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Pubbl. Sab, 12 Ott 2024

Un nuovo modello processuale per la criminalità organizzata di Andrea Antonio Dalia

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Antonio Grimaldi
Praticante NotaioUniversità degli Studi di Salerno



Il presente progetto editoriale ha lo scopo di rendere omaggio ad un grande Maestro attraverso brevi commenti, dal carattere divulgativo, relativi ai più svariati temi che interessano il diritto processuale penale. L’ obiettivo dichiarato è quello di restituire attualità al Suo pensiero, attraverso l’analisi di relazioni rese in occasione di lezioni, convegni e congressi. Una vera sfida, oltre che un grande onore per chi, ancora tra i banchi delle aule universitarie, sta per affacciarsi al mondo delle professioni legali.


Convegno su

Un nuovo modello processuale per la criminalità organizzata

Belvedere di San Leucio, 13 ottobre 2001

di

Prof. Andrea Antonio Dalia

Sommario: 1. La scelta del tema di indagine; 2. Le considerazioni svolte a seguito della legge n. 267/97; 3. Il successivo intervento della corte costituzionale: la sentenza n. 361/98.; 4. La riforma dell’art. 111 della Costituzione; 5. La rilevanza costituzionale del principio “di non dispersione”; 6. Il riconoscimento di valore probatorio agli atti di indagine; 7. Gli ulteriori limiti della riforma del «giusto processo»; 8. Conclusioni.

1. La scelta del tema di indagine

A distanza di pochi anni — quattro, per l’esattezza — l’Associazione torna ad occuparsi dei processi per delitti di criminalità organizzata, affidandomi, ancora una volta, il compito di svolgere una relazione sul tema.

A Trapani, nel 1997, l’intero convegno fu dedicato alla complessa e discussa tematica della oralità e del contraddittorio nei processi di criminalità organizzata e, nell’ambito di un così vasto campo di indagine, affrontai il problema della formazione della prova e delle possibili prospettive di riforma.

La costante attualità e la estrema delicatezza del tema basterebbero, da sole, a giustificare la scelta di insistere nell’analisi di questo tema, nella prospettiva di un rinnovato impegno scientifico su problemi che non hanno ancora trovato soluzioni appaganti.

Ma vi è di più: l’odierno dibattito non può affatto considerarsi una semplice riedizione — sia pur aggiornata — di quello che animò il convegno siciliano del 1997, per l’ovvia considerazione che, rispetto ad allora, è completamente mutato il quadro normativo — costituzionale e ordinario — da cui muovere nella riflessione sul «nuovo modello processuale» per i delitti di criminalità organizzata.

Pertanto, il discorso non può che prendere avvio dal punto in cui lo si interruppe nel 1997, chiarendo, tuttavia, che non è più tempo di ipotizzare «prospettive di riforma», ma di verificare contenuti e valori di una riforma attuata, alla luce dai recenti interventi legislativi.

Le considerazioni svolte a Trapani nel 1997 affrontavano «il problema della prova nei processi di criminalità organizzata», un tema apparentemente più circoscritto e specifico di quello che costituisce oggetto dell’attuale relazione, orientata verso la “ricerca” — ma sarebbe più corretto, forse, parlare di “analisi” — del nuovo modello processuale per delitti di cui all’art. 51 comma 3-bis c.p.p.

Questa prima affermazione richiede più di un chiarimento.

Si è detto che, apparentemente, le due relazioni sembrano guardare allo stesso fenomeno in una prospettiva diversa, più circoscritta e specifica, la prima, più ampia e generale, la seconda.

Ma, così non è.

La problematica della prova — oggetto della relazione di Trapani — è ricchissima di implicazioni, tanto da coinvolgere, in maniera diretta o trasversale, molti degli istituti che disciplinano l’accertamento penale, dalle indagini al dibattimento, senza escludere, naturalmente, le misure cautelari e i c.d. riti alternativi al giudizio.

D’altra parte, riflettendo sulle peculiarità del processo di criminalità organizzata, ed assumendone come prototipo quello per i delitti associativi, si rafforza la convinzione che le principali differenze rispetto ad ogni altro tipo di processo attengono, soprattutto, al regime di formazione della prova.

Le connotazioni tipiche del processo per delitti di mafia sono almeno tre:

a) la indeterminatezza della fattispecie, descritta da una norma incriminatrice che abbonda di elementi valutativi elastici o addirittura vaghi;

b) la vastità e la complessità del fenomeno criminoso, che rendono necessaria, il più delle volte, l’instaurazione di processi per un elevato numero di imputati e di imputazioni;

c) la particolare condizione personale e processuale degli imputati di delitti di mafia.

È evidente che tali peculiarità finiscono per incidere, tutte, sul procedimento di formazione della prova: le prime due per ovvie ragioni; la terza in virtù del fatto che l’imputato di delitti di mafia può porsi di fronte all’accertamento penale in modo diametralmente opposto, mostrando di voler collaborare con gli organi giudiziari o, al contrario, rimanendo fermo su posizioni di intransigente ostilità e rappresentando, come tale, un potenziale pericolo per la genuinità delle acquisizioni probatorie.

La conclusione è obbligata: nel discutere sul nuovo modello processuale per i delitti di criminalità organizzata va affrontata, in via preliminare e prioritaria, la problematica relativa alla formazione della prova.

Un ulteriore chiarimento si impone in merito al titolo della presente relazione: «un» nuovo modello processuale — anziché «il» nuovo modello processuale — per i delitti di criminalità organizzata.

Il riferimento — certamente non casuale — ad «un» indefinito modello processuale indirizza il relatore verso la ricerca, nell’ottica del c.d. «doppio binario», di un sistema normativo differenziato che sembra non esserci ancora o non esserci più.

La prospettiva non può essere accolta da chi ritiene, invece, che il modello differenziato per i delitti di criminalità organizzata era — ed è tuttora — previsto dal codice e per di più viene legittimato, oggi, da una fonte di rango superiore, come il riformato art. 111 Cost.

2. Le considerazioni svolte a seguito della legge n. 267/97

Per dar conto di questa prima, dirompente, affermazione occorre partire dalle conclusioni raggiunte al convegno di Trapani del 1997.

Si evidenziò, in quell’occasione, che il problema dell’accertamento dei delitti di criminalità organizzata era ben presente già al legislatore del 1988, che non aveva omesso di prestare la dovuta attenzione alla questione de qua.

Era stato proprio il pensiero a quelle forme di criminalità ad aver determinato, infatti, l’inserimento nel codice di talune disposizioni chiaramente destinate a coniugare garanzie, rapidità ed efficienza del sistema processuale.

In quest’ottica andavano — e vanno — lette le disposizioni relative:

a) alla previsione di termini di indagine più ampi per i delitti di maggiore allarme sociale (tra cui, appunto, quelli di criminalità organizzata) (art. 407 c.p.p.);

 b) all’esigenza cautelare — da salvaguardare attraverso il ricorso alla privazione ante iudicium della libertà personale — individuata nel pericolo di commissione di delitti di criminalità organizzata (art. 274, lett. c, c.p.p.);

c) alla richiesta di copie di atti e di informazioni, a fini investigativi, da parte del magistrato del pubblico ministero (art. 117 c.p.p.) e, a fini di prevenzione, da parte del ministro dell’interno (art. 118 c.p.p.);

d) al coordinamento tra i diversi uffici del pubblico ministero nel caso di indagini collegate, in modo da assicurare una risposta efficace all’agire, per trame coerenti e programmate, dei sodalizi criminosi a struttura associativa.

Né poteva sfuggire il collegamento tra il problema dell’accertamento dei delitti di mafia e le disposizioni in tema di incidente probatorio e di acquisizione dei verbali di prova formati in altri procedimenti.

Nel primo caso, tale collegamento era connaturato alla possibilità di ricorrere all’incidente probatorio, anche per l’esame dell’indagato o delle persone di cui all’art. 210 c.p.p., solo quando vi fosse stato fondato motivo di ritenere che la persona da esaminare fosse esposta a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità, vale a dire proprio a quei condizionamenti o a quelle intimidazioni che caratterizzano il modus agendi della criminalità organizzata.

Altrettanto evidente, nel secondo caso, era l’utilità della circolazione dei verbali di prova ai fini dell’accertamento dei delitti di mafia, in quanto la scelta in favore della separazione dei processi, operata dal legislatore del 1988, poteva determinare la perdita di unitarietà nella valutazione dei dati acquisiti, specie nei processi per un numero elevatissimo di imputati e di imputazioni.

Queste ed altre previsioni venivano, tuttavia, reputate inadeguate, atteso che, già a partire dal 1991, prendeva avvio un’incessante produzione normativa, dichiaratamente volta a fronteggiare la dilagante offensiva del crimine organizzato.

Ancorché da più parti venisse prospettata l’opportunità di istituire un vero e proprio “procedimento ad hoc” per l’accertamento dei delitti di mafia, regolato da norme speciali, il legislatore puntò sulla introduzione di deroghe settoriali alla disciplina ordinaria, che riflettevano esigenze connaturate alle indagini e ai processi di criminalità organizzata.

Tantissime le norme modificate o introdotte ex novo, sicché appare superfluo, in questa sede, procedere ad una elencazione esaustiva di tutte le innovazioni che si sono succedute nell’ultimo decennio.

Basterà ricordare, sommariamente, solo alcuni degli interventi di maggior rilievo, tra i quali le modifiche in tema di intercettazioni, nonché di proroga dei termini per le indagini e di coordinamento tra i diversi uffici del pubblico ministero, l’istituzione delle procure distrettuali e della direzione nazionale antimafia, il potenziamento dell’attività di investigazione preventiva (operazioni “sotto copertura”, perquisizioni, intercettazioni, misure di prevenzione e soggiorno cautelare), l’introduzione dell’art. 190-bis c.p.p., le modifiche all’art. 275 comma 3 c.p.p. e alla disciplina dei termini di durata massima della custodia cautelare.

Pur trattandosi di interventi normativi “mirati”, perché destinati unicamente alle indagini e ai processi per delitti di criminalità organizzata, mancava un progetto organico di riforma, sia per la assoluta frammentarietà delle modifiche introdotte — quasi sempre rispondenti alla discutibile logica dell’emergenza — sia per la contemporanea introduzione di ulteriori modifiche al codice, del tutto avulse dal contesto dei reati di mafia.

Già, perché il legislatore, nell’ormai famosa novella del 1992, preannunciata dalle sentenze — note a tutti — della Corte costituzionale, non si limitò a dettare norme valevoli per i soli procedimenti di criminalità organizzata, ma attuò una autentica “ controriforma ” di punti qualificanti dell’apparato codicistico: le innovazioni apportate alla disciplina delle letture dibattimentali e della circolazione dei verbali di prova, ancorché introdotte nella prospettiva di conseguire benèfici effetti soprattutto sul fronte dell’accertamento dei delitti di mafia, erano destinate ad operare in ogni tipo di procedimento penale, a prescindere dalla pericolosità degli imputati e dalla natura delle imputazioni.

Sensibile al coro di critiche che si levò, quasi unanime, in dottrina, contro l’intervento legislativo del 1992, me ne resi interprete, affermando che, se il legislatore era motivato — come appariva evidente — dall’intento di non abbassare la guardia nei confronti della criminalità organizzata, bisognava avere il coraggio di andare fino in fondo ed intraprendere la strada del “doppio binario”.

Sarebbe stato molto più coerente differenziare il regime di formazione della prova in ragione delle diverse tipologie di reati, evitando, così, che le sorti processuali della maggioranza degli imputati fossero pesantemente ipotecate da meccanismi processuali introdotti in funzione delle esigenze connesse all’accertamento di reati attribuibili ad una esigua minoranza di cittadini.

Si trattava, ovviamente, di una provocazione, nell’intento di evidenziare e rafforzare un pensiero indirizzato in tutt’altra direzione: le regole di formazione della prova devono rimanere le stesse, quale che sia il reato oggetto della cognizione del giudice.

Gli sforzi profusi nella direzione di un potenziamento delle strutture e dei mezzi di indagine, in considerazione della particolare complessità e specificità del fenomeno mafioso, meritano apprezzamento, ed è, anzi, auspicabile una attenzione sempre maggiore a questi aspetti, da tradursi nella destinazione di risorse finanziarie, attrezzature e personale specializzato a quei settori investigativi più direttamente impegnati nella lotta al crimine organizzato.

La lotta, però, va condotta al di fuori del processo, essendo, questo, il luogo in cui si accerta la eventuale responsabilità dell’imputato, senza che i mezzi usati ed il risultato ottenuto — qualunque esso sia — tengano conto dei possibili effetti riflessi sulla politica di contrasto alla criminalità organizzata.

Era questo l’auspicio che animava l’intera relazione svolta a Trapani.

Un semplice auspicio, si è detto, perché neppure la legge n. 267/97 — entrata in vigore da poco più di un mese — era riuscita a dare certezza e concretezza all’idea di un recupero del contraddittorio «per la prova» in ogni processo.

Quella legge, infatti, intervenendo sul sistema delle letture dibattimentali, sembrava porre le premesse per una valorizzazione della dialettica probatoria, ma, nel contempo, con le modifiche apportate alla disciplina dell’incidente probatorio e dell’udienza preliminare, creava le condizioni affinché, di fatto, il giudice continuasse a decidere sulla base di atti formatisi in sua assenza, con la conseguente riduzione del dibattimento ad una stanca replica di attività processuali già sedimentate.

Si rinunciava, così, a riportare il dibattimento al centro del processo e la prova al centro del dibattimento.

Appariva fin troppo evidente — già a chi commentava la nuova legge a distanza di pochissimi giorni dalla sua approvazione — come il legislatore si fosse adeguato all’impostazione seguita dalla Corte costituzionale, secondo la quale il “principio” di non dispersione giustificava limitazioni del contraddittorio e quest’ultimo, per effetto del bilanciamento di valori contrapposti, ben poteva coniugarsi con forme né pubbliche né orali del procedimento di formazione della prova.

L’aver intravisto, in quella legge, i segni di un nuovo possibile degrado della dialettica probatoria — e dei principi del giusto processo — era motivo sufficiente per esprimere forti perplessità sulle possibili evoluzioni del modello processuale.

3. Il successivo intervento della corte costituzionale: la sentenza n. 361/98

Appariva chiaro come quella legge, la n. 267 del 1997 appunto, non fosse idonea a recuperare sia il principio della separazione delle fasi, sia i principi della oralità e del contraddittorio nella formazione della prova.

Il legislatore aveva inciso in maniera solo parziale e settoriale sulle regole probatorie, modificando la disciplina relativa alle dichiarazioni rese dai coimputati e dagli imputati di fatti connessi e non anche, come sarebbe stato necessario, le norme riguardanti gli altri mezzi di prova da assumere oralmente in dibattimento (in particolare, la testimonianza).

Neppure vi era stata determinazione sufficiente per portare a compimento la riforma — auspicata da tempo — sul trattamento dei cosiddetti “collaboranti”, prevedendo la decadenza da tutti i benefici connessi al programma di protezione per coloro che rifiutassero di sottoporsi all’esame e al controesame dibattimentale.

Non a caso, proprio in queste “lacune” si insinuava la Corte costituzionale per affermare, con la sentenza n. 361 del 1998, l’asserita irragionevolezza della disciplina allora vigente.

L’intera pronuncia si reggeva, infatti, sull’affermazione secondo cui «non è conforme al principio costituzionale di ragionevolezza una disciplina che precluda a priori l’acquisizione in dibattimento di elementi raccolti legittimamente nel corso delle indagini preliminari».

Se da questa affermazione si fossero ricavate, in maniera coerente, tutte le implicazioni sistematiche, ne sarebbe derivata, paradossalmente, la declaratoria di incostituzionalità dell’intero impianto codicistico del 1988, in quanto fondato sulla separazione delle fasi: l’una, quella delle indagini, destinata all’acquisizione di elementi necessari per le determinazioni sull’esercizio dell’azione penale; l’altra, quella del dibattimento, connotata dalla formazione originaria della prova nel contraddittorio delle parti.

Evidentemente, l’affermazione della corte era indirizzata a tutt’altro fine.

Si voleva riaffermare e valorizzare, in conformità all’orientamento già seguito dalla stessa Corte nel 1992, il cosiddetto «principio di non dispersione degli elementi di prova», volto a contemperare il rispetto dei principi naturali del giudizio — primi, fra tutti, quelli della oralità-immediatezza e del contraddittorio — con l’esigenza di recuperare, ai fini della decisione, quanto acquisito prima ed al di fuori del dibattimento, in ragione dell’altro e più generale principio secondo cui «fine primario ed ineludibile del processo penale resta la ricerca della verità».

Particolarmente indicativo delle opzioni ideologiche della corte era il silenzio di questa sentenza sulla idoneità dello strumento alternativo –  individuato dalla legge poco prima approvata dal Parlamento –  per evitare la dispersione degli elementi di prova e rappresentato dal ricorso, ampliato ed agevolato, alla procedura dell’incidente probatorio.

Piuttosto che dare rilievo alla possibilità di instaurare un contraddittorio anticipato «per la prova», si preferiva assecondare la tendenza al recupero, in dibattimento, della «prova» precostituita nel corso delle indagini preliminari.

Vanno, quindi, opportunamente ridimensionati i riferimenti della Corte alla tutela del diritto di difesa dell’accusato ed alla necessità di salvaguardare, in ogni caso, il principio del contraddittorio. Tanto più che i giudici costituzionali ritenevano adeguatamente tutelati i diritti dell’imputato da quella che poteva considerarsi una autentica «finzione giuridica»: consentire, cioè, l’uso a fini contestativi delle precedenti dichiarazioni – per poi acquisirle al fascicolo per il dibattimento – anche quando il coimputato o l’imputato di reati connessi si fosse rifiutato di rispondere (art. 500 comma 2-bis c.p.p.).

L’importante era assicurare la presenza dell’accusatore dinanzi all’accusato (ed in tal senso era finalizzata l’estensione – operata dalla Corte –  della disciplina dell’art. 210 c.p.p. al coimputato, nel medesimo processo, esaminato sul fatto altrui), per consentire alla difesa di formulare domande e procedere ad eventuali contestazioni, ma tutto sarebbe stato assolutamente inutile di fronte al silenzio –  peraltro non penalmente sanzionato – di chi aveva già reso dichiarazioni accusatorie.

Era di tutta evidenza che la soluzione imposta dalla Corte costituzionale offriva una immagine fittizia – e persino caricaturale – del contraddittorio per la prova, atteso che il meccanismo della (pseudo) contestazione finiva per agevolare solo chi –  presumibilmente l’accusa – avesse introdotto la fonte di prova.

Altrettanto evidente era che gli effetti pratici della sentenza del 1998 fossero gli stessi di quelli derivati dalle pronunce del 1992, con un pieno recupero del principio di non dispersione, specie in funzione dell’accertamento dei delitti di criminalità organizzata.

4. La riforma dell’art. 111 della Costituzione

Che fosse in atto, dopo la sentenza n. 361/98, un conflitto aperto tra potere legislativo e corte costituzionale, attestati su posizioni opposte e difficilmente conciliabili, era una realtà sotto gli occhi di tutti.

A questo stato di cose si è cercato di porre rimedio attraverso la soluzione forse più semplice sul piano tecnico-giuridico, ma sicuramente più complessa e controversa su quello politico: la modifica della Carta costituzionale con l’inserimento, nell’art. 111, dei principi del giusto processo.

Molti, affascinati dalle solenni affermazioni di principio di cui è colmo il nuovo art. 111 Cost., non hanno esitato a definire la riforma un momento d’alto progresso civile e giuridico.

Sono almeno cinque gli enunciati della norma che, in quest’ottica, meritano di essere evidenziati:

  1. «La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge» (comma 1);
  2. «Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo e imparziale» (comma 2).
  3. «La legge assicura la ragionevole durata del processo» (comma 2);
  4. «Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova» (comma 4).
  5. «La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore» (comma 4).

Sembrerebbe, quindi, che la correzione dell’art. 111 Cost. sia diretta alla definitiva affermazione del sistema accusatorio, quale unico modello processuale attraverso cui attuare la giurisdizione penale.

È sufficiente, tuttavia, andare poco più a fondo di una prima, superficiale, lettura, per scoprire le incongruenze e le contraddizioni di un articolato normativo che offre al legislatore ordinario soluzioni ben diverse da quelle accolte –  e prematuramente idealizzate – nell’impianto codicistico del 1988.

Sarebbe più corretto dire, in realtà, che il nuovo art. 111 Cost. non si limita a proporre, ma “impone” un nuovo e diverso modello processuale, che il legislatore ordinario ha dovuto attuare e che la Corte costituzionale, di qui a poco, dovrà certamente verificare e garantire.

È questo il senso di quella “strana” affermazione di principio, inserita al primo comma dell’art. 111, secondo cui «la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge».

L’espressione «giusto processo regolato dalla legge» non può certamente essere intesa come ammissione, consapevole o inconsapevole, della convinzione che fino ad oggi la giurisdizione sia stata esercitata mediante un processo «non regolato dalla legge» oppure –  altra eventualità –  che la giurisdizione sia stata esercitata mediante un processo regolato dalla legge, ma in maniera «ingiusta».

Entrambe le interpretazioni vanno immediatamente accantonate, se non altro perché farebbero un grave torto a quanti quella legge di diritto processuale penale hanno studiato, a quanti quella legge hanno applicato e, soprattutto, a quanti sono stati, malgrado i loro diritti, destinatari di quella stessa legge.

L’espressione utilizzata dal Costituente va recepita, dunque, nell’unico significato accettabile in un paese civile: non può valere come affermazione di una regola di stretta legalità, perché il processo è stato sempre «regolato dalla legge», ma attiene ai principi che, da qui in avanti, devono ispirare la legge che regola il processo.

Per il Costituente tali principi andavano chiaramente espressi nella Carta fondamentale dei diritti, affinché non vi fosse più dubbio alcuno circa la loro vincolatività.

Il «giusto processo», attraverso il quale si attua la giurisdizione, è solo il processo che si ispira ai principi dell’art. 111 Cost., quelli, cioè, fissati nei commi immediatamente successivi al primo.

La proclamata vincolatività dei principi enunciati dall’art. 111 Cost. sembra rafforzare le previsioni contenute nel secondo e terzo comma, secondo cui «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti» ed il processo penale, in particolare, «è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova».

Isolate dall’intero contesto normativo ed interpretate nell’ottica del tema di cui si discute, le due previsioni indurrebbero a pensare che non vi è più spazio per discorsi sul cosiddetto «doppio binario» e sulla introduzione di forme di accertamento differenziate per i delitti di criminalità organizzata: «ogni processo» penale deve essere «regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova».

L’affermazione sembra essere chiara, categorica e –  così intesa — sembra indirizzare verso la soluzione auspicata a Trapani nel 1997.

La lotta al crimine organizzato va condotta al di fuori del processo, rafforzando le misure di prevenzione, potenziando le strutture investigative ed i mezzi di indagine, ma non può tollerarsi un regime differenziato di formazione e — tanto più — di valutazione della prova, poiché il giudizio è sede in cui si accerta l’eventuale responsabilità penale dell’imputato e a quest’ultimo vanno riconosciute determinate garanzie, a prescindere dal tipo di reato che gli viene contestato.

5. La rilevanza costituzionale del principio “di non dispersione”

Ci si deve chiedere, a questo punto, se la riflessione appena formulata possa essere intesa come il risultato incontrovertibile dell’analisi esegetica o se, piuttosto, il dato normativo, di livello costituzionale, solleciti riflessioni più approfondite.

Il dubbio è che da un’analisi più attenta emerga una realtà profondamente diversa, e persino contraddittoria, che esalta il metodo dialettico di formazione della prova come proiezione del modello accusatorio, ma imprime, nel contempo, il crisma della legalità costituzionale anche a processi in cui l’accertamento dei fatti avviene al di fuori del contraddittorio tra le parti.

Questo dubbio trae giustificazione dal raffronto tra il quarto ed il quinto comma dell’art. 111 Cost., che fissano, rispettivamente, la regola e le relative eccezioni.

Nel prevedere che «la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita», l’art. 111 comma 5 Cost. sembra non fare altro che attribuire rilievo costituzionale al famigerato “principio di non dispersione”, attraverso il quale la Corte costituzionale aveva scardinato l’impianto codicistico del 1988.

Sta di fatto che, ora, risulta obiettivamente difficile sostenere che la non dispersione degli elementi di prova, più che un principio, rappresenta solo una mera esigenza processuale, sia pur legittima, ma lontana dall’essere valore fondamentale dell’ordinamento.

Né può dirsi che l’assunto sia smentito dai primi interventi della Corte costituzionale in tema di giusto processo.

Chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 512 c.p.p., nella parte in cui consentiva – secondo l’interpretazione indicata dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 179 del 1994 –  la lettura delle dichiarazioni rese, in corso di indagini, dai prossimi congiunti dell’imputato che si fossero avvalsi della facoltà di non testimoniare, la Corte ha ritenuto tale interpretazione non più conforme al mutato quadro normativo.

Si è affermato, in particolare, che l’interpretazione estensiva dell’art. 512 c.p.p. –  imposta, in passato, dal principio di non dispersione dei mezzi di prova – «è chiaramente incompatibile con la sfera di applicazione della specifica ipotesi di deroga al contraddittorio per accertata impossibilità di natura oggettiva», che non può non riferirsi «a fatti indipendenti dalla volontà del dichiarante» (sentenza 12 ottobre 2000, n. 440).

La Corte, quindi, non rinnega il “principio”, ma esprime la consapevolezza di doverlo ancorare, oggi, a precisi riferimenti normativi, che sono quelli fissati dall’art. 111 comma 5 Cost.

Tra questi assume particolare rilievo, ai fini che qui interessano, il riferimento alla «provata condotta illecita», che il legislatore ordinario ha “tradotto” nella sussistenza di «elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità, affinché non deponga ovvero deponga il falso».

Tali elementi possono essere desunti non solo dagli «accertamenti ritenuti necessari» a provare l’intimidazione o la subornazione, ma anche dalle «circostanze emerse nel dibattimento» (art. 500 commi 4 e 5 c.p.p.).

La norma si presta ad una duplice interpretazione: per un verso, l’acquisizione al fascicolo dibattimentale delle precedenti dichiarazioni potrà essere subordinata ad accertamenti particolarmente approfonditi e specifici, ma ciò richiede l’instaurazione di una vera e propria “procedura incidentale di accertamento”, che sembra, tuttavia, difficilmente conciliabile con la necessità –  imposta dal comma 5 dell’art. 500 c.p.p. –  che il giudice decida «senza ritardo»; per altro verso, la prassi sarà presumibilmente portata a sfumare i presupposti che consentono di ritenere provata la sussistenza della condotta illecita, allo scopo di allargare le possibilità di acquisizione, in dibattimento, delle dichiarazioni utilizzate per le contestazioni.

È facile prevedere che proprio i processi di criminalità organizzata costituiranno terreno fertile per l’acquisizione al fascicolo dibattimentale di precedenti dichiarazioni, considerato che il clima di intimidazione è contrassegno tipico del crimine organizzato e da ciò può agevolmente ricavarsi il concetto di minaccia implicita o, addirittura, di minaccia presunta.

Le ripercussioni sul sistema sono gravissime:

  1. l’art. 500 comma 4 c.p.p. consente di recuperare anche le dichiarazioni di chi elude il contraddittorio dibattimentale, rifiutando di sottoporsi all’esame o al controesame (in deroga, quindi, alla regola di esclusione probatoria fissata dall’art. 111 comma 4 Cost.);
  2. il legislatore ordinario, inoltre, ha stabilito che, nei casi di intimidazione o subornazione, venga acquisito al fascicolo per il dibattimento l’intero verbale di dichiarazioni e non solo la parte utilizzata per le contestazioni;
  3. l’art. 500 c.p.p., infine, ha una valenza generale, essendo norma applicabile all’esame del testimone comune, all’esame del testimone assistito (art. 197-bis c.p.p.), nonché all’esame dell’imputato di fatti connessi o probatoriamente collegati, disposto a norma dell’art. 210 c.p.p.

6. Il riconoscimento di valore probatorio agli atti di indagine

A quanto pare è lo stesso art. 111 Cost. a lasciare aperti spazi di intervento per l’introduzione di una disciplina diversificata, tra reati comuni e delitti di criminalità organizzata, per cominciare, sotto il profilo probatorio: la deroga prevista nei casi di «provata condotta illecita» può vanificare, specie nei processi di criminalità organizzata, l’esigenza di formazione della prova in contraddittorio, consentendo il recupero di dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari.

Né può mettersi in dubbio che il riferimento, volutamente generico, alla «formazione della prova in contraddittorio» prelude a situazioni diverse, nelle quali lo stesso contraddittorio non deve necessariamente attuarsi dinanzi al giudice del dibattimento, ma ben può svolgersi nelle fasi anteriori al giudizio o nel corso di altro procedimento penale.

Non è un caso, del resto, che la legge di attuazione del giusto processo non sia intervenuta sulla disciplina dell’incidente probatorio e dell’udienza preliminare, lasciando inalterate quelle possibilità di formazione in via anticipata della prova che erano state previste –  o meglio “pensate” – proprio in funzione dell’accertamento dei reati di criminalità organizzata.

Anche il Costituente, quindi, si arrende all’evidenza della realtà giudiziaria, ritenendo improponibile un modello processuale che possa coniugare in sé il rispetto di tutti i principi naturali del giudizio e l’esigenza di contenere, entro limiti ragionevoli, i tempi di definizione del procedimento penale.

Resta da chiarire, infine, se possa ritenersi conforme al nuovo dettato costituzionale il riconoscimento di valore probatorio alle dichiarazioni utilizzate per le contestazioni.

La questione è stata a lungo dibattuta –  ancor prima della approvazione della legge di attuazione del giusto processo –  ed ha dato vita ad opinioni contrastanti.

Alcuni sostengono che le dichiarazioni rese in corso di indagini, ma sottoposte al vaglio del contraddittorio attraverso le contestazioni, diventano parti integranti di una “prova complessa”, di cui può legittimamente servirsi il giudice per la decisione, valutando “congiuntamente” le dichiarazioni contestate e quelle assunte in giudizio. Tale interpretazione non contrasta con il dettato costituzionale che vuole la prova «formata in contraddittorio» ed è confortata dall’affermazione secondo cui «la colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base delle dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore».

Da quest’ultimo, esplicito, divieto si ricava, infatti, a contrario, l’implicito consenso all’uso probatorio delle dichiarazioni rese, anche in corso di indagini, da chi si sottopone all’esame e al controesame.

Si è osservato, in senso opposto, che le dichiarazioni utilizzate per le contestazioni “servono” al contraddittorio, in quanto costringono l’esaminato a rendere conto del mutamento nella versione dei fatti, ma non sono “formate” in contraddittorio, come pretende il quarto comma dell’art. 111 Cost., né lo diventano se contestate alla persona esaminata, almeno fino a quando questa non le asserisca come vere, immettendole, così, nella deposizione orale. Nel dibattimento la contestazione vale quanto una domanda, ossia serve a stimolare una risposta, e non si può pensare di utilizzare come prova sia la domanda che la risposta, poiché l’unica proposizione probatoria valida è rappresentata da ciò che il dichiarante afferma in giudizio.

Il legislatore ordinario ha accolto questa seconda soluzione, stabilendo, all’art. 500 c.p.p., il divieto di acquisire al fascicolo dibattimentale i verbali delle dichiarazioni utilizzate per le contestazioni, salvo che – come si è detto - vengano accertate situazioni di intimidazione o di allettamento del testimone oppure vi sia il consenso delle parti alla acquisizione.

Ma, la questione non può dirsi definitivamente risolta: è prevedibile che l’art. 500 c.p.p. – così come avvenuto in passato –  venga nuovamente sottoposto al vaglio della corte costituzionale, riesumando quel principio di non dispersione che lo stesso art. 111 Cost. ha riconosciuto e valorizzato.

È proprio il comma 5 dell’art. 111 Cost. –  a nostro avviso – a risolvere il dubbio interpretativo, poiché appare irragionevole che il Costituente consenta l’acquisizione di precedenti dichiarazioni, se il testimone, per effetto di condotte illecite, non depone o dichiara il falso, e non permetta, invece, il recupero di tali dichiarazioni quando il testimone si sottopone liberamente al contraddittorio dibattimentale.

7. Gli ulteriori limiti della riforma del «giusto processo»

La consacrazione, sul piano normativo, del principio di “non dispersione” non costituisce l’unico limite della recente riforma costituzionale.

Altri, non meno evidenti, emergono da una valutazione complessiva dell’intervento del Costituente e lasciano pensare alla volontà di introdurre un modello processuale sensibilmente diverso da quello codificato nel 1988.

Va, in premessa, evidenziata la assoluta indifferenza del legislatore costituzionale rispetto al problema della libertà personale e della carcerazione preventiva, quasi che tale profilo debba ritenersi del tutto estraneo alla tematica del «giusto processo».

Eppure, sarebbe davvero difficile sostenere che il processo giusto è tale a prescindere dallo status in cui si trova chi vi è sottoposto.

Vero è che la restrizione ante iudicium della libertà personale non attiene all’art. 111 Cost. – e alle norme in tema di giurisdizione –  e che altra disposizione costituzionale, quella contenuta nell’art. 13, è stata sempre ritenuta norma di garanzia idonea a tutelare i diritti dell’indagato o dell’imputato, ma non può negarsi che il problema stimola ancora dibattiti e confronti molto accesi.

L’art. 13 Cost. è norma suscettibile di varie interpretazioni –  consentite da quel “vuoto dei fini” che la dottrina ha sempre lamentato –  e talvolta si è dimostrato scudo fin troppo fragile di fronte alle istanze di difesa sociale, per cui non c’è da meravigliarsi se, nel vigore del codice Rocco, convivevano con il dettato costituzionale ipotesi di carcerazione preventiva obbligatoria.

Ma, tant’è.

Il Costituente ha ritenuto di non dover intervenire sul punto, pur nella consapevolezza che proprio in questo settore si registravano –  e si registrano tuttora –  profonde differenze nel trattamento degli imputati, secondo che si proceda per reati comuni o per delitti di criminalità organizzata.

Basti pensare all’art. 275 c.p.p., ulteriormente modificato, di recente, dalla legge 26 marzo 2001, n. 128 (c.d. «pacchetto sicurezza»).

La novità di maggior rilievo è costituita dalla introduzione del comma 2-ter, dove si stabilisce che «nei casi di condanna in appello le misure cautelari personali sono sempre disposte, contestualmente alla sentenza, quando, all’esito dell’esame condotto a norma del comma 1-bis, risultano sussistere le esigenze cautelari previste dall’art. 274 e la condanna riguarda uno dei delitti previsti dall’art. 380 comma 1 e questo risulta commesso da soggetto condannato nei cinque anni precedenti per delitti della stessa indole».

In sostanza, con la sentenza di condanna in grado di appello, se pronunciata per uno dei delitti di cui all’art. 380 comma 1 c.p.p. e nei confronti dell’imputato recidivo, vi è una presunzione legislativa assoluta di sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, mentre le esigenze cautelari vanno valutate a norma del nuovo comma 1-bis dell’art. 275 c.p.p., tenendo conto, cioè, anche dell’esito del processo (si pensi ad una condanna a pena detentiva di lunga durata), delle modalità del fatto, nonché degli eventuali elementi sopravvenuti (ad esempio, la non reperibilità del condannato).

Non può sfuggire, tuttavia, che per i delitti di criminalità organizzata –  alcuni dei quali rientranti nel novero di quelli indicati nell’art. 380 comma 1 c.p.p. –  vige anche una presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari ed una presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere, in virtù del disposto del comma 3 dell’art. 275 c.p.p., che trova applicazione in ogni stato e grado del procedimento penale – e, quindi, anche dopo l’eventuale condanna in grado di appello – in quanto norma speciale rispetto al comma 1-bis dello stesso art. 275.

Da questo complicatissimo intreccio di regole, eccezioni e rinvii normativi, emerge, con assoluta chiarezza, un dato: la previsione del comma 2-ter dell’art. 275 c.p.p., se letta in combinato disposto con quella di cui al comma 3, ha introdotto una vera e propria ipotesi di “ mandato di cattura obbligatorio ”, sia pur limitato ad un numero ristretto di fattispecie (delitti di criminalità organizzata puniti nei limiti di cui all’art. 380 comma 1 c.p.p., per i quali sia stata pronunciata condanna in grado di appello nei confronti di persona già condannata, nei cinque anni precedenti, per delitti della stessa indole).

Va, altresì, sottolineato che la nuova disposizione opera in tutti i «casi di condanna in appello», dovendosi applicare anche nei confronti dell’imputato prosciolto in primo grado, e non solo — come sarebbe stato più opportuno prevedere — nelle ipotesi di c.d. “doppia conforme”.

La contraddizione appare evidente: da un lato, la riforma costituzionale sembra imporre, in «ogni processo», un unico modello di formazione della prova; dall’altro lato, il legislatore ordinario rafforza, sul piano cautelare, il regime differenziato per i processi di criminalità organizzata.

Chi si aspettava cambiamenti radicali dalla legge di attuazione del giusto processo è rimasto certamente deluso.

Si tratta di una riforma settoriale e, per certi versi, anche monca, se è vero, com’è vero, che non tutti i principi del «giusto processo» hanno trovato piena e soddisfacente attuazione.

Eppure, il tenore della delega contenuta nella legge costituzionale n. 2 del 1999 non lasciava spazio a margini di scelta, obbligando il legislatore ordinario a disciplinare l’applicazione di tutti i principi inseriti in Costituzione, senza poter valorizzarne alcuni ed accantonarne altri.

Ci si è occupati, invece, solo del principio che viene considerato –  a torto o a ragione –  il più significativo, vale a dire il principio del contraddittorio.

Per altri principi, come quello della imparzialità e terzietà del giudice, si è ritenuta la normativa preesistente già idonea a garantirne l’attuazione, e per altri ancora, come quello della ragionevole durata del procedimento penale, l’intervento del legislatore ordinario non è andato al di là di mere correzioni formali.

Non può sfuggire, infatti, che la modifica degli artt. 12, 17 e 371 c.p.p. si è risolta in un semplice trasferimento di norme da una disposizione all’altra, con la conseguenza che la riduzione dei casi di connessione è stata compensata in toto dal contemporaneo ampliamento delle ipotesi di riunione dei processi e di collegamento delle indagini. Si è passati, in sostanza, da una “ipertrofia da connessione” (Cordero) ad una “ipertrofia da riunione”, con effetti comunque devastanti in relazione ai tempi di svolgimento del simultaneus processus, specie sul fronte dell’accertamento dei delitti di criminalità organizzata.

Ed è davvero illusorio credere che il fenomeno del processo cumulativo possa essere arginato dalla nuova previsione dell’art. 17 comma 1 c.p.p., che consente la riunione dei processi «quando non determini un ritardo nella definizione degli stessi» (anziché «quando non pregiudichi la rapida definizione degli stessi»). La modifica, più formale che sostanziale, rivela una scelta ben diversa da quella operata dal legislatore del 1988, che volle chiaramente privilegiare le “maxi-indagini” rispetto ai “maxi-processi”, nell’intento di contenere i tempi di definizione dell’accertamento penale entro limiti ragionevoli.

Anche sul piano probatorio, sono molte le differenze tra il modello processuale scaturito dalla recente riforma costituzionale e quello introdotto dal codice del 1988, sicché definire «giusto» l’uno piuttosto che l’altro è affermazione del tutto fuorviante.

Quello attuale è un sistema normativo che privilegia il contraddittorio, sia pure a scapito della oralità e della immediatezza, valorizzando la prova formata in presenza del difensore dell’accusato, ma non anche in presenza del giudice del dibattimento.

Segni evidenti di tale strategia si rinvengono nella legge n. 63 di quest’anno ed in particolare, nella scelta di non intervenire sulla disciplina dell’incidente probatorio e dell’udienza preliminare, così come nella volontà di mantenere in vigore, sia pur corredata da maggiori garanzie, la previsione di cui all’art. 190-bis c.p.p. per i processi di criminalità organizzata.

Del resto, l’art. 111 Cost. prevede che la prova sia formata in contraddittorio, ma non impone affatto che ciò avvenga dinanzi al giudice del dibattimento.

8. Conclusioni

La riflessione conclusiva non può che ricollegarsi a quanto è stato già osservato in premessa: il titolo della relazione («un nuovo modello processuale per la criminalità organizzata») preannunciava la necessità di ricostruire ex novo un sistema normativo differenziato per i delitti di mafia.

Si è scoperto, però, che siamo di fronte ad una realtà ben diversa.

«Il modello» differenziato per l’accertamento dei reati di criminalità organizzata è ancora previsto dal codice ed è, oggi, completato e rafforzato dalla nuova legge sui collaboranti di giustizia (legge n. 45 di quest’anno).

Alcune delle connotazioni tipiche di tale modello processuale sono:

a) nella fase preliminare, l’intervento di organi investigativi specializzati e coordinati, nonché la possibilità di ricorrere a mezzi di indagine più incisivi, soprattutto a fini preventivi e di ricerca delle fonti di prova (perquisizioni, intercettazioni, operazioni “sotto copertura”; maggiore durata delle indagini, riservatezza del procedimento di proroga);

b) un regime più rigoroso di custodia cautelare, anche al fine di stimolare la collaborazione dell’indagato con gli organi inquirenti (art. 275 c.p.p.);

c) la formazione della prova in contraddittorio, ma preferibilmente in via anticipata rispetto al dibattimento (incidente probatorio; artt. 238 e 190-bis c.p.p.);

d) la previsione di forme di partecipazione a distanza al procedimento penale e di assunzione a distanza dei mezzi di prova, per salvaguardare le esigenze di tutela dei collaboranti (artt. 146-bis, 147-bis e 147-ter disp. a.c.t.);

e) l’obbligo imposto al collaborante di offrire il suo contributo probatorio, avendo il legislatore previsto la decadenza da tutti i benefici connessi al programma di protezione nel caso di rifiuto di sottoporsi all’esame ed al controesame dibattimentale (legge n. 45 di quest’anno);

f) il recupero “agevolato” delle precedenti dichiarazioni, assunte dal magistrato del pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria, se la persona esaminata in dibattimento non depone o dichiara il falso (art. 500 c.p.p.).

Non vi sono, invece, riferimenti normativi che consentono di individuare criteri “speciali” di valutazione della prova, sicché le regole contenute nell’art. 192 c.p.p. continuano ad applicarsi in tutti i processi, compresi quelli per reati di criminalità organizzata.

È prevalsa, ancora una volta, l’opinione di quanti ritengono – giustamente –  che il filtro valutativo dei mezzi di prova non possa variare a seconda della natura del fatto sottoposto all’esame del giudice, poiché si finirebbe per legittimare una disparità di trattamento del tutto ingiustificata.

D’altra parte, non è certo questo il terreno idoneo su cui costruire «un nuovo modello processuale», qualunque esso sia, essendo un dato di comune esperienza la estrema fragilità di qualsiasi criterio legale consegnato al giudice per la valutazione dei mezzi di prova.

Sono le regole processuali a differenziare i modelli di accertamento e queste regole debbono fermarsi alla “soglia” della camera di consiglio, perché oltre non c’è null’altro da salvaguardare se non il valore e la garanzia della giurisdizione.

Oggi, come in passato, esistono regole processuali diverse per l’accertamento dei delitti di criminalità organizzata; ma oggi, a differenza del passato, tali regole hanno un valore vincolato e vincolante, perché sono fissate e legittimate dalla stessa Carta costituzionale.

Commento di Antonio Grimaldi

Laureato in giurisprudenza

Dipartimento di Scienze Giuridiche – Università degli Studi di Salerno

All’inizio del nuovo millennio il tema della criminalità organizzata è tornato prepotentemente alla ribalta, spingendo le istituzioni a rivedere e aggiornare le strategie di contrasto. In tale contesto, durante un incontro tenutosi nell’ottobre del 2001 a Belvedere di San Leucio, il Prof. Andrea Antonio Dalia ha sottolineato l’importanza di rivedere la “formazione della prova” alla luce delle recenti riforme legislative. In particolare, rispetto al convegno di Trapani nel 1997[1], è stato evidenziato come:

1.         il contesto normativo sia mutato, rendendo necessaria un'analisi approfondita delle peculiarità del processo per delitti di mafia;

2.         il problema dell'accertamento dei delitti di criminalità organizzata fosse già ben noto nel 1988.

Proprio per far fronte a quest’ultima esigenza, nel corso degli anni il legislatore ha apportato significativi cambiamenti per garantire rapidità ed efficienza nel sistema processuale; il problema – però – è che, nonostante tali interventi fossero stati introdotti con l’obiettivo di conseguire benefici soprattutto sul fronte dell’accertamento dei delitti di mafia, questi – poi – sarebbero stati destinati ad operare in “ogni tipo di procedimento penale”, indipendentemente dalla pericolosità degli imputati e dalla natura delle imputazioni.

Di conseguenza, al fine di evitare che le sorti processuali della maggioranza degli imputati fossero pesantemente condizionate da meccanismi processuali introdotti per esigenze connesse all’accertamento di reati attribuibili ad una minoranza di cittadini, con sottile ironia – perché, ovviamente, le regole di formazione della prova devono essere uniformi, a prescindere da quale sia il reato oggetto della cognizione del giudice – il Prof. Dalia ha affermato che se l’obiettivo del legislatore era quello di “non abbassare la guardia nei confronti della criminalità organizzata”, questi avrebbe dovuto avere il coraggio – ad esempio – di differenziare il regime di formazione della prova in base alle varie tipologie di reati, intraprendendo – così – la strada del “doppio binario”.

Tuttavia, uscendo dalla “provocazione”, il Professore ha nuovamente auspicato un potenziamento delle risorse per le indagini, ripetendo – quasi come un mantra – che «la lotta alla criminalità organizzata deve avvenire al di fuori del processo»; del resto, nemmeno la legge n. 267 del 1997 – che pur prometteva una valorizzazione della dialettica probatoria – era riuscita a creare le condizioni per evitare che il dibattimento si riducesse a una mera replica di attività processuali già svolte, costringendo de facto il giudice a decidere sulla base di “atti formatisi in sua assenza”.

Non a caso, nel dichiarare “irragionevole” «una disciplina che precluda a priori l’acquisizione in dibattimento di elementi raccolti legittimamente nel corso delle indagini preliminari» (Corte cost., sent. n. 361 del 14 ottobre 1998), la Corte costituzionale ha “fatto un passo indietro” e ha voluto riaffermare e valorizzare – in conformità all’orientamento già seguito dalla stessa nel 1992 – il c.d. principio di non dispersione degli elementi di prova, sostenendo che il processo penale dovesse mirare alla «ricerca della verità» [col rischio, però, di rendere il contraddittorio per la prova un meccanismo “fittizio” e “caricaturale”].

Successivamente, l’attenzione si è concentrata sulla legge costituzionale n. 2 del 23 novembre 1999, da molti considerata come “un momento d’alto progresso civile e giuridico”. A tal proposito, il Prof. Dalia ha fatto notare come questa modifica abbia imposto un nuovo modello processuale in virtù del quale – si potrebbe sintetizzare – «se è vero che il processo è stato sempre “regolato dalla legge”, da quel momento in poi, esso dovrà attenersi ai principi che devono ispirare la legge che regola il processo», ossia quelli sanciti dall’art. 111 Cost. nei commi successivi al primo [c.d. principi del giusto processo]. Solo in tal modo, dunque, un processo può essere definito “giusto”; pertanto, al fine di evitare dubbi sulla loro vincolatività, il Costituente ha ritenuto indispensabile fissare detti principi nella Carta costituzionale.

Con la riforma, inoltre, si escludono totalmente sia la strada del “doppio binario”, sia quella relativa all’introduzione di “forme di accertamento differenziate per i delitti di criminalità organizzata” giacché – con la nuova formulazione – si stabilisce che «ogni processo» (comma 2) penale deve essere «regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova» (comma 4). Su quest’ultimo punto, però, viene riconosciuta la complessità nel conferire valore probatorio agli atti di indagine per i reati di criminalità organizzata; difatti, se è vero che l’art. 111 Cost. prevede la formazione della prova in contraddittorio, è anche vero che sono ammesse delle deroghe in caso di "provata condotta illecita", consentendo – così – anche l’uso di dichiarazioni rese durante le indagini preliminari.

Tale impostazione, tuttavia, solleva non poche perplessità poiché sembra che lo stesso art. 111 Cost. lasci dei margini di intervento per l’introduzione di una disciplina diversificata tra “reati comuni” e “delitti di criminalità organizzata”. Esistono opinioni contrastanti a riguardo, nello specifico:

•          alcuni sostengono che, se valutate congiuntamente con le dichiarazioni assunte in giudizio, le dichiarazioni rese in corso di indagini possano essere utilizzate dal giudice per la decisione in quanto parte integrante di una "prova complessa";

•          altri ritengono che queste dichiarazioni non si formino “in contraddittorio”, a differenza di quanto richiesto dall’art. 111 Cost., comma 4.

Lo stesso legislatore ha accolto questa seconda soluzione, stabilendo, all’art. 500 c.p.p., il divieto di acquisire al fascicolo dibattimentale i verbali delle dichiarazioni utilizzate per le contestazioni, salvo che vengano accertate situazioni di intimidazione o di allettamento del testimone [caratteristiche tipiche dei processi di criminalità organizzata], oppure vi sia il consenso delle parti all’acquisizione; tuttavia, il Prof. Dalia ha – invece – affermato che questo dubbio viene risolto dal comma 5 dell’art. 111 Cost. dal momento che «appare irragionevole che il Costituente consenta l’acquisizione di precedenti dichiarazioni se il testimone, per effetto di condotte illecite, non depone o dichiara il falso, e non permetta, invece, il recupero di tali dichiarazioni quando il testimone si sottopone liberamente al contraddittorio dibattimentale».

Ancora, nel discutere dei “limiti” della riforma del giusto processo (tra cui l’indifferenza del legislatore rispetto al problema della libertà personale e della carcerazione preventiva), il Professore ha altresì evidenziato come, specialmente quando si procede per i delitti di criminalità organizzata, esistano profonde differenze nel trattamento degli imputati. Nello specifico, tale ragionamento risulta particolarmente apprezzabile se si considera come, nonostante l’obiettivo della riforma fosse quello di «imporre in ogni processo un unico modello di formazione della prova», la creazione – seppur indiretta – di un "mandato di cattura obbligatorio" [derivante dalla lettura combinata dei commi 2-ter e 3 dell’art. 275 c.p.p.] abbia generato un evidente cortocircuito poiché, sul piano cautelare, non ha fatto altro che rafforzare il regime differenziato per i processi di criminalità organizzata, contraddicendo – così – l’intento uniformante della riforma.

In conclusione, dunque, è stata riaffermata la necessità di un nuovo modello processuale dal momento che quello previsto dal codice non è riuscito a garantire determinate tutele agli imputati per i reati di criminalità organizzata; tuttavia, nonostante le inevitabili difficoltà incontrate nel corso degli anni dal nostro legislatore nel regolamentare la materia [poiché questa coinvolge diritti umani fondamentali e, giocoforza, richiede una certa prudenza nell’azione], con un pizzico d’orgoglio si deve riconoscere come l’Italia si sia dimostrata uno dei Paesi più consapevoli della pericolosità del fenomeno – giacché i primi tentativi di contrasto risalgono a più di trent’anni fa – in un’Europa che, invece, per molto tempo – forse troppo – ha relegato il problema della criminalità organizzata tra le ultime priorità.

Pertanto, dall’analisi condotta finora, non si può che evidenziare la grande attualità degli interventi del Prof. Dalia; ancora oggi, infatti, i temi oggetto dei suoi studi continuano a essere discussi e le sue soluzioni sono tuttora fonte di ispirazione. Del resto, in un’epoca come la nostra in cui i reati di criminalità organizzata proliferano più facilmente nelle vite quotidiane [soprattutto a causa della diffusione di strumenti accessibili a tutti, ma il cui uso improprio può avere un impatto dannoso sulla popolazione], come si può non essere d’accordo con il Professore quando affermava che la vera lotta contro il crimine organizzato deve essere condotta al di fuori del processo? Cioè attraverso il rafforzamento delle misure di prevenzione, il potenziamento delle strutture investigative e l’uso di mezzi di indagine più efficaci.


Note e riferimenti bibliografici

[1] https://rivista.camminodiritto.it/articolo.asp?id=10619