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Commento a ”Il doppio grado di giurisdizione e di merito” di Andrea Antonio Dalia
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Pubbl. Sab, 12 Ott 2024

Commento a ”Il doppio grado di giurisdizione e di merito” di Andrea Antonio Dalia

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Anna Dello Iacono
Praticante AvvocatoUniversità degli Studi di Salerno



Il presente progetto editoriale ha lo scopo di rendere omaggio ad un grande Maestro attraverso brevi commenti, dal carattere divulgativo, relativi ai più svariati temi che interessano il diritto processuale penale. L’ obiettivo dichiarato è quello di restituire attualità al Suo pensiero, attraverso l’analisi di relazioni rese in occasione di lezioni, convegni e congressi. Una vera sfida, oltre che un grande onore per chi, ancora tra i banchi delle aule universitarie, sta per affacciarsi al mondo delle professioni legali.


Convegno su

Il Doppio grado di giurisdizione e di merito

Camera Penale Roma - 1998

di

Prof. Andrea Antonio Dalia

1. Prima ancora di configurarsi come principio di rilevanza costituzionale - la cui dimensione, peraltro, è tuttora molto controversa - un doppio grado di giurisdizione si impone come esigenza insopprimibile dell’accertamento penale. 

L’elementare constatazione della fallibilità e, quindi, della perfettibilità di ogni decisione umana rende necessaria la previsione di un «riesame» della decisione adottata dai giudici di primo grado, non tanto per una pretesa migliore qualità degli organi di grado superiore, quanto, piuttosto, per assicurare una forma di controllo sulla sentenza, per la possibilità di una «spersonalizzazione» del giudizio e, più in generale, per la maggiore garanzia di giustizia che il doppio grado assicura. 

Il giudice di seconda istanza — osservava Foschini — rappresenta una garanzia «proprio perché è secondo, perché viene dopo il primo, il quale non può essere eliminato senza così togliere il presupposto della migliore attitudine del secondo giudice».

2. Sul piano costituzionale, la necessità di assicurare almeno un duplice intervento giurisdizionale sulla regiudicanda può desumersi già dal principio della presunzione di non colpevolezza, ove si consideri che l’art. 27 comma 2 Cost. riconosce tale garanzia all’imputato fino alla condanna «definitiva», presupponendo, quindi, la possibilità di un controllo sulla pronuncia di primo grado.

In questa stessa prospettiva, assumono rilievo decisivo anche le previsioni contenute negli artt. 101 comma 2 e 111 comma 2 Cost., secondo cui «i giudici sono soggetti soltanto alla legge» e, per la eventualità che quest’ultima venga violata, «contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale è sempre ammesso ricorso in Cassazione». 

In altri termini, la previsione di un grado «necessario» di legittimità, consentendo un controllo sistematico sull’attività del primo giudice, dovrebbe garantire, quanto meno, una corretta ed uniforme applicazione della legge.

Tanto basta per affermare — come si è accennato ab initio — che il doppio grado di giurisdizione, nella sua accezione più ristretta, costituisce una esigenza insopprimibile della giurisdizione, da cui dipende la stessa effettività e credibilità della funzione di ius dicere.

3. Il principio del doppio grado di giurisdizione «di merito» è frutto di elaborazione concettuale di quella parte della dottrina processualistica, la quale, sulla scorta dell’esperienza storica relativa allo ius appellandi, ha ritenuto di dover indicare con la locuzione «doppio grado di giudizio» la possibilità che il fatto sottoposto al vaglio del giudice di prima istanza venga riesaminato, ex novo, da un altro giudice, la cui decisione sia destinata a prevalere sulla prima. 

Una piena realizzazione del doppio grado della giurisdizione di merito comporta, quindi, la integrale rinnovazione del primo giudizio, dinanzi ad un giudice diverso da quello che ha emesso la decisione impugnata. 

La pronuncia dell’organo di secondo grado dovrà, poi, prevalere sulla precedente decisione ed essere dotata di una sua stabilità, senza dover ricorrere ad un ulteriore riesame della regiudicanda. 

Diversamente, ove si ammettesse la possibilità di una pluralità di gradi di giudizio, si farebbe riferimento ad altri istituti, quali la «doppia conforme» o la «tripla conforme», anch’essi noti più alla scienza giuridica che alla prassi applicativa.

4. Un modello astratto di «doppio grado di merito» impone, altresì, di fissare regole processuali che consentano, ai soggetti soccombenti in primo grado, di sottoporre al giudice del riesame gli stessi elementi di prova già valutati in precedenza o nuovi elementi di prova, sì da poter ottenere la rimozione della decisione ad essi sfavorevole.

Tuttavia, un’analisi storica e comparatistica dei vari sistemi processuali dimostra, chiaramente, che un’applicazione integrale della regola del doppio grado «di merito» non ha mai trovato concreta attuazione.

Innanzitutto, essa risulta estranea ai sistemi di common law, nei quali il particolare rilievo assunto dal precedente giurisprudenziale conferisce all’impugnazione un carattere del tutto eccezionale, poiché diretta, perlopiù, a censurare l’erronea applicazione di norme giuridiche. 

Ma, anche negli ordinamenti di civil law, che riconoscono, di fatto, la possibilità di un riesame della regiudicanda, il principio del doppio grado di merito subisce importanti eccezioni — in relazione, ad esempio, ai poteri cognitivi del giudice o alla iniziativa probatoria delle parti — cosicché l’appello assume i connotati di un’attività di «controllo» sulla decisione impugnata, senza mai configurarsi come nuovo «giudizio» sul fatto.

5. Alla luce delle considerazioni fin qui svolte, non sembra si possa prescindere dalla distinzione tra un modello astratto di doppio grado di merito e quello concretamente attuato, specie nell’ambito del nostro sistema processuale. 

Partendo da tale distinzione, infatti, sarà più agevole stabilire se un principio del doppio grado di merito, rigorosamente inteso, venga riconosciuto dalla Costituzione o dalle Carte internazionali e se la previsione di un nuovo «giudizio» sul fatto sia compatibile con un modello processuale ispirato ai caratteri della accusatorietà.

6. Dalla lettura delle norme costituzionali emerge, in maniera inequivoca, la scelta operata dal Costituente, il quale, mentre prevede la possibilità di ricorrere in cassazione per contestare la legittimità delle sentenze e dei provvedimenti sulla libertà personale, non impone alcun vincolo al legislatore ordinario in ordine alla disciplina delle impugnazioni di merito. 

Questa posizione viene ulteriormente ribadita sia dalla dottrina sia dalla stessa corte Costituzionale, la quale, negli ultimi trent’anni, ha sempre negato, categoricamente, la «costituzionalizzazione» del principio del doppio grado (vanno ricordate, al riguardo, le sentenze n. 110/63; n. 41/65; n. 54/68; n. 1/70; n. 22/73; n. 62/81; n. 395/88; e, in tempi più recenti, la sentenza n. 363/91).

7. L’affermazione, però, esige qualche chiarimento.

Invero, l’art. 111 comma 2 Cost. riconosce la necessità di un doppio grado di giudizio in materia penale: si tratta — come già detto — di una norma che attiene alla «giurisdizione» e che non può non riferirsi, quindi, a tutte le sentenze di primo grado e a tutte le parti processuali. 

In altri termini, il doppio grado di giurisdizione deve considerarsi un «principio» di carattere generale, sia perché viene esteso ad ogni pronuncia sulla responsabilità penale, sia perché è invocabile, senza distinzione alcuna, dall’accusa e dalla difesa. 

Tale principio, però, sempre secondo l’art. 111 comma 2 Cost., risulta attuato dalla semplice previsione del ricorso in cassazione, per far valere vizi di legittimità della decisione impugnata.

8. D’altra parte, l’esistenza di un principio costituzionale del doppio grado «di merito» non può desumersi neppure dall’art. 125 comma 2 Cost., che prevede l’istituzione, nelle Regioni, di «organi di giustizia amministrativa di primo grado».

Tale disposizione va letta in stretta correlazione con l’art. 103 Cost., secondo il quale «il Consiglio di Stato e gli altri organi della giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi». 

Dal combinato disposto delle due norme — le quali contengono, non certo casualmente, la stessa dizione («organi di giustizia amministrativa») — si evince chiaramente che nel settore della giustizia amministrativa deve essere istituito un giudice di primo grado – e, quindi, un giudice di appello - e che la competenza dei due giudici è la stessa, e cioè si estende a tutti gli atti della pubblica amministrazione. 

Ciò nonostante, non si può attribuire all’art. 125 comma 2 Cost. una valenza generale, al fine di dedurre da tale disposizione l’esistenza di un principio costituzionale del doppio grado di giurisdizione anche nel merito. 

La previsione contenuta nell’art. 125 comma 2 Cost. — come ha chiarito la stessa corte costituzionale — deve considerarsi una sorta di «compensazione» del limite previsto dall’art. 111 comma 3 Cost., attraverso il quale si esclude, per la giurisdizione amministrativa, una generalizzazione del ricorso in cassazione, in quanto si prevede, infatti, che «contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione».

In definitiva, non sembra revocabile in dubbio il riconoscimento, all’interno della Carta costituzionale, di un principio del doppio grado di giurisdizione: 

- sul piano amministrativo — attesa anche la particolare configurazione assunta dai vizi di legittimità in tale settore — esso si sostanzia nella previsione di un riesame nel merito da parte del Consiglio di Stato; 

- sul piano penale, invece, è sufficiente stabilire un controllo di legittimità della decisione adottata in primo grado.

9. A questo punto, è lecito chiedersi se, così formulata, la regola del doppio grado sia compatibile con la presunzione di non colpevolezza dell’imputato fino alla sentenza «definitiva» di condanna.

Sotto il profilo formale, è difficile negare che il sistema delineato dagli artt. 27 comma 2 e 111 comma 2 Cost. risponda a canoni di ragionevolezza e coerenza logica, posto che la sentenza di condanna diverrebbe «definitiva» a seguito dell’eventuale controllo di legittimità operato dalla corte di cassazione. 

Qualche perplessità emerge, invece, sul piano sostanziale, laddove ci si interroghi sulla possibilità di riconoscere all’imputato il diritto di chiedere un riesame nel merito della pronuncia di condanna. 

L’analisi di questa nuova prospettiva impone di andare oltre il testo costituzionale e di considerare le disposizioni dettate in parte qua dalle Carte internazionali.

10. In via preliminare, occorre ricordare che il principio del doppio grado di giurisdizione ha ricevuto un esplicito riconoscimento sul piano internazionale solo a partire dal 1966, in quanto, anteriormente alla adozione del Patto internazionale sui diritti civili e politici, nessuna Carta internazionale aveva mai sancito il diritto al doppio grado di giudizio.

Va anche detto, però, che la garanzia di un riesame delle decisioni adottate in primo grado è stata ritenuta, da sempre, implicitamente compresa nel diritto di ogni imputato ad un processo «equo ed imparziale», durante il quale siano assicurati strumenti idonei ad esercitare un’adeguata difesa. 

Ampi riferimenti al diritto della persona accusata di un reato di partecipare ad una «udienza equa», con «tutte le garanzie necessarie per la sua difesa», sono contenuti sia negli artt. 10 e 11 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1946), sia nell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (1950).

11. Solo in tempi più recenti la Convenzione europea ha espressamente affrontato il tema del doppio grado di giurisdizione, attraverso la introduzione del protocollo addizionale n. 7, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984 ed entrato in vigore, nel nostro Stato, a partire dal 1° febbraio 1992. 

In esso si stabilisce che «chiunque venga dichiarato colpevole di una infrazione penale da un tribunale ha diritto di sottoporre ad un tribunale della giurisdizione superiore la dichiarazione di colpa o la condanna.

L’esercizio di questo diritto, inclusi i motivi per cui esso può essere invocato, sarà stabilito per legge. 

Tale diritto potrà essere oggetto di eccezioni in caso di infrazioni minori, come stabilito dalla legge, o in casi nei quali la persona interessata sia stata giudicata in prima istanza da un tribunale della giurisdizione più elevata o sia stata dichiarata colpevole e condannata a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento».

La disposizione riecheggia — integrandola e specificandola — quella già contenuta nell’art. 14 comma 5 del Patto internazionale, dove si stabilisce che «ogni individuo condannato per un reato ha diritto a che l’accertamento della sua colpevolezza e la condanna siano riesaminati da un tribunale di seconda istanza in conformità della legge».

12. Da ultimo, merita un cenno anche lo statuto istitutivo della Corte Penale Internazionale, adottato a Roma, il 17 luglio 1998. 

Più specificamente, è opportuno esaminare gli artt. 81 e 83 di tale statuto, che disciplinano l’istituto dell’appello. 

Al riguardo, si stabilisce che:

a) «il pubblico ministero può proporre l’appello per uno dei seguenti motivi: errore di procedura, errore di fatto oppure errore di diritto»;

b) «la persona condannata o il pubblico ministero per conto di quella può proporre appello per uno dei seguenti motivi: errore di procedura, errore di fatto, errore di diritto oppure qualsiasi altro motivo che influisca sulla equità e affidabilità del procedimento o della decisione» (art. 81 statuto).

La competenza a decidere in secondo grado è attribuita ad una «camera di appello», alla quale sono conferiti i medesimi poteri di cui dispone la «camera processuale». 

Il procedimento è così regolato: 

«se la camera di appello riscontra che i provvedimenti appellati erano ingiusti, in modo tale da incidere sulla affidabilità della decisione o della sentenza, o che la decisione o la sentenza appellata era materialmente viziata da un errore di fatto, di diritto o di procedura, può:

 a) annullare o emendare la decisione o la sentenza; 

b) ordinare un nuovo processo dinanzi ad una diversa camera processuale. 

A questi fini, la camera di appello può rinviare una questione di fatto alla originaria camera processuale, perché decida sulla questione e riferisca conseguentemente, o può essa stessa richiedere le prove per decidere nel merito. 

Quando la decisione o la sentenza è stata appellata soltanto dalla persona condannata, o dal pubblico ministero per conto di quella persona, non può essere emendata a suo detrimento» (art. 83 statuto).

Ad una prima lettura, il disposto normativo sembra realizzare in pieno il principio del doppio grado di giudizio in materia penale, operando, però, una distinzione netta tra la posizione dell’accusa e la posizione della difesa.

A differenza dell’ufficio del pubblico ministero, infatti, l’imputato può chiedere un riesame della pronuncia di condanna, oltre che per un errore di fatto o di diritto, anche per qualsiasi motivo che influisca sulla equità ed affidabilità della sentenza di primo grado, godendo, pertanto, di un amplissimo strumento di garanzia contro decisioni viziate, errate o ingiuste.

Al di là di tale constatazione, non si può fare a meno di considerare che lo statuto istitutivo della Corte Penale Internazionale non contiene norme di principio, quanto, piuttosto, regole di carattere processuale, destinate a disciplinare il funzionamento del nuovo organo.

13. Ben altro rilievo assumono le disposizioni sul doppio grado di giurisdizione dettate dal Patto internazionale e dal protocollo addizionale n. 7 alla Convenzione europea. 

Dalla loro analisi si può desumere che:

a) il diritto ad ottenere un «riesame» della pronuncia di primo grado è riconosciuto al solo condannato e non anche all’ufficio dell’accusa;

b) è data la possibilità di impugnare nel merito la sentenza, atteso che il condannato può sottoporre al vaglio del giudice di seconda istanza «l’accertamento della sua colpevolezza» e la relativa condanna;

c) sotto il profilo soggettivo, l’impugnazione è caratterizzata da un effetto devolutivo pieno, poiché il riesame della regiudicanda deve essere affidato ad un giudice diverso e di grado superiore rispetto a quello che ha emesso il provvedimento impugnato;

d) sul piano oggettivo, invece, l’impugnazione non può definirsi completamente devolutiva, in quanto spetta al legislatore ordinario stabilire i motivi per i quali il condannato può contestare la pronuncia di primo grado;

e) il condannato può essere privato del diritto di impugnare nel merito la pronuncia di primo grado laddove quest’ultima abbia ad oggetto illeciti penali di minore rilevanza;

f) per la condanna definitiva dell’imputato, va esclusa la necessità di una «doppia conforme», atteso che non è ammessa la impugnazione di un provvedimento adottato, in prima istanza, da un organo «della giurisdizione più elevata»;

g) non è ammessa l’impugnazione di una condanna pronunciata in secondo grado, a seguito di ricorso avverso una sentenza di proscioglimento.

14. L’esame delle disposizioni contenute nelle Carte internazionali induce a ritenere che non sia configurabile, sul piano normativo, un «principio» del doppio grado di giurisdizione di merito.

Manca, infatti, la previsione generale di un secondo giudizio sul fatto, che possa essere promosso, con gli stessi poteri di iniziativa, dall’accusa e dalla difesa. 

La Convenzione e il Patto si limitano a stabilire, per il solo condannato, il diritto ad ottenere un riesame della pronuncia di colpevolezza, nei limiti previsti dalla legge ordinaria. 

In altri termini, il diritto al doppio grado di giudizio viene concepito come un risvolto particolare di un diritto più ampio e generale, che si identifica nella difesa dell’imputato in ogni stato e grado del processo. 

Ragionando diversamente, sarebbe difficile spiegare perché il diritto di impugnare nel merito la decisione di primo grado non venga riconosciuto anche all’organo dell’accusa e perché tale diritto non sia esercitabile nei casi in cui l’imputato abbia già usufruito di un doppio grado di giudizio, in quanto sia stato dichiarato colpevole a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento. 

A differenza della Costituzione, quindi, la Convenzione e il Patto affrontano il problema del doppio grado sul piano delle garanzie individuali, con particolare riferimento al diritto di difesa dell’imputato-condannato. 

In questa prospettiva, si giustificano anche le limitazioni al diritto di impugnare nel merito la pronuncia di primo grado, allorquando si procede — come dispone testualmente il protocollo n. 7 della Convenzione — per «infrazioni minori». 

Tali limitazioni sembrano, invece, del tutto intollerabili se lette alla luce dell’art. 27 comma 2 Cost., posto che la presunzione di non colpevolezza ha una valenza assoluta e non può certo subire limitazioni a seconda del tipo di illecito commesso dall’imputato. 

15. Ne consegue che il sistema delle impugnazioni delineato dalle Carte internazionali va necessariamente integrato con le disposizioni dettate in parte qua dalla nostra Carta costituzionale. 

Il quadro che emerge da una lettura «congiunta» delle norme costituzionali ed internazionali può essere così sintetizzato:

a) la presunzione di non colpevolezza dell’imputato, fino alla sentenza «definitiva» di condanna, impone un doppio grado di giurisdizione, che sia previsto, senza limitazione alcuna, per ogni sentenza emessa in materia penale;

b) il giudizio di secondo grado, nella prospettiva delineata dal Costituente, può anche risolversi in un mero controllo di legittimità;

c) la possibilità di impugnare la sentenza di primo grado per vizi di legittimità va riconosciuta anche all’ufficio del pubblico ministero, in quanto l’esigenza sottesa al doppio grado di giurisdizione è anche quella di assicurare la effettività e la credibilità della funzione di ius dicere;

d) l’esercizio del diritto di difesa implica la possibilità per l’imputato di impugnare, anche nel merito, la pronuncia di condanna emessa in primo grado;

e) il diritto di impugnare nel merito la sentenza di primo grado può subire limitazioni a seconda del tipo di reato per cui si procede; 

f) il legislatore ordinario può stabilire ulteriori limitazioni in rapporto ai motivi proponibili in seconda istanza e agli strumenti probatori utilizzabili per contestare la pronuncia di colpevolezza, sempre che all’imputato venga comunque riconosciuta la possibilità di esercitare un’adeguata difesa;

g) nessuna disposizione normativa, interna o internazionale, prevede che il controllo di merito e quello di legittimità siano effettuati nell’ambito di due diversi giudizi; in altri termini, non esiste un principio del doppio grado «di merito», inteso come momento di controllo autonomo rispetto al ricorso in cassazione; in tal senso, appare decisiva la previsione contenuta nel protocollo n. 7 della Convenzione, che consente al condannato di censurare, dinanzi ad un organo della «giurisdizione superiore», sia errori di fatto sia errori di diritto.

16. Alla luce di quanto detto finora, non sembra che si possano avanzare dubbi sulla compatibilità dell’attuale sistema delle impugnazioni con i principi dettati dalla Costituzione e dalle Carte internazionali.

La previsione contenuta nell’art. 568 comma 2 c.p.p. — a norma del quale «sono sempre soggetti a ricorso per cassazione, quando non sono altrimenti impugnabili, i provvedimenti con i quali il giudice decide sulla libertà personale e le sentenze, salvo quelle sulla competenza» — rispecchia fedelmente il disposto dell’art. 111 comma 2 Cost. ed assicura, in ogni caso, una forma di controllo sul corretto esercizio della funzione giurisdizionale.

Anche il diritto di difesa dell’imputato-condannato trova ampi spazi di tutela nell’ambito delle norme che disciplinano l’istituto dell’appello.

Al riguardo, è sufficiente ricordare che i limiti previsti dall’art. 593 c.p.p. attengono a reati contravvenzionali oppure a casi in cui il procedimento penale è stato definito in via anticipata, su «richiesta» o previo «assenso» dell’imputato.

17. Qualche dubbio potrebbe emergere in relazione al disposto dell’art. 604 comma 6 c.p.p., dove si stabilisce: «quando il giudice di primo grado ha dichiarato che il reato è estinto o che l’azione penale non poteva essere iniziata o proseguita, il giudice di appello se riconosce erronea tale dichiarazione, ordina, occorrendo, la rinnovazione del dibattimento e decide nel merito». 

In questo caso, infatti, non vi è stato un «giudizio» in primo grado e la eventuale pronuncia di condanna del giudice di appello non può essere impugnata nel merito dall’imputato, a prescindere dalla natura e dalla gravità del reato ritenuto in sentenza.

La norma è passata al vaglio della Corte costituzionale.

Con la sentenza n. 41 del 1965 fu ritenuta la legittimità dell’art. 522 comma 4 del codice del ’30 – corrispondente all’attuale art. 604 comma 6 - perché non è tanto la doppia istanza che garantisce la completa difesa, quanto la possibilità di prospettare al giudice ogni domanda e ogni ragione che non siano legittimamente precluse.

A ben guardare, però, anche la disposizione in esame non sembra contrastare con quel complesso di garanzie riconosciute all’imputato dalle Carte internazionali. 

Si è già detto che il protocollo addizionale alla Convenzione europea attribuisce espressamente al legislatore ordinario la possibilità di escludere una impugnazione nel merito «nei casi in cui la persona interessata sia stata giudicata in prima istanza da un tribunale della giurisdizione più elevata o sia stata dichiarata colpevole e condannata a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento». 

Inoltre, anche se l’imputato avesse avuto la possibilità di difendersi solo nel giudizio di secondo grado, la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale e la possibilità di ricorrere in cassazione sembrano offrire, comunque, adeguate garanzie.

Non appare censurabile neppure l’ipotesi in cui la pronuncia di condanna venga emessa in secondo grado, a seguito di appello dell’ufficio del pubblico ministero avverso una sentenza di proscioglimento. Infatti, se è vero che il diritto ad un riesame di merito della pronuncia di condanna non deve essere considerato espressione di un principio generale, ma costituisce, molto più semplicemente, una ulteriore garanzia del c.d. «giusto processo», non può dirsi certamente pregiudicata la posizione dell’imputato allorquando quest’ultimo abbia avuto, comunque, la possibilità di difendersi nell’ambito di due diversi giudizi. 

18. Di recente, si è molto discusso sulla possibile riforma della disciplina delle impugnazioni in materia penale. 

L’attuale sistema normativo — si è detto — eccede sul piano delle garanzie, così da pregiudicare la realizzazione di uno degli scopi principali del processo, che resta quello di accertare i fatti e punire, eventualmente, il responsabile dell’illecito.

Infatti, nella generalità dei casi, il processo può evolversi in tre diversi gradi di giudizio, con il rischio di incorrere, sempre più frequentemente, nella prescrizione del reato.

Il problema si presenta particolarmente complesso, anche perché, già ad una prima analisi, non sembrano ipotizzabili soluzioni estreme.

Non si può pensare, infatti, di eliminare il ricorso per cassazione, atteso che nei casi di inappellabilità o di pronuncia della responsabilità penale dell’imputato in secondo grado, bisognerebbe considerare «definitiva» una sentenza di condanna non sottoposta ad alcun controllo, di merito o di legittimità. 

Non sembra risolutiva neppure l’idea di restringere i casi di ricorso per cassazione (eliminando, ad esempio, quello previsto dall’art. 606 comma 1 lett. e), in quanto le parti potrebbero, comunque, attivare un controllo di legittimità dinanzi ad un giudice di terza istanza.

Va esaminata, piuttosto, la possibilità di rivedere il mezzo di impugnazione dell’appello, nel senso che si può pensare di rinunciare ad una appellabilità generalizzata e, nel contempo, rivisitare il secondo grado, trasformandolo da momento di “controllo” del primo giudizio a occasione di un “secondo” giudizio.

Non ci si dovrebbe scandalizzare di fronte alla proposta di eliminare del tutto l’appellabilità delle sentenze di primo grado, basate, ad esempio, su prova documentale: questa soluzione, infatti, non sacrificherebbe oltre misura la difesa dell’imputato.

Diverso è il caso della sentenza che si fonda su prova tecnica o testimoniale.

Considerato che nell’attuale disciplina del giudizio di primo grado sono venute meno molte delle garanzie originariamente previste (in proposito, non è superfluo ricordare che con la entrata in vigore della riforma del giudice unico risulterà notevolmente attenuata anche la garanzia della collegialità in primo grado), si potrebbe pensare di conferire al giudice di appello un ambito cognitivo più ampio e un potere di giudizio, non di critica della decisione assunta in primo grado.

Si potrebbe anche studiare di affidare il controllo di merito e di legittimità sulla regiudicanda ad un unico giudice di grado superiore, territorialmente dislocato in ciascuno dei distretti di corte di appello.

Tale organo dovrebbe avere la possibilità di rilevare sia vizi di legittimità che di merito, ricorrendo allo strumento dell’annullamento con rinvio laddove la decisione sul fatto richieda l’assunzione di nuovi mezzi di prova. 

Il legislatore, poi, per gli illeciti di minore rilevanza, potrebbe limitare il riesame del giudice di secondo grado ai soli profili di legittimità.

È indubbio che la proposta andrebbe approfondita ed esaminata nei dettagli, ma è difficile immaginare una soluzione alternativa, capace di contemperare, nel migliore dei modi, le esigenze di ragionevolezza dei tempi e di effettività della giurisdizione con le garanzie proprie del giusto processo.     

 

Commento di Anna Dello Iacono

Laureata in giurisprudenza

Dipartimento di Scienze Giuridiche – Università degli Studi di Salerno

Sin dall’antichità, il tema del “doppio” è stato al centro degli scritti di natura religiosa, filosofica e letteraria, raggiungendo la sua acme nelle epoche rappresentative della crisi della soggettività, tra il XVIII e il XIX secolo. Tutti i sottotemi legati al tòpos dell’identità sdoppiata sono riconducibili a tre filoni: un primo, caratterizzato dalla presenza di personaggi c.d. speculari «in cui l’opposizione dei caratteri è così marcata da suggerire un’unità latente»; un secondo, dominato dai personaggi c.d. complementari «in cui l’integrazione armonica dei tratti caratteriali allude ancor più ad una fusione tendenziale delle identità»; un ultimo, denominato del doppio c.d. apparente, quando lo sdoppiamento si verifica all’interno di un singolo individuo, senza perciò che vi sia una separazione fisica di due entità che fanno capo alla stessa persona.

Anche il rito del processo penale ben conosce il tema del “doppio”, inteso come secondo grado di giurisdizione, funzionale ad ottenere un controllo della sentenza emessa all’esito del primo grado di giudizio ad opera di un giudice secondo che, proprio perché viene dopo il primo, è espressione di una maggiore garanzia di giustizia. Un secondo grado di merito dunque che, volendo ricorrere alle categorie letterarie utilizzate poc’anzi, costituisce un giudizio complementare o speculare rispetto al primo, a seconda che questo vada ad integrare la decisione resa dal giudice di prime cure o che vada a sovvertirla. Apparente potremmo invece definire un secondo giudizio che vada a confermare la prima sentenza o che dichiari inammissibile l’appello.

Questo tema, che parte dall’assunto della fallibilità e, pertanto, della conseguente perfettibilità di ogni decisione umana, è stato al centro della relazione tenuta dal Prof. Andrea Antonio Dalia alla Camera Penale di Roma nel 1998, dieci anni dopo l’adozione del nuovo codice di procedura penale e appena un anno prima la c.d. riforma del giusto processo, avvenuta mediante l’integrazione del testo dell’art. 111 Cost. ad opera della l. cost. 23 novembre 1999, n. 2. Inserire tale intervento all’interno delle coordinate temporali appena richiamate è di fondamentale importanza, perché consente di apprezzarne maggiormente la portata nonché la sua sorprendente attualità. 

L’appello – le cui radici si rinvengono nello ius appellandi del processo giustinianeo e si sviluppa, per come lo conosciamo, nel periodo rivoluzionario francese – risulta da sempre un nervo scoperto del sistema processuale penale italiano, poiché se da un lato la celebrazione di un nuovo giudizio di merito rappresenta una risposta all’istanza di giustizia da parte di chi ritiene di non averla ottenuta con la prima sentenza, dall’altro, entra in collisione con le esigenze di certezza ed efficienza che dalla giustizia necessariamente ci si deve attendere.

Già nella Relazione al progetto preliminare al codice di procedura penale del 1930, il Guardasigilli Rocco scriveva: «L’appello male si giustifica teoricamente, e [...], scientificamente può considerarsi come un residuo della concezione medievale della giustizia. Ma il legislatore non può tenere conto soltanto delle conclusioni scientifiche, dovendo la legge, per esser opportuna e rassicurante, conformarsi anche alle idee e ai sentimenti diffusi nelle popolazioni, nel momento storico nel quale viene emanata. A questo contrasto tra teoria e pratica accennavo appunto nel citato discorso, quando osservavo che dell’appello tutti dicono male e tutti lo vorrebbero conservare. Aggiungevo che non è facile eliminarlo, perché, vi si oppongono radicatissimi pregiudizi, mentre più consigliabile è regolarlo diversamente, perché, se in materia civile esso funziona male, in materia penale oggi funziona malissimo». 

Il tenore di quanto riportato è lo specchio della riemersione di un’accesa discussione, già esplosa a cavallo tra il diciannovesimo ed il ventesimo secolo, e che vedeva contrapporsi abolizionisti e conservatori. Massimo esponente della corrente abrogazionista fu proprio Arturo Rocco, che più di una volta aveva manifestato le sue avversità per quello che considerava uno «fra gli istituti processuali più combattuti». Lo stesso Ministro, di fronte al consenso unanime del Parlamento per un mantenimento dell’appello, si attestò poi su posizioni più moderate sottolineando che «data la nostra tradizione, la mentalità nostra, la consuetudine giudiziaria italiana, non sarebbe facile affrontare il problema dell’abolizione di questo istituto». Una siffatta posizione può essere giustificata con il crescente affermarsi del principio della speditezza dei processi ove l’interesse collettivo rappresenta il fine primario da raggiungere, anche a scapito delle garanzie individuali; ma, se il retrocedere delle garanzie individuali può tollerarsi nell’ambito di una fonte normativa di rango primario – come lo è, appunto, il codice di rito –, tale “tolleranza” non può essere consentita alla fonte primaria del nostro ordinamento, personalista ed antropocentrica per eccellenza: la Costituzione. 

Ebbene, la Carta costituzionale tace sul tema dell’appello, impugnazione che, almeno espressamente, non viene considerata, a differenza del ricorso per cassazione da sempre consacrato nell’art. 111 Cost. Approccio ribadito sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza costituzionale che non è mutato nemmeno con l’avvento della c.d. riforma del giusto processo. 

Tale innesto svolge una funzione sistematica, più che innovatrice, nella misura in cui riordina, rectius, esplicita le garanzie processuali sia oggettivamente che soggettivamente intese preesistenti alle modifiche apportate all’art. 111 Cost. dall’art. 1, l. cost. 23 novembre 1999, n. 2. Ciò, tuttavia, non giustifica affatto l’affermazione che la riforma de qua è stata assolutamente inutile. Ad essa, per vero, può sicuramente assegnarsi una valenza funzionale ben precisa: quella di fornire una chiave di ri-lettura delle garanzie costituzionali attinenti al processo, richiamando tutti ad una loro interpretazione ispirata al principio di effettività; tuttavia, lo stesso non è avvenuto per il principio del doppio grado di giurisdizione di merito che il legislatore costituzionale ha scelto di non tutelare espressamente, ritenendo sufficiente garantire solo lo svolgersi di un generico doppio grado di giurisdizione, per mezzo del «sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge» contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, che limita il suo controllo a profili di mera legittimità.

Ciò non significa che non vi siano buoni argomenti interpretativi per cercare di ricavare una base costituzionale al principio del doppio grado di giurisdizione di merito, ma emerge indubbiamente il diverso approccio riservato dal costituente alle distinte impugnazioni di legittimità e di merito. 

L’appello è espressione del diritto di difesa, il cui esercizio è tanto più essenziale nelle ipotesi di condanna, date le sue implicazioni con le libertà coinvolte, ed in primis con il super valore primario della libertà personale (artt. 13 e 24, co. 2, Cost.) ed è, inoltre, legato a doppio filo con la presunzione di non colpevolezza, essenza stessa del processo penale, poiché se nessuno può essere considerato colpevole fino alla condanna definitiva, come sancito dall’art. 27, co. 2, Cost., deve essere necessariamente riconosciuto all’imputato il diritto ad una verifica processuale della colpevolezza che deve essere accertata rigorosamente, oltre ogni ragionevole dubbio; ed in mancanza di tale risultato, l’imputato va assolto. Nonostante ciò, tale diritto continua a essere tutelato nel nostro ordinamento per mezzo del rinvio alla normativa sovranazionale e in particolare al Patto internazionale sui diritti civili e politici (art. 14 par. 5) e alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 2 del Protocollo 7). Tali disposizioni – le uniche a contenere un riferimento esplicito a un riesame della decisione resa in primo grado ad opera di un nuovo giudizio di merito –, coordinate con quelle dell’ordinamento interno, ci restituiscono un diritto all’appello che si configura come corollario del ben più ampio diritto di difesa del condannato e che non può assurgere a principio del doppio grado di giurisdizione autonomamente inteso, in quanto non si estende a tutte le parti processuali.

In definitiva, possiamo sostenere che negli ultimi 26 anni nulla o quasi è cambiato in punto di principio sul tema del doppio grado di giurisdizione di merito. 

Numerosi, invece, gli interventi di riforma che si sono succeduti in materia di appello.

Il primo di cui si è potuto prendere atto a partire dall’anno di promulgazione del nuovo codice di rito è quello intervenuto con la legge n. 46 del 20 febbraio 2006, c.d. legge “Pecorella”; norma che ha avuto vita brevissima, poiché, nel giro di un anno, ridotta all’osso dalla cesoia costituzionale.

Il profilo indubbiamente più innovativo della riforma era da individuarsi nella rigida limitazione al potere di proposizione dell’appello da parte del pubblico ministero, introdotta per sopperire al grave difetto di tutela per l’imputato che, prosciolto in primo grado, si veda condannato in appello, dopo l’impugnazione del pubblico ministero, sulla base di una mera rilettura delle carte processuali. Nella prospettiva della n. 46/2006 il grado di appello assumeva, allora, una conformazione sempre più prossima al novum iudicium – anche se molto meno frequente – con evidente distacco dall’appello tradizionale; e questo in senso decisamente più garantistico, coerentemente con il modello di stampo accusatorio che si era scelto di adottare con il codice Vassalli.

Merito senz’altro della riforma in questione – o, meglio, del “tentativo” di riordino della disciplina – è stato quello di aver rilevato l’enorme vuoto di un procedimento penale, nel quale è plausibile, e anzi frequente, assistere ad un proscioglimento in primo grado (all’esito di un dibattimento effettivamente rispettoso dei principi di oralità, immediatezza con formazione dialettica della prova) ed una condanna in appello senza un obbligo di integrale rinnovazione del dibattimento e la necessità di un intervento normativo che regolasse la materia in conformità ai principi informatori dell’ordinamento.

Circa dieci anni dopo, al culmine di due anni e mezzo di intensi lavori parlamentari, è stata approvata la c.d. Riforma Orlando (l. n. 103/2017), la quale è intervenuta anche in materia di impugnazioni, riservando particolare attenzione al ricorso per cassazione. L’approvazione del decreto legislativo recante Disposizioni di modifica della disciplina in materia di giudizi d’impugnazione, intervenendo in maniera più significativa sull’appello, ha completato la riforma del sistema delle impugnazioni prevedendo:

  • l’inappellabilità anche delle sentenze di proscioglimento relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell’ammenda o con una pena alternativa (art. 593, co. 3 c.p.p.);
  • il c.d. concordato sui motivi in appello: le parti potranno concludere un accordo sull’accoglimento, in tutto o in parte, dei motivi d’appello, da sottoporre al giudice d’appello, che deciderà in merito in camera di consiglio (art. 599 bis c.p.p.);
  • la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale quando l’appello è proposto dal P.M. contro la sentenza di proscioglimento e si basa sulle valutazioni della prova dichiarativa (art. 603 co. 3 bis c.p.p.);
  • che l’appello incidentale può essere proposto dal solo imputato che non abbia proposto impugnazione (art. 595 co. 1 c.p.p.);
  • a pena di inammissibilità, la “specificità” non più soltanto dei motivi, ma anche per i capi o punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione, per le prove delle quali si deduce l’inesistenza, l’omessa assunzione o l’omessa o erronea valutazione, nonché per le richieste, anche istruttorie (art. 581 c.p.p.).

Numerosi i profili di criticità della l. 103/2017, da individuarsi essenzialmente nella difficoltà di raggiungere un punto di equilibrio tra esigenze di efficienza del sistema e rispetto dei diritti individuali, dal momento che emerge, con estrema chiarezza, come il legislatore, consapevole della inefficienza della giustizia e nel tentativo di provare a stroncare sul nascere impugnazioni dilatorie e pretestuose, abbia utilizzato un’arma fin troppo “affilata”, ovvero quella dell’inammissibilità.

In quest’ottica, sembra comunque emergere una certa debolezza del legislatore, il quale non ha saputo andare oltre che una codificazione della più consolidata giurisprudenza, quasi riconoscendo la centralità della giurisprudenza nella definizione degli equilibri processuali: a quasi vent’anni dalla costituzionalizzazione del canone di legalità processuale, di cui all’art. 111 co. 1 Cost., i rapporti di forza tra Parlamento e Magistratura non sembrano dunque cambiati. 

Da ultimo, il sistema delle impugnazioni è stato innovato dalla c.d. “Riforma Cartabia”.

Le prioritarie esigenze di efficienza e celerità che animano la riforma hanno orientato la manovra correttiva sull’inammissibilità dei motivi di appello. Già dalle direttive di delega della l. n. 134/2021 emergeva la volontà di comprimere i tempi dell’appello e di dare attuazione alle indicazioni contenute nella sentenza delle Sezioni Unite Galtelli, non recepite a pieno dalla c.d. Riforma Orlando.

Sotto questo profilo, è stato ulteriormente modificato l’art. 581 c.p.p. prevedendo: 

  • al comma 1-bis c.p.p., l’inammissibilità per mancanza di specificità dei motivi;
  • al comma 1-ter c.p.p., l’inammissibilità per mancato deposito della dichiarazione o elezione di domicilio;
  • al comma 1-quater c.p.p., l’inammissibilità per mancato deposito del mandato ad impugnare, in caso di appello proposto nell’interesse dell’imputato rispetto a cui si è proceduto in assenza.

Sempre in ottica deflattiva, la riforma ha introdotto anche delle modifiche ai provvedimenti che possono essere impugnati. In particolare, attraverso le modifiche apportate all’art. 593 c.p.p. oggi non è più possibile proporre appello avverso le sentenze:

a) di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda o la pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità;

b) di proscioglimento per i reati puniti con la sola pena pecuniaria o pena alternativa. 

La medesima ratio ha portato alla modifica della disciplina  delle impugnazioni proposte ai soli fini civili, prevedendo, al comma 1-bis dell’art. 573 c.p.p., che quando la sentenza è impugnata per i soli interessi civili, il giudice di appello e la Corte di cassazione, se l’impugnazione non è inammissibile, rinviano per la prosecuzione, rispettivamente, al giudice o alla sezione civile competente, che decide sulle questioni civili utilizzando le prove acquisite nel processo penale e quelle eventualmente acquisite nel giudizio civile. 

Ultimo tratto innovatore della disciplina delle impugnazioni penali è da rinvenire nella trattazione cartolare sia dell’appello che del ricorso per cassazione la quale, introdotta dalla “disciplina emergenziale” legata alla pandemia da Covid-19 diventa la regola con la Riforma Cartabia.

Alla luce di quanto prospettato, appare evidente che l’obiettivo del legislatore della riforma era quello di sottrarre una quota di affari al giudice dell’impugnazione penale, per sgravarlo e per permettergli di dedicarsi, in via sempre più esclusiva al primo grado del processo penale, così da assicurare tempi più rapidi di definizione dei processi stessi e maggiore efficienza.

Maggiore efficienza, peraltro, richiesta e, anzi, imposta dall’Unione Europea che ha ancorato il versamento dei fondi previsti nell’ambito del Piano Nazione di Ripresa e Resilienza (PNRR) anche al raggiungimento di obiettivi legati alla deflazione del carico processuale sia in ambito civile che in ambito penale.

Al termine di questo breve excursus in tema di appello due sono le considerazioni che emergono chiaramente: fil rougedelle riforme che si sono susseguite negli ultimi vent’anni, incidendo sul secondo grado di merito, è stato – senza dubbio – l’efficientamento del processo penale, mediante la riduzione dei tempi dei procedimenti che lo governano, sulla scia dell’adagio di Montesquieu “giustizia ritardata è giustizia negata” e del diritto alla ragionevole durata del processo, cristallizzato all’art. 111 Cost., co. 2.

Ciò che non può dirsi con medesima convinzione, invece, è non ci sia stato un pregiudizio per le garanzie dei soggetti sottoposti al procedimento penale e talvolta anche delle persone offese.

La scelta di non costituzionalizzare il principio del doppio grado di giurisdizione di merito ha privato il primo grado di giudizio della possibilità di avere un doppelgänger che, munito della sua stessa dignità, potesse porre rimedio alla fallacia di coloro che hanno preso parte al processo di primo grado, sia sotto il profilo istruttorio che decisionale, lasciando che l’appello fosse sottoposto a continue compressioni e riscritture, in nome del principio di economia processuale che l’ordinamento ha elevato a garanzia di efficienza dichiarando così di preferire il “tempo” del processo alla sua “qualità”.

Dunque, il timore espresso dal prof. Andrea Antonio Dalia ha purtroppo trovato conferma alla luce di quanto accaduto in questi ultimi anni, soprattutto a causa di interventi normativi figli di un legislatore spesso superficiale, poco accorto e, in definitiva, poco “ispirato”.


Note e riferimenti bibliografici