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Pubbl. Lun, 20 Gen 2025

Commento a ”L´acquisizione” di Andrea Antonio Dalia

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Antonio Giuditta
Laurea in GiurisprudenzaUniversità degli Studi di Salerno



Il presente progetto editoriale ha lo scopo di rendere omaggio ad un grande Maestro attraverso brevi commenti, dal carattere divulgativo, relativi ai più svariati temi che interessano il diritto processuale penale. L’ obiettivo dichiarato è quello di restituire attualità al Suo pensiero, attraverso l’analisi di relazioni rese in occasione di lezioni, convegni e congressi. Una vera sfida, oltre che un grande onore per chi, ancora tra i banchi delle aule universitarie, sta per affacciarsi al mondo delle professioni legali.


L’ACQUISIZIONE

di

Prof. Andrea Antonio Dalia

Ordinario di Procedura Penale nell’Università degli Studi di Salerno

Sommario: 1. Premessa; 2. Le indagini parallele e le indagini preventive; 3. I limiti alle indagini preventive; 4. I soggetti legittimati al compimento delle indagini difensive; 5. Le indagini suppletive, le indagini integrative, le indagini successive; 6. I singoli atti di indagine difensiva; 7. Le modalità di acquisizione degli elementi di prova; 8. La “parità di armi” tra difensore e magistrato del pubblico ministero; 9. I “rischi” di rilevanza penale dell’attività investigativa del difensore.

1. Premessa 

Il tema di questo Seminario di studi è costituito dal testo unificato, approvato dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, nella seduta del 21 luglio 1998, della proposta di legge n. 850 e del disegno di legge n. 2774.

Si tratta di un progetto innovativo di ampio respiro, in cui si individuano tre filoni fondamentali, con riferimento all’acquisizione degli elementi di prova a favore di chi è sottoposto ad indagini o è raggiunto da una imputazione, alle forme di documentazione dell’attività investigativa e alla utilizzazione consentita, nell’ambito del processo, di quanto viene acquisito e documentato.

La maggiore attenzione è dedicata al momento acquisitivo, che è indubbiamente il momento più delicato dell’intera indagine difensiva, per i pericoli, insiti in un’attività del genere, di “interferenza” con le iniziative assunte dal magistrato del pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria. 

2. Le indagini parallele e le indagini preventive 

Il primo aspetto del progetto di riforma, di innegabile originalità, è dato dalla previsione di una duplice proiezione delle indagini, in funzione sia di “contrasto” alle indagini preliminari, avviate dalla polizia giudiziaria o dal magistrato del pubblico ministero, sia di predisposizione di una linea difensiva, per la eventualità che si avviino indagini ad opera degli organi della investigazione.

L’art. 6 prevede che sia inserito un art. 327-bis comma 1 c.p.p.,  a tenore del quale, fin dal momento dell’incarico professionale, risultante da atto scritto, il difensore ha facoltà di svolgere investigazioni per ricercare ed individuare elementi di prova a favore del suo assistito, nelle forme e per le finalità stabilite nel titolo VI-bis del presente libro, mentre l’art. 8, nell’introdurre il titolo VI-bis,  contenente disposizioni sulle “Investigazioni difensive”, apre con un art. 391-decies (Attività investigativa preventiva), secondo cui l’attività investigativa prevista dall’art. 327-bis può essere svolta anche dal difensore che ha ricevuto apposito mandato per l’eventualità che si instauri un procedimento penale (comma1).

Il mandato è rilasciato con sottoscrizione autenticata e contiene la nomina del difensore e l’indicazione dei fatti ai quali si riferisce (comma 2).

Dal raffronto tra le due disposizioni si evince che, in ogni caso, l’incarico deve essere conferito in via formale, per iscritto, sia che si tratti di un incarico affidato nel corso del procedimento sia che si tratti di un incarico preventivo, con la differenza che solo il secondo, e non anche il primo, deve contenere l’indicazione dei fatti ai quali si riferisce.

Evidentemente l’incarico, nel corso del procedimento, è conferito per relationem, si intende dato, cioè, con riguardo all’oggetto delle indagini o alla imputazione.

Se, viceversa, il procedimento non si è ancora avviato, l’interessato deve enunciare i fatti per i quali chiede lo svolgimento di indagini preventive.

Due erano le soluzioni possibili. 

La prima, suggerita dalla Commissione Affari Costituzionali, consentiva al difensore di svolgere indagini solo dopo che al suo assistito fosse stata notificata l’informazione di garanzia. Nell’intento di non consentire indagini difensive preventive si accettava, per tale via, il pericolo di determinare una evidente disparità di trattamento, considerato che i tempi della indagine difensiva e l’efficacia di tale iniziativa sarebbero dipesi dalle “strategie” investigative del magistrato del pubblico ministero, dal momento che l’informazione di garanzia precede il solo compimento di atti “garantiti”.

La seconda soluzione non poteva non svincolare del tutto il conferimento dell’incarico dalla conoscenza dell’avvio del procedimento penale. 

Per effetto di tale scelta, le indagini “preventive” hanno ad oggetto fatti in relazione ai quali la instaurazione di un procedimento penale è del tutto eventuale. Con la riforma, quindi, viene delineata una nuova figura processuale: «la persona che potrebbe essere sottoposta ad indagini».

Al di là degli aspetti meramente formali (il legislatore, ad esempio, non chiarisce se il difensore possa autenticare la sottoscrizione del mandato preventivo), l’atto con cui viene conferito l’incarico al difensore deve contenere «la indicazione dei fatti ai quali si riferisce». La previsione suscita qualche perplessità: non va dimenticato, infatti, che al momento del conferimento del mandato non sussistono ipotesi di reato a carico dell’assistito, per cui la «indicazione dei fatti», in questa fase, non può che risolversi in una implicita ammissione di responsabilità (in tal caso, però, il difensore e gli altri soggetti legittimati a svolgere le indagini non hanno l’obbligo di denunciare il fatto-reato di cui sono venuti a conoscenza).

3. I limiti alle indagini preventive 

Le indagini difensive — così come dispone il nuovo art. 327-bis c.p.p. — sono dirette alla ricerca e alla individuazione di elementi di prova «favorevoli» all’indagato. È da escludere, quindi, che nel corso delle investigazioni preventive, non essendo stata ancora formalizzata una accusa, si possa procedere alla acquisizione di elementi di prova «a carico di terzi», al fine di escludere qualsiasi sospetto sulla possibile responsabilità penale dell’interessato.

Nel corso della cosiddetta indagine preventiva, il difensore e gli altri soggetti legittimati potrebbero incorrere nella violazione delle norme a tutela della privacy, con la conseguente configurabilità dei reati di «trattamento illecito di dati personali» (art. 35 legge n. 675/96) e di «interferenze illecite nella vita privata» (art. 615-bis c.p.). 

Il Garante della privacy, con l’autorizzazione generale n. 6 del 1997, ha chiarito, infatti, che l’acquisizione, la conservazione e l’utilizzazione di dati personali relativi allo stato di salute e alla vita sessuale sono consentite, a prescindere dalla volontà dell’interessato, solo per far valere o difendere un diritto «in sede giudiziaria» oppure per esercitare il diritto alla prova «nell’ambito di un procedimento penale». 

In ogni altro caso, il trattamento di dati personali richiede il consenso della persona interessata o una autorizzazione specifica del Garante.

Ulteriori limiti alla indagine preventiva derivano dalla mancanza di un procedimento in corso: in particolare, il difensore non può chiedere al giudice l’autorizzazione ad accedere in luoghi privati; non può conferire con persone detenute; non può chiedere al giudice di disporre l’audizione di persone informate sui fatti che si siano avvalse della facoltà di non rispondere; non può, infine, chiedere al giudice di ordinare ad un ente pubblico la esibizione di documenti non coperti da segreto professionale oppure da segreto di ufficio o di Stato.

4. I soggetti legittimati al compimento delle indagini difensive 

Le attività investigative possono essere svolte, su incarico del difensore, dal sostituto, da investigatori privati autorizzati e, quando sono necessarie specifiche competenze, da consulenti tecnici (art. 327-bis comma 3 c.p.p.).

Nell’elenco dei soggetti legittimati a svolgere indagini, su incarico del difensore, non figurano i c.d. «collaboratori di studio», anche se bisogna ritenere che questi ultimi possano, quantomeno, compiere le attività materiali di carattere preparatorio e quelle di documentazione degli atti (se così non fosse, aumenterebbero le difficoltà per gli studi professionali che non possono contare su grandi risorse economiche, ma che, in compenso, dispongono di una buona capacità organizzativa).

Il sostituto — nominato dal difensore con atto formale (che dovrà, eventualmente, esibire alle persone con cui verrà a contatto durante lo svolgimento delle indagini) — può svolgere attività di ricerca e di individuazione degli elementi di prova, a prescindere dalle condizioni previste dall’art. 102 c.p.p. L’esistenza di un impedimento del difensore, infatti, è condizione difficilmente ipotizzabile nel corso delle indagini difensive, trattandosi di atti che non comportano la sua presenza obbligatoria.

Risulta problematico stabilire se il difensore debba rispondere in proprio delle «scorrettezze» eventualmente commesse dal suo sostituto o dai collaboratori di studio, concorrendo con questi ultimi nella responsabilità configurabile sul piano disciplinare o, addirittura, su quello penale. È difficile pensare, infatti, che il sostituto o il collaboratore di studio — a differenza dell’investigatore privato — possa avere con l’indagato un rapporto professionale autonomo.

I problemi maggiori sono legati alla figura dell’investigatore privato, in quanto il legislatore ha sempre mostrato una certa diffidenza nei confronti di tale soggetto. Innanzitutto, va detto che manca, tuttora, un albo degli investigatori privati e un ordine professionale, così come mancano precise regole deontologiche che possano tracciare i limiti del loro operato. Pertanto, sembra strano che il legislatore si appresti a varare una riforma di così ampio respiro in materia di indagini difensive ma, nel contempo, non abbia pensato alla opportunità di introdurre nuove norme sull’attività di investigazione privata, che, ancora oggi, è disciplinata dal t.u. delle leggi di pubblica sicurezza (artt. 134-141 r.d. 18 giugno 1931, n. 773). In ogni caso, bisogna ritenere che l’investigatore privato debba attenersi a quell’agire «corretto» cui è tenuto il difensore.

Nel momento in cui il difensore conferisce l’incarico all’investigatore privato dovrà informarlo dei fatti oggetto di indagine e dargli indicazioni specifiche sulle attività da compiere. Qualche dubbio sorge, invece, sulla possibilità di fornire all’investigatore informazioni di carattere strettamente personale, che il difensore ha assunto direttamente dall’indagato (si pensi, ad esempio, ad una ammissione di responsabilità) e che, di conseguenza, sono coperte dal segreto professionale. L’investigatore può, quindi, non conoscere tutta la «verità» ed è opportuno che si attenga scrupolosamente alle prescrizioni impartite dal difensore, al fine di non compromettere la posizione dell’indagato. 

Per quanto concerne le attività che può compiere l’investigatore privato, la scelta del legislatore è stata estremamente chiara: solo «il difensore o il sostituto possono sottoporre ad esame le persone in grado di riferire circostanze utili» (art. 391-ter c.p.p.), mentre all’investigatore privato sarà affidato il compito di individuare le fonti di prova e di raccogliere quelle informazioni necessarie per lo svolgimento di un efficace controesame (facendo ricorso, eventualmente, a pedinamenti, appostamenti, acquisizione di documenti, colloqui informali, ecc.).

La scelta appare condivisibile, atteso che solo il difensore dispone di conoscenze tali da consentirgli di svolgere, in maniera efficace e corretta, l’«esame» della persona informata sui fatti.

Alcuni aspetti di indubbio rilievo non risultano essere stati ancora considerati e, pertanto, sembra utile, segnalarli, affinché se ne tenga conto, in fase di approvazione definitiva del progetto di legge.

L’art. 2 del disegno di legge — modificando l’art. 197 c.p.p. — stabilisce la incompatibilità con l’ufficio di testimone «per coloro che hanno formato la documentazione degli atti o delle investigazioni difensive, in relazione agli atti compiuti e al loro contenuto». Gli investigatori privati, non potendo assumere direttamente informazioni (devono limitarsi, infatti, a dei «colloqui informali» con la persona da esaminare), si troveranno poche volte in una situazione di incompatibilità a testimoniare. Ciò nonostante, essi possono avvalersi del segreto professionale (v. art. 222 disp. a.c.t., che estende agli investigatori autorizzati la tutela del segreto professionale riconosciuta al consulente tecnico). È da ritenere, inoltre, che gli stessi investigatori privati — al pari degli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria — possano anche avvalersi della facoltà di non rivelare i nomi di eventuali loro informatori (art. 203 c.p.p.).

Ancora, non è chiaro se all’investigatore privato debbano estendersi tutte le garanzie previste per il difensore, se possano compiere, senza alcun limite, perquisizioni o sequestri presso le agenzie di investigazione, se possano essere intercettate le conversazioni telefoniche dell’investigatore aventi ad oggetto le indagini difensive.

Il difensore dovrà scrupolosamente cautelarsi di fronte all’eventualità di dover rispondere, per l’operato dell’investigatore, a titolo di culpa in eligendo o di culpa in vigilando. Le possibili cautele sono costituite dal conferimento di un incarico ben preciso — indicando dettagliatamente l’oggetto della indagine e le attività da compiere — e, inoltre, dall’eventuale sottoscrizione di una polizza assicurativa per i rischi professionali ipotizzabili.

Infine, è prevedibile una notevole disparità di trattamento tra gli indagati che hanno la possibilità di nominare, ab initio, un difensore di fiducia (perché più avvezzi alle vicende giudiziarie) e quelli che, al contrario, si affidano alla difesa di ufficio fino al momento della citazione in giudizio. 

L’attività investigativa ha costi molto elevati e richiede una notevole capacità organizzativa. Va ricordato, inoltre, che il gratuito patrocinio non copre le spese relative alla assunzione di investigatori privati. Pertanto, vi è il rischio concreto che si determinino delle ingiustificate disparità di trattamento tra indagati «facoltosi» e indagati «meno abbienti». Una analoga disparità di trattamento, sia pure in una prospettiva diversa, potrebbe profilarsi tra gli avvocati penalisti, a seconda delle loro possibilità, del loro volume di affari, della loro organizzazione di studio (è ovvio, infatti, che gli studi bene avviati, che dispongono di un elevato numero di collaboratori, saranno sicuramente agevolati nello svolgimento delle attività investigative).

5. Le indagini suppletive, le indagini integrative, le indagini successive

I limiti cronologici delle indagini difensive sono vastissimi. Il progetto di legge non intende praticamente porre limiti temporali alla iniziativa acquisitiva del difensore, il quale non solo può prescindere dall’avvio di un procedimento penale, ma può “spaziare” liberamente nel corso di svolgimento dello stesso e andare anche al di là del processo. Accanto alla previsione di indagini preventive, l’art. 6 del progetto, inserisce nel nuovo art. 327-bis c.p.p. un comma 2, per stabilire che la facoltà investigativa può essere attribuita per l’esercizio del diritto di difesa, in ogni stato e grado del procedimento, nell’esecuzione penale e per promuovere il giudizio di revisione.

A ciò si aggiunga che l’art. 10 propone di modificare l’attuale art. 419 comma 3 c.p.p., escludendo l’inciso “comunicato al pubblico ministero”, per prevedere che il l’invito – contenuto nel decreto di fissazione dell’udienza preliminare - a trasmettere la documentazione relativa alle indagini eventualmente espletate dopo la richiesta di rinvio a giudizio sia diretto a tutti gli interessati e, quindi, anche al difensore.

Ma, quest’ultimo è legittimato al compimento di indagini non solo suppletive, ma pure integrative. Infatti, secondo l’art. 11 del progetto, va modificato pure l’art. 430 c.p.p., nel senso che, successivamente all’emissione del decreto che dispone il giudizio, il pubblico ministero e il difensore possono, ai fini delle proprie richieste al giudice del dibattimento, compiere attività integrativa di indagine, fatta eccezione degli atti per i quali è prevista la partecipazione dell’imputato o del difensore di questo (comma 1) e la documentazione relativa a tale attività è immediatamente depositata nella segreteria del pubblico ministero con facoltà delle parti di prenderne visione ed estrarne copia (comma 2).

Dalla lettura degli artt. 6, 10 e 11 del disegno di legge in esame, emerge un evidente difetto di coordinamento: da un lato, infatti, si riconosce anche al difensore la possibilità di svolgere indagini suppletive ed integrative, con gli stessi limiti attualmente imposti al magistrato del pubblico ministero (art. 430 c.p.p.); dall’altro lato, attraverso il nuovo art. 327-bis c.p.p. — inserito tra le «disposizioni generali» del libro V — si stabilisce che al difensore «può essere attribuita» la facoltà di svolgere indagini, per l’esercizio del diritto di difesa, in ogni stato e grado del procedimento, nell’esecuzione penale e per promuovere il giudizio di revisione. Quest’ultima disposizione sembra concedere alla difesa un potere investigativo sine die, a differenza di quanto previsto per le indagini condotte dall’ufficio del pubblico ministero. 

Al riguardo, però, affiorano due interrogativi, che rivelano quel difetto di coordinamento cui si è fatto cenno: chi «può attribuire» al difensore la facoltà di svolgere indagini in ogni stato e grado del procedimento? I limiti imposti dall’art. 430 c.p.p. operano anche con riferimento alle indagini svolte — dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna — per promuovere un eventuale giudizio di revisione? 

6. I singoli atti di indagine difensiva

Il quadro normativo che si propone di inserire è abbastanza complesso.

In primo luogo, l’art. 391-bis comma 1 c.p.p. prevede che, salve le incompatibilità previste dall’articolo 197, comma 1, lett. c) e d), per assumere informazioni il difensore, il sostituto, gli investigatori privati autorizzati o i consulenti tecnici possono conferire con le persone in grado di riferire circostanze utili ai fini dell’attività investigativa.

L’art. 391-septies comma 1 c.p.p., poi, aggiunge che, quando effettuano un accesso per prendere visione dello stato dei luoghi e delle cose, per procedere alla loro descrizione o per eseguire rilievi tecnici, grafici, planimetrici o fotografici, il difensore, il sostituto e gli ausiliari indicati nell’articolo 391-bis possono redigere un verbale nel quale sono riportati la data e il luogo dell’accesso, le proprie generalità e quelle delle persone intervenute, la descrizione dello stato dei luoghi e delle cose e l’indicazione degli eventuali rilievi tecnici, grafici, planimetrici, fotografici o audiovisivi eseguiti, che fanno parte integrante dell’atto e sono allegati al medesimo. 

Ancora, l’art. 391-octies c.p.p., al comma 1, disciplina l’accesso a luoghi non pubblici, stabilendo che se è necessario accedere a luoghi privati o non aperti al pubblico e non vi è il consenso di chi ha l’attuale disponibilità, l’accesso, su richiesta del difensore, è autorizzato dal giudice per le indagini preliminari con decreto motivato che ne specifica le concrete modalità, e, al comma 3, avverte che non è consentito l’accesso ai luoghi di abitazione e loro appartenenze salvo che sia necessario accertare le tracce e gli altri effetti materiali del reato.

Infine, l’art. 4 del progetto propone di modificare l’art. 233 c.p.p., inserendo un comma 1-bis, per stabilire che il giudice, a richiesta del difensore, può autorizzare il consulente tecnico di una parte privata ad esaminare le cose sequestrate nel luogo in cui esse si trovano, ad intervenire alle ispezioni, ovvero ad esaminare l’oggetto delle ispezioni alle quali il consulente non è intervenuto, con la duplice specificazione che prima dell’esercizio dell’azione penale l’autorizzazione è disposta dal pubblico ministero a richiesta del difensore e che contro il decreto che respinge la richiesta il difensore può proporre opposizione al giudice, che provvede nelle forme di cui all’art. 127, e un comma 1-ter, a tenore del quale l’autorità giudiziaria impartisce le prescrizioni necessarie per la conservazione dello stato originario delle cose e dei luoghi e per il rispetto delle persone.

Riassumendo, al difensore sono consentite ulteriori attività finalizzate alla ricerca e alla individuazione delle fonti di prova e ulteriori attività dirette alla acquisizione degli elementi di prova.

In base alla legislazione vigente, nell’interesse della difesa possono essere compiute attività investigative atipiche come i pedinamenti, gli appostamenti, le ricerche documentali. 

È anche consentito il «colloquio investigativo» con la persona informata sui fatti, che è un colloquio preventivo che può essere promosso anche dall’investigatore privato o dal consulente tecnico e che serve a stabilire la rilevanza della fonte di prova; ad esso può seguire l’esame della persona, che, a differenza del colloquio, deve essere svolto dal difensore o da un suo sostituto. Pur se espressamente previsto dal disegno di legge in esame, esso non può essere considerato una novità assoluta, in quanto già ipotizzabile sulla base dell’attuale art. 38 delle disposizioni di attuazione.

Anche l’accesso ai luoghi aperti al pubblico (art. 391-septies c.p.p.) non costituisce una novità, ma viene solo disciplinato in materia più dettagliata, soprattutto con riferimento alle forme di documentazione).

È, invece, nuova la previsione di accesso ai luoghi privati o non aperti al pubblico (art. 391-octies c.p.p.). In tal caso, qualora non vi sia il consenso di chi ha la disponibilità dei luoghi, è necessaria l’autorizzazione del giudice.

Pure l’esame delle cose sequestrate e delle cose che hanno formato oggetto di ispezione da parte del consulente tecnico (art. 233 comma 1-bis c.p.p.) costituisce una facoltà nuova, perché, in base alle norme attualmente in vigore, il consulente tecnico può esaminare solo le cose che hanno formato oggetto di una perizia.

Originale, infine, è la previsione dell’esame delle cose sequestrate da parte del difensore (art. 366 c.p.p., così come modificato dall’art. 7 del disegno di legge).

Quanto agli atti diretti alla acquisizione degli elementi di prova, va segnalato che l’esame delle persone informate sui fatti o l’acquisizione di una loro dichiarazione scritta può riguardare anche persone detenute.

Si può procedere, poi, a rilievi ed accertamenti tecnici compiuti a seguito dell’accesso ai luoghi previsti dagli artt. 391-septies e 391-octies e si può inoltrare richiesta di documentazione alla pubblica amministrazione (art. 391-quinquies).

A differenza del magistrato del pubblico ministero, il difensore, nel corso dell’attività investigativa, non può compiere quegli atti che implicano l’esercizio di poteri coercitivi (art. 378 c.p.p.) o che comportano, comunque, una limitazione della libertà altrui, come le perquisizioni, le ispezioni, i sequestri, le intercettazioni di comunicazioni o di conversazioni, i rilievi dattiloscopici, fotografici e antropometrici, nonché ogni altro accertamento utile alla identificazione di persone (art. 349 c.p.p.).

Dubbi possono sorgere in relazione agli atti di indagine non espressamente disciplinati dal disegno di legge in esame: il «confronto» e la «individuazione di cose o di persone».

Malgrado il silenzio del legislatore, bisogna ritenere che il difensore (o il suo sostituto) possa procedere ad un confronto, sempre che vi sia, ovviamente, la disponibilità degli interessati.

Più problematica, invece, appare l’ipotesi di una individuazione disposta dal difensore, soprattutto se essa ha ad oggetto il riconoscimento di persone. È difficile credere, infatti, che la persona da riconoscere presti il suo consenso al compimento dell’atto. Inoltre, stante il divieto di formulare domande sulla attività investigativa svolta dal magistrato del pubblico ministero, bisogna escludere che il difensore possa informarsi sui risultati di individuazioni già compiute. Per quanto concerne la individuazione di cose o la c.d. individuazione «fotografica», non si può escludere a priori una iniziativa in tal senso del difensore, laddove quest’ultimo riesca ad ottenere la disponibilità dell’interessato al compimento dell’atto.

Un’ultima considerazione va fatta in ordine agli accertamenti tecnici, atteso che l’attività del consulente di parte risulta fortemente limitata nelle ipotesi in cui l’autorità giudiziaria, nell’autorizzare l’accesso ai luoghi o l’esame delle cose sequestrate, impone delle rigide prescrizioni per la conservazione dello stato originario delle cose o dei luoghi (art. 4 del disegno di legge). In questi casi, il consulente tecnico si vedrà preclusa la possibilità — ad esempio — di prelevare dei campioni e di procedere, autonomamente, al compimento degli accertamenti necessari (quelli, cioè, che il magistrato del pubblico ministero dispone a norma degli artt. 359 e 360 c.p.p.).

7. Le modalità di acquisizione degli elementi di prova

La «acquisizione» degli elementi di prova da parte del difensore — intesa come raccolta materiale del dato probatorio, senza alcun riferimento alle forme di documentazione dell’atto — può avvenire:

a) attraverso attività di natura tecnica (accertamenti e rilievi);

b) attraverso la richiesta di documenti;

c) attraverso l’assunzione di dichiarazioni — scritte o orali — da persone informate sui fatti.

Per quanto concerne i rilievi e gli accertamenti tecnici, il disegno di legge in esame non disciplina le concrete modalità di acquisizione degli elementi di prova (non poteva essere altrimenti, considerata la natura degli atti), ma si limita a prevedere la possibilità, per il giudice o il magistrato del pubblico ministero, di imporre dei limiti all’accesso ai luoghi o all’esame delle cose sequestrate (ad esempio il magistrato del pubblico ministero può ritardare, per un periodo non superiore a 30 gg., l’esame delle cose sequestrate da parte del difensore; il giudice, invece, può disporre che l’accesso in luoghi privati avvenga secondo determinate modalità).

La richiesta di documenti, invece, è espressamente disciplinata dall’art. 391-quinquies, secondo cui ai fini delle indagini difensive, il difensore può chiedere i documenti in possesso della pubblica amministrazione e di estrarre copia a sue spese. L’istanza deve essere rivolta all’amministrazione che ha formato il documento e lo detiene stabilmente. Il rifiuto da parte della pubblica amministrazione deve essere motivato. Il giudice, a richiesta di parte, previa esecuzione degli accertamenti necessari, ordina l’esibizione dei documenti non coperti da segreto professionale o da segreto di ufficio ovvero di Stato.

Anche l’assunzione di dichiarazioni da persone informate sui fatti viene disciplinata in maniera specifica dall’art. 391-ter, ove si prevede che il difensore o il sostituto possono sottoporre ad esame la persona in grado di riferire circostanze utili ai fini della attività investigativa ovvero chiedere alla stessa una dichiarazione scritta. La persona deve essere avvisata della qualità del richiedente e dello scopo del colloquio, della facoltà di non rispondere e di non rilasciare la dichiarazione, con avvertimento che in tal caso può essere disposta dal giudice l’audizione, dell’obbligo di dichiarare se sono sottoposte ad indagini o imputate nello stesso procedimento, in un procedimento connesso o per un reato collegato, e della conseguente facoltà di non rispondere, del divieto di rivelare le domande eventualmente formulate dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero e le risposte date e delle responsabilità penali conseguenti alla falsa o reticente dichiarazione.

Se si deve conferire con una persona sottoposta ad indagini o imputata nello stesso procedimento, in un procedimento connesso o per reato collegato, è dato avviso, almeno ventiquattro ore prima, al suo difensore.

Alle persone già sentite dalla polizia giudiziaria, dal pubblico ministero, dal difensore, dal sostituto non possono essere chieste informazioni sulle domande formulate e sulle risposte date o comunque sull’attività investigativa svolta.

Le informazioni assunte in violazione di una di queste prescrizioni non possono essere utilizzate. La violazione di tali disposizioni costituisce illecito disciplinare ed è comunicata dal giudice che procede all’organo titolare del potere disciplinare.

Per assumere informazioni da persona detenuta, il difensore deve munirsi di specifica autorizzazione del giudice che procede nei confronti della stessa, sentiti il suo difensore ed il pubblico ministero. Prima dell’esercizio dell’azione penale l’autorizzazione è data dal giudice per le indagini preliminari. Durante l’esecuzione della pena provvede il magistrato di sorveglianza.

All’assunzione di informazioni non possono assistere la persona sottoposta alle indagini, la persona offesa e le altre parti private.

Quando la persona in grado di riferire circostanze utili ai fini dell’attività investigativa abbia esercitato la facoltà di non rispondere e di non rilasciare la dichiarazione, il giudice, su richiesta del difensore, ne dispone l’audizione, fatta eccezione per le persone sottoposte ad indagini o imputate nello stesso procedimento, in un procedimento connesso o per un reato collegato.

Il difensore o il sostituto, nel corso dell’attività investigativa, interrompe l’esame della persona non imputata ovvero della persona non sottoposta ad indagini, qualora essa renda dichiarazioni dalle quali emergono indizi di reità a suo carico. Le precedenti dichiarazioni non possono essere utilizzate contro la persona che le ha rese. Se la persona doveva essere sentita sin dall’inizio in qualità di imputato o di persona sottoposta ad indagini, le sue dichiarazioni non possono essere utilizzate.

Si prevede pure l’inserimento di un art. 207-bis c.p.p. (art. 3 del disegno di legge), per fissare il divieto di assumere informazioni dal testimone.

È vietato, infatti, al pubblico ministero, alla polizia giudiziaria e al difensore assumere informazioni dalla persona indicata come testimone nella richiesta di incidente probatorio o nella lista depositata in cancelleria, in vista del dibattimento. Le informazioni assunte in violazione del divieto non possono essere utilizzate ed il loro contenuto non può essere riferito nel dibattimento.

Il divieto cessa dopo l’assunzione della testimonianza e nei casi in cui questa non sia ammessa o non abbia luogo.

Per quanto concerne la richiesta di documenti alla pubblica amministrazione, il nuovo art. 391-quinquies c.p.p. dovrebbe consentire di superare quell’ostacolo formale rappresentato dal fatto che il difensore, sebbene agisca per conto dell’indagato, non è un diretto «interessato» al procedimento amministrativo, per cui potrebbe vedersi opposto il diniego dell’ente pubblico al rilascio della documentazione richiesta.

Leggendo il complesso articolato di norme contenute nel nuovo art. 391-ter c.p.p., diventa difficile non pensare al povero cittadino che rischia di vedersi convocato, prima ancora di deporre in dibattimento, in ben quattro diversi sedi: davanti agli organi di polizia giudiziaria, al magistrato del pubblico ministero, al difensore e al giudice, talvolta con l’obbligo di rispondere, altre volte con la facoltà di riferire quanto conosce, altre volte ancora con l’impegno di tacere — allorquando il magistrato del pubblico ministero abbia imposto la «segretazione» — e, comunque, sempre sotto la minaccia di sanzioni penali. È facile immaginare il suo stupore nel sentirsi dire, dal difensore, che ha il dovere di contribuire all’accertamento dei fatti ma, nel contempo, ha la facoltà di non rispondere e di non dichiarare nulla. Altrettanto facile è prevedere un certo disorientamento del dichiarante nel vedersi negato dal difensore — comprensibilmente preoccupato di incorrere in un illecito penale — quell’aiuto che egli considera del tutto legittimo nella compilazione della dichiarazione scritta o nella risposta alle domande, per la messa a fuoco delle circostanze di maggior rilievo o per una espressione più chiara ed efficace del proprio pensiero. In situazioni simili, la fuga del cittadino da ogni forma di collaborazione con la giustizia — soprattutto quella fatta valere dal difensore dell’indagato — diventa una sorta di legittima difesa.

Come può, il difensore, sperare di ottenere delle informazioni utili da una persona alla quale si dovrà dire espressamente che ha la facoltà di non rispondere e che, ove intenda rilasciare delle dichiarazioni, ha l’obbligo di non rivelare il contenuto delle risposte date alla polizia giudiziaria o al magistrato del pubblico ministero? A ciò si aggiunga — come ulteriore deterrente — che la persona sottoposta ad esame deve essere avvisata delle responsabilità penali in cui può incorrere qualora sia reticente o renda false dichiarazioni (vi è il rischio di subire una condanna fino a quattro anni di reclusione).

È prevedibile che il difensore incontri ulteriori difficoltà nell’esaminare le persone indicate nell’art. 210 c.p.p. In tal caso, la posizione processuale della persona esaminata potrebbe essere ignota sia al difensore, sia al dichiarante stesso (saranno utilizzabili le dichiarazioni rese?). Inoltre, qualora il dichiarante riferisca di essere sottoposto ad indagini in un diverso procedimento, potrebbe risultare difficile, per il difensore, stabilire se vi sia connessione o collegamento probatorio tra i fatti in corso di accertamento e quelli contestati, in altro procedimento, alla persona sottoposta ad esame.

Malgrado la nuova disciplina in tema di assunzioni di informazioni sembri particolarmente esaustiva, sono ancora molti i problemi da risolvere, soprattutto sul piano pratico. In particolare, è lecito chiedersi se il difensore possa «esaminare» una persona che risieda o si trovi all’estero, non disponendo dello strumento della rogatoria. Si potrebbe pensare, in alternativa, alla richiesta di una dichiarazione scritta, anche se bisognerebbe poi verificare la valenza processuale di un documento autenticato all’estero, eventualmente con forme diverse da quelle previste dal nostro ordinamento giuridico.

Inoltre, ci si chiede se sia opportuno che il difensore si rechi presso il dichiarante o sia da privilegiare — salvo il caso di impedimento fisico — la più tradizionale convocazione presso lo studio legale; se sia lecito far precedere l’esame da un’attività «preparatoria», volta a convincere il teste della necessità di contribuire all’accertamento dei fatti; se sia doveroso, per il difensore, rimborsare il testimone delle spese sostenute, a prescindere dagli esiti del colloquio. La risposta a questi interrogativi va cercata, ovviamente, tra le regole deontologiche e la difficoltà di giungere a soluzioni certe dimostra quanto sia rischioso e delicato il nuovo compito affidato agli avvocati penalisti (sono evidenti, infatti, i rischi che si corrono pagando il teste o convincendolo a rendere dichiarazioni utili alla difesa).

Anche in ordine alla preclusione imposta dall’art. 207-bis c.p.p. si impone qualche chiarimento. La norma vieta di assumere informazioni dalle persone indicate come testimoni «nella richiesta di incidente probatorio o ai sensi dell’art. 422 o nella lista prevista dall’art. 468». Le ragioni del divieto sono evidenti: si vuole impedire che il testimone, prima di essere esaminato in contraddittorio, possa subire pressioni o condizionamenti. Se questa è la ratio della norma, bisogna ritenere che il divieto opera anche quando il testimone debba essere esaminato, in contraddittorio, su fatti connessi ma nell’ambito di un diverso procedimento penale. È la logica ad imporre tale soluzione interpretativa, malgrado la formulazione della norma sia piuttosto equivoca. A questo punto, però, ci si chiede come faccia il difensore dell’indagato a sapere che la persona informata sui fatti sia stata già indicata come testimone in un diverso procedimento penale. La circostanza, infatti, potrebbe essere ignota anche al diretto interessato, qualora quest’ultimo sia stato già «indicato» come testimone ma non sia stato ancora «citato» all’udienza fissata per assumere la testimonianza. 

8. La “parità di armi” tra difensore e magistrato del pubblico ministero 

Sebbene l’intento primario del legislatore sia quello di assicurare effettiva «parità di armi» nel corso delle indagini preliminari, le disposizioni che si intendono introdurre, in funzione di riforma dell’attuale assetto normativo, dimostrano chiaramente che anche nel prossimo futuro, con la introduzione della nuova legge, continuerà a sussistere un grave sbilanciamento di poteri tra accusa e difesa.

Per rendersi conto della “vanità” del legislatore, basta por mente ai seguenti dati normativi, di cui si propone l’introduzione.

L’art. 2 del disegno di legge propone di modificare l’art. 197 c.p.p., relativo alla incompatibilità con l’ufficio di testimone.

Si prevede, infatti, che non possano essere assunti come testimoni, tra gli altri, coloro che nel medesimo procedimento svolgono o hanno svolto le funzioni di giudice, pubblico ministero o loro ausiliario, «nonché coloro che hanno formato la documentazione degli atti o delle investigazioni difensive, in relazione agli atti compiuti ed al loro contenuto.

L’art. 7 del disegno di legge, poi, propone di sostituire l’art. 366 comma 2 c.p.p., con una nuova disposizione, tesa a prevedere che il pubblico ministero, con decreto motivato, possa disporre, per gravi motivi, che il deposito degli atti compiuti dallo stesso pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria, ai quali il difensore ha diritto di assistere, e l’esercizio della facoltà del difensore di esaminare le cose sequestrate nel luogo nel quale si trovano e, se si tratta di documenti, di estrarne copia, siano ritardati, senza pregiudizio di ogni altra attività del difensore, per non oltre trenta giorni. Contro il decreto del pubblico ministero la persona sottoposta ad indagini ed il difensore possono proporre opposizione al giudice, che provvede ai sensi dell’art. 127.

Ulteriori, gravi, limitazioni all’esercizio dell’attività difensiva sono poste dalle norme che dovrebbero sostituire l’attuale art. 38 delle disposizioni di attuazione, relative alla documentazione delle attività investigative del difensore, al potere di segretazione del pubblico ministero e al fascicolo del difensore.

 Il difensore o il sostituto possono sottoporre ad esame le persone in grado di riferire circostanze utili ai fini dell’attività investigativa ovvero chiedere loro una dichiarazione scritta, previo avviso alle medesime, tra l’altro, del divieto di rivelare le domande eventualmente formulate dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero e le risposte date.

Alle persone già sentite dalla polizia giudiziaria, dal pubblico ministero, dal difensore, dal sostituto non possono essere chieste informazioni sulle domande formulate e sulle risposte date o comunque sull’attività investigativa svolta.

Le informazioni assunte in violazione di una delle disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3 non possono essere utilizzate. La violazione di tali disposizioni costituisce illecito disciplinare ed è comunicata dal giudice che procede all’organo titolare del potere disciplinare (art. 391-ter).

Se sussistono specifiche esigenze attinenti all’attività di indagine, il pubblico ministero può disporre, con decreto motivato, l’obbligo del segreto sulle dichiarazioni rese a sé o alla polizia giudiziaria e vietare alle persone sentite di comunicare i fatti e le circostanze oggetto dell’indagine di cui hanno conoscenza. L’obbligo del segreto non può avere una durata superiore a un mese.

Il pubblico ministero, nel comunicare l’obbligo del segreto alle persone che hanno rilasciato le dichiarazioni, le avverte delle responsabilità penali conseguenti all’indebita rivelazione delle notizie (art. 391-sexies).

Nel corso delle indagini preliminari e nell’udienza preliminare, quando il giudice deve adottare una decisione con l’intervento della parte privata, il difensore può presentargli direttamente gli elementi di prova a favore del suo assistito.

Nel corso delle indagini preliminari, il difensore che abbia conoscenza di un procedimento penale può presentare gli elementi difensivi di cui al comma 1 direttamente al giudice, perché ne tenga conto anche nel caso in cui debba adottare una decisione per la quale non è previsto l’intervento della parte assistita.

La documentazione di cui ai commi 1 e 2, in originale o, se il difensore ne richiede la restituzione, in copia, è inserita nel fascicolo del difensore, che è formato e conservato presso l’ufficio del giudice per le indagini preliminari. Della documentazione il pubblico ministero può prendere visione ed estrarre copia prima che venga adottata una decisione su richiesta delle parti o con il loro intervento. Dopo la chiusura delle indagini preliminari, il fascicolo del difensore è conservato presso l’ufficio del pubblico ministero, unitamente al fascicolo degli atti di indagine.

Il difensore può, in ogni caso, presentare al pubblico ministero gli elementi di prova a favore del proprio assistito (art. 391-nonies).

In particolare:

a) le persone che hanno documentato l’attività investigativa compiuta dalla difesa sono incompatibili con l’ufficio di testimone, mentre lo stesso tipo di incompatibilità non è prevista per gli agenti e gli ufficiali di polizia giudiziaria (art. 195 comma 4, così come modificato dalla sentenza n. 24/92 della Corte costituzionale);

b) il magistrato del pubblico ministero può ritardare — per un periodo non superiore a trenta giorni — l’esercizio della facoltà, concessa al difensore, di esaminare le cose sequestrate e di prendere visione dei verbali dei c.d. atti «partecipati»;

c) nel corso della assunzione di informazioni, alla persona esaminata non possono essere chieste notizie sull’attività investigativa svolta da altri, con particolare riferimento alle domande formulate e alle risposte date; malgrado la previsione abbia una valenza generale, il divieto imposto potrebbe creare grosse difficoltà soprattutto al difensore, sia perché, di regola, le fonti di prova sono preventivamente escusse dagli organi inquirenti, sia perché risulta estremamente difficile fare delle previsioni sulla linea investigativa seguita dal magistrato del pubblico ministero; per il difensore, quindi, si moltiplicano i rischi di incorrere in responsabilità di natura disciplinare; 

d) il magistrato del pubblico ministero ha il potere di «segretare» le fonti di prova, vietando alle persone già sentite di comunicare ad altri i fatti e le circostanze di cui hanno conoscenza; sebbene tale divieto non possa avere una durata superiore ad un mese, è prevedibile che le persone tenute al segreto (soprattutto se si tratta di collaboranti di giustizia), nel timore di incorrere in responsabilità penali, si rifiutino sistematicamente di rendere dichiarazioni al difensore, anche quando il provvedimento adottato dal magistrato del pubblico ministero ha perso la sua efficacia;

e) nel corso delle indagini preliminari, il magistrato del pubblico ministero può sempre accedere al fascicolo del difensore, utilizzando gli atti in esso contenuti come fonte privilegiata di informazioni per il compimento di nuove attività investigative; infatti, se il difensore ha la necessità di presentare al giudice elementi di prova utili per la decisione da adottare, la relativa documentazione resta depositata in cancelleria ed il magistrato del pubblico ministero può visionarla ed estrarne copia, anche prima che venga adottato il provvedimento; la stessa possibilità, in corso di indagini, non è concessa al difensore (si pensi, ad esempio, agli atti depositati dal magistrato del pubblico ministero unitamente alla richiesta di applicazione di una misura cautelare: la difesa non può accedere a tali atti prima della decisione del giudice, così come non può accedervi dopo l’adozione del provvedimento, se la richiesta viene rigettata ed il magistrato del pubblico ministero non propone appello).

f) Nell’affrontare il problema dei rapporti tra il difensore ed il magistrato del pubblico ministero nel corso delle indagini, non si può prescindere dalla previsione contenuta nell’art. 358 c.p.p. Il rischio concreto è che il magistrato del pubblico ministero, in considerazione dell’avvenuto ampliamento dei poteri investigativi della difesa, non si senta più in dovere di compiere accertamenti anche su fatti e circostanze favorevoli all’indagato e, di conseguenza, si senta legittimato a disattendere qualsiasi richiesta avanzata in tal senso dal difensore (art. 367 c.p.p.).

9. I “rischi” di rilevanza penale dell’attività investigativa del difensore. - Uno degli aspetti più inquietanti del disegno di legge in esame è costituito dalla introduzione di nuove norme incriminatrici, poste a tutela di un corretto svolgimento delle indagini. Ma, così facendo, si corre il rischio che il processo, concepito come strumento di accertamento di reati, diventi sede non secondaria per la commissione di altri reati.

L’art. 15 del disegno di legge esclude per il difensore e gli altri soggetti legittimati al compimento di indagini difensive l’obbligo di denunciare un reato del quale abbiano avuto notizia nel corso delle attività da loro svolte.

Ma, il successivo art. 16 intende introdurre un art. 371-ter per prevedere il reato di false dichiarazioni al difensore a carico di chiunque, non essendosi avvalso della facoltà di cui all’art. 391-ter, comma 1, lett. b) e c), del codice di procedura penale, rende dichiarazioni false ovvero nelle medesime dichiarazioni tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti sui quali viene sentito, è punito con la reclusione fino a quattro anni e stabilire che il procedimento penale resta sospeso fino a quando nel procedimento nel corso del quale sono state assunte le dichiarazioni sia pronunciata sentenza di primo grado ovvero il procedimento sia stato anteriormente definito con archiviazione o con sentenza di non luogo a procedere.

Ancora, l’art. 17 propone di aggiungere un art. 379-bis c.p., per stabilire che, salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque rivela indebitamente notizie segrete concernenti un procedimento penale, da lui apprese per aver partecipato o assistito ad un atto del procedimento stesso, è punito con la reclusione fino a un anno. La stessa pena si applica alla persona che, dopo aver rilasciato dichiarazioni nel corso delle indagini preliminari, non osserva l’obbligo del segreto imposto dal pubblico ministero».

È una prospettiva poco rassicurante.

Il difensore, nell’esercizio dell’attività investigativa, può incorrere nei reati di:

a) favoreggiamento personale (art. 378 c.p.);

b) subornazione del teste (qualora, ad esempio, l’eventuale rimborso spese riconosciuto al testimone venga considerato il «prezzo» per ottenere dichiarazioni favorevoli all’indagato) (art. 377 c.p.);

c) frode processuale (se viene modificato, artificiosamente, lo stato delle cose e dei luoghi sottoposti a sequestro, nel corso dell’esame consentito al difensore) (art. 374 c.p.);

d) false dichiarazioni o attestazioni in atti destinati all’autorità giudiziaria (art. 374-bis c.p.);

e) rivelazione di segreti inerenti a un procedimento penale (art. 379-bis c.p.);

f) trattamento illecito di dati personali (va ricordato, infatti, che l’autorizzazione generale concessa dal Garante riguarda solo i dati relativi allo stato di salute e alla vita sessuale; in ogni altro caso, è necessario il consenso dell’interessato o un’autorizzazione specifica dello stesso Garante) (art. 35 legge n. 675/96);

g) interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis c.p.);

h) patrocinio o consulenza infedele (considerato che, sul piano deontologico, l’attività investigativa del difensore non costituisce una «facoltà», ma un «dovere» professionale) (artt. 380 e 381 c.p.);

i) millantato credito del patrocinatore (qualora, ad esempio, il difensore riceve dal suo cliente del denaro o altra utilità, col pretesto di dover «remunerare» il consulente tecnico affinché svolga accertamenti favorevoli) (art. 382 c.p.).

Nelle ipotesi appena indicate, il difensore non può addurre la esistenza di una causa di giustificazione: da un lato, infatti, lo svolgimento dell’attività investigativa integra l’adempimento di un «dovere» professionale e non giuridico; dall’altro lato, malgrado l’indagine difensiva debba essere considerata, sul piano processuale, una «facoltà legittima», la commissione di un reato dimostra, di per sé, il superamento dei limiti imposti dal legislatore per l’esercizio di tale facoltà.

Va esclusa, invece, per espressa previsione legislativa, la possibilità di configurare, in capo al difensore, il delitto di «omessa denuncia di reato da parte di un pubblico ufficiale» (v. art. 15 del disegno di legge).

Per quanto concerne, infine, la persona informata sui fatti, essa può incorrere nei reati di:

a) false o reticenti informazioni al magistrato del pubblico ministero o alla polizia giudiziaria (art. 371-bis c.p.);

b) false o reticenti informazioni al difensore (art. 371-ter c.p.: tale ipotesi di reato è subordinata al fatto che la persona esaminata non si sia avvalsa della facoltà di non rispondere);

c) rivelazione di segreti inerenti a un procedimento penale (art. 379-bis c.p.).

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Commento di Antonio Giuditta

Laureato in giurisprudenza

Dipartimento di Scienze Giuridiche – Università degli Studi di Salerno

 

Le indagini difensive rappresentano uno degli strumenti più significativi per garantire il diritto di difesa e la parità di armi nel processo penale. Introdotte con la legge n. 397 del 2000, esse offrono al difensore la possibilità di raccogliere elementi di prova a favore del proprio assistito, sia durante il procedimento che, in determinate circostanze, prima dell’instaurazione formale dello stesso. Questa riforma ha segnato un passo importante verso l’equilibrio tra accusa e difesa, in linea con i principi sanciti dagli articoli 24 e 111 della Costituzione italiana e dall’articolo 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

Il testo del Professore Andrea Antonio Dalia analizza le proposte legislative nel 1998 che intendevano introdurre il Titolo VI-bis nel codice di procedura penale. Una delle principali novità prevedeva la possibilità per il difensore di svolgere indagini preventive già prima dell’instaurazione formale di un procedimento penale. Questo strumento avrebbe consentito di raccogliere elementi di prova a favore dell’assistito in previsione di un’eventuale accusa, ampliando significativamente il raggio d’azione della difesa. Tuttavia, l'autore sottolinea i rischi connessi a questa attività, tra cui il pericolo di interferenza con le indagini del pubblico ministero e la violazione della privacy. 

Un’innovazione cruciale, prospettata nel progetto di riforma del 1998, è la possibilità per il difensore di svolgere indagini preventive. Tali indagini, disciplinate dall’art. 391-decies c.p.p., avrebbero consentito al difensore di attivarsi già al momento dell’incarico professionale, prima che venga formalmente avviato un procedimento penale. Ciò rappresentava un inedito rispetto alla prassi tradizionale, che limitava le attività difensive alle fasi successive all’apertura del procedimento.

Il Professore Dalia evidenzia, tuttavia, le criticità legate alla figura dell’investigatore privato come l’assenza di una regolamentazione chiara e dettagliata sul funzionamento dell’istituto, come un albo professionale o un codice deontologico, fonte di possibili abusi. Inoltre, le spese investigative non sono coperte dal gratuito patrocinio, generando una disparità tra imputati.

Infine, l’autore riflette sui rischi penali connessi all’attività investigativa del difensore, che può incorrere in reati come favoreggiamento, subornazione di testimoni e violazione della privacy. Questo rende necessario un inquadramento chiaro delle responsabilità e delle garanzie per chi opera nell’ambito delle indagini difensive.

Il testo si conclude richiamando l'importanza di una regolamentazione più equilibrata e completa per garantire l’effettività del diritto di difesa senza compromettere altri principi fondamentali, come l’equità del processo e la tutela dei diritti individuali.

Le indagini difensive sono state successivamente introdotte nel sistema processuale italiano dalla legge n. 397 del 7 dicembre 2000, che ha profondamente innovato la struttura del processo penale, ridefinendo il tradizionale ruolo passivo della difesa nella fase investigativa. Prima di questa riforma, il difensore dell’imputato si trovava in una posizione di netto svantaggio rispetto al pubblico ministero, il quale aveva l’esclusivo controllo della fase preliminare di raccolta delle prove.

L’avvento del nuovo codice di procedura penale del 1988 ha segnato una transizione verso un sistema accusatorio che mira a una netta separazione tra la funzione di accusa e quella di giudizio. Tuttavia, nonostante la riforma del 1988, la difesa continuava a dipendere dall’operato del pubblico ministero, senza la possibilità di svolgere autonomamente attività investigativa. L’intento del legislatore del 2000 era quello di dare piena attuazione al dettato costituzione nel processo penale, alla luce dell’allora recente approvazione della legge costituzionale n. 2 del 1999, con la quale si è voluto elevare esplicitamente a rango costituzionale i principi del giusto processo. L’art. 111 Cost., nella sua attuale formulazione, presenta, tra le varie novità, il riconoscimento di una serie di garanzie e diritti a lungo trascurati e negati nella storia processuale penale. È proprio sul diritto di difesa, finalmente con una sua patente di costituzionalità, che il “giusto processo” vede la sua massima realizzazione, poiché permette l’esercizio del diritto più desiderato, ossia quello di potersi tutelare con ogni mezzo necessario.

La legge del 2000 ha rivoluzionato il processo penale riconoscendo alla difesa un diritto autonomo di investigazione e di acquisizione di elementi utili a confutare le prove dell'accusa e a strutturare una strategia difensiva articolata e solida. La ratio alla base dell’intervento normativo risiede nella finalità di equiparare gli strumenti processuali a disposizione del difensore rispetto al monopolio del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale, così da parificare lo squilibrio di poteri tra le due figure a danno dell'imputato. Il legislatore ha, così, sancito il superamento dell’abrogato art. 38 disp. att. c.p.p., che si limitava a riconoscere una generica facoltà di compiere indagini per rintracciare e acquisire elementi probatori favorevoli all’assistito, consentendo l’effettivo esercizio del diritto alla prova ex art. 190 c.p.p. È stato delineato, dunque, un chiaro parallelismo tra l’attività investigativa del difensore e quella istituzionalmente attribuita al pubblico ministero, attribuendo alla figura del difensore lo status di soggetto attivo delle indagini.

L'attività difensiva conserva alcune peculiarità che la distinguono in modo netto dall’attività pubblicistica del pubblico ministero. Si tratta di un’attività facoltativa, atteso che la decisione di compiere indagini è riservata al difensore sulla base di una valutazione di opportunità al fine del miglior esercizio del diritto di difesa della persona assistita. Sul punto differisce dall'attività del pubblico ministero, in quanto il carattere consensuale dell'attività emerge con evidenza: diversamente dal pubblico ministero, titolare di poteri coercitivi subordinati al controllo giudiziario, il difensore deve necessariamente ottenere il consenso dei soggetti interessati per svolgere atti che potrebbero interferire con i loro diritti fondamentali. Inoltre, non essendo conferita al difensore la titolarità di poteri coattivi, qualora il compimento di un atto di indagine possa ledere o porre in pericolo i diritti di libertà di determinati soggetti, diventa necessaria l’adesione dei destinatari degli stessi.

Per quanto riguarda gli strumenti investigativi disponibili, il legislatore non ha introdotto un elenco tassativo, garantendo al difensore una significativa libertà operativa. Infatti, per il compimento di questi atti ritroviamo un elemento comune tra attività del pubblico ministero e del difensore, in quanto non è ravvisabile alcun elemento di differenziazione rispetto alla disciplina dell'indagine pubblica, non essendo rinvenibile un "numero chiuso" di atti investigativi difensivi. Tuttavia, parte della dottrina ritiene che il silenzio del legislatore potrebbe fondare una tesi restrittiva volta ad enucleare, invece, un principio di tipicità sulla base di una interpretazione letterale e formale del rinvio, operato dall'art. 327-bis c.p.p. alle forme previste nel titolo VI-bis del libro V. L’interpretazione restrittiva originerebbe in una lettura semplicistica sul piano dell’utilizzazione processuale delle risultanze investigative, rischiando così di compromettere l’utilizzabilità delle prove raccolte attraverso modalità atipiche, con possibili ripercussioni sulla tutela dell’assistito e sull'equilibrio processuale.

In questa prospettiva, la legge n. 397 del 2000 si fonda sull’intento dichiaratamente compensativo di sopperire all’asimmetria tra le posizioni delle parti, attraverso la definizione di precisi protocolli per le fasi di raccolta e di trasformazione in atti degli elementi ottenuti nel corso delle indagini. L’odierna disciplina intende, così, assicurare alle risultanze dell’investigazione difensiva modalità di utilizzazione similari, se non simmetriche, a quelle istituzionalmente e tradizionalmente proprie degli atti e delle operazioni, unilateralmente formate, dalla pubblica accusa.

La vigente disciplina, oltre a scandire le modalità e le tempistiche secondo le quali il difensore, se lo ritiene funzionale ed opportuno, è ammesso a depositare la documentazione prodotta in sede di indagine direttamente al giudice, regola le modalità di utilizzazione della stessa nello scandire delle fasi processuali, compreso il dibattimento, laddove, attraverso la disciplina delle letture e delle contestazioni, i risultati dell’investigazione privata sono ora suscettibili di assumere pieno valore probatorio e di essere, dunque, poste dal giudice a fondamento della decisione sulla responsabilità dell’imputato, anche se consentito solo in ipotesi specifiche e circoscritte previste dalla legge.

Per quanto riguarda la rilevanza procedimentale dei rispettivi atti di indagine è, dunque, possibile profilare, tra le posizioni di accusa e difesa, una corrispondenza quasi perfetta. Il legislatore ha tentato di ottenere tale obiettivo anche sul piano, differente ma strettamente connesso, delle modalità di svolgimento dell’indagine, da un lato, consentendo al difensore di formare atti processualmente utilizzabili dal giudice nel fondare la propria decisione, dall’altro, provando a garantire, anche attraverso il potenziamento delle garanzie penali connesse all’attività investigativa difensiva, l’autenticità degli stessi. A differenza del pubblico ministero, che è tenuto a documentare le indagini svolte ed a trasmetterne tutti i relativi atti al gip, il difensore, invece, non ha un obbligo di trasmettere le risultanze della propria investigazione, ma si tratta di una mera facoltà di decidere se procedere o meno alla documentazione degli elementi rinvenuti in sede di indagine, così da poter orientare discrezionalmente l’utilizzazione degli atti eventualmente formati. La riforma in esame ha riconosciuto al difensore un potere discrezionale di selezionare il materiale probatorio raccolto, con ciò concretizzandosi nella possibilità di decidere se, in che misura e con quali modalità temporali presentare le risultanze delle proprie indagini nel processo.

L’istituto delle investigazioni difensive, nato come strumento essenziale per garantire la parità tra accusa e difesa nel processo penale, è stato oggetto di un’importante evoluzione normativa e giurisprudenziale. L’intervento del legislatore e l’elaborazione della giurisprudenza hanno tentato di definire i confini e le modalità di esercizio di tali facoltà, bilanciando le esigenze di accertamento con la tutela dei diritti fondamentali dell’imputato.

L’evoluzione della normativa in tema di indagini difensive successivamente alla riforma del 2000 è stata frammentata e sporadica, invero parte della dottrina e dell’avvocatura lamentano la precarietà di tale disciplina. La prassi applicativa e il dibattito dottrinale e giurisprudenziale hanno evidenziato numerose criticità della disciplina. Senza dubbio, un primo aspetto problematico riguarda l’asimmetria sostanziale tra le prerogative dell’accusa e quelle riconosciute alla difesa, atteso che al difensore non è attribuito alcun potere coercitivo per la raccolta delle prove, rendendo di fatto difficoltoso ottenere la collaborazione di terzi, specie in contesti problematici e conflittuali, come testimoniato dalla previsione dell’art. 391-bis c.p.p. che obbliga il difensore a ricorrere all’autorità giudiziaria, nel caso in cui il potenziale testimone si rifiuti.

Sul piano procedurale, una delle principali criticità risiede nell’utilizzabilità delle risultanze investigative, considerando che la possibilità di introdurre gli elementi frutto delle investigazioni in dibattimento è soggetta a condizioni stringenti, quali la sopravvenuta irreperibilità del teste o la necessità di contestazioni. Questo approccio restrittivo, seppur fondato sulla necessità di garantire l’immediatezza e l’oralità del processo, depotenzia il valore probatorio degli atti difensivi, relegandoli spesso a strumenti accessori ed eventuali.  Sul piano sanzionatorio, inoltre, è stato evidenziato che, nonostante la previsione di apposite sanzioni, le difficoltà applicative sono significative. D’altronde, frequentemente le violazioni delle modalità procedurali non vengono tempestivamente rilevate, con ciò minando la fiducia nel sistema di giustizia e determinando incertezze sul funzionamento delle investigazioni difensive. 

Infine, emerge una disomogeneità interpretativa tra gli uffici giudiziari, tale per cui la mancanza di linee guida uniformemente applicate ha condotto a prassi divergenti e contrastanti, specialmente in materia di ammissione e valutazione. 

Tuttavia, tra le innovazioni normative in materia merita particolare attenzione la recentissima approvazione della Legge n. 114 del 2024 che, tra le varie modificazioni, appresta una maggiore tutela alla segretezza nel rapporto tra difensore e assistito tramite l’introduzione nell’art. 103 c.p.p. di due nuovi commi: 

6-bis. È parimenti vietata l'acquisizione di ogni forma di comunicazione, anche diversa dalla corrispondenza, intercorsa tra l'imputato e il proprio difensore, salvo che l'autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato.

6-ter. L'autorità giudiziaria o gli organi ausiliari delegati interrompono immediatamente le operazioni di intercettazione quando risulta che la conversazione o la comunicazione rientra tra quelle vietate”.

L'esigenza di un rafforzamento delle garanzie nasce dalla necessità di creare uno spazio sicuro che consenta il libero svolgimento dell’esercizio del diritto di difesa attraverso la definizione di ambiti circoscritti di utilizzo dello strumento delle intercettazioni, il cui ricorso è stato progressivamente ampliato dalle interpretazioni giurisprudenziali. La previsione di un divieto assoluto di “acquisizione di ogni forma di comunicazione tra imputato e il proprio difensore” intende correggere quelle interpretazioni che legittimano l’utilizzazione delle risultanze probatorie della intercettazione di conversazioni di natura confidenziale tra avvocato e assistito, nonché di quei colloqui che, nella fase della successiva valutazione dopo l’ascolto, il giudice ritenga estranee al mandato difensivo.

L’intento del legislatore è di dare attuazione e garantire la libertà fra difensore ed assistito nelle proprie conversazioni sia attraverso la previsione sia di una sanzione di inutilizzabilità della prova nata in violazione di legge, sia preventivamente obbligando l’Autorità Giudiziaria ad interrompere immediatamente l’intercettazione quando abbia ad oggetto i colloqui tra difensore e assistito. La legge, tuttavia, consente l’acquisizione processuale di tale prova solo qualora si tratti di “corpo del reato”. Inoltre, i primi commentatori hanno evidenziato che l’espresso riferimento della legge ai colloqui tra “difensore e imputato” crei un vuoto normativo tale da consentire le intercettazioni nella fase delle indagini preliminari. Contrariamente, il legislatore avrebbe dovuto adoperare il termine “indagato” o il più generico “assistito”, così da dissipare ogni dubbio sull’ingerenza dell’Autorità Giudiziaria. È chiaro l’intento del legislatore di evitare l’introduzione di un divieto assoluto e generalizzato così da non pregiudicare ulteriormente l’attività di indagine durante le indagini preliminari. 

L’innovazione legislativa si ispira alla linea interpretativa tracciata dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Caso Laurent vs Francia, 24 maggio 2018 e caso Saber vs Norvegia del 17 dicembre 2020), che ha sancito come elemento fondamentale per la piena attuazione dell’art.6 della CEDU e del principio del giusto processo la tutela del rapporto tra accusato e difensore. Gli Stati, al fine di adeguare il proprio ordinamento alle pronunce della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, devono predisporre una legislazione idonea a tutelare il pieno esercizio del diritto di difesa, che si attua nella possibilità per l’accusato di interagire e comunicare con il proprio difensore per definire ed articolare la strategia difensiva, in condizioni di assoluta riservatezza, senza il rischio di essere intercettati. Sulla base dei principi della giurisprudenza della Corte, il giudizio ex post di valutazione dell’utilizzabilità della conversazione precedentemente ascoltate comprometterebbe il diritto di difesa dell’accusato e pregiudicherebbe la parità delle armi tra pubblica accusa e difesa.

Sul versante giurisprudenziale, invece, il quadro evolutivo è maggiormente complesso attesi i vari livelli di intervento delle Corti superiori, sempre alla ricerca di un bilanciamento tra il garantire la speditezza dell’attività del pubblico ministero e la tutela del diritto di difesa dell’imputato.

La Corte Costituzionale italiana ha affrontato in più occasioni il tema delle investigazioni difensive, orientandosi in modo da bilanciare il diritto di difesa dell’imputato con i principi fondamentali del giusto processo, sanciti dall'art. 111 della Costituzione, e con le esigenze della parte pubblica.

L’indirizzo giurisprudenziale costante si focalizza sulla valorizzazione del principio di parità delle armi, garantendo alla difesa la possibilità di raccogliere autonomamente elementi probatori, come avviene per il pubblico ministero, con l’obiettivo di assicurare un contraddittorio equo e una decisione imparziale. Le investigazioni difensive, da non considerare come meri accessori della difesa, sono, sulla base della giurisprudenza costituzionale, strumenti essenziali per la protezione dei diritti dell’imputato, il quale ha il diritto di accedere pienamente alle fonti di prova e di utilizzare strumenti investigativi autonomi per una difesa completa. 

Tuttavia, il diritto di condurre investigazioni autonome non è illimitato, come ha sottolineato la Corte, visto che tale potere deve essere esercitato nel pieno rispetto delle regole processuali senza ledere i diritti di terzi o interferire con il regolare svolgimento del processo. È stato, inoltre, sottolineato che le investigazioni difensive non possono mai sostituire il contraddittorio in aula, ma devono integrarlo, e il giudice ha il dovere di vigilare affinché le prove raccolte dalla difesa siano valutate con la stessa ponderazione paragonabile a quella riservata alle risultanze della pubblica accusa, al fine di evitare uno sbilanciamento probatorio a favore dell'accusa. Da parte del giudice, quest’ultimo non può rigettare immotivatamente le risultanze delle investigazioni difensive, ma deve giustificarne in modo adeguato l’eventuale irrilevanza o inammissibilità, così da non compromettere il principio del giusto processo.

Dall’approvazione della legge del 2000, anche la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha riconosciuto l’importanza di garantire un’effettiva parità tra accusa e difesa, sottolineando come gli elementi probatori raccolti dalla difesa non possano essere considerati meri atti secondari rispetto a quelli dell’accusa, ma debbano essere valutati con la medesima attenzione e dignità probatoria. Un primo snodo fondamentale nell’evoluzione della giurisprudenza in materia si è avuto con la sentenza, sezione II penale, del 30 gennaio 2002, n. 13552, con la quale il Supremo Collegio ha statuito l’obbligo del giudice del merito di fornire un’adeguata motivazione qualora intenda disattendere le prove difensive, giustificando le ragioni per cui le intercettazioni non sono ritenute pertinenti o ammissibili. Questa pronuncia ha evidenziato come il giudizio abbreviato non deve mai tradursi in una valutazione superficiale degli atti, ma l’analisi deve essere sempre condotta con un approccio rigoroso e completo, rispettando il principio di parità delle armi. 

Successivamente, la giurisprudenza ha ulteriormente chiarito il regime delle nullità derivanti dalla mancata valutazione degli atti difensivi. In particolare, la sentenza della Corte di Cassazione, Sezione III, del 26 ottobre 2022, n. 45542, ha esaminato una questione sulla nullità del giudizio abbreviato quando gli atti delle indagini difensive non vengano allegati correttamente al fascicolo. In particolare, la Corte ha stabilito che l'omessa valutazione degli atti difensivi, prodotti prima della richiesta di giudizio abbreviato “semplice”, determina una nullità di natura generale a regime intermedio, che vizia la sentenza di primo grado. La violazione di tale diritto di difesa non solo compromette la legittimità della sentenza finale, ma influenza negativamente l'intero procedimento, incorrendo in una forma di giustizia sommaria. La Corte, inoltre, ha evidenziato che, qualora venga impugnata una sentenza viziata da tale nullità, il giudice dell’appello deve necessariamente esaminare tutti gli atti difensivi non considerati dal giudice di prime cure e successivamente ha l’obbligo di motivare adeguatamente la sua decisione, nonostante confermi la sentenza impugnata. Questo principio di diritto sottolinea la necessità che il diritto di difesa deve essere garantito in ogni fase del processo, al fine di evitare che il giudizio abbreviato sacrifichi eccessivamente la difesa dell'imputato. ​

La progressiva evoluzione della giurisprudenza di legittimità in relazione alle garanzie delle indagini difensive ha inteso rafforzare la parità effettiva tra accusa e difesa. Secondo costante orientamento, il diritto di difesa non deve esaurirsi in un aspetto meramente formale, ma deve tradursi in una parità sostanziale che consenta alla difesa di operare in condizioni di equilibrio rispetto all’accusa.

Quando il giudice riceve gli elementi di prova raccolti dalla difesa, questi devono essere valutati alla stregua di qualsiasi altro elemento probatorio acquisito nel procedimento. La Corte di Cassazione ha, infatti, affermato che la valutazione delle prove raccolte dalla difesa, ai sensi dell'art. 391-bis c.p.p., deve avvenire unitamente a tutte le altre risultanze probatorie, senza limitarsi a un’acquisizione formale. Qualora il giudice non intenda utilizzare tali prove, allora sarà tenuto a motivare adeguatamente le ragioni della sua scelta. È quanto ribadito in diverse pronunce, nelle quali la Corte ha annullato sentenze di condanna proprio per l’omessa valutazione delle prove presentate dalla difesa, ritenendo tali omissioni violative del diritto di difesa e dell’obbligo di garantire una valutazione equa di tutte le risultanze processuali.

Il diritto di difesa rappresenta uno dei pilastri fondamentali del giusto processo, garantito dall’articolo 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e dall’articolo 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Sebbene la CGUE non si sia espressa espressamente sulle indagini difensive nell’accezione italiana, la giurisprudenza in materia ha incidentalmente statuito sulla naturale consequenzialità della tutela delle indagini difensive per dare piena tutela all’imputato.

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha costantemente evidenziato che il diritto dell’imputato di accedere alle prove è essenziale non solo per controbattere le accuse, ma anche per avvalersi di elementi favorevoli emersi attraverso investigazioni difensive, che non devono essere ostacolate da interpretazioni restrittive o da barriere burocratiche. Ad esempio, nella sentenza Kadi c. Consiglio e Commissione Europea, nonostante la natura amministrativa della questione, ovverosia l’inserimento di un individuo in una lista di soggetti legati al terrorismo, la Corte ha evidenziato la necessità di garantire un accesso completo e trasparente alle informazioni rilevanti per preparare una difesa efficace ed ha affermato che i principi di equità processuale sono stati estendibili analogamente al processo penale.

La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, per parte sua, ha più volte ribadito che il diritto alla riservatezza della corrispondenza tra avvocato e cliente è una garanzia fondamentale, strettamente connessa con il diritto alla difesa. Tale principio è stato riaffermato nella sentenza "Laurent contro Francia" (2019), nella quale la Corte ha evidenziato che il sequestro e l'apertura della corrispondenza tra un avvocato e il suo cliente, anche quando questa avviene fuori dallo studio legale, costituiscono una chiara violazione dell'articolo 8. Nella fattispecie scrutinata dalla Corte, l'avvocato aveva consegnato un foglietto di carta al suo cliente, detenuto sotto scorta, ma l'agente di polizia aveva sequestrato il documento senza congrua motivazione. La Corte ha sottolineato che, sebbene l'atto potesse sembrare irrilevante, in realtà la corrispondenza tra avvocato e cliente deve essere garantita in quanto tale, a prescindere dal formato o dal contenuto del messaggio, e che l’ingerenza nelle comunicazioni tra avvocato e assistito può essere giustificata solo in ipotesi eccezionali, come il fondato sospetto di attività illecite, ma non può mai avvenire in via automatica. 

Inoltre, la Corte ha ribadito che la confidenzialità delle comunicazioni tra avvocato e cliente si estende oltre all’intero procedimento penale, ma anche alla consulenza legale e alle comunicazioni non strettamente collegate a quest’ultimo. L’ampliamento della tutela evidenzia la centralità della libertà di comunicazione, alla base del diritto a una difesa effettiva.

Nel caso "Saber contro Norvegia" (2020), la Corte EDU ha ulteriormente consolidato il proprio orientamento ribadendo che la protezione delle comunicazioni tra avvocato e cliente deve essere sempre tutelata, in particolare in relazione alle perquisizioni informatiche che coinvolgono, come nel caso di specie, dispositivi contenenti informazioni scambiate con avvocati. Questo caso ha evidenziato la necessità di garantire l’inviolabilità delle comunicazioni tra il difensore e l’assistito e di una regolamentazione sull’accesso e sull’utilizzazione tramite normative chiare e specifiche che impediscano ingerenze ingiustificate da parte delle autorità.

Il principio di riservatezza e segretezza delle comunicazioni tra avvocato e cliente è, secondo la giurisprudenza della Corte, una pietra angolare della difesa in un processo giusto e della protezione dei diritti individuali. Tuttavia, la sua effettiva applicazione richiede un costante adeguamento delle leggi nazionali alle indicazioni della Corte di Strasburgo e una vigile attenzione alle eventuali violazioni che potrebbero compromettere il diritto alla difesa e la fiducia tra il cliente e il suo legale.

Le indagini difensive rappresentano uno strumento fondamentale nel garantire la piena attuazione del principio del giusto processo e del diritto di difesa sancito dall’articolo 24 della Costituzione. Tale istituto rappresenta un’evoluzione significativa verso un maggiore equilibrio tra la necessità di accertamento della verità processuale e la protezione dei diritti dell’imputato al fine di costruire un sistema processuale effettivamente equo e bilanciato.

Le indagini difensive hanno segnato una svolta significativa nell'ordinamento giuridico italiano, traducendo in norme procedurali il principio costituzionale dell’inviolabilità del diritto di difesa in ogni stadio e grado del procedimento. Nel quadro normativo e giurisprudenziale delineato, il difensore ha assunto un ruolo attivo nella ricerca delle prove utili a confutare le accuse, esercitando un potere investigativo che coesiste e confligge con quello del pubblico ministero. Nonostante le importanti innovazioni apportate, da ultimo la recente riforma Cartabia, che ha ampliato il raggio d'azione del difensore, riconoscendogli maggiore autonomia nello svolgimento di attività investigative, tuttavia permangono criticità strutturali che rischiano di compromettere l'effettività di tale istituto. Tra le principali problematiche i limiti temporali imposti per la conclusione delle indagini preliminari, le restrizioni nell'accesso ad atti riservati e la necessità di autorizzazioni giudiziarie per taluni atti investigativi costituiscono vincoli operativi, che, sebbene giustificati da ragioni di tutela dell’istruttoria e del segreto investigativo, possono ostacolare la costruzione di una difesa solida, aggravando l'asimmetria tra accusa e difesa. 

Meritano, infine, attenzione due criticità del sistema vigente che aggravano il faticoso cammino per la parità delle parti processuali, da un lato la disparità di risorse tra pubblica accusa e difesa e dall’altro la mancata previsione di poteri coercitivi. 

Sul primo versante, mentre il pubblico ministero può contare su un vasto apparato investigativo, inclusi organi di polizia giudiziaria, consulenti tecnici e risorse tecnologiche avanzate, il difensore, specialmente nei casi di patrocinio a spese dello Stato, è spesso privo dei mezzi adeguati a svolgere indagini autonome. La riforma Cartabia ha tentato di sopperire a queste disparità, ma invano la prassi evidenzia come tali misure non siano sufficienti a garantire una reale parità delle armi processuali.

Sul piano normativo, l’assenza di poteri coercitivi in capo al difensore costituisce un’opzione legislativa chiara diretta a preservare il delicato equilibrio tra le parti processuali. Il difensore non può obbligare terzi a rilasciare dichiarazioni o a consegnare documenti, dovendo necessariamente ricorrere al giudice per ottenere l’autorizzazione all’acquisizione coattiva di prove. Questo limite, se da un lato tutela i diritti fondamentali dei soggetti coinvolti, dall’altro accentua la dipendenza del difensore dall’autorità giudiziaria, rallentando potenzialmente lo svolgimento delle indagini.

In una prospettiva de iure condendo, sono auspicabili alcune modifiche dirette a potenziare l'efficacia delle indagini difensive, senza alterare il principio della parità delle parti. Tra queste, si potrebbe prevedere l'estensione dell'accesso a strumenti tecnologici avanzati anche per la difesa, garantendo standard di qualità uniformi attraverso la formazione e l’accreditamento di investigatori privati. Inoltre, un maggior finanziamento pubblico per le indagini difensive potrebbe contribuire a ridurre le disparità economiche tra accusa e difesa, consentendo anche agli imputati meno abbienti di beneficiare di una difesa adeguata. Infine, il rafforzamento delle garanzie di riservatezza dei colloqui tra difensore e assistito è una priorità imprescindibile per un livello minimo ed essenziale di attuazione del giusto processo. 

In conclusione, le indagini difensive svolgono un ruolo centrale nel sistema processuale italiano, una loro piena efficacia dipenderà dalla capacità del legislatore di intervenire sulle criticità attuali in un costante bilanciamento tra la necessità di accertamento della verità e la tutela dei diritti dell’imputato.


Note e riferimenti bibliografici