1865, ha superato la riserva verso l’anatocismo disciplinandola nell’art. 1283 c.c., sempre con riferimento alle sole obbligazioni di valuta e quindi a quelle liquide, certe ed esigibili, aventi per oggetto sin dall’inizio una determinata somma di denaro, idonea a produrre interessi, sempre che non vi siano usi contrari (“in mancanza di usi contrari” così esordisce l’art. 1283 c.c. ), che sia intervenuta una domanda giudiziale ovvero una convenzione negoziale tra le parti, stipulata successivamente alla loro maturazione (“gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno delle domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza” art. 1283 c.c.). La norma prevede inoltre che “si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi”

La formulazione letterale dell’art. 1283 non è in realtà particolarmente felice poiché potrebbe lasciar intendere che la capitalizzazione possa operarsi soltanto per la quota di interessi scaduta da almeno sei mesi; tuttavia l’opinione prevalente e condivisibile ritiene che “gli interessi debbano essere scaduti da sei mesi ma nel senso che interessi scaduti debbono rappresentare il corrispettivo del godimento di una somma di denaro per almeno sei mesi[40].

Preliminarmente va chiarito che la norma in questione ha carattere eccezionale ed imperativo e la sua violazione conduce all’applicazione dell’art. 1418 comma 1 c.c.[41] non potendosi applicare agli interessi maturabili su debiti di valore[42] .

Il tema di maggiore interesse, che a lungo ha animato il contenzioso, è la portata dell’esordio: “in mancanza di usi contrari”. In altre parole, in presenza di usi contrari alla previsione normativa era possibile l’inclusione degli interessi maturati e scaduti alla sorte capitale, anche per operazioni più brevi rispetto al semestre.

Le ulteriori deroghe previste dalla norma sono quelle conseguenti alla domanda giudiziale, ovvero quelle frutto della convenzione stipulata tra le parti in data successiva alla maturazione e scadenza degli interessi da capitalizzarsi[43].

3. Gli usi e il loro superamento

Occorre dunque interrogarsi a quali usi faccia riferimento il legislatore del 1942.

L’esordio della norma attribuisce agli usi la facoltà di derogare, o meglio di ampliare, l’ambito di operatività dell’anatocismo al di là dei termini generali contenuti nell’art. 1283 c.c..

Il vero tema è la capacità degli usi di derogare una norma primaria, stante la previsione del diritto positivo, individuando poi se tale facoltà sia da riconoscersi ai soli usi normativi ovvero anche a quelli negoziali.

Gli usi normativi si risolvono nella concorrenza di due elementi: uno oggettivo rappresentato dalla costante ripetizione di un certo comportamento nel corso del tempo; l’altro soggettivo inteso quale convinzione di adempiere un dovere e della doverosità della condotta tenuta, bene espressa dal brocardo “opinio iuris ac necessitatis”.

Viceversa degli usi negoziali si cura, senza definirli, l’art. 1340 c.c.. Essi non hanno la facoltà di innovare l’ordinamento, ovvero di derogare ove consentito a norme di diritto positivo, ma possono assolvere ad una funzione interpretativa del contratto.

Infatti l’art. 1340 c.c. è inserito nel Titolo II “Dei contratti in generale”, Capo II Dei requisiti del contratto, Sezione I “Dell’accordo delle parti”.

La lettera recita che “le clausole d’uso s’intendono inserite nel contratto, se non risulta che non sono state volute dalle parti”. Dunque il principio è che le clausole d’uso integrino il contratto, salvo volontà contraria.

Le banche hanno reiteratamente inserito nelle schede contrattuali predisposte e proposte ai clienti la facoltà di capitalizzare gli interessi in deroga alla previsione normativa, giungendo ad elaborare delle norme uniformi, poste a disciplinare i singoli contratti bancari[44].

Nella prassi in vigore sino alla fine del secolo scorso, si addebitavano trimestralmente gli interessi passivi in conto corrente[45], mentre quelli attivi una volta l’anno[46].

La reiterazione nel tempo delle clausole ed il loro inserimento nei contratti, unitamente alla rilevazione periodica degli usi affidata alle Camere di Commercio, hanno determinato l’equiparazione della prassi bancaria all’uso normativo, riconoscendone la capacità di derogare all’art. 1283 c.c..

Si è affermata in seno alla Giurisprudenza della Suprema Corte – ed anche dei giudici di merito – per lo meno sino agli anni ’90 del secolo scorso, la natura di uso normativo delle previsioni contrattuali bancarie di deroga all’art. 1283 c.c., con conseguente onere in capo al correntista di provare l’inesistenza dell’uso locale[47].

La posizione assunta dalla Suprema Corte è stata via via messa in discussione da diversi giudici di merito, che ritenevano difettare l’elemento soggettivo proprio e qualificante dell’uso normativo (opinio iuris seu necessitatis)[48] con conseguente esclusione della natura di uso normativo e riqualificazione a mero uso negoziale inidoneo, come tale, a derogare alla previsione dell’art. 1283 c.c..

All’indomani della nota pronuncia del 1999 della Suprema Corte, ha fatto seguito una nuova disciplina dell’anatocismo, affidato alla previsione di cui all’art. 25 del d. lgs. 4 agosto 1999 n. 342, che è intervenuto novellando l’art. 120 TUB e confermando la prassi in precedenza seguita, demandando al CICR l’adozione di specifiche previsione normative[49].

In ottemperanza al dettato dell’art. 120 del TUB con delibera del CICR del 9 febbraio 2000 che, nell’art. 1, ribadiva la capacità degli interessi di produrne a loro volta: “nelle operazioni di raccolta del risparmio e di esercizio del credito poste in essere dalle banche  e dagli intermediari finanziari gli interessi possono produrre a loro volta interessi secondo le modalità e i criteri indicati negli articoli che seguono”.   Il secondo articolo si cura della capitalizzazione degli interessi nei conti correnti prevedendo l’obbligo della stessa periodicità. Mentre il successivo articolo 3 prevede regole specifiche per i prestiti per i quali è previsto un rimborso, con rinvio all’applicazione dell’art. 2 in caso di regolazione in conto corrente. D’interesse è l’art. 6 che impone alle banche di indicare con chiarezza la periodicità della capitalizzazione.  

L’art. 25 del d. lgs. 4 agosto 1999 n. 342 è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, per eccesso di delega, dalla Consulta (sentenza 9 – 17 ottobre 2000 n. 425).

Sul tema è poi intervenuta la legge di stabilità per l’anno 2014 che ha nuovamente novellato l’art. 120 TUB ed il decreto ministeriale del 3 agosto 2016 n. 343, reso ai sensi del comma 2 art. 120 TUB, ha ulteriormente definito il quadro di diritto positivo dell’istituto.

4 Anatocismo bancario

La rilevanza economica degli interessi (attivi) nei ricavi delle banche e l’impatto sistemico della sostanziale abrogazione dell’anatocismo, il susseguirsi di interventi normativi limitativi dell’autonomia contrattuale delle parti, oltre che di tutela del contraente debole anche in ottica di tenuta sistemica degli operatori bancari e finanziari, giustifica la creazione di una autonoma categoria denominata “anatocismo bancario”[50].

Le operazioni bancarie maggiormente coinvolte nell’ambito dell’anatocismo sono state il conto corrente e i finanziamenti in conto, ma non mancano riflessioni che rilevano la presenza di un fenomeno anatocistico anche nel mutuo, in particolare nell’ipotesi di ammortamento cosiddetto “alla francese” (sebbene l’opinione prevalente in giurisprudenza lo escluda[51]).

Accanto alla norma comune di cui all’art. 1283 c.c. vi è, in ambito bancario, la normativa di cui all’art. 120 TUB, più volte oggetto d’intervento, la cui precedente formulazione ha favorito in dottrina l’affermarsi di una interpretazione più radicale e di assoluta abrogazione dell’anatocismo in tutte operazioni bancarie e per ogni forma di interesse[52], conclusione non più condivisibile alla luce dell’attuale formulazione dell’art. 120 TUB.

L’art. 120 TUB attualmente vigente affida al CICR il compito di stabilire le “modalità e criteri per la produzione di interessi nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria” e contiene in sé delle indicazioni precettive che il CICR è tenuto a rispettare.

In particolare Il comma 2 lettera b) dell’art. 120 TUB recita “gli interessi debitori maturati, ivi compresi quelli relativi a finanziamenti a valere su carte di credito, non possono produrre interessi ulteriori salvo quelli di mora, e sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale”.

Certamente la norma, anche nell’attuale formulazione, non si lascia apprezzare per chiarezza ed intellegibilità, nella quale rimane uno spazio per l’anatocismo nei contratti bancari (o meglio nei contratti stipulati con soggetti qualificabili come banche ed intermediari per l’impiego degli attivi), sia pure limitato ai soli interessi moratori.

5 E’ possibile l’anatocismo nel credito su pegno

Resta da chiedersi se anche nel credito su pegno di cosa mobile di cui alla legge 10 maggio 1938 n. 745 e di cui al regolamento adottato con r.d. 25 maggio 1939 n. 1279 possa essere interessato dal fenomeno anatocistico.

Questa particolare operazione bancaria vede la concessione di una sovvenzione a fronte della consegna di una “cosa” dotata di intrinseco valore commerciale con concessione di un termine, in favore del solo prestatario, non inferiore a tre mesi e non superiore a dodici mesi (art. 13 comma 1 L. 10 maggio 1938 n. 745) per la restituzione di quanto ricevuto oltre interessi e spese[53].

La norma contempla poi la facoltà che il creditore, ove richiesto, accordi, previa nuova stima del bene, un rinnovo[54]; così l’art. 41 comma 2 del r.d. 25 maggio 1939 n. 1279: “il monte può consentire alla scadenza del prestito la rinnovazione totale o parziale di esso, previo pagamento degli interessi e, in quanto dovuti, degli accessori, subordinatamente però a nuova stima della cosa data in pegno”.

In primo luogo la norma in questione non contempla un diritto al rinnovo a favore del prestatario portatore della polizza ex art. 10 L. 10 maggio 1938 n. 745, ma la valutazione è rimessa alla volontà dell’ente che lo può accordare o meno, se richiesto. Solitamente la fattispecie è disciplinata nel regolamento[55]; si tratta di un insieme di norme che il singolo istituto adotta e che trasmette - in sede di autorizzazione ove si tratti di un istituto autorizzato ex art. 106 TUB - alla Banca d’Italia. Parimenti anche una banca è tenuta ad adottare un regolamento delle operazioni, anche se l’avvio dell’attività di credito su pegno richiede soltanto l’idoneità dei locali e la comunicazione alla Banca d’Italia (ex art,. 48 TUB).

Compaiono nell’articolo in commento l’aggettivo “previo” e l’avverbio di modo “subordinatamente”; il primo legato al “pagamento degli interessi e, in quanto dovuti, degli accessori” ed il secondo legato “a nuova stima”.

Il rinnovo è sempre possibile, ex art. 42 r.d. 25 maggio 1939 n. 1279, sino a quando la cosa non sia stata “aggiudicata all’asta pubblica” (art. 13 comma 2 L. 10 maggio 1938 n. 745).

Dunque occorre interrogarsi se il rinnovo del prestito imponga o meno il pagamento degli interessi e degli altri accessori (ove non riscossi in sede di concessione del prestito ex art. 40 comma 2 r.d. 25 maggio 1939 n. 1279).

Deve ritenersi inderogabile l’obbligo di rinnovo della perizia previsto dall’art. 41 comma 2 del regolamento ex r.d. 1279/39 e ciò non solo per la presenza dell’avverbio di modo “subordinatamente”, ma per il collegamento sistematico con l’art. 10 comma 2 L. 10 maggio 1938 n. 745 e più in generale per la natura e la caratteristica intrinseca di questa operazione bancaria, nonché in ossequio alle regole di sana e prudente gestione dell’ente.

La peculiarità del credito su pegno è la centralità della cosa: è sulla cosa consegnata che si compie la valutazione di meritevolezza della sovvenzione ed è la cosa che consente all’ente di rientrare dal prestito nell’ipotesi in cui il portatore della polizza non abbia restituito il dovuto nel termine convenuto. Dunque in caso di rinnovo è necessario venga confermato il valore della cosa sia per accertare il rispetto del limite, inderogabile, di finanziabilità, sia per tutelare l’ente nell’operazione e quindi la possibilità, anche nella fase patologica, di rimborso del capitale prestato e della sua remunerazione, comunque denominata.

Non pare invece che la formulazione lessicale dell’art. 41 comma 2 r.d. 25 maggio 1939 n. 1279 prima parte, sia ostativa ad una deroga per volontà delle parti.

Infatti, l’aggettivo “previo” presente nella norma in esame non ha una portata tale per cui si possa ricavarne l’assoluta inderogabilità per volontà delle parti.

Si potrebbe obiettare che la possibilità di consentire il rinnovo senza il rimborso degli interessi non sia conforme ai principi di prudente amministrazione intesa quale tutela della “tenuta patrimoniale e finanziaria dell’ente”: prevedere l’obbligo di pagamento in occasione del rinnovo, eventuale e rimesso alla valutazione dell’ente, degli interessi assolve alla funzione di assicurarne gli adeguati flussi di cassa.

Si potrebbe replicare che le spese di istruttoria siano comunque esigibili anche in sede di rinnovo e quindi contribuire al normale funzionamento; ma è invece possibile che l’ente non le riscuota in tale occasione, tant’è vero che l’art. 41 r.d. 25 maggio 1939 n. 1279 prevede il loro pagamento, ove non riscosse in precedenza e quindi contemplando l’ipotesi che possano non essere richieste dall’ente all’emissione della polizza.

Per contro potrebbe emergere la convenienza, per entrambe le parti, di rinnovare una data operazione; si pensi al rafforzamento del sottostante (solitamente aumento del prezzo del metallo prezioso) che impatti sul valore commerciale del bene costituito in garanzia e nel contempo all’esigenza del portatore della polizza di conservare la liquidità di cui dispone o di non doversene privare per l’estinzione. Ovviamente il tema diviene d’interesse quando vi siano delle somme erogate di importo rilevante, diversamente si è nel campo della mera riflessione astratta e teorica; ovvero nell’ipotesi in cui l’oppignorante richieda espressamente, pur a fronte della consegna di un bene di significativo valore, una erogazione di importo inferiore rispetto al limite di finanziabilità della cosa.

Non è da escludersi che l’ente non solo non pretenda il rimborso del sottostante ma eroghi – sempre nei limiti, questi sì, inderogabili di cui all’art. 39 r.d. 1279/39 – un’integrazione all’originaria sovvenzione oltre a non richiedere gli interessi medio tempore maturati, soprattutto nell’ipotesi in cui il prestito sia avvenuto, per espressa richiesta del presentatore della cosa, per un valore ampiamente inferiore alla sua stima ed ai limiti; parimenti ben potrebbe accadere che richieda un’integrazione della sovvenzione. Ipotesi non infrequente in presenza di un rialzo dei tassi di interesse.

Occorre interrogarsi se, prima dei plurimi interventi normativi a far tempo dal d.lgs. 4 agosto 1999 n. 342 ed alle novelle a cui è stato sottoposto l’art. 120 TUB negli anni, fosse possibile un accordo tra le parti per la capitalizzazione degli interessi maturati da almeno 6 mesi.

Già in vigenza dell’art. 1283 c.c. si potevano porre obiezioni di fondo.

In primo luogo occorre chiedersi quali siano i soggetti tra i quali si dovrebbe concludere l’accordo post maturazione degli interessi, dal momento che l’operazione di credito su pegno è ad incertam personam. L’anonimato sostanziale dell’operazione – che tale rimane nonostante la L. 4 febbraio 1977 n. 20 – non consente di individuare una controparte formale alla conclusione del negozio, nonostante possa comparire un nominativo sulla polizza di pegno.

Si potrebbe obiettare a quella conclusione rivolgendo l’attenzione alla polizza ed alla sua funzione, ritenendo che il documento di legittimazione rilasciato al momento della conclusione dell’affare contenga accanto al diritto alla restituzione della cosa – previo rimborso del capitale e pagamento del dovuto – anche il diritto alla richiesta di un rinnovo della sovvenzione, oltre al diritto al riconoscimento dell’eventuale sopravanzo (art. 14 L. 10 maggio 1938 n. 745) in caso di assegnazione in asta del bene staggito per un importo superiore al credito vantato dal monte.

Dunque si può rispondere positivamente, affermando che sotto la vigenza dell’art. 1283 c.c., fosse possibile sussumere nel quadro della convenzione successiva alla scadenza degli interessi, la concessione di una dilazione senza rimborso da parte dell’oppignorante degli interessi maturati.

Tuttavia ciò era possibile soltanto per polizze emesse con durata di almeno sei mesi, esclusa la possibilità di accordarlo per polizze della durata di 3 mesi, poiché osterebbe la previsione di cui all’art. 1283 c.c..

Ulteriore fattispecie è quella relativa alla domanda giudiziale che, tuttavia, non può trovare applicazione nell’ambito del credito su pegno stante la natura di operazione bancaria ad incertam personam.

La banca ignora – risultando irrilevante nel negozio la conoscenza del nome del presentatore della cosa per ragioni di natura pubblicistica – il nominativo del convenuto e non ha azione nei confronti del soggetto prenditore della sovvenzione, proprio per la particolare tutela – di natura pubblicistica – accordata all’ente che può soddisfarsi, per il tramite di una peculiare forma di espropriazione, direttamente sul bene ponendolo in vendita autonomamente[56], senza che residui la possibilità di agire nei confronti del debitore e potendosi soddisfare esclusivamente sulla cosa. Questa conclusione, condivisa in dottrina, trova poi un riscontro nell’art. 122 TUB che esclude dalla disciplina del Capo VI del TUB le operazioni di credito su pegno, salvo che consentano alla banca di agire nei confronti del debitore in caso di insufficienza del bene ricevuto in garanzia; ma in questo caso ci si collocherebbe al di fuori dello schema tipico del credito su pegno.

Si pone ora il problema della possibilità che si possano capitalizzare gli interessi maturati alla luce della riforma dell’art. 120 TUB.

In primo luogo l’art. 115 TUB d’esordio del Capo I Titolo VI del TUB[57]  e rubricato “Ambito di Applicazione” esordisce: “le norme del presente titolo si applicano alle attività svolte nel territorio della Repubblica dalle banche e dagli intermediari finanziari”.

Il riferimento alle “attività svolte nel territorio… dalle banche e dagli intermediari” è di un’ampiezza tale da poter ricomprendere tutte le possibili operazioni d’impiego dell’attivo delle banche, quindi anche il credito su pegno mobiliare, eseguite all’interno dello stato ed in favore di qualunque soggetto[58].

L’art. 120 comma II del TUB lettera b) prevede che “gli interessi debitori maturati, ivi compresi quelli relativi a finanziamenti a valere su carte di credito”, considera tutti i possibili finanziamenti, quindi anche quelli eseguiti nella forma del credito su pegno di beni mobili che sono ricompresi nella categoria “altri finanziamenti” nei provvedimenti adottati dall’autorità amministrativa di vigilanza.

La norma prosegue chiarendo che “non possono produrre interessi e sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale” con un’eccezione sola per gli interessi di mora.

Il decreto ministeriale 3 agosto 2016 n. 343 “attua l’art. 120, comma 2, Tub” (art. 2 comma 1) “e si applica alle operazioni di raccolta e di servizio del credito tra intermediari e clienti disciplinate ai sensi del Titolo VI del Tub”.

Il successivo art. 3 comma 1 del d.m. 3 agosto 2016 n. 343 recita “gli interessi debitori maturati non possono produrre interessi, salvo quelli di mora” ed il successivo comma 2 “agli interessi moratori si applicano le disposizioni del codice civile.

Dunque, ritenuto ammissibile che vi sia una proroga della sovvenzione senza rimborso del capitale e degli interessi e degli altri accessori da parte del portatore della polizza ex art. 10 L. 10 maggio 1938 n. 745, l’attuale quadro normativo non consente la produzione di interessi sugli interessi scaduti, poiché il loro calcolo, anche in ipotesi di rinnovo di polizze con durata pari o superiore ad almeno sei mesi, dovrà avvenire soltanto sull’originaria sorte capitale.

Il divieto di capitalizzazione riguarda gli interessi e non altri compensi che costituiscono “costo” del prestito (TAEG nel credito al consumo), ma non sono assimilabili in alcun modo agli interessi, intesi figuratamente quale frutto del capitale prestato.

L’unico spazio che rimane alla disciplina generale contenuta nell’art. 1283 c.c. è confinato agli interessi di mora. Sono configurabili degli interessi di mora nell’operazione di credito su pegno?

E’ accordato al portatore della polizza su pegno un termine di grazia (dilatorio) di 30 giorni (ex art. 13 comma 2 L. 10 maggio 1938 n. 745) rispetto alla scadenza originaria riportata sulla polizza (ex art. 10 L. 10 maggio 1938 n. 745). Termine che incide sul diritto dell’ente di agire in executivis, poiché prima del suo decorso l’ente non può dar corso alla procedura di vendita coattiva per il realizzo della garanzia ricevuta.

Viceversa non è previsto nella legislazione speciale, né nel regolamento di cui al d.d. 25 maggio 1939 n. 1279, un termine finale entro il quale l’ente debba porre in asta il bene. Considerato poi che il diritto alla richiesta di rinnovo può avvenire sino al momento dell’aggiudicazione (art 42 r.d. 25 maggio 1949 n. 1279) nell’asta pubblica di cui al Titolo Capo XIV del Regolamento di cui al r.d. 25 maggio 1939 n. 1279, è ragionevole che possa verificarsi l’ipotesi del portatore della polizza che chieda il rinnovo e si veda addebitati anche gli interessi moratori; tuttavia solo questi ultimi potranno essere sommati all’originaria sorte di capitale e divenire produttivi a loro volta di interessi; dal computo dovranno invece essere esclusi gli interessi corrispettivi maturati sino all’originaria scadenza.

In conclusione: si può ritenere il presentatore della polizza su pegno titolare, tra l’altro, del diritto alla richiesta di rinnovo della sovvenzione, diritto da esercitarsi entro il termine finale rappresentato dall’aggiudicazione in sede di asta pubblica. In quell’occasione l’ente finanziatore potrà acconsentire al rinnovo senza richiedere – in tutto o in parte - il pagamento degli interessi e quindi capitalizzando i soli interessi moratori maturati successivamente alla scadenza del termine indicato nella polizza, salvo in ogni caso, giusta la lettera dell’art. 120 TUB, l’esclusione dalla base di calcolo degli interessi corrispettivi maturati nel periodo di cui alla sovvenzione.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Si veda M. Amelio, Il prestito nella tradizione cristiana: una questione controversa, Siena, 2023. L. Palermo, La banca e il credito nel medioevo, Milano, 2008.

[2][2] A. Sapori, Monte, in Enc. Italiana, Vol. XXII, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1949 p. 725; P. Prodi, La nascita dei monti di pietà tra solidarismo cristiano e logica del profitto, in Alle origini dei Monti di Pietà. I francescani tra economica ed etica nella società del tardo medioevo, Bologna, 1984,  17 e seguenti.

[3] S. Gatti, Il credito su pegno, Milano,  2002,  3 e ss., anche Amelio, op. cit. p. 293 in nota 357.

[4] C. Brescia Morra, Il diritto delle banche. Le ragione dell’attività, Bologna, Il Mulino, 2012 p.27 “la banca  e il credito, così come i loro fondamenti giuridici, hanno origini molto antiche. Già fra i babilonesi, nell’antica Grecia e a Roma erano diffuse operazioni che oggi denominiamo bancarie, come l’accettazione di depositi di denaro”; Molle, I contratti bancari, in Cicu – Messineo, Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, 1981, in particolare  4 -8.

[5] Pomponio, evidenziava che il pagamento degli interessi sulla somma prestata non nasceva dalla circostanza della consegna della res ma ex alia cause  D. 50.16.121 (Pomp. 6 ad Q. Mucium).

[6] La prima condanna è nel canone 20 del Concilio di Elvira 305 – 306.

[7] Pipitone, Monte di credito su pegno, in Nuovo digesto delle discipline privatistiche, Sezione Commerciale, Torino, 2006, X, 75: “pertanto l’attività creditizia era prevalentemente esercitata da non cristiani, in primo luogo banchieri ebrei, allo scopo autorizzati dai governi, contro il pagamento di una tassa e a condizione di non superare un saggio d’usura massimo prefissato”.

[8] M. Amelio, op. cit. , 148.

[9] M. Amelio, op. cit.,. 28.

[10] M. Amelio, op. cit. p. 192 “nell’analogia con i corpo umano, l’avarizia potrebbe essere paragonata alla “mente” dell’uomo, mentre l’usura sarebbe il “braccio”. La prima crea il desiderio bramoso all’interno del cuore, e spinge l’uomo ad impegnarsi per appagarlo, il secondo, attraverso la volontà e l’azione, anche se ingiusta, cerca concretamente di trovare modi per soddisfare il medesimo appetito”.

[11] Con riferimento al mutuo che viene definito feneratizio, ovverosia come capace di generare frutti, appunto frutti civili quali sono appunto gli interessi.

[12] M. Amelio, op. cit. p. 203.

[13] Si possono evidenziare sostanzialmente due posizioni da una parte i domenicani “difendevano la posizione assolutistica della tradizione cristiana sostenuta dai Padri della Chiesa. Secondo questa visione, non era possibile, per il creditore, attendersi un supplemento tale da superare la somma prestata”, dall’altra parte i francescani: che “invece ammettevano, la liceità dell’interesse, ma solo per determinate tipologie di scambi o prestiti. Teologi e canonisti che appoggiavano questa tesi partivano dall’esigenza di tutelare non solo gli interessi dei debitori ma anche quelli dei creditori, visti li eventuali rischi ce correvano in un rapporto di prestito. Essi erano convinti che l’interesse se motivato dalla necessità e ispirato alla moderazione, poteva essere riconosciuto come un legittimo risarcimento. Il ritardo nel rimborso, il rischio della perdita del capitale prestato, i mancati investimenti del creditore (lucrum cessans), rendevano acro più attendibile la teoria sul prestito difesa dai francescani” M. Amelio, op. cit. p. 248.

[14] M. Amelio, op. cit. p. 249: “Secondo il senese uno dei mali più gravi compiuti dall’usurario sta nell’impiegare il tempo donato gratuitamente da Dio per esigere un indebito guadagno: così facendo, è come se l’usurario vendesse anche quel tempo, concesso da Dio ad ogni uomo liberamente, gratuitamente e indistintamente (quia vendite tempus quod solius est Dei et gratis ad vitam hominis est concessum)”. Poco oltre “Si comprende, dunque, perché Bernardino affermi che “l’usurario è venditore della grazia di Dio, pero che quello che ha la grazia di Dio, - chi presta fa grazia, - non la debba vendere per carità, ma per carità servire l’uno e l’altro. Veid che Idio ha fatti tutti e di dell’anno, e sono comuni a ognuno, e tu, per la usura, vendi el tempo di Dio che è comuno”

[15] M. Amelio, op. cit p. 259 che alla nota 253 attribuisce il primo al Monte di pietà di Ascoli Piceno che sarebbe stato fondato il 15 gennaio 1458. Tuttavia l’ente in questione, al momento del suo avvio, aveva delle caratteristiche proprie di un ente caritativo occupandosi della custodia delle elargizioni caritatevoli effettuate dal ceto abbiente della città al fine di sostenere i poveri di Ascoli; si ritiene che questo istituto con finalità di tipo caritativo ed assistenziale si estinse tra il 1525 ed il 1530 dovendosi attendere il 1552 per la fondazione del monte a cura di Fra Matteo Laci da Firenze attivo nella lotta all’usura non già nella forma dell’elargizione caritatevole.

[16] S. Gatti, op. cit , p. 23. Quando il saggio d’interesse legale previsto nella società romana era il 12% e tale è rimasto sino alla riforma di Giustiniano che introdusse un saggio d’interesse maggiore per il prestito marittimo in considerazione dei maggiori rischi.

[17] Riccardi, Tra monti di pietà e microcredito: il capitale per la realizzazione di un progetto,  Roma, 2006 p. 75.

[18] S. Gatti, op. cit. Sapori, cit. p. 721

[19] Riccardi, op. cit. p.74.

[20] Pipitone, op. cit. p. 77.

[21] In questi termini l’Enciclica di Benedetto XIV “Vix Pervenit” § 3, l’enciclica, alla quale ha collaborato il teologo domenicano Daniele Concina (cfr. Amelio, op. cit. p. 317 nota 75) ribadisce l’avversione all’usura riconoscendo tuttavia la legittimità di un onesto guadagno quando il prenditore impiega il denaro ricevuto in altri affari, ora per trarne rendite ovvero per ricavarne un guadagno. 

[22] M. Amelio, op. cit. p. 229: “per l’Olivi, se il prestito accordato dava al ricevente un vantaggio economico, il creditore poteva godere di un certo beneficio che superasse il prezzo del capitale investito. Avvalendosi dei concetti di giustizia commutativa e di giusto prezzo . egli affermava che la determinazione del valore di un bene dipendesse dal fine a cui era destinato e dalla sua utilità”.

[23] B. Inzitari, voce Interessi¸ in Nuovo Digesto delle discipline privatistiche, Torino, Utet, IX, 2006, pp. 567 e 568.

[24] Già nella società romana si è avvertita la necessità di porre un limite all’interesse, si veda il cosiddetto foenus unciarium , provvedimento introdotto nel 357 a.c. con la Lex Duilia Menenia, e che prevedeva nella dodicesima parte del capitale ricevuto in prestito il tetto d’interesse praticabile con restituzione mensile della somma ricevuta in prestito; progressivamente si  è assistito alla riduzione del limite unciarium sino all’1% per ogni mese, ovverosia il 12% annuo;  si dovrà attendere sino a Giustiniano nel 528 il primo intervento che riduce alla metà la soglia d’interesse che ora diremmo usurario. 

[25] Art. 1232 comma 1 Codice Pisanelli: “gli interessi scaduti possono produrre altri interessi o nella tassa legale in forza di giudiziale domanda e dal giorno di questa, o nella misura che verrà pattuita in forza di una convenzione posteriore alla scadenza dei medesimi”.

[26] A cui ha fatto seguito Cass. 30 marzo 1999 n. 3096 in Corr. Giur. 1999, 561 e Cass. 11 novembre 1999 n. 12.507, in   Foro It., 2000, p 451 e ss.

[27] Delibera Circ 9 febbraio 2000, legge di stabilità del 2014, L. 27 dicembre 2013 n. 147 che interveniva novellando l’art. 120 TUB, a cui ha fatto seguito dal decreto del 3 agosto 2016 n. 343 che ha nuovamente inciso nella disciplina dell’anatocismo bancario applicabile, stante la lettera dell’art. 115 TUB  a tutte le forme di impiego dell’attivo da parte di un banchiere o comunque da un ente attivo nel settore finanziario.

[28] Che nella sostanza riprende la formulazione di cui all’art. 1232 Codice civile Pisanelli, introducendo delle deroghe.

[29] B. Inzitari, Interessi, in Nuovo digesto delle discipline privatistiche, Torino, 2006 IX p. 566: “è osservazione del tutto ricorrente la mancanza di una definizione degli interessi da parte del legislatore”

[30] B. Inzitari, op. cit. p. 567.

[31] Per esempio nello Stato del Cantone Ticino il tasso di interesse è fissato nella misura dell1% mensile, mentre in Germania può arrivare fino al 3% mensile.

[32] B. Inzitari, op. cit. p. 567.

[33] B. Inzitati, op. cit. p. 568 pone in particolare l’accento non già sul riferimento al capitale ma proprio sulla liquidità, per l’autore “con maggiore proprietà descrittiva tali carattere possono, a mio parere, più propriamente riassunti, piuttosto che con riferimento ad un ipotetico corrispettivo connesso ad un indeterminato godimento di un capitale, al vantaggio per la liquidità monetaria, della quale ha usufruito”.

[34] Colombo, Art. 1282, in Cuffaro, Delle obbligazioni, in Gabrielli, Commentario del codice civile, Torino, 2013 p. 31: “la caratteristica saliente dell’obbligazione di interessi ex art. 1282 c.c. è solitamente individuata nell’accessorietà. L?obbligazione di corrispondere gli interessi, infatti, sorge solo con il sorgere del’obbligazione principale … e cessa con l’estinzione della stessa”.

[35] B. Inzitari, op. cit. , p. 594.

[36] P- Ferro Luzzi, Una nuova fattispecie giurisprudenziale: “l’anatocismo bancario”; postulati e conseguente, in Giur. Comm, 2001, I, 21; D. Dinesio, Interessi pecuniari tra autonomia e controlli, 1989, 6. In senso contrario V. Farina, L’immediata operatività del (nuovo) anatocismo bancario, in I contratti¸ 2015, p. 883.

[37] Cass. 6 maggio 1977 n. 1724, Cass.  I Sez.  Civ. 10 ottobre 2007 n. 21.141, in Diritto & Giustizia on line, 2007 che ne riconosce la rilevabilità d’ufficio; Tribunale di Torino, 6 ottobre 2009 per il quale la norma in questione “è norma imperativa, che presidia l’interesse pubblico ad impedire una forma, subdola ma non socialmente meno dannosa delle altre, di usura ed i patti conclusi in sua trasgressione sono nulli ai sensi dell’art. 1418 c.c.”.

[38] Circa l’operatività sui debiti di valuta si veda anche Cass. III Sez. Civ., 12 febbraio 1982 n. 900 in Giust. Civ. Mass. 1982, Cass. Sez. Lav. 24 maggio 1986 n. 3500 in Giust. Civ., I, 2347. Mentre per quanto riguarda il debito dello Stato o degli altri enti locali la liquidità e quindi l’idoneità a produrre naturalmente frutti è collegata all’emissione del mandato di pagamento, si veda sul punto si veda Cass. I Sez. Civ., 4 settembre 2004 n. 17.909 in  Rass. Dir. Farmaceutico, 2005, 4, p. 768.  

[39] Dovendosi ritenere nulla la convenzione stipulata anteriormente alla scadenza degli interessi ostandovi la lettera della norma, si veda Cass. III  Sez. Civ. 25 febbraio 2004 n. 3805 in Giust. Civ. Mass. 2004, 2 con riferimento ad una convenzione stipulata sì successivamente alla maturazione degli interessi ma contenente un impegno anche in relazione agli interessi futuri.

[40] G. Molle, I contratti bancari, IV Edizione, in Cicu – Messineo, Trattao di diritto civile e commerciale”, Milano, 1981 pp. 911 e ss.

[41] Cass. II Sez. Civ. 7 febbraio 1980 n. 859 in Giust. Civ. Mass. 1980, Fasc. 2: “la parte che nega l’esistenza dell’uso locale che cosnetne l’anatocismo è tenuta a darne prova”.  Di diverso avviso Tribunale di Vercelli 21 luglio 1994 in Foro It. 1995, I, 1662 “l’onere della prova dell’esistenza d’un uso normativo incombe su chi lo afferma non dovendo esso venire accertato “ex officio”: in mancanza di prova: si applicherà la disciplina legale”.

[42] Così Tribunale di Vercelli 21 luglio 1994i cit.: “è nulla, per violazione dell’art. 1283 c.c., la clausola, contenuta nel contratto di apertura di credito in conto corrente, che preveda l’anatocismo, non potendosi configurare nella specie un uso normativo in favore dell’istituto bancario per assenza della “opinio iursi seu necessitati” da parte del privato”. Tribunale di Busto Arsizio 15 giugno 1998, in Foro It. 1998, I, 2997.

[43] L’attribuzione di siffatto potere al CICR è stato oggetto di censura di remissione alla Consulta che con la sentenza 12 ottobre 2007 n. 341 ha ritenuto conforme alla Costituzione non sussistendo alcuna riserva di legge in materia di disciplina degli interessi.

[44] A. Izzo, Anatocismo, usura e contratti bancari¸ Milano, 2023 p. 4. Si veda anche P. Ferro Luzzi, Una nuova fattispecie giurisprudenziale: l’”anatocismo bancario”; postulati e conseguenze, in Giur. Comm., 2001, 1, 17.

[45] Cass. Sezioni Unite, 20 maggio 2024 n. 15.130 che ha escluso l’esistenza di un fenomeno anatocistico in operazioni di mutuo con piano di ammortamento alla francese ed in affermando l’insussistenza della lamentata nullità parziale per indeterminatezza o indeterminabilità dell’oggetto del contratto nell’ipotesi in cui non sia indicato, nel contratto, l’ammortamento alla francese. Tra i giudici di merito si segnala Corte d’Appello di Venezia, II Sez. Civ. 25 novembre 2021 n. 2955: “in tema di contratto di mutuo, il metodo “alla francese” comporta che gli interessi vengono comunque calcolati unicamente sulla quota capitale via via decrescente e per il periodo corrispondente a quello di ciascuna rata e non anche gli interessi pregressi. In latri termini, nel sistema progressivo ciascuna rata comporta la liquidazione ed il pagamento di tutti e unicamente degli interessi dovuti per il periodo cui la rata stessa si riferisce. Tale importo viene quindi integralmente pagato con la rata, laddove la residua quota di essa va ad estinguere il capiate. Ciò non comporta tuttavia capitalizzazione degli interessi, atteso che gli interessi conglobati nella rata successiva sono a loro volta calcolati unicamente sulla residua quota capitale, ovverosia sul capitale originario detratto l’importo già pagato con la rato a le rati precedenti”. In termini identici Tribunale di Tivoli 10 gennaio 2023 n. 4 in Ius Societario 20 febbraio 2023.  Tribunale di Salerno 19 luglio 2023 in Foro It. 2023, 10, I, 2786; Tribunale di Milano, 30 ottobre 2013 in Banca Borsa Titoli di Credito, 2015, 1, II. In dottrina si veda Mucciarone, Ammoramento alla francese: meritevolezza e trasparenza, in Banca Borsa Titoli di Credito, Fasc. 4, 2023, p. 599 per il quale “per l’anatocismo, il punto vero è sempre il tasso”.

[46] D. Maffeis, Il nuovo articolo 120 Tub e la proposta di delibera CICR della Banca d’Italia, in Riv. Dir. Banc, 2014, 1 e ss; P. Carriére La fine dell’anatocismo “Bancario”, in I Contratti, 2015 p. 1154

[47] In generale si S. Gatti, op. cit. .p. 5 e ss.

[48] In verità è possibile rinnovare anche più volte il prestito, solitamente è nel regolamento adottato dall’intermediario che viene stabilito il numero massimo di rinnovi accordabili.

[49] Infatti la norma principale non contiene un limite massimo di rinnovabilità dell’operazione; l’individuazione del limite massimo di rinnovi è affidata al regolamento.

[50] P. De Gioia Carabellese, Il contrato di credito su pegno, Bari, 2022, pp 58 e 59: “a quel punto diventa definitivo il passaggio da una garanzia patrimoniale generica ad una garanzia basta esclusivamente sul bene stimato non avendo il creditore la possibilità di rivalersi nei confronti del debitore per la minore somma realizzata in exesecutivis dalla vendita del bene”.

[51] Barenghi, Note sulla trasparenza bancaria, venticinque anni dopo, in Banca Borsa e Titoli di credito, fasc. 2, 2018,  p143.

[52] V. Lemma, Commento sub. art. 115, in F. Capriglione, Commentario al Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, Milano, 2018, p. 1855. Brescia Morra, il diritto delle banche, Bologna, pp 242 e ss.