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Pubbl. Lun, 20 Gen 2025

Commento a ”Riflessioni in tema di errore giudiziario” di Andrea Antonio Dalia

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Eugenio Mandara
StudenteUniversità degli Studi di Salerno



Il presente progetto editoriale ha lo scopo di rendere omaggio ad un grande Maestro attraverso brevi commenti, dal carattere divulgativo, relativi ai più svariati temi che interessano il diritto processuale penale. L´obiettivo dichiarato è quello di restituire attualità al Suo pensiero, attraverso l´analisi di relazioni rese in occasione di lezioni, convegni e congressi. Una vera sfida, oltre che un grande onore per chi, ancora tra i banchi delle aule universitarie, sta per affacciarsi al mondo delle professioni legali.


Sommario: 1. Premessa; 2. La nozione di errore giudiziario; 3. Le cause dell’errore giudiziario; 4. I possibili rimedi.

1. Premessa

Come è stato acutamente osservato, l’errore giudiziario rappresenta il «vero problema» del processo penale[1].

Il problema è talmente importante da potersi dire, senza timore di esagerare, che la funzionalità e la credibilità di un sistema processuale dipendono dalla maggiore o minore idoneità dello stesso ad evitare l’errore giudiziario o, quanto meno, a mitigarne gli effetti e le più drammatiche conseguenze.

Non vi è giudizio – al pari di ogni altra attività tipicamente umana –  che non debba fare i conti con l’eventualità di un errore e con l’esigenza di giustizia che, inevitabilmente, scaturisce dalla constatazione di tale errore.

La consapevolezza che l’errore è connotazione possibile di ogni giudizio ha imposto, nel tempo, il ricorso a modelli processuali sempre più complessi, volti ad assicurare un accertamento del fatto illecito che si vorrebbe obiettivo e, come tale, del tutto svincolato da valutazioni arbitrarie di chi ad esso è preposto.

Solo i sistemi processuali di stampo inquisitorio erano caratterizzati da una fiducia tendenzialmente illimitata nel potere decisionale dell’autorità procedente e nella sua capacità indiscussa di raggiungere verità assolute[2]. In questo tipo di processo, il giudice-accusatore «monopolizzava» l’idea di giustizia e, nel corso dell’iter logico-giuridico che conduceva alla decisione, evitava di sottoporre le sue conclusioni al vaglio critico del contraddittorio e al controllo di un giudice terzo, convinto di poter dimostrare, prima o poi, la colpevolezza dell’accusato[3]. Così facendo, si moltiplicavano i rischi di un processo ingiusto, con conseguenze irreparabili in danno dell'imputato, poiché l’errore eventualmente commesso, «per una specie di cinica legge di irreversibilità, restava affogato nel mito del giudicato»[4].

Al contrario, un sistema processuale accusatorio e garantista si fonda sulla sfiducia – anch'essa tendenzialmente illimitata – nel potere quale fonte autonoma di verità. In una moderna concezione del processo, la verità viene concepita come il risultato di una controversia tra parti contrapposte, in quanto portatrici, rispettivamente, dell’interesse alla punizione del colpevole e di quello alla tutela dell’accusato, presunto innocente fino alla sentenza definitiva di condanna. La decisione finale si consegue al termine di una indagine che non può risolversi nel mero «riconoscimento» della ipotesi accusatoria, ma consiste in una costante attività di verificazione e di controllo: nel processo –  si è detto –  «la caccia vale più della preda»[5] e «la giustizia della sentenza sta nel cammino seguito pel risultato»[6].

Sotto questo profilo, l’intero evolversi dell’accertamento penale può essere icasticamente definito come una lotta continua ed incessante contro l’errore, che rappresenta il limite ineliminabile della verità accertata in giudizio[7].

L’assunto trova riscontro in un’analisi, sia pur sommaria, del sistema processuale vigente, il quale si ispira –  almeno secondo le originarie intenzioni del legislatore – a fondamentali esigenze di tutela dei diritti inviolabili della persona.

Già la distinzione tra la fase preliminare ed il processo può essere interpretata in questi termini, ove si consideri che l’attività di indagine svolta dal magistrato del pubblico ministero e l’eventuale controllo giurisdizionale sull’esercizio dell’azione penale mirano proprio ad evitare la formulazione di imputazioni «azzardate» e, quindi, valutazioni erronee sulla necessità di svolgere il processo.

Nella stessa ottica vanno lette le norme sul procedimento di archiviazione –  che assicurano sempre un controllo del giudice  sulle determinazioni del magistrato del pubblico ministero –  e le norme che disciplinano l’istruttoria dibattimentale[8], con particolare riferimento alle regole di utilizzazione e di valutazione di indizi ed elementi di prova[9].

Analogamente, costituiscono un efficace presidio contro l’errore giudiziario le norme poste a tutela della imparzialità del giudice[10] e quelle che consentono di attivare controlli di merito e di legittimità sulle decisioni adottate nel corso dell'iter processuale[11].

Anche le disposizioni in tema di competenza –  ispirate a criteri di carattere oggettivo, che si identificano nella maggiore qualificazione professionale dell’organo collegiale rispetto a quello monocratico e nella opportunità di affidare il giudizio al giudice del locus commissi delicti –  rispondono alla esigenza di assicurare un compiuto accertamento dei fatti e un giudizio adeguato alla complessità della res iudicanda.

Si può ben dire, quindi, che tutti gli istituti processuali tendono –  direttamente o indirettamente –  ad una ricerca critica e persistente della «verità giudiziale», la quale, per definizione, è sempre una verità relativa e, come tale, suscettibile di errore[12].

La regola di giudizio contenuta nell’art. 530 comma 2 c.p.p. rappresenta la norma di chiusura del sistema: nel dubbio, il giudice deve assolvere l’imputato, atteso che un modello processuale ispirato alla tutela dei diritti inviolabili della persona non tende mai alla «certezza di diritto penale massimo» che nessun colpevole resti impunito, ma cerca solo di assicurare la «certezza di diritto penale minimo» che nessun innocente venga punito[13].

2. La nozione di errore giudiziario

Da quanto detto finora emerge chiaramente che di errore giudiziario si può parlare, in senso lato, per individuare ogni errore –  sostanziale o processuale, di fatto o di diritto –  in cui incorra la giustizia penale.

In una accezione così ampia, può definirsi «errore giudiziario» sia quello che conduce alla condanna di un innocente sia quello che porta alla assoluzione di un colpevole; quello consacrato in una sentenza ormai divenuta definitiva e quello contenuto in una sentenza di primo grado che viene riformata nei successivi gradi del procedimento penale; quello che determina un inutile rinvio a giudizio dell’imputato; quello, infine, che comporta una ingiusta carcerazione preventiva, seguita da un decreto di archiviazione, da una sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere oppure da una sentenza di condanna ad una pena di durata inferiore alla carcerazione preventiva sofferta dall’imputato[14].

Ma, nell’ambito di questa complessa tipologia di errori, occorre fare delle distinzioni.

Innanzitutto, vanno distinti gli errori pro reo da quelli contra reum: irrimediabili i primi, qualora non vengano corretti nel corso dell’iter ordinario dell’accertamento penale[15]; intollerabili i secondi, anche se coperti dal giudicato.

Inoltre, per quanto concerne gli errori commessi contra reum, bisogna distinguere quelli che, almeno apparentemente, non producono conseguenze sfavorevoli per l’imputato, perché corretti prima che il provvedimento ingiusto produca i suoi effetti, da quelli che, al contrario, hanno già prodotto effetti pregiudizievoli, obbligando lo Stato ad indennizzare chi ha ingiustamente espiato la pena oppure ha subito un periodo di carcerazione preventiva in forza di un provvedimento rivelatosi, poi, illegittimo.

Nel linguaggio più strettamente tecnico, di «errore giudiziario» e di «ingiustizia» si parla solo con riferimento a quest’ultime ipotesi: in sostanza, il diritto ad una equa riparazione è subordinato alla ingiusta esecuzione di una pena, di una misura di sicurezza o di un provvedimento impositivo della custodia cautelare[16].

Ogni altro errore in iudicando o in procedendo, che si verifica nel corso del procedimento penale e viene corretto nell’ambito del sistema con i rimedi ordinari che lo stesso prevede, si considera al di fuori della nozione di «errore giudiziario» in senso tecnico. Pertanto, nella prospettiva delineata dal legislatore, un imputato che sia stato condannato in primo o in secondo grado e sia stato poi assolto con sentenza definitiva, non ha subito alcun danno apprezzabile, poiché l’errore commesso è stato «fisiologicamente» corretto nell’ambito del sistema.

Eppure, è innegabile che l’imputato assolto dopo essere stato coinvolto in una vicenda giudiziaria – talvolta anche per anni – ha subito un grave pregiudizio, non solo sul piano morale, ma anche su quello economico. Lo stesso dicasi per chiunque sia stato ingiustamente rinviato a giudizio: basti pensare alla pubblicità che accompagna lo svolgimento del processo e alle conseguenze che ne derivano per la reputazione dell’imputato, senza considerare, inoltre, le spese cui va incontro lo stesso imputato per l'esercizio del suo diritto di difesa.

In questi casi, anche se non vi è stata una limitazione della libertà personale, siamo di fronte ad un «processo ingiusto» e la sentenza definitiva di assoluzione – che rappresenta l’unico possibile rimedio agli errori commessi nel corso dell’iter processuale –  non potrà mai compensare interamente il pregiudizio subito dall’imputato.

Il processo ingiusto –  si è detto –  «divora le proprie vittime: l’esperienza insegna come, restando al di qua del perseguibile, un magistrato possa perpetrare dei misfatti per ossequio conformistico, passione persecutoria, calcoli di tornaconto, pigrizia, sonno morale e semplice stupidità, e qui un legislatore sensibile deve intervenire, quale che sia lo strumento tecnico»[17].

In linea generale, si potrebbe pensare ad una equa riparazione per chiunque abbia subito un processo ingiusto o una condanna ingiusta, successivamente riformata o annullata, anche se non sia stato sottoposto a misure di coercizione personale nel corso della vicenda giudiziaria.

A ben guardare, però, questa soluzione sarebbe eccessiva e, probabilmente, inutile.

Il vero problema, infatti, non è quello di prevedere adeguate forme di indennizzo per le vittime degli errori giudiziari ma, piuttosto, quello di evitare tali errori, considerando anche che essi producono danni difficilmente apprezzabili in termini economici.

A tal fine, non si può che riflettere, innanzitutto, sulle ragioni che determinano la commissione di errori più o meno evidenti e, di conseguenza, la emissione di provvedimenti ingiusti.

3. Le cause dell’errore giudiziario

Le cause dell’errore giudiziario sono molteplici e del tipo più vario: vi sono quelle riconducibili al comportamento umano, colpevole o incolpevole, quelle dovute al gioco delle coincidenze, alle false apparenze oppure a circostanze assolutamente imprevedibili, così come vi sono cause riconducibili al sistema processuale e cause estranee al processo.

Bisogna escludere, quindi, che l’errore giudiziario sia sempre determinato da un errore del giudice.

Non a caso, nel corso dei lavori dell’Assemblea costituente, la previsione contenuta nell’art. 24 comma 4 Cost. –  che affida al legislatore ordinario il compito di determinare «le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari» – venne estrapolata dal contesto dell’art. 28 Cost., ove era originariamente inserita. L’intento del Costituente fu proprio quello di distinguere, anche sul piano sistematico, la problematica dell’errore giudiziario da quella relativa alla responsabilità di funzionari e dipendenti dello Stato, atteso che i due aspetti non sono necessariamente connessi[18].

Non va dimenticato, infatti, che l’errore potrebbe essere causato anche da un comportamento doloso o colposo dello stesso destinatario del provvedimento ingiusto, dovendosi escludere, in questi casi, il diritto ad una equa riparazione in favore dell’imputato o del condannato illegittimamente ristretto nella libertà personale (artt. 314 e 643 c.p.p.).

Ciò dimostra che qualsiasi tentativo di classificare le cause dell’errore giudiziario risulterebbe, in ogni caso, eterogeneo ed incompleto.

Si può solo dire che la maggior parte degli errori giudiziari è dovuta alla falsità, alla erroneità oppure alla errata valutazione degli elementi di prova: una testimonianza può essere falsa perché diretta ad ostacolare l’attività degli organi giudiziari; una ricognizione personale può essere errata in quanto il ricognitore ha ritenuto, in perfetta buona fede, di riconoscere il presunto autore del reato, mentre una perizia può rivelarsi del tutto fuorviante per incapacità del perito o per sua negligenza.

Ben diverso, invece, è il problema della valutazione della prova, sia in relazione ai singoli mezzi di prova sia con riferimento all’intero materiale probatorio acquisito in dibattimento, rispetto al quale si pone il problema, sempre attuale, del libero convincimento del giudice.

Poche volte l’errore è dovuto al comportamento doloso del giudice o delle parti. Più frequentemente, esso si verifica per la insufficiente prudenza o esperienza dimostrata dal giudice nel valutare la credibilità delle fonti di prova e la attendibilità del loro contributo conoscitivo alla ricostruzione dei fatti[19].

Non mancano, nella letteratura giuridica italiana e straniera[20], esempi eclatanti di errori commessi nel corso dell’accertamento penale, a conferma della estrema fallibilità dello strumento processuale e di quanti ricorrono a tale strumento per emettere provvedimenti che possono incidere, in maniera rilevante, sulla libertà dei cittadini.

Ma, al di là dell’ampia casistica offerta dalla storia giudiziaria più o meno recente, occorre ricordare che il terreno più fertile nel quale si annida il pericolo dell’errore giudiziario è costituito, senza dubbio, dai processi indiziari, nei quali, in mancanza di prove dirette, il convincimento del giudice si basa su circostanze suscettibili di valutazioni diverse e contraddittorie.

Un altro insidioso strumento probatorio, del quale si è fatto e si continua a fare un uso frequente ma non sempre corretto, è costituito dalle dichiarazioni rese dai cosiddetti collaboranti di giustizia. Secondo l’orientamento ormai prevalente della giurisprudenza, la condanna dell’imputato può anche basarsi su plurime dichiarazioni convergenti che si riscontrano reciprocamente, senza necessità di operare un controllo estrinseco, di natura oggettiva, sulle singole chiamate in correità. Se ciò è vero, bisogna chiedersi a quale sorte vada incontro il condannato nel caso in cui, dopo il passaggio in giudicato della sentenza, uno dei collaboranti ritratti le proprie dichiarazioni accusatorie. La risposta a questo interrogativo rivela i limiti di questo pericoloso strumento probatorio, soprattutto se viene utilizzato senza le dovute cautele: il condannato, infatti, non è legittimato a chiedere la revisione del processo, a meno che riesca ad acquisire – diversamente da quanto si è fatto nel corso del giudizio – elementi di riscontro oggettivo che confermano l’attendibilità delle nuove dichiarazioni rese dal collaborante.

Considerazioni analoghe vanno fatte, ovviamente, con riferimento alla vicenda cautelare e al problema della ingiusta detenzione. Anzi, si può ben dire che la dinamica del procedimento incidentale de libertate moltiplica i rischi di incorrere in errori, spesso irreparabili: da un lato, infatti, occorre ricordare che la valutazione degli elementi di prova prescinde da un confronto dialettico tra le parti sulla loro effettiva consistenza ed attendibilità; dall’altro lato, tale valutazione prelude all’adozione di provvedimenti immediatamente esecutivi (art. 588 comma 2 c.p.p.), con la conseguenza di poter soltanto riparare –  e non più prevenire –  l’errore eventualmente commesso.

4. I possibili rimedi

Alla luce di quanto detto finora, ci si rende conto di quanto sia difficile il compito del giudice e di come la più seria ed efficacia difesa preventiva contro il pericolo dell’errore giudiziario risulti affidata, innanzitutto, allo scrupolo senza limiti di chi giudica e alla sua umiltà nella valutazione della prova, sia essa testimoniale o documentale[21].

In un sistema fondato sul libero convincimento, è sempre immanente il pericolo che il giudice, anche nella più completa buona fede, possa ritenere di aver raggiunto la prova della colpevolezza dell’imputato di fronte ad indizi raccolti nella prima fase delle indagini oppure di fronte alle dichiarazioni accusatorie di un imputato di reato connesso che, in seguito, si dimostra del tutto inattendibile.

Ciò nonostante, non si può pensare che l’esito di un processo sia affidato esclusivamente allo spirito critico e al senso di responsabilità del giudice. Come già detto, l’errore giudiziario potrebbe scaturire da indagini condotte con eccessiva superficialità, da un accertamento tecnico fuorviante, da un documento falso, da una testimonianza ingannevole oppure da una negligente partecipazione al processo dell'imputato e, soprattutto, del suo difensore.

È evidente, quindi, che la lotta all’errore giudiziario impegna tutti i soggetti coinvolti nel procedimento penale, nessuno escluso.

Anche il legislatore non può ritenersi esente da responsabilità, in quanto la determinatezza della norma incriminatrice e la chiarezza delle regole processuali in tema di assunzione, di utilizzazione e di valutazione dei mezzi di prova incidono notevolmente sui possibili esiti dell’accertamento penale. In proposito, va ricordato  che l’indagine giudiziaria non è una ricerca puramente intellettuale ma il presupposto di decisioni sulle libertà dei cittadini, nelle quali il potere, in assenza di limiti normativi ben definiti, tende immancabilmente a prevalere sul sapere[22].

Una fattispecie formulata in maniera estremamente generica favorisce interpretazioni contraddittorie, mentre un sistema processuale che non dia adeguato rilievo al valore epistemologico del contraddittorio impedisce un’attenta verificazione dell’ipotesi accusatoria. In entrambi i casi, si moltiplicano le possibilità di errore e, di conseguenza, le possibilità di commettere gravi ingiustizie.

Tali considerazioni offrono lo spunto per una breve riflessione sui recenti interventi legislativi, sia in campo penale sia in quello processuale.

Non di rado, l’accertamento giudiziario è complicato dalla scarsa chiarezza della fattispecie o dalla presenza di più fattispecie limitrofe, cosicché il giudice è costretto ad una difficile attività di verifica, durante la quale la ricostruzione del fatto concreto lascia il posto a valutazioni astratte e, spesso, arbitrarie. Pertanto, se si vuole semplificare il processo, la norma incriminatrice deve fondarsi prevalentemente su elementi descrittivi, empiricamente verificabili, al fine di dotare la fattispecie di una effettiva offensività e di ridurre al minimo la possibilità di compiere errori di valutazione nel corso del giudizio. In tal senso si è mosso il legislatore modificando l’art. 323 c.p.[23] e cercando di circoscrivere entro limiti più chiari una fattispecie –  quella dell’abuso di ufficio –  che troppe volte aveva dato vita a gravi incertezze sia sul piano interpretativo sia, ovviamente, su quello applicativo.

Un giudizio sostanzialmente positivo può essere espresso anche sulle modifiche apportate al codice di procedura penale in tema di formazione ed utilizzazione della prova[24]. La cosiddetta «riforma dell’art. 513 c.p.p.» ha rappresentato, senza dubbio, un decisivo passo in avanti per il recupero del contraddittorio e, più in generale, delle regole minime del processo accusatorio.

 Ciò nonostante, l’intervento del legislatore non può essere considerato, nel suo complesso, esente da pecche. È  evidente, infatti, che a poco potrà servire un recupero parziale del contraddittorio, per altro in fasi anteriori al giudizio dibattimentale, se non verranno introdotte nuove regole che assicurino una effettiva parità tra le parti e che determinino, in maniera tassativa, i criteri per la valutazione delle dichiarazioni rese dai c.d. collaboranti di giustizia[25].

Decisamente critico, invece, è il giudizio sulla istituzione del giudice unico di primo grado in materia penale. Per restare sul piano delle garanzie, bisogna ricordare che il «giudice unico di primo grado» significa, soprattutto, il «giudice monocratico» come regola ed il «giudice collegiale» come eccezione. Tale soluzione suscita grosse perplessità, in quanto la collegialità rappresenta un valore da salvaguardare, tanto più nel dibattimento di primo grado, dove dovrebbe formarsi la prova dinanzi al giudice chiamato a pronunciarsi sulla responsabilità dell’imputato e dove, quindi, il giudizio dovrebbe potersi avvalere di apporti critici diversi, dialetticamente confrontabili in camera di consiglio, essendo grave il rischio di errori giudiziari determinati dalla valutazione «solitaria» di fattispecie particolarmente complesse. Eppure, questa prospettiva non è lontana dalla realtà, ove si consideri il giudice monocratico – secondo le direttive imposte dal legislatore delegante[26] – sarà competente anche per gravi delitti come la rapina o l’estorsione e, salvo eccezioni, dovrà giudicare su ogni reato punito con la pena della reclusione non superiore, nel massimo, a venti anni. Va detto, altresì, che nei casi in cui il tribunale sarà chiamato a pronunciarsi in composizione monocratica, si osserveranno, sia pure con i dovuti correttivi[27], le norme oggi vigenti per il procedimento innanzi al pretore, con la conseguenza di dover rinunciare, di regola, ad alcune importanti garanzie del processo accusatorio.

Comunque, al di là delle garanzie offerte dalle norme sostanziali e processuali, una efficace prevenzione dell’errore giudiziario non può prescindere dal senso di responsabilità di coloro che procedono all'accertamento dei fatti.

L’attuale sistema di giustizia penale, in cui abbondano (o, addirittura, eccedono) i meccanismi di controllo, rischia di ridurre sensibilmente tale senso di responsabilità: chi decide – sia esso giudice, magistrato del pubblico ministero o ufficiale di polizia giudiziaria –  confida sempre in un successivo controllo sulla decisione adottata, senza considerare che un suo eventuale errore potrebbe aver già prodotto conseguenze pregiudizievoli, sia sul piano umano sia su quello processuale.

Il pericolo di una deresponsabilizzazione degli organi giudiziari è immanente in ogni processo, ma si avverte con particolare inquietudine proprio nei sistemi ispirati alla tutela dei diritti individuali.

Del resto — lo scriveva Cesare Beccaria già nel 1764 — «se nel cercare le prove di un delitto richiedesi abilità e destrezza, se nel prestarne il risultato sono necessarie chiarezza e precisione, per giudicare del risultato medesimo, non vi si richiede che un semplice ed ordinario buon senso, men fallace che il sapere di un giudice assuefatto a voler trovare rei, e che tutto riduce ad un sistema fittizio imprestato dai suoi studi»[28].

***

Commento

di Eugenio Mandara

Studente iscritto al quinto anno del corso di laurea in giurisprudenza

Dipartimento di Scienze Giuridiche – Università degli Studi di Salerno

 

Humanum fuit errare, diabolicum est per animositatem in errore manere[29]. Non si riscontra nessuna parola, nel vocabolario ellenico, corrispondente al termine “errore”: ἁμάρτημα sta a indicare la “colpa”, nella sua accezione etica; ἀπάτη esprime “inganno”; ψεῦδος è “bugia”.

Eppure la diversità di uso consente di precisarne, in modo fluido, il significato; sovente coincidente col termine “errore”, anche – sopraccitato – latino sensu.

Non di meno nel nostro vocabolario tale termine è considerato intercambiabile con altri, tutti subordinati a fluttuazioni rispetto ai diversi contesti storico-culturali ove inseriti. Ciononostante sin dalla stessa antichità ellenica il problema dell’errore – sia sul piano ontologico che gnoseologico – è stato oggetto di studi, senza pervenire mai a una teoria generale e universale. L’errore – inoltre – è presente in svariati ambiti teoretici e pragmatici: politica, etica, diritto ecc.

Proprio in quest’ultimo muovono – in occasione di un convegno tenutosi a Erice nel 1998 – le riflessioni del Professore Andrea Antonio Dalia, più propriamente in tema di errore giudiziario.

Locuzione apparentemente scialba per un non diretto interessato e/ o conoscitore ma dalla connotazione tremenda – ”rovescio oscuro del fenomeno processuale, bancarotta dell’accertamento, radicale eterogenesi delle finalità assegnate alle nostre aule di giustizia”[30] – che amalgama in una pozione, dal potenziale micidiale, da un lato l’errore: “giudizio o valutazione che contravvenga al criterio riconosciuto valido nell’ambito cui il giudizio stesso si riferisce, o i limiti di applicabilità del criterio stesso“[31]; dall’altro lato il sistema processuale, àncora di garanzia nell’attuazione di un diritto inviolabile – o interesse legittimo – leso.

Basti pensare all’affermazione – in testa allo scritto del Prof. – circa l’errore giudiziario quale “vero problema” (Carnelutti) del processo penale, la cui funzionalità e credibilità dipendono propriamente dalla sua abilità nell’evitare la somministrazione di questa pozione o quanto meno, una volta somministrata, a ricercare anticorpi in grado di mitigarne gli effetti.

Nell’ordinamento vigente, al condannato prosciolto in sede di revisione si riconosce il diritto alla riparazione dell’errore giudiziario[32] – purché non ne abbia dato causa per dolo[33] o colpa grave[34] – quale traduzione, in chiave oggettiva, nel c.p.p. (art.643) dell’art. 24 c. 4 della Costituzione oltre che dell’art. 5 c.5 CEDU e dell’art. 9 n. 5 del Patto internazionale dei diritti civili e politici.

L’errore giudiziario presenta quattro diverse accezioni: latissimo e lato sensu; stricte e strictissime sensu.

Il Professore si sofferma sulla accezione più ampia, ovverosia ogni errore in cui incorra la giustizia penale: condanna di un innocente, assoluzione di un colpevole, inutile rinvio a giudizio dell’imputato ecc. Subito dopo distingue gli errori pro reo dagli errori contra reum.

A quest’ultimi segue una ulteriore distinzione tra quelli improduttivi di pregiudizi per l’imputato, in quanto corretti in tempo; e i produttivi da ritenersi – dal punto di vista meramente tecnico-giuridico – gli unici veri errori giudiziari, infatti nella relazione in commento si afferma come il diritto a una equa riparazione – nei fatti – è subordinato solo all’ingiusta esecuzione di una pena, di una misura di sicurezza o di un provvedimento impositivo della custodia cautelare.

Non solo. Si Sìsottolinea – non su un piano squisitamente etico ma anche economico – il grave pregiudizio subìto dall’imputato assolto, trovandosi – quest’ultimo – di fronte a un indubbio “processo ingiusto” ove la sentenza assolutoria – unico rimedio agli errori nell’iter processuali – non potrà mai risarcire, a pieno titolo, il danno sofferto[35]; ma con una precisazione: vista la difficoltà già solo nel commisurare l’entità economica[36] dei danni di tali errori, è opportuno evitare questi ab initio anziché prevedere forme di indennizzo, che lo Stato si accolla per ragioni di solidarietà civile.

 Orbene non si può non collegare la trattazione ad un punto di vista prettamente eziologico ma il Professore preme, più volte, sul negare la determinabilità dell’errore giudiziario – unicamente – da un errore del giudice: coincidenze, apparenze, imprevedibilità nonché cause riconducibili o estranee al processo non restano escluse. Per quanto detto una classificazione delle cause risulterebbe come che sia disparata, eterogenea; dovendosi per lo più soffermare – in via prevalente – sulle falsità, sulle erroneità e sulle errate valutazioni probatorie. Con un occhio di riguardo verso quest’ultime dacchè si pone il problema, architrave del nostro sistema processuale, del libero convincimento del giudice il quale – finanche nella più piena buona fede – potrà errare per inesperienza, per imprudenza, per circostanze in sè contradditorie o inverosimili. Si pensi alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, sulle quali – già all’epoca – il Professore nutriva sgradevoli dubbi, sperando in una razionalizzazione dei criteri valutativi di queste: la loro capacità di convergere verso un obiettivo – tramite una non benevola, e talvolta addirittura cosciente, eterogenesi dei fini punitivi – è legittimata da una vicendevole appurabilità plurilaterale delle medesime, la quale rende possibile l’eventuale elusione di un controllo equanime circa la fondatezza delle dichiarazioni stesse, inducendo in errore il giudice.

Da qui, poi, un’analisi sui differenti sistemi processuali, dove il Professore Dalia evince una non indifferente idoneità nell’evitare l’inevitabile: il sistema processuale inquisitorio fondato su una fiducia illimitata nel potere decisionale del giudice-accusatore, il quale è dotato di una capacità indiscussa circa la ricerca della verità assoluta; il sistema processuale accusatorio fondato su una sfiducia tendenzialmente illimitata di quel potere decisionale, alla ricerca di una verità processuale – probabile e opinabile – e in quanto tale suscettibile di confutazione. Nel primo sistema l’errore, eventualmente commesso, affoga nel mito del giudicato; nel secondo sistema l’errore, quale limite imprescindibile alla verità giudiziale, è soggetto a una lotta continua ed estenuante con l’accertamento penale. Contrasto riscontrabile nel nostro sistema processuale – fondato su esigenze, “almeno originariamente”[37], garantiste – ove vi sono diversi “farmaci”, pronti a interferire con l’errore giudiziario: disposizioni sul procedimento di archivazione; disposizioni in tema di competenza; disposizioni a tutela dell’imparzialità del giudice; nonché la stessa distinzione tra fase preliminare e processo – la quale è interpretata dal Professore in una chiave di lettura addizionale – in quanto intesa anche nell’evitare imputazioni azzardate, dunque nell’evitare errori sulla stessa necessità di svolgimento del processo.

Infine chiude tale sistema la clausola residuale dell’art 530 comma 2 c.p.p. con l’obbligo di assoluzione in caso di dubbio: pietra miliare di un sistema garantista è assicurare la certezza del “diritto penale minimo”, volto a garantire l’imputabilità di nessun innocente invece dell’inimputabilità di nessun colpevole. Riflessioni, dunque, risalenti al secolo scorso eppure fervidi, pulsanti, indissolubilmente legate – in questo caso specifico – a quel fil rouge volto al dibattito di crudele attualità, nell’ambito della politica e della giustizia, fondato sulle “correnti” contrapposte del garantismo e del giustizialismo.

Quest’ultima a priori, sul piano teoretico, elimina – o quantomeno tenta – la figura del supposto incolpevole a favore di quella dello scampato disonesto, elusivo dell’incontrovertibile verità del giudice-accusatore: bloccato in una gabbia pseudo etica dovrà, ad esempio, dimettersi da ogni carica pubblica in quanto il presunto reato è da stimare esso stesso – tacitamente – reato ut sic; con buona pace della maggioranza dei principi di un qualsivoglia Stato di Diritto; con lo stupro della presunzione di innocenza, sacrosanta e omnino valida; senza la minima considerazione ontologica dell’eventualità/imprevedibilità di un errore di giudizio, di valutazione o di ricerca. Alla luce di tutto ciò, il giudice non può, però, non essere disistimato come l’unico regista e/o attore nel triste cortometraggio dell’errore giudiziario: nemmeno il legislatore può esserne escluso, deve responsabilizzarsi – attivamente ed effettivamente – sulla determinatezza, in chiave prevalentemente ateoretica, della norma incriminatrice; e sulla chiarezza delle regole processuali in tema probatorio, le quali gravano come un macigno sugli esiti – fallaci o meno – dell’accertamento penale e sulla insopportabile macchinosità deplorevole del processo medesimo. Tuttavia tali garanzie, in ambito sostanziale e processuale, devono cedere la prima classe a un – efficiente ed efficace – meccanismo preventivo di controllo, senza tuttavia naufragare in una deresponsabilizzazione degli organi giudiziari: frutto dell’intimo contatto con una idillica serenità susseguente alla contezza di una – sistematica – vigilanza foranea ex post, alla base – quest’ultima – dell’algoritmo processuale, proprio di ogni struttura implementata con programmi finalizzati al riconoscimento e alla garanzia dei diritti inviolabili. D’altronde, come ricorda in chiusura il Professore, giá Beccaria invocava al giudice – nella ricerca e valutazione delle prove – l’uso del “semplice e ordinario buon senso”, inteso nella sua accezione cartesiana. Ironia della sorte, il nipote – qualche tempo dopo – darà alla luce un saggio, in cui l’errore giudiziario ne è crudele primattore: umili anime soggette – per un’accusa infondata (“invenzione”) – a torture inenarrabili, alla condanna capitale, nonché a una contradamnatio memoriae. Fu edificata una “colonna infame” – quale avvertimento in omni tempore – sulle macerie della dimora del barbiere, una delle due vittime di quel zeitgeist impregnato di una viscerale fobofobia che indusse i giudici a farsi coinvolgere dalla “favola”, a farsi accecare dalla ossessiva ricerca di un colpevole[38], laddove “l’innocenza supplicava l’ingiustizia”[39].

Alla fin fine, in qualsiasi quadro spazio-temporale, si ritorna lí: “Humanum fuit...“.

L’assunto dell’infallibilità umana è fenomenologicamente un ingannevole orizzonte: più ci si avvicina, più si allontana.

L’errore – giudiziario – esiste, esisteva ed esisterà.

Consapevolizzarsi di ciò significa, invero, reggersi ritti, addurre le scapole e non poterne tollerare nè la genesi, nè la reiterazione, nè il compimento di atti con cui tali errori si estrinsecano: riservando una prognosi giuridica quoad functionem alla vittima dell’errore; dando assoluta priorità alla prevenzione primaria (non alla secondaria nè alla terziaria), sottolineando in tal punto l’importanza straordinaria del ragionamento probabilistico, e declassando la riparazione – nondimeno il risarcimento – a extrema ratio; responsabilizzando sostanzialmente tutte le parti direttamente o indirettamente protagoniste, con uno speciale riguardo all’incentivazione del “circolo ermeneutico tra legislatore e giudice”[40]; non separando mai l’aspetto logico-epistemologico del diritto da quello morale e antropologico lato sensu, per cui, a es., non si comprende la pubblicazione della sentenza di proscioglimento – quale riparazione etica – solo al soggetto prosciolto in sede di revisione; e tenendo bene a mente la prevalenza del lato soggettivo dell’errore rispetto all’oggetto errato, fermo restando la loro inscindibile coesistenza e dunque non potendosi negare un analisi, pur sempre, dicotiledone. Ebbene, consapevolizzarsi di tutto ciò non significa – in conclusione – inginocchiarsi; non significa fare lo gnorri[41]; non significa rassegnarsi alla sua inestinguibilità: con il conseguente e ineluttabile sprofondamento della certezza/fiducia del diritto nelle sabbie mobili della utopistica indefettibilità terrena.

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] Così Carnelutti, Lezioni sul processo penale, vol. IV, Roma, 1949, p. 148.  

[2] Sul punto, per un’analisi approfondita, v. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, 1996, p. 15 s.

[3] I cardini della rappresentazione del processo penale come strumento di difesa sociale sono stati efficacemente delineati da Manzini, Trattato di procedura penale e di ordinamento giudiziario, vol. I, Torino, 1929, p. 91 s., dove si afferma che «l’interesse fondamentale che determina il processo penale è quello di giungere alla punibilità del colpevole, di rendere cioè realizzabile la pretesa punitiva dello Stato contro l’imputato, in quanto costui risulti colpevole: non già l’interesse di pervenire alla proclamazione della innocenza o della moralità dell’incolpato».

[4] Leone, il mito del giudicato, in Riv. dir. proc. pen., 1956, p. 197.

[5] Cordero, Diatribe sul processo accusatorio (1964), in Id., Ideologie del processo penale, Milano, 1966, p. 220.

[6] Ascarelli, Processo e democrazia, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, p. 858.

[7] Leone, Il mito del giudicato, cit., p. 171 s.

[8] Si pensi, ad esempio, al riconoscimento, ex artt. 495 comma 2 e 468 comma 4, di un diritto incondizionato alla prova contraria, quale strumento di confutazione degli elementi probatori addotti da ciascuna parte nel corso del giudizio, allo scopo di realizzare un effettivo contraddittorio per la prova.

[9] Il riferimento è al divieto –  imposto dall'art. 192 comma 2 –  di desumere un fatto da indizi, a meno che questi siano «gravi, precisi e concordanti» ed alla necessità di un riscontro probatorio estrinseco della chiamata in correità, in ragione della sua attitudine ad ingenerare un erroneo convincimento del giudice.

[10] Al riguardo, non si può che esprimere un giudizio positivo sull'ampliamento delle cause di incompatibilità, per effetto degli interventi della Corte costituzionale, mentre suscita notevoli perplessità la decisione con la quale la stessa Corte costituzionale ha escluso la incompatibilità a partecipare alla udienza preliminare del giudice che, nel corso delle indagini, si sia pronunciato favorevolmente sulla richiesta di applicazione di una misura cautelare personale nei confronti dell’imputato. Bisogna chiedersi, infatti, quali garanzie possa offrire un giudice che ha condiviso il convincimento dell'accusa sulla esistenza dei gravi indizi di colpevolezza e che, per dichiarare il non luogo a procedere, dovrebbe assumere un atteggiamento autocritico e riconoscere esplicitamente l'errore commesso.

[11] Non a caso, l'art. 588 c.p.p. impone, di regola, la sospensione degli effetti del provvedimento impugnato fino all'esito del giudizio di impugnazione.

[12] Il tema è ampiamente analizzato da Ubertis, La ricerca della verità giudiziale (1992), in Id., Sisifo e Penelope. Il nuovo codice di procedura penale dal progetto preliminare alla ricostruzione del sistema, Torino, 1993, p. 49 s.

[13] L’idea del procedimento penale come via o cammino per l’attuazione del diritto penale sostanziale e la conseguente esecuzione della pena, è comune alla quasi totalità dei più remoti studiosi: v., per tutti, Pessina, Sommario di lezioni sul procedimento penale, Napoli, 1883, p. 1 s. Già allora, però, la tutela della innocenza del cittadino ingiustamente perseguito veniva indicata come scopo primario del processo da Carrara, Programma di diritto criminale, parte gen., vol. III, Lucca, 1877, p. 74, secondo il quale «il rito penale è salvaguardia dei galantuomini», poiché «intuito degli ordinamenti processuali è di frenare la violenza dei magistrati». Più recentemente, la esigenza di assicurare quella che viene definita la «certezza di diritto penale minimo» è stata sottolineata, con estrema chiarezza, da Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 80 s.

[14] In tal caso, così come dispone l’art. 314 comma 2 c.p.p., il diritto ad una equa riparazione è subordinato alla verifica che il provvedimento restrittivo della libertà personale sia stato emesso o mantenuto in mancanza dei presupposti indicati dagli artt. 273 e 280 c.p.p.

[15] Salva l'ipotesi, del tutto eccezionale, di una revisione contra reum, quando con la sentenza definitiva di condanna sono state riconosciute, per effetto di dichiarazioni false o reticenti, le attenuanti previste dall'art. 8 comma 1 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, ai condannati che hanno collaborato con l'autorità giudiziaria.

[16] In proposito, non si può che rinviare alla disciplina dei relativi istituti, contenuta negli artt. 314-315 e 643-647 c.p.p.

[17] Cordero, Procedura penale, Milano, 1983, p. 804.

[18] Sul punto, cfr. Capalozza, Contributo allo studio dell’errore giudiziario, Padova, 1962, p. 81; Scaparone, Il IV comma dell’art. 24 Cost., in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1981, p. 127.  

[19] In proposito, è sufficiente ricordare uno dei casi più clamorosi di errore giudiziario, quello relativo alla vicenda di Salvatore Gallo, condannato all'ergastolo dalla corte di assise di Siracusa (sentenza confermata dalla corte di assise di appello di Catania e dalla corte di cassazione) per il presunto omicidio del fratello Paolo. Il processo ebbe inizio senza aver ritrovato il corpo della vittima ed invano numerosi testimoni dichiararono, in giudizio, di aver incontrato più volte il fratello dell'imputato, il quale — a loro dire — era ancora in vita. I testimoni non furono creduti e venero tutti condannati per falsa testimonianza. Successivamente, il «morto» si decise a presentarsi al giudice, quando la sentenza di condanna era ormai passata in giudicato. Ciò nonostante, la corte di cassazione ritenne di non poter procedere alla revisione del processo, perché si trattava di un caso non espressamente previsto dalla legge. Pertanto, si rese necessario modificare l'art. 554 c.p.p. 1930 — che enunciava i casi di revisione — inserendovi anche l'ipotesi in cui, dopo una condanna per omicidio, fossero emersi nuovi elementi di prova che rendevano evidente il mancato decesso del destinatario dell'azione criminosa (legge 14 maggio 1965, n. 481).

L’esempio è tratto da Pisapia G.D., Errore giudiziario (riparazione dell’), II) Diritto processuale penale, in Enc. giur., vol. XIII, Roma, 1989, p. 1. 

[20] E’ sufficiente citare, al riguardo, i lavori di: Ambroset-Pisapia G.V., Numero oscuro della devianza e questione criminale, Verona, 1980; Conci, L’errore giudiziario nell’arte, nella storia, nella cronaca, Napoli, 1933; Floriot, Les erreurs judiciaires, Parigi, 1968; Giuriati, Gli errori giudiziari. Diagnosi e rimedi, Milano, 1983; Pannain, Errore giudiziario, in Arch. pen., 1954, I, p. 62 s.

[21] In tal senso, Pisapia G.D., Errore giudiziario, cit., p. 2.

[22] La concezione dell’accertamento penale come relazione tra sapere e potere è mirabilmente illustrata da Ferrajoli, Diritto e ragione, cit., p. 18 s.

[23] V. art. 1 l. 16 luglio 1997, n. 234, pubblicata sulla Gazz. uff. del 25 luglio 1997, n. 172.

[24] Il riferimento è alla l. 7 agosto 1997, n. 267, pubblicata sulla Gazz. uff. dell’11 agosto 1997, n. 186.

[25] Al riguardo, è opportuno ricordare che sono tuttora all’esame del Parlamento i disegni di legge relativi alla nuova disciplina delle indagini difensive e alla modifica dell’art. 192 c.p.p.

[26] V. art. 1 comma 1, lett. c), della legge-delega 16 luglio 1997, n. 254, pubblicata sulla Gazz. uff. del 5 agosto 1997, n. 181. Successivamente, con il d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 — pubblicato sul supplemento ordinario n. 48/L alla Gazz. uff. del 23 marzo 1998, n. 66 — il Governo ha dato attuazione alla suddetta legge-delega, rispettando fedelmente le direttive impartite dal Parlamento in tema di ripartizione della competenza tra giudice monocratico e giudice collegiale.  

[27] Il Governo, infatti, ha già presentato in Parlamento un disegno di legge diretto a modificare il c.d. procedimento pretorile, per adeguarlo al nuovo assetto delle competenze del tribunale in composizione monocratica. In particolare, è prevista la possibilità per l’imputato di chiedere lo svolgimento della udienza preliminare, qualora si proceda per delitti puniti con la pena della reclusione superiore, nel massimo, a quattro anni. Per un ulteriore approfondimento sul disegno di legge, vedine il testo in Guida al diritto-Il Sole 24 ore, 1998, n. 8, p. 17 s.

[28] La citazione è tratta da Dei delitti e delle pene, ed. a cura di F. Venturi, Torino, 1981, vol. IV, p. 16.

[29] Agostino d’Ippona, Sermones (164, 14).

[30] G. Fornero, Errore (voce), in N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, Torino, 1998.

[31] Luparia, Cultura della prova ed errore giudiziario: il processo penale in discussione, in Errori giudiziari e background processuale, Giappichelli, 2017.

[32] La prima forma di riparazione è quella pecuniaria da considerarsi come diritto soggettivo e non, nella configurazione originaria, come mera aspettativa, sul punto (G. Spangher, Riparazione pecuniaria, in Enc.dir.,Milano, 1989).

[33] “La nozione di dolo che qui viene in considerazione non è quella recepita dal diritto penale, ma piuttosto quella ricorrente nella teoria generale del negozio giuridico”, così G. Tranchina, Riparazione alle vittime degli errori giudiziari, in N. dig.it,XV, Torino, 1968.

[34] La colpa grave non è ostativa, al diritto di tale riparazione, quando si è limitatata ad essere una delle cause concorrenti, diversamente da quanto accade per il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione (Cass. pen., sez. IV, 4 febbraio 2010, n. 9213.). Deve essere, per giunta, direttamente attribuibile al condannato. (Cass., sez. III, 10 marzo 2011, n. 249903.)

[35] L’ordinamento prevede la riparazione per danni patrimoniali e non patrimoniali, quest’ultimi in sede di liquidazione sono da considerare in tutte le loro peculiari sfaccettature, in particolare: interruzioni di attività lavorative e ricreative, dei rapporti affettivi e degli altri rapporti intrapersonali, e al mutamento radicale, peggiorativo e non voluto, delle abitudini di vita. (Cass. pen., sez. IV, 18 marzo 2009, n. 2268). È risarcibile anche anche il danno da perdita di chance, consistente in un pregiudizio concreto e attuale e non ricollegato a un’ipotesi congetturale. (Cass. pen., sez. IV, 23 febbraio 2006, n. 243). Si precisa infine che sono risarcibili, in sede di riparazione dell’errore giudiziario:il danno morale soggettivo, il danno biologico in senso stretto e il danno esistenziale; trattandosi di differenti e autonome categorie, ricomprese nel danno non patrimoniale (Cass. pen. 25 novembre 2003, n. 2050).

[36] I parametri per commisurare l’entità della riparazione sono la “durata dell’eventuale espiazione della pena o internamento” e “le conseguenze personali o familiari derivanti dalla condanna”. Il primo si ritiene applicabile ad ogni pena, salvo quella pecuniaria.Inoltre non si ritiene applicabile la proporzione aritmetica calcolata sul rapporto esistente tra la durata della detenzione e l’ammontare dell’indennizzo. (Cass, Sez. IV, 21 aprile 1994, Moroni in RP,1995,964). Nel procedimento di liquidazione il giudice potrà utilizzare sia il criterio risarcitorio, per danni patrimoniali e non patrimoniali, sia il criterio equitatativo – più frequente – per le voci non esattamente quantificabili. (Cass, msez. IV 27 maggio 2015, F.V.,CP 2016, 2557; Cass, sez. IV 20 marzo 2012,S.R., CED 252446; Cass, sez. IV 22 gennaio 2004, Barillà, CED 227669).

 

[37] Il Professore intuiva, velatamente, il rischio di una traslazione verso un sistema soavemente inquisitorio.

[38] “Ma la passione è pur troppo abile e coraggiosa a trovar nuove strade, per iscansar quella del diritto, quand’è lunga e incerta” in A.Manzoni, Storia della colonna infame, Cap. III.

[39] A. Manzoni, Storia della colonna infame, Cap. V.

[40] S. Penasa, Verso una razionalizzazione dell’attuazione della responsabilità disciplinare e civile dei magistrati? Spunti dalla giurisprudenza.

[41] “L’ignoranza in fisica può produrre degl’inconvenienti, ma non delle iniquità; e una cattiva istituzione non s’applica da sè”. in A. Manzoni, Storia della colonna infame, Cap. I