ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Mar, 19 Mar 2024

Commento a “Dall’abuso di ufficio alla corruzione: una progressione criminosa” di Andrea Antonio Dalia

Modifica pagina

Francesco Langella
StudenteUniversità degli Studi di Salerno



Il ”Progetto Prof. A. A. Dalia” ha lo scopo di rendere omaggio ad un grande Maestro del diritto attraverso brevi commenti, dal carattere divulgativo, relativi ai più svariati temi che interessano il diritto processuale penale. L´obiettivo è quello di restituire attualità al suo pensiero, attraverso l´analisi di relazioni rese in occasione di lezioni, convegni e congressi. Una vera sfida, oltre che una rara occasione di confronto, per chi, ancora tra i banchi delle aule universitarie, sta per affacciarsi al mondo delle professioni legali.


Convegno su

«Questioni di legittimità: la corruzione tra moralità e legge»
Salerno, 2 dicembre 2000

Dall’abuso di ufficio alla corruzione: una progressione criminosa

di

Andrea Antonio Dalia
Ordinario di Procedura Penale
Università degli Studi di Napoli “Federico II”

Sommario: 1. I rapporti tra il delitto di abuso in atti di ufficio e il delitto di corruzione. - 2. Dall’abuso in atti di ufficio alla corruzione: una progressione investigativa. - 3. Il ruolo della fattispecie di abuso nella concezione del processo come strumento di lotta alla criminalità. - 4. La riforma dell’art. 323 c.p.: il ridimensionamento dell’abuso in atti di ufficio a fattispecie residuale. - 5. La conferma del ruolo residuale dell’abuso in atti di ufficio: l’adeguamento alle direttive comunitarie in tema di lotta alla corruzione. – 6. La nuova configurazione dell’abuso in atti di ufficio: da «reato-mezzo» per la lotta alla corruzione a «strumento di autotutela» dei privati. - 7. Il rischio di possibili disparità di trattamento. - 8. Prospettive di riforma. 

1. I rapporti tra il delitto di abuso in atti di ufficio e il delitto di corruzione.

Lo spunto per una prima riflessione sui rapporti tra abuso di ufficio e corruzione è offerto dagli stessi organizzatori del Convegno, i quali, nell’individuare il tema di discussione, ipotizzano - forse in maniera provocatoria - una relazione di continuità tra le due fattispecie, tale da configurare una vera e propria «progressione criminosa».

Che la commissione dell’un reato comporti necessariamente la realizzazione dell’altro, attraverso momenti, progressivamente crescenti, di offesa dell’interesse giuridicamente protetto, è affermazione discutibile, sia sul piano giuridico che su quello empirico.

Sotto il profilo più strettamente giuridico, non si può fare a meno di rilevare che l’abuso di ufficio e la corruzione non segnano i passaggi «obbligati» di un unico iter criminoso — secondo la struttura tipica del reato progressivo — ma la loro coesistenza è meramente «eventuale», ben potendo sussistere l’uno senza l’altro, e, quand’anche si verifichi l’eventualità di una coesistenza criminosa, non è detto che la commissione dei due reati debba necessariamente seguire un ordine crescente di offesa al bene giuridico, ben potendo l’uno precedere l’altro o viceversa. 

Militano, in tal senso, sia la clausola di sussidiarietà inserita nel testo dell’art. 323 c.p., che impone di considerare l’abuso di ufficio come fattispecie residuale, ma pur sempre autonoma, alla quale ricorrere ogni volta che «il fatto non costituisca un più grave reato», sia la struttura tipica del reato di corruzione, secondo la quale il compimento dell’atto contrario ai doveri di ufficio — momento in cui si concreta l’abuso — può precedere (corruzione propria antecedente), ma può anche seguire (corruzione propria susseguente), l’accordo criminoso tra il corrotto ed il corruttore. 

Il concetto di «progressione criminosa» non sembra adattarsi alla descrizione del fenomeno neppure sotto il profilo empirico, ove si consideri che, nella generalità dei casi, l’accordo illecito precede il compimento dell’atto di ufficio (che, a limite, potrebbe anche mancare), cosicché si passa «dalla corruzione all’abuso», cioè dal reato più grave a quello meno grave, con una successione di eventi che rappresenta l’esatto opposto della «progressione criminosa» e che configura, piuttosto, una «regressione criminosa».

2. Dall’abuso in atti di ufficio alla corruzione: una progressione investigativa

Quel rapporto di contiguità e continuità tra abuso di ufficio e corruzione, che non sembra trovare appiglio nelle norme di diritto sostanziale, si è spesso delineato in campo processuale, consentendo una sempre più diffusa ingerenza della magistratura — specie quella inquirente — nell’esercizio di attività discrezionali della pubblica amministrazione.

L’esperienza giudiziaria del recente passato — almeno fino alla riforma del 1997 —  è ricca di esempi che testimoniano l’uso strumentale della contestazione del reato di abuso di ufficio, finalizzata al compimento di indagini per l’accertamento di ulteriori reati: in primis, appunto, la corruzione e la concussione.

Ciò è valso ad assegnare alla fattispecie di cui all’art. 323 c.p. l’etichetta di «reato civetta» o di «grimaldello», usato per scoprire, in un determinato momento storico, gli scenari di una illegalità diffusa e fortemente radicata in ogni settore della pubblica amministrazione.

Sono due, essenzialmente, i profili della precedente formulazione della norma che hanno favorito l’espansione, talvolta strumentale ed indiscriminata, dell’attività investigativa: da un lato, la assoluta indeterminatezza della fattispecie, che prevedeva uno spettro assai ampio di rilevanza penale per fatti arbitrari del pubblico ufficiale, consentendo di dare corso alle indagini anche sulla base di semplici sospetti in relazione all’uso distorto del potere discrezionale; dall’altro lato, il limite edittale di pena, che nei casi di abuso a fini patrimoniali, punito con la reclusione da due a cinque anni (art. 323 comma 2 c.p.), legittimava l’adozione di misure coercitive e il ricorso a mezzi di investigazione particolarmente incisivi, come le intercettazioni telefoniche o ambientali.

Sul piano processuale, poi, l’abuso commesso dal pubblico ufficiale — che poteva anche risolversi nel compimento di un atto viziato da eccesso di potere — finiva per diventare elemento di prova determinante, se non decisivo, ai fini della dimostrazione del presunto accordo corruttivo tra lo stesso pubblico ufficiale ed il privato che aveva beneficiato degli effetti dell’atto illegittimo. 

Una conclusione, questa, resa ancora più agevole dal fatto che, per la configurabilità del reato di corruzione, è richiesta, ai sensi degli artt. 318 e 319 c.p., la semplice accettazione della «promessa» di denaro o di altre utilità.

3. Il ruolo della fattispecie di abuso nella concezione del processo come strumento di lotta alla criminalità.

Non si può negare, analizzando la storia giudiziaria di quest’ultimo decennio, che il processo penale è stato spesso utilizzato come autentico strumento di lotta alla criminalità economica, ed in particolare alla corruzione, attraverso l’applicazione distorta delle norme sia sostanziali che processuali.

Se, poi, si colloca tale riflessione nel contesto delle vicende legate alla cosiddetta Tangentopoli, il giudizio complessivo sull’attività di repressione promossa dalla magistratura non può che assumere toni severamente critici, dovendosi riconoscere che l’uso strumentale del processo — già di per sé deprecabile — ha prodotto risultati disastrosi, sia sul piano amministrativo che su quello giudiziario.

Per un verso, infatti, l’eccessivo ricorso alle incriminazioni per abuso di ufficio — stigmatizzato, in dottrina, come «abuso dell’abuso» — ha determinato la paralisi di interi settori della pubblica amministrazione, per effetto della cosiddetta «sindrome della firma», che ha finito per contagiare tanti amministratori e funzionari pubblici.

Per altro verso, nonostante il moltiplicarsi dei procedimenti e dei processi a carico di imprenditori e amministratori pubblici, il numero delle condanne per fatti di corruzione e di abuso di ufficio rimaneva esiguo (secondo i dati forniti dall’Istat, dal 1988 al 1995 la percentuale delle condanne per abuso di ufficio, rispetto al numero delle iscrizioni delle notizie di reato, è passata dallo 0,2% al 2%).

4. La riforma dell’art. 323 c.p.: il ridimensionamento dell’abuso in atti di ufficio a fattispecie residuale. 

Le censure alle strategie investigative e processuali, che facevano dell’abuso di ufficio uno strumento privilegiato di lotta al fenomeno della corruzione, si sono rivelate un argomento dialettico decisivo per sostenere l’indefettibilità della riforma dell’art. 323 c.p.

Non a caso, l’intervento legislativo ha cercato di porre un argine sufficientemente robusto al dilagare delle accuse strumentali, puntando, innanzitutto, ad una descrizione in termini più chiari della condotta punibile. 

Sotto questo profilo, il riferimento espresso alla «violazione di norme di legge o di regolamento» e alla «omessa astensione nei casi prescritti» garantisce una maggiore determinatezza della fattispecie ed impone di procedere, nell’accertamento del reato, solo sulla base di presupposti oggettivi e ben definiti. 

Non trovano più alcuna giustificazione, quindi, quei metodi di indagine che, partendo da supposizioni, illazioni o semplici sospetti, e, quindi, non ancora da indizi, indirizzavano l’interprete verso la ricerca esasperata dell’atto viziato da eccesso di potere, per dimostrare la sussistenza dell’abuso e dell’eventuale accordo corruttivo. Oggi, invece, in mancanza di un comportamento oggettivamente illegittimo, l’autorità giudiziaria non può spingersi oltre, perché viene meno uno degli elementi essenziali della condotta punibile.

Nell’ottica di un sensibile ridimensionamento della fattispecie va letta anche la modifica introdotta sul piano sanzionatorio (il reato è ora punito con la reclusione da sei mesi a tre anni, anziché da due a cinque anni, come si prevedeva, in precedenza, per l’abuso a fini patrimoniali). 

Il nuovo limite edittale di pena, infatti, non consente l’applicazione di misure cautelari, neppure nei casi di abuso di «rilevante gravità», in quanto l’aggravante prevista dall’art. 323 comma 2 c.p. è circostanza comune e, pertanto, non rileva ai fini del superamento della soglia dei tre anni di reclusione (art. 278 c.p.p.); non è ammessa la possibilità di disporre intercettazioni telefoniche o ambientali (art. 266 comma 1, lett. b, c.p.p.); diminuisce il termine di prescrizione, che è pari a cinque anni (con un tetto massimo, quindi, di sette anni e mezzo).

Tali modifiche comportano un’evidente limitazione delle strategie e dei poteri investigativi, relegando la fattispecie in una posizione marginale, come ipotesi di reato residuale, e non più strumentale, rispetto all’accertamento di altri delitti, quali la corruzione e la concussione.

5. La conferma del ruolo residuale dell’abuso in atti di ufficio: l’adeguamento alle direttive comunitarie in tema di lotta alla corruzione.

La recente approvazione della legge 29 settembre 2000, n. 300 - per la ratifica e l’esecuzione di una serie di Convenzioni internazionali adottate dall’Unione europea sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee; sulla competenza della Corte di giustizia in tema di interpretazione delle norme comunitarie; sulla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità, e di una Convenzione adottata dall’OCSE, sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, ha decisamente ridimensionato la funzione deterrente della fattispecie di abuso in atti di ufficio.

L’esecuzione di alcune di queste Convenzioni — segnatamente quelle in materia di corruzione — ha richiesto l’introduzione, all’interno del codice penale, di nuove disposizioni, che hanno modificato l’ambito di operatività di taluni reati.

Le principali linee di intervento possono essere individuate:

a) nella estensione di una pluralità di ipotesi di reato contro la pubblica amministrazione, con la previsione che soggetti attivi dei reati possono essere anche funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri;

b) nella prescrizione dell’obbligo di confisca a seguito della sentenza di condanna o di applicazione della pena richiesta dalle parti (art. 444 c.p.p.) per taluni reati, specificamente indicati, commessi da pubblici ufficiali o da incaricati di pubblico servizio contro organi comunitari, nonché per le ipotesi di truffa aggravata in danno di pubbliche amministrazioni (anche europee);

c) nell’adeguamento delle norme sulla perseguibilità del reato commesso dal cittadino all’estero o dallo straniero all’estero (artt. 9 e 10 c.p.), mediante l’espresso richiamo delle Comunità europee tra i soggetti passivi dei reati;

d) nella introduzione di una nuova ipotesi di reato, prevista dall’art. 316-ter c.p., che punisce la «indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato e delle Comunità europee».

Per quanto concerne il punto a) — quello che, ai nostri fini, più interessa — è l’art. 322-bis c.p. a prevedere che taluni reati contro la pubblica amministrazione possano essere commessi anche da funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri.

La disposizione opera su due piani distinti: per un verso, indica espressamente i reati per i quali trova applicazione l’estensione soggettiva; per altro verso, individua in maniera specifica le categorie di funzionari delle Comunità europee o di Stati esteri perseguibili in sede penale.

Tra i reati per i quali è prevista l’estensione del novero dei soggetti attivi vi è il peculato (artt. 314 e 316 c.p.), la concussione (art. 317 c.p.), la corruzione (artt. 318-320 c.p.) e l’istigazione alla corruzione (art. 322 c.p.).

Il legislatore, quindi, non ha riconosciuto all’autorità giudiziaria del nostro Stato la possibilità di perseguire i funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri per la commissione di altri reati contro la pubblica amministrazione, tra i quali rientra, in particolare, proprio l’abuso di ufficio.

La scelta non è certamente casuale, né può essere sottovalutata, poiché testimonia la volontà di tenere distinti, almeno sul piano normativo, i reati di corruzione e di abuso di ufficio, posto che l’uno non presuppone necessariamente l’altro, a differenza di quanto è dato rilevare dallo schema tipico della cosiddetta «progressione criminosa».

6. La nuova configurazione dell’abuso in atti di ufficio: da «reato-mezzo» per la lotta alla corruzione a «strumento di autotutela» dei privati.

La riforma del 1997 ed il progressivo esaurimento delle iniziative giudiziarie volte a debellare il fenomeno della corruzione hanno segnato un profondo mutamento nella struttura e nella funzione dell’abuso di ufficio.

Abbandonato, in via quasi definitiva, il ruolo di «reato civetta», la fattispecie si presta ad una diversa funzione, consentendo al privato di tutelare i propri diritti attraverso la denuncia di eventuali soprusi o favoritismi degli organi pubblici.

La nuova previsione, quindi, sembra riflettere la stessa ratio sottesa all’art. 175 del codice Zanardelli, che si proponeva di tutelare il privato cittadino da ogni possibile eccesso autoritativo che ne avesse pregiudicato le ragioni di diritto.

Va detto, tuttavia, che il ricorso alla norma penale è incentivato, oggi, anche da un senso di profonda sfiducia nel sistema dei controlli amministrativi, spesso ritenuti inefficienti ed inadeguati allo scopo.

7. Il rischio di possibili disparità di trattamento.

I problemi che si nascondono dietro l’attuale formulazione dell’art. 323 c.p. sono di diversa natura e sono legati alla necessità di garantire una uniforme interpretazione della norma.

Le prime esperienze applicative già rivelano le incertezze interpretative e gli esiti contraddittori cui pare destinata a dar luogo la nuova previsione normativa.

Le ragioni di questo stato di incertezza sono essenzialmente due:

a) sul piano sostanziale, sembrano ancora tanti i punti oscuri nella interpretazione della norma (il concetto di «legge» e di «regolamento»; la portata dell’obbligo di astensione; l’intenzionalità della condotta; la realizzazione dell’evento; i limiti dell’abolitio criminis; l’ingiustizia del danno e del vantaggio patrimoniale);

b) sul piano processuale, invece, i nuovi e più ampi poteri di valutazione attribuiti al giudice dell’udienza preliminare rischiano di determinare irragionevoli disparità di trattamento tra imputati che vengono rinviati a giudizio sulla base di accertamenti sommari e imputati prosciolti grazie ad un’attività di indagine completa ed approfondita.

8. Prospettive di riforma

Una delle soluzioni ipotizzabili è sicuramente l’abrogazione dell’art. 323 c.p.

Si tratta di una soluzione già proposta nel corso dei lavori parlamentari che portarono all’approvazione della legge n. 234 del 1997. Va ricordato che fu proprio l’on. Carotti, relatore, a farsi promotore di tale iniziativa. 

In quella sede si osservò, molto opportunamente, che l’abrogazione dell’art. 323 c.p. andrebbe inserita nel contesto di un intervento legislativo di più ampia portata, attraverso il quale dovrebbero essere, comunque, assicurate ai cittadini efficaci ed ineludibili forme di tutela. 

Nel caso in cui il vuoto lasciato dalla eliminazione della norma penale non fosse colmato da un incisivo sistema di controlli interni, risulterebbero evidenti le ricadute che la “cattiva amministrazione” potrebbe produrre in termini di incentivazione della corruzione. 

In altri termini, se venissero meno le barriere al dilagare degli abusi, vi sarebbe terreno fertile per una nuova escalationdella corruzione.

Una diversa soluzione, di più immediata attuazione, potrebbe essere quella di attribuire il reato alla cognizione del tribunale ordinario in composizione monocratica. 

Così facendo, si eliminerebbe l’udienza preliminare — e, con essa, i rischi di applicazioni arbitrarie della norma — e, nel contempo, si ridurrebbero le possibilità di arrivare all’estinzione del reato per intervenuta prescrizione.

D’altra parte, l’abuso di ufficio è fattispecie residuale e non si connota di quella particolare complessità che, in via generale, giustifica la riserva di cognizione del giudice collegiale.

Salerno, 2 dicembre 2000 

Prof. Avv. Andrea Antonio Dalia


Commento di Francesco Langella
Studente iscritto al V anno del corso di laurea in giurisprudenza
Dipartimento di Scienze Giuridiche – Università degli Studi di Salerno

Fin dalle origini, il reato di abuso d’ufficio ha sempre avuto un principale problema di fondo, ovvero l’indeterminatezza della fattispecie, lasciando troppo spazio ad ampliamenti circa l’oggetto dell’incriminazione, creando confusione nei consociati e, soprattutto, nei pubblici amministratori (o anche semplici funzionari della P.A.) che non sono riusciti ad intendere come orientare precisamente il loro operato in conformità della legge: tale “elasticità” ha prodotto, come conseguenza, una tensione enorme tra chi voleva limitare i casi di “mala gestio” e chi, invece, voleva evitare l’ingerenza del giudice penale sull’operato dei pubblici amministratori.

In occasione del Convegno tenutosi nel 2000, il Prof. A. A. Dalia ha affermato che non c’è uno stretto collegamento tra le fattispecie di corruzione e abuso d’ufficio: la progressione criminosa, quindi, può esserci ma anche non esserci; non è detto, cioè, che alla commissione dei due reati debba seguire un ordine crescente di offesa del bene giuridico, in quanto si ricorre all’abuso d’ufficio ogni volta che il fatto non costituisce un più grave reato (la cd. clausola di sussidiarietà). 

Ma, per l’Autore, l’importanza circa la presenza di questa fattispecie incriminatrice nell’ordinamento italiano è, in primis, per la sua funzione “civetta/grimaldello”, poiché è con una contestazione di abuso d’ufficio (con eventuale ricorso ad intercettazioni nel caso dell’art. 323 comma 2 c.p.) che gli inquirenti possono rilevare eventualmente elementi integranti i reati di corruzione e concussione. 

Tuttavia, proprio l’eccessiva elasticità della norma ante riforma del 1997, anche con riguardo all’esperienza di Tangentopoli, ha consentito un ricorso smodato alla contestazione dell’abuso d’ufficio, fino a formulare l’espressione “abuso dell’abuso”, alimentando la cosiddetta “paura della firma”, ovvero il timore di assumersi ogni tipo di responsabilità nell’esercizio del potere pubblico, con l’approdo alla attività difensiva della P.A.

Proprio nell’inchiesta Tangentopoli il processo stesso fu adoperato in maniera deprecabile, procurando risultati disastrosi sia sul piano amministrativo che sul piano giudiziario, in quanto moltissimi amministratori e funzionari pubblici ricevettero avvisi di garanzia, nonostante non avessero commesso alcun tipo di illecito, dal momento che anche il clima, basato su semplici sospetti, consentiva un uso distorto della discrezionalità ricavabile dalla norma. 

Dando uno sguardo più attento ai giorni nostri, basta menzionare il caso “QatarGate” per comprendere come l’abuso d’ufficio e la corruzione possano coinvolgere anche la più importante Assemblea d’Europa. 

Con la riforma del 1997, dunque, furono introdotti parametri più oggettivi e meglio definiti per evitare supposizioni o semplici sospetti per la configurazione del reato: la “violazione di norme di legge” e la “omessa astensione nei casi prescritti”, unitamente all’introduzione della patrimonialità del danno e il requisito del dolo intenzionale, hanno fatto sì che – anche per interpretazione giurisprudenziale – il reato di abuso d’ufficio divenisse residuale, ovvero perdesse quella centralità che aveva un tempo nell’ordinamento. 

Nonostante i buoni propositi del legislatore degli anni ‘90, non si è sopito il dibattito che, ormai da anni, vede contrapposti i fautori di una ulteriore modifica e perimetrazione della norma (come, del resto, avvenuto nel 2020 ad opera dell’art. 23, d.l. n. 76 del 16 luglio) e quelli favorevoli alla sua eliminazione; tuttavia, nella sua relazione, il Prof. A. A. Dalia puntualizzava che all’eliminazione del reato avrebbe dovuto accompagnarsi un intervento legislativo di più ampia portata, assicurando ai cittadini maggiori strumenti di tutela. È possibile eliminare la norma solo se, contestualmente, vengano attivati controlli più incisivi all’interno della pubblica amministrazione, altrimenti si assisterebbe ad una escalation del fenomeno corruttivo.

Anticipando di diversi decenni quelle riforme volte ad introdurre all’interno della pubblica amministrazione controlli preventivi (e non più misure di mera repressione) contro i fenomeni corruttivi, l’Autore, in sostanza, pone l’attenzione su quanto sia importante l’attività di repressione interna: se vi fosse un controllo repentino e attento sull’operato dei pubblici amministratori, sicuramente si interverrebbe sul nascere di ogni fenomeno corruttivo, diminuendo anche l’eventuale contenzioso.

Invero, nel 2012 troverà ingresso nel nostro ordinamento la legge n. 190, cd. “Legge Severino”, volta ad introdurre la nuova definizione di “corruzione amministrativa” oltre a misure preventive di lotta ai fenomeni corruttivi come l’autorità di vigilanza, i piani anticorruzione o il famoso whistleblowing.

La pubblica amministrazione in questo modo deve non solo adempiere a misure anticorruzione, ma anche specificare quali sono le sue articolazioni più a rischio in relazione ai fenomeni corruttivi, in un’ottica perlopiù preventiva.

Ancora oggi, il tema appare controverso. L’attuale ministro della giustizia, Carlo Nordio, da mesi tenta di riformare il sistema processuale, partendo proprio dalla modifica della disciplina delle intercettazioni e dall’abrogazione dell’abuso d’ufficio. In realtà il Ministro considera l’abuso d’ufficio un “reato obsoleto” che non può essere oggetto di riforma, né tantomeno un reato spia/grimaldello che possa servire per accertarne altri. Riguardo l’attività del Pubblico ministero, egli sostiene che, con l’abuso d’ufficio “si partirebbe dal reo per trovare il reato” e per questo è necessario abolirlo. Inoltre evidenzia che il processo per abuso d’atto d’ufficio è troppo problematico, poiché necessita di un accertamento dell’illegittimità dell’atto con annessa dimostrazione del dolo del soggetto agente. Secondo Nordio, tali processi occuperebbero più del 10% del personale giudiziario, ingolfando la macchina giudiziaria.

Di contro, nella relazione oggetto di commento – oltre all’attivazione del sistema dei controlli interni, summenzionato – si auspicava l’attribuzione del reato in parola non più al giudice collegiale ma al giudice monocratico, a fronte di un’ostinata abrogazione della fattispecie. Non è necessaria, dunque, la figura del giudice collegiale e dell’udienza preliminare, poiché per questo reato basterebbe una sommarietà più marcata. In questo modo sicuramente si eviterebbero di occupare più giudici e si alleggerirebbe la macchina giudiziaria, assicurando al contempo giustizia. 

Invero, non poche critiche sono state mosse verso le affermazioni dell’attuale Ministro. 

Dal Csm, infatti, giunge un categorico “no”, ribadito oltretutto dalla Presidente della Cassazione Margherita Cassano, la quale considera l’abuso d’ufficio un reato fondamentale, senza il quale molte condanne per reati più gravi non potrebbero sussistere.

Più che “paura della firma”, forse c’è una seria paura di scontare le conseguenze di atti illeciti che rischierebbero di restare impuniti. Che cosa accadrebbe in questi casi se non vi fosse “l’esca” dell’abuso d’ufficio? 

Basti pensare ad un recente caso di cronaca, quello del “Sistema Siracusa”: una rete di corruzione tra magistrati, politici e avvocati venuta fuori da una semplice processo per abuso d’ufficio di un magistrato. Questo ci dimostra quanto sia importante la “funzione civetta” della fattispecie in commento.

Di base, il bene giuridico protetto dalla norma è “l’imparziale e corretta amministrazione della giustizia”, diventando così uno strumento a servizio del cittadino, contro eventuali atti illegittimi e imparziali commessi dai funzionari di pubblico servizio. Il cittadino, persona offesa del reato può, non solo costituirsi parte civile nel processo, ma anche proporre opposizione contro un’eventuale richiesta di archiviazione del p.m., che può motivarla con l’insussistenza della notizia di reato. Il ricorso alla norma penale è incentivato anche da una profonda sfiducia nel sistema dei controlli amministrativi.  

Ciò nonostante, le statistiche indicano che su 3000 processi per abuso d’ufficio, solo l’1% arriva a sentenza di condanna. Ma questo ridotto indice di condanna, non dovrebbe alimentare la tendenza ad abrogare il reato.

Cosa accadrebbe in Italia se il pubblico amministratore non avesse più la “civetta” dell’abuso d’ufficio che vigila sul suo operato? Si lascerebbe ancor di più incontrollato nell’esercizio della sua funzione.

Oggi assistiamo ad uno strano fenomeno: quello di una burocrazia difensiva, capace di creare situazioni di illegalità che molte volte l’ordinamento non riesce a fronteggiare. Gli amministratori pubblici, pur di aumentare le performance della p.a., operano con eccessiva discrezionalità: discrezionalità che presume un potere di scelta quasi illimitato, alimentato dalla presenza quasi incessante del famoso “conflitto d’interesse”.

Il problema di fondo è, senza dubbio, un enorme deficit culturale. Gli amministratori della res pubblica non vengono formati ad una cultura della legalità amministrativa, e questo non è un problema solo di risorse economiche, ma è anche di risorse culturali, sociali, di mancanza di formazione tangibile degli addetti ai lavori. Per questo, se si vuole davvero lavorare nel segno dell’efficienza della pubblica amministrazione e punire veramente l’abuso di potere, sarebbe necessaria una riforma radicale del sistema di controllo sull’operato degli amministratori, servendosi del processo solo quale extrema ratio.

Il futuro della norma, che sembra ormai scritto, dipenderà dai prossimi sviluppi in parlamento e soprattutto dalla volontà reale di conservarlo nell’ordinamento, anche alla luce dei nuovi fondi del PNRR che presto saranno nella casse italiane.


Note e riferimenti bibliografici