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Pubbl. Lun, 20 Gen 2025

Commento a “Il cittadino europeo ed il cittadino italiano di fronte al processo penale” di Andrea Antonio Dalia

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Emanuele Vannata
AvvocatoUniversità degli Studi di Salerno



Il presente progetto editoriale ha lo scopo di rendere omaggio ad un grande Maestro attraverso brevi commenti, dal carattere divulgativo, relativi ai più svariati temi che interessano il diritto processuale penale. L’ obiettivo dichiarato è quello di restituire attualità al Suo pensiero, attraverso l’analisi di relazioni rese in occasione di lezioni, convegni e congressi. Una vera sfida, oltre che un grande onore per chi, ancora tra i banchi delle aule universitarie, sta per affacciarsi al mondo delle professioni legali.


IL CITTADINO EUROPEO ED IL CITTADINO ITALIANO DI FRONTE AL PROCESSO PENALE

di

Prof. Andrea Antonio Dalia

Il Trattato istitutivo della Comunità europea considerava i cittadini degli Stati membri solo come operatori economici, cioè come lavoratori o imprenditori cui era consentito spostarsi per esercitare la propria attività economica o professionale in uno Stato diverso da quello di origine. 

È solo con il trattato di Maastricht che è stato introdotto il concetto di cittadinanza europea, quale legame che cementa, nel rispetto della diversità delle culture e delle tradizioni dei singoli popoli, la società civile europea.

È cittadino europeo chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro dell’Unione. La «cittadinanza europea» non sostituisce quindi la «cittadinanza nazionale» ma la completa e la arricchisce di altri «diritti», altri «valori», riconosciuti come patrimonio comune dei popoli europei.

Con la proclamazione, in occasione del Consiglio europeo di Nizza del 7 dicembre 2000, della «Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea», si è compiuto un deciso passo in avanti verso la trasformazione di uno spazio, originariamente solo geografico ed economico, in uno spazio comune di diritti, di principi, di valori indivisibili e universali.

Trattasi di valori già costituenti la base fondante di molte Costituzioni nazionali e delle principali Carte internazionali di protezione dei diritti umani, in primo luogo la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma nel 1950, il cui contenuto materiale è da ritenersi ormai parte integrante del tessuto normativo comunitario (cfr. l’art. 6 del Trattato UE, che recepisce la Convenzione tra i «principi generali del diritto comunitario») nonché di molti sistemi giuridici nazionali (giova ricordare che, recentemente, anche lo Stato europeo più tradizionalmente geloso della propria sovranità nazionale, il Regno Unito, si è unito al gruppo dei Paesi che hanno incorporato nel proprio ordinamento interno la CEDU e, con essa, anche tutta la casistica risultante dalle pronunce della Corte di Strasburgo: cfr. l’Human Rights Act 1988, entrato in vigore in data 2 ottobre 2000).

Ma se è vero che molti dei diritti sanciti dalla «Carta europea» di Nizza sono già presenti negli ordinamenti nazionali degli Stati membri dell’Unione (anzi, per alcuni aspetti, le Costituzioni degli Stati europei vanno anche al di là di quanto sancito dalla Carta europea), non va perso di vista il vero valore del documento de quo, lo scopo per cui è stato adottato, quello cioè di definire con sufficiente nettezza l’identità del cittadino europeo.

È questo il valore fondamentale della Carta europea. Ancorché priva di efficacia giuridicamente vincolante (non essendo stata inserita nel corpo vivo dei Trattati UE per la forte opposizione dei rappresentanti di Danimarca, Regno Unito e Svezia), essa ha un valore ideale e storico straordinario.

Non pare, intanto, dubitabile che la Carta europea del 7 dicembre 2000, sebbene non incorporata nel Trattato di Nizza del successivo 26 febbraio 2001 (di modifica del TUE e del TCE), costituisca la prima tappa di quel progetto politico europeo che ha come approdo naturale la Costituzione europea.

Per la sua idoneità a prefigurare in nuce una futura Costituzione europea, la Carta di Nizza è destinata a diventare punto di riferimento non solo dei Paesi membri dell’Unione, ma anche di quelli in lista d’attesa, i quali potranno entrare a far parte di un’organizzazione internazionale fondata, oltre che sul mercato, sulla comunanza dei valori di democrazia, di libertà, di solidarietà e di giustizia.

Quale pilastro della futura Costituzione europea, la Carta delinea in maniera chiara e precisa il volto del cittadino europeo, titolare di fondamentali diritti civili, economici, sociali e politici, che le istituzioni comunitarie devono rispettare in tutte le azioni e le politiche dell’Unione.

Nonostante il suo mancato inserimento nell’ambito dei Trattati comunitari, ad essa va pertanto riconosciuto una portata simbolica di assoluto rilievo.

D’altra parte, non va dimenticato che importanti dichiarazioni politiche, ancorché esplicitamente prive di efficacia giuridica, hanno ciò non di meno costituito, nell’esperienza giuridica, un riferimento «retorico» di indubbia importanza (si pensi alla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948, non di rado citata, ancorché ad abundantiam, anche dalla nostra Corte costituzionale).

E non pare azzardato ritenere che un documento, come la Carta europea, solennemente proclamato e predisposto ricorrendo alla tecnica giuridica (con enunciati prescrittivi formulati in articoli, con l’utilizzo di forme verbali deontiche, etc.), che enuncia principi che si saldano con quelli espressi nella Convenzione europea e in altre fondamentali Carte internazionali di protezione dei diritti umani, costituirà, punto di riferimento essenziale non solo per l’attività delle istituzioni comunitarie, ma anche per l’attività interpretativa dei giudici europei, che ad essa si richiameranno, quanto meno, per «rafforzare» conclusioni raggiungibili comunque su altre basi.

La conferma di ciò ci è già stata data dal Tribunale costituzionale spagnolo. Nella sentenza 30 novembre 2000, n. 292, relativa alla c.d. tutela informatica, è stato infatti richiamato (al n. 8 della motivazione) l’art. 8 della Carta, ancorché, in tale data, questa non fosse stata ufficialmente proclamata, né tanto meno pubblicata sulla G.U.C.E. (il che, com’è noto, è avvenuto il 18 dicembre 2000)!

Anche in Italia è accaduto che la Carta dei diritti venisse richiamata ed utilizzata per risolvere una questione endoprocessuale circa il gratuito patrocinio nell’ambito di una controversia di lavoro pendente davanti alla Corte d’Appello di Roma.

La stessa Corte costituzionale italiana, chiamata – recentemente – a pronunciarsi in ordine alla compatibilità in sédelle riprese visive impiegate a fini di investigazione penale con il sistema costituzionale, ha operato un richiamo alla Carta di Nizza per sostenere, a fortiori, la motivazione della decisione resa (sent. n. 135/2002, giudice relatore G. M. Flick), precisando che tale documento, ancorché privo di efficacia giuridica, merita di essere evocato per il suo carattere espressivo di principi comuni agli ordinamenti europei (punto 2.1 del considerato in diritto).

A livello comunitario, anche il Tribunale di primo grado ha fatto esplicito riferimento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea per supportare proprie pronunce, fondate pur sempre sull’applicazione di altri testi normativi.

In particolare, nella sentenza del 30 gennaio 2002, la seconda Sezione ampliata del Tribunale CE, chiamata ad annullare una decisione della Commissione che aveva respinto una denuncia presentata da una società di telecomunicazioni austriaca per supposta infrazione delle regole di diritto comunitario in tema di libera concorrenza, si è soffermata sul concetto di  «trattamento diligente ed imparziale di una denuncia», richiamando a tal uopo anche le previsione della Carta di Nizza, segnatamente l’art. 41, n. 1, a tenore del quale «Ogni individuo ha diritto a che le questioni che lo riguardano siano trattate in modo imparziale, equo ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni e dagli organi dell’Unione».

Il Tribunale, inoltre, ha chiarito che le persone fisiche o giuridiche, le quali chiedano alla Commissione di accertare un’infrazione delle regole comunitarie sulla concorrenza, qualora il loro reclamo non venga accolto in toto o in parte, devono poter disporre di un mezzo di ricorso idoneo a tutelare i loro interessi legittimi. Siffatto diritto al sindacato giurisdizionale – ha precisato il tribunale –  è ampiamente riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia CE, rientrando altresì nei principi generali dello Stato di diritto comuni alle tradizioni costituzionali degli Stati membri, come è confermato dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali, il quale prevede che: «Ogni individuo i cui diritti garantiti dal diritto dell’Unione siano stati violati ha diritto ad un ricorso effettivo dinanzi ad un giudice».

Ma, la disposizione da ultimo richiamata non si limita a prevedere ciò.

In essa si statuisce, infatti, che: «Ogni individuo ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente e entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge»

Il diritto di accesso a un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge, il quali esamini pubblicamente ed equamente la controversia sottoposta alla sua cognizione e la definisca senza ritardi ingiustificabili, diritto già espressamente enunciato nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948), nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (1950) e nel Patto internazionale sui diritti civili e politici del cittadino (1966), viene dunque ribadito e scolpito come contrassegno tipico dello «spazio giudiziario europeo».

Il percorso verso la cittadinanza europea in senso pieno non può dunque prescindere dal riconoscimento a tutti coloro che risiedono nel territorio dell’Unione del «diritto alla giurisdizione», inteso sia come diritto di adire un organo giurisdizionale indipendente per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi, sia come diritto di agire come protagonisti di un contraddittorio nella elaborazione delle premesse della decisione giudiziale.

Il giudice indipendente per status è, infatti, solo potenzialmente idoneo ad assumere un ruolo imparziale; come pure, l’estraneità agli interessi confliggenti nel processo è condizione necessaria ma non sufficiente per un giudizio imparziale: solamente assicurando alle parti la possibilità di concorrere, su un piede di parità, alla formazione del convincimento del giudice si garantisce l’imparziale applicazione della legge da parte dell’organo giurisdizionale.

Se, dunque, in ambito europeo, lo spazio giudiziario è unico, dev’essere garantita la medesima tutela giurisdizionale dei diritti fondamentali nel territorio dell’Unione.

Sennonché, sappiamo quanto sia problematica una simile prospettiva con riguardo alla giustizia penale.

Secondo, infatti, l’orientamento tradizionale, la produzione normativa in materia penale (sostanziale e processuale) dev’essere un fenomeno prettamente nazionale.

Tale opinione, nell’attuale fase di sviluppo dell’integrazione europea, va sicuramente rimeditata.

Certo è che, allo stato, non esiste una competenza normativa in materia penale delle istituzioni comunitarie, e più in generale non esiste un sistema penale comunitario: in base al sistema dei c.d. «pilastri», il diritto e la procedura penale rientrano nelle competenze di ciascuno Stato membro.

Ciò, naturalmente, non deve far trascurare le molteplici influenze che la normativa comunitaria esercita sui sistemi penali nazionali, soprattutto attraverso la riduzione della sfera di applicazione di disposizioni incriminatrici degli Stati membri, ma anche attraverso la imposizione di limiti alla tipologia o alla misura delle sanzioni penali.

Né può trascurarsi la incidenza sugli ordinamenti processuali penali nazionali dei «principi generali del diritto comunitario», nell’ambito dei quali vanno ricomprese le garanzie – di carattere sia sostanziale che processuale –  assicurate dalla Convenzione europea e dai suoi protocolli aggiuntivi, tra le quali spiccano il diritto al un processo equo, la presunzione di innocenza dell’imputato, la inviolabilità del diritto alla difesa giudiziaria penale, il divieto di bis in idem, garanzie ribadite –  dicevo poc’anzi – nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Il fatto, insomma, che non esista, nello stadio attuale della costruzione comunitaria, un «sistema penale delle Comunità europee» e che la legislazione penale e processuale penale siano in linea di principio riservate alla competenza degli Stati membri non impedisce di intravedere profonde interconnessioni tra ordinamento comunitario e sistemi penali nazionali.

Ad ogni modo, almeno in prospettiva, la creazione di un sia pur ridotto «sistema penale europeo», limitato alla tutela dei fondamentali interessi dell’Unione europea costituisce una «visione» non più utopistica.

A questo riguardo, assume particolare rilievo il Progetto denominato «Corpus iuris» (pubblicato nel 1997, all’esito di una ricerca realizzata da un gruppo di studiosi sotto gli auspici della Commissione dell’Unione europea, e successivamente aggiornato nella versione Corpus juris 2000) che prefigura la introduzione di un numero limitato di disposizioni penali (sostanziali e processuali) intese a tutelare gli interessi finanziari comunitari e destinate ad essere applicate in tutto il territorio dell’Unione europea, così da costituire l’embrione di un sistema penale sovranazionale.

Si tratta, allora, di capire se e fino a che punto il modello di intervento prefigurato dal «Corpus iuris», imperniato sul coordinamento e sull’interazione a livello di polizia, giustizia penale e legislazione penale, ma avente un oggetto specifico, la tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea, possa estendersi, nello stesso ambito europeo, ad oggetti di più vasta portata.

La prospettiva più immediata è quella della costituzione di un Pubblico ministero europeo, con funzioni di coordinamento delle indagini (relative alle più gravi forme di criminalità) che si svolgono nei vari Stati dell’Unione.

Il 12 dicembre dello scorso anno, la Commissione ha adottato un libro verde per precisare il proprio contributo alla conferenza intergovernativa di Nizza, nel quale proponeva di iscrivere nel trattato CE (con la nuova redazione dell’articolo 280) la creazione di una procura europea, autorità giudiziaria indipendente, col compito di investigare, sull’intero territorio dell’Unione, con riguardo ai reati lesivi degli interessi finanziari delle Comunità, nonché di avviare l’azione penale e di rappresentare l’accusa presso i tribunali nazionali competenti (la fase di giudizio resterebbe, infatti, di competenza dei giudici nazionali). 

A giudizio della Commissione le disposizioni del trattato CE dovrebbero disciplinare la nomina e la eventuale destituzione del procuratore europeo, nonché definire i suoi compiti e agli aspetti essenziali del nuovo organo. Lo statuto e il funzionamento della procura europea andrebbero, invece, regolate in sede di diritto derivato. 

Proprio questi aspetti sono al centro del libro verde: lo status giuridico e l’organizzazione della procura europea, nonché la definizione delle fattispecie di reato, il diritto procedurale e il controllo ad opera di un giudice.

Secondo lo scenario proposto dalla Commissione, la procura europea verrebbe organizzata su base decentrata (vi sarebbe un procuratore europeo delegato in ciascuno Stato membro). La sua attività sarebbe soggetta a un controllo da parte di giudici nazionali, che vigilerebbero in particolare sul rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali. La procura potrebbe avvalersi di strumenti oggetto di recente definizione normativa nel quadro della cooperazione giudiziaria europea (mandato di arresto europeo) e potrebbe fondarsi sul reciproco riconoscimento di tutti i provvedimenti istruttori già esistenti negli Stati membri (per esempio perquisizioni e misure di sequestro).

Analogamente a quanto già previsto dal Corpus juris, anche l’operatività della procura europea prefigurata dal libro verde della Commissione viene circoscritta ai delitti lesivi degli interessi finanziari della Comunità.

Sembra insomma che, lo spazio giudiziario europeo debba modellarsi sulle esigenze connesse alla tutela dei soli interessi economico-finanziari comunitari.

In realtà, le suddette iniziative progettuali, nonché quelle sfociate in atti normativi comunitari disciplinanti organismi (già operativi o di prossima operatività) quali EUROJUST, EUROPOL, OLAF, RETE GIUDIZIARIA EROPEA, ecc., traggono giustificazione dall’esigenza di una repressione unitaria ed efficace di quelli che possono definirsi «reati sensibili», vale a dire illeciti penali reputati idonei ad offendere interessi primari dell’Unione, in primo luogo – ma non esclusivamente – gli interessi di carattere economico-finanziario (si pensi alla corruzione ed alla frode comunitaria, ma anche al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico illecito di sostanze stupefacenti, alla tratta degli esseri umani, ai reati contro i minori, al traffico di armi, ecc.).

É evidente che, specie in riferimento ai fatti delittuosi che presentano i caratteri della transnazionalità, la risposta repressiva non può essere lasciata alla iniziativa dei singoli Stati membri, ma deve essere coordinata e promossa a livello comunitario, superando gli ormai obsoleti strumenti classici di mutua assistenza giudiziaria.

Ma se la creazione di istituzioni inquirenti (organi giudiziari o di polizia) di livello sovranazionale capaci di interloquire con le diverse autorità (giudiziarie e di polizia) nazionali, e la messa in comune di procedimenti e strumenti di indagine, non sembra dare luogo a particolari problemi [l’istituzione della Procura europea, ad esempio, non sembra contrastare con il sistema delineato dalla nostra Costituzione, che si limita ad imporre l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale ma non ne riserva il monopolio al magistrato del pubblico ministero], costituendo, anzi, una necessità ineludibile, atteso il carattere sempre più globalizzato del fenomeno criminale e la conseguente crescente difficoltà di esercizio della potestà punitiva a livello di singolo Stato, non altrettanto potrebbe dirsi con riferimento alla eventuale, ipotetica, creazione di organi giurisdizionali penali comunitari.

Non è, infatti, un caso che la giurisdizione, e dunque la disciplina del processo penale, sino a questo momento, siano rimasti esclusi, o solo marginalmente lambiti dagli interventi normativi e dagli strumenti di cooperazione giudiziaria adottati, in ambito europeo, al fine della costruzione di uno «spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia».

La giurisdizione, insomma, continua a restare di esclusiva pertinenza dello Stato che la rivendica e la esercita, pur con i contemperamenti resi necessari dalla inevitabile concorrenza di più giurisdizioni statali in relazione ai fatti delittuosi di portata transnazionale.

Nessuno può negare, insomma, che, oggi, si stia facendo sempre più forte l’esigenza di una giustizia sovranazionale, l’unica adeguata a fronteggiare il crimine organizzato, di carattere comune, mafioso o terroristico eversivo.

Questa esigenza, a livello di comunità internazionale, ha trovato sbocco nella creazione della Corte penale internazionale, la quale rappresenta la prima istituzione giurisdizionale penale internazionale, destinata tuttavia ad avere – per i crimini di sua competenza – un ruolo di «sussidiarietà» rispetto alle giurisdizioni nazionali, ruolo che consente agli Stati di confermare l’intangibilità del dogma della riserva statuale della potestà punitiva.

La verità è che – tornando all’ambito europeo – l’obiettivo della realizzazione di uno spazio comune di giustizia, in cui i cittadini europei abbiano un comune senso di giustizia e siano egualmente tutelati contro le possibili aggressioni alla loro sicurezza ed alla loro sfera di libertà, è di difficile se non di impossibile realizzazione, se non si procede, innanzitutto, alla armonizzazione dei sistemi giuridici penali e processuali penali nazionali.

Le nuove frontiere della cooperazione giudiziaria tra Stati dell’Unione europea, rappresentate dal mutuo riconoscimento delle decisioni penali –  sia definitive che preliminari –  emesse dalle competenti autorità di altri Stati membri, sono delimitate dalla «reciproca fiducia» che i vari Stati membri hanno il dovere di riporre nei rispettivi ordinamenti giuridici e nelle rispettive strutture giudiziarie. 

Ma se è importante che gli Stati membri accordino reciproca fiducia alle «strutture e al funzionamento dei rispettivi sistemi giudiziari» e alla «capacità di tutti gli Stati membri di garantire un processo equo», nella convinzione che i sistemi di governo dei Paesi aderenti all’Unione siano fondati sui principi democratici e che i Paesi medesimi siano tenuti a rispettare gli obblighi stabiliti dalla Convenzione europea del 1950, non va assolutamente dimenticato che uno spazio comune di giustizia è tale se, oltre a fondarsi sulla reciproca fiducia tra Stati, riscuota la fiducia dei cittadini dell’Unione e delle persone che vi risiedono.

Da questo punto di vista, non possono essere sottaciute le sostanziali diversità dei sistemi giudiziari dei Paesi membri dell’Unione europea, dovute a motivi profondamente radicati nella loro storia e tradizione, differenze che espongono il cittadino europeo al rischio di subire trattamenti penali e processuali differenziati, a seconda che si trovi ad interagire con il sistema giudiziario penale di un Paese piuttosto che di un altro.

L’azione di armonizzazione dei sistemi giuridici nazionali è, pertanto, di fondamentale importanza non solo al fine di favorire ed incentivare la reciproca fiducia tra Stati, che è alla base del mutuo riconoscimento in relazione a molteplici misure giudiziarie penali (quali le decisioni finali, le decisioni relative all’acquisizione di prove, le misure provvisorie finalizzate al sequestro e alla confisca di beni nonché le misure provvisorie di arresto), ma anche per dare al cittadino europeo la certezza che i confini tra ciò che è penalmente lecito e ciò che è penalmente illecito sono tracciati in maniera uniforme dai singoli Stati e che, quale che sia l’autorità pubblica nazionale che dovrà eventualmente giudicarlo in relazione ad una supposta infrazione della legge penale, avrà la possibilità di esercitare, dinanzi ad essa, i diritti e le garanzie processuali riconosciute ad ogni accusato di un reato dalla Convenzione europea del 1950 e dalla recente Carta europea di Nizza.

Per la realizzazione di uno spazio europeo di giustizia penale non basta, dunque, concludere trattati e convenzioni o stipulare accordi bilaterali di cooperazione giudiziaria, né è sufficiente concordare su posizioni comuni. 

Perché possano amalgamarsi culture e tradizioni giuridiche tra loro più o meno distanti è necessario che ciascuno Stato abbassi lo scudo protettivo rappresentato dalla «sovranità nazionale», ma soprattutto rinunci a rivendicare ad ogni costo la propria «unicità», superando i preconcetti e le diffidenze verso i sistemi giuridici stranieri.

Al di là, dunque, della cooperazione giudiziaria tra Stati (attualmente di tipo intergovernativo) è indispensabile un’azione di armonizzazione dei sistemi giuridici nazionali, vale a dire il progressivo avvicinamento e la progressiva conformazione degli strumenti e delle istituzioni tramite i quali la giustizia penale è attualmente amministrata negli Stati dell’Unione europea.

L’armonizzazione dev’essere promossa e favorita dalle stesse istituzioni comunitarie.

Il Trattato di Amsterdam individua nelle decisioni-quadro lo strumento più importante di «riavvicinamento» delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri.

Tali decisioni-quadro – adottate dal Consiglio all’unanimità, su iniziativa di uno Stato membro o della Commissione – possono essere assimilate alle direttive comunitarie, in quanto vincolano lo Stato membro solo quanto al risultato da ottenere, lasciandogli libertà di scelta relativamente alla forma e ai mezzi all’uopo necessari. Esse, comunque, sono prive di efficacia diretta nei sistemi giudici nazionali.

Vengono disciplinati anche altri strumenti intesi a favorire l’armonizzazione dei sistemi giuridici dei Paesi membri dell’Unione, sui quali non è, però, il caso di indugiare in questa sede.

Quel che qui preme sottolineare è che l’armonizzazione dei sistemi giuridici nazionali non può non prendere le mosse dall’assetto strutturale del potere giudiziario.

Come infatti è stato ben posto in rilievo da un acuto studioso di diritto processuale comparato, Mirjan Damaska, in un suo pregevole libro (“I volti della giustizia e del potere”, edito in Italia nel 1991, dalla Società editrice il Mulino), il processo giurisdizionale non è una costruzione logico-formale autosufficiente, avulsa dal contesto storico-sociale e politico-ideologico.

Prescindendo da vecchie impostazioni marxiane, inclini a istituire nessi troppo meccanici tra assetti socio-economici e strutture giuridiche, un dato sembra pacifico: le forme del processo sono tendenzialmente influenzate, oltre che dalle concezioni dominanti circa gli scopi dell’amministrazione della giustizia (a loro volta influenzate dalle concezioni politiche dominanti sul ruolo dello Stato nella società), dalla particolare configurazione strutturale del potere giudiziario.

Le tracce che la struttura del potere lascia sulla fisionomia del processo sono infatti notevoli. La diversa struttura del dibattimento e il suo rapporto con il procedimento nel suo complesso, la preferenza per l’una o l’altra tecnica di assunzione dei mezzi di prova, l’atteggiamento nei confronti della prova scritta e delle preclusioni, il grado maggiore o minore di personalizzazione del procedimento, la legittimità o meno dell’attività giudiziaria privata, la tendenziale definitività o rivedibilità della decisione, il carattere più o meno rigido della disciplina processuale e così via, sono espressioni importanti dell’amministrazione della giustizia sicuramente influenzate dalle peculiari caratteristiche dell’organizzazione giudiziaria: segnatamente, dal tipo di attribuzioni dei magistrati (la distinzione è tra magistrati professionali, con incarico permanente e magistrati laici, con incarico temporaneo), dalla natura dei rapporti intercorrenti tra i magistrati (la distinzione è tra magistrati organizzati gerarchicamente e magistrati collocati in una posizione più o meno paritaria), dal modo in cui  i giudici prendono decisioni  (sotto  questo profilo, la distinzione decisiva è tra un metodo decisionale di carattere «tecnico», ed un metodo informato a regole indifferenziate o generali della comunità).

Bisogna rendersi conto, insomma, che difficilmente le forme dell’accertamento penale potranno realizzarsi allo stesso modo in un Paese che, ad esempio, affida funzioni giudiziarie esclusivamente a magistrati professionali, legati in una catena di subordinazione, e in un Paese che respinge la gerarchizzazione e la burocratizzazione del potere giudiziario.

Ed invero, così come, per es., non si può pensare di strutturare il processo penale alla stregua di «uno scontro forense», dominato dalle parti, se si intende vincolare il giudice all’attuazione degli orientamenti di politica criminale dello Stato, né, per converso, strutturare il processo penale come «un’indagine promossa e controllata d’ufficio», egemonizzata dal giudice e poco aperta al contributo delle parti, se si vuole semplicemente predisporre uno meccanismo legale (il processo, appunto) per evitare che, in caso di insorgenza di un conflitto interindividuale, cives ad arma veniant, allo stesso modo è errato accentrare l’attenzione sull’auspicabilità di una forma processuale senza chiedersi se tale forma sia oppure no compatibile anche con il particolare assetto strutturale del potere giudiziario.

Il problema non è solo quale tipo di processo vogliamo, ma anche in quale tipo di sistema giudiziario ci troviamo, giacché non pare lecito dubitare che una particolare organizzazione di potere possa essere più adeguata o più efficace per condurre un’indagine promossa e controllata d’ufficio, ed un’altra per risolvere un conflitto interindividuale.

Trattasi di elementari verità, che tuttavia da noi, in Italia, non paiono essere state compiutamente percepite.

Ne costituiscono riprova le vicende che hanno interessato il codice di procedura penale italiano, emanato, nel 1988, al dichiarato scopo di realizzare nel processo penale i «caratteri del sistema accusatorio» (in attuazione dei «principi della Costituzione»  e delle «norme delle Convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale»), riforma codicistica non preceduta, come invece sarebbe stato opportuno, da una seria, complessiva ed organica riforma dell’apparato giudiziario italiano.

Già dopo pochi anni di operatività, il nuovo ordito normativo codicistico è stato infatti «controriformato» dal legislatore e dalla Corte costituzionale, i quali, a più riprese, hanno operato interventi tali da incidere su basilari strumenti processuali congegnati, nel 1988, oltre che per la garanzia dell’imputato, per la giustizia della decisione: ciò, attraverso il demagogico alibi della lotta alla criminalità organizzata.

Nel proclamato intento di restituire forma e coerenza al modello processuale deformato dagli interventi controriformistici del 1992, il nostro legislatore, negli ultimi anni, ha approvato importanti riforme, non tutte, per la verità, capaci di riportare l’accertamento penale lungo i binari del «giusto processo».

Innovazioni come quelle introdotte dalla c.d. legge Carotti in tema di poteri probatori del giudice dell’udienza preliminare o in tema di poteri delle parti in punto di acquisizione al fascicolo per il dibattimento di atti aliunde formati,  palesa, a mio parere, un atteggiamento di sconcertante ambivalenza da parte del nostro legislatore: mentre si vuole che il giudice dimostri imparzialità e terzietà, si desidera anche che si esibisca in un coinvolgimento «attivo» ed impieghi, per l’accertamento del fatto sottoposto alla sua cognizione, anche materiale non scaturito da una diretta interazione con le fonti di prova.

Inutile allora fingere che il modello accusatorio possa essere più o meno integrato dal nostro sistema processuale se non si volta pagina definitivamente su tale scenario, se cioè non si ha il coraggio di disancorare il processo penale da fini diversi da quello consistente nella imparziale applicazione della legge nella ricostruzione del fatto e nella sua riferibilità all’imputato, e se non si pone mano ad una reale riforma dell’istituzione giudiziaria, che ponga le premesse per un effettivo allineamento del nostro Paese agli altri Paese a consolidata democrazia.

Rispetto agli apparati giudiziari degli altri Paesi membri dell’Unione europea, infatti, quello italiano presenta peculiarità di non poco momento, alle quali, in questa sede, non si può che dedicare rapidi cenni, ma che meriterebbero di essere attentamente valutate, nella prospettiva di verificare le possibilità di successo di un’azione di armonizzazione dei sistemi giuridici europei a livello di ordinamento giudiziario.

Sul fronte delle riforme ordinamentali pare ormai ineludibile un intervento normativo volto a realizzare una divisione dei ruoli organici di giudice e pubblico ministero, altrimenti la tanto conclamata «parità delle parti», nel processo penale, continuerà a restare confinata allo stadio di mera enunciazione programmatica; l’Italia – giova ricordarlo – è l’unica nazione democratica del mondo occidentale dove le funzioni di pubblico ministero vengono svolte da magistrati ai quali vengono attribuite le stesse garanzie di indipendenza dei giudici. Il C.S.M. italiano è, poi, l’unico ad avere pieni poteri deliberanti non solo sullo status dei giudici ma anche su quello dei magistrati del pubblico ministero. Che anche all’organo titolare dell’azione penale debbano assicurarsi garanzie di autonomia ed indipendenza pare assolutamente giustificato; non è detto, tuttavia, che l’organo dell’accusa possa godere di siffatte garanzie solo se appartenente allo stesso corpo giudiziario dei giudici. 

Sempre sul piano delle riforme di ordinamento giudiziario, appare necessaria la previsione di «ricorrenti», e soprattutto «serie» valutazioni dell’attività professionale dei magistrati nel corso della carriera, onde poter scegliere coloro che sono maggiormente qualificati per ricoprire i posti che si rendono vacanti ai livelli superiori dell’attività giudiziaria e, in ogni caso, per assicurare che i magistrati mantengano le loro capacità professionali nel lungo corso della loro carriera. Diversamente, infatti, da quanto accade in tutti gli altri Paesi di civil law che hanno un sistema di reclutamento dei magistrati simile al nostro (come Francia, Spagna, Germania, Portogallo e altri), da noi le valutazioni dei magistrati per la promozione ai vari livelli della carriera giudiziaria si basano non già su esami scritti e orali, e neppure sulla valutazione dei loro lavori giudiziari, ma sul c.d. criterio della selezione puramente negativa, nel senso che al raggiungimento della minima anzianità prevista dalla legge per il passaggio da una qualifica all’altra si viene immancabilmente promossi, tranne i casi di gravi violazioni disciplinari o penali.

Altro serio problema che a tutt’oggi attende una soluzione è quello delle attività extra-giudiziarie dei magistrati. Il caso italiano appare deviante rispetto a ciò che accade negli altri Paesi europei, non solo per il numero e la varietà degli incarichi extra-giudiziari da noi consentiti, ma anche per la confusione tra magistratura e classe politica che ne discende.

Infine, e mi accingo a concludere, occorre favorire, nel nostro Paese, una più intensa e fattiva partecipazione popolare all’amministrazione della giustizia, sia nell’ampio cerchio della verifica del corretto esercizio del potere, sia in quello della compartecipazione in via diretta ai processi decisionali giudiziari.

È veramente tempo di concludere.

Com’è noto, dopo una lunga trattativa, anche il nostro Paese ha accettato l’intero impianto della proposta di decisione-quadro sul c.d. mandato di arresto europeo, così come era stata approvata dagli altri Stati membri dell’Unione europea, subordinandone, tuttavia, l’applicazione all’avvio di procedure di diritto interno per rendere la decisione-quadro stessa compatibile con i principi supremi dell'ordinamento costituzionale in tema di diritti fondamentali, e per avvicinare il sistema giudiziario ed ordinamentale italiano ai modelli europei.

Sono a voi tutti note le riserve avanzate in Italia, non solo dal Governo ma anche da altri organismi, tra i quali Organismo unitario dell’avvocatura e l’Unione delle Camere penali, circa la praticabilità della soluzioni sottese alla proposta di decisione-quadro sul mandato di arresto europeo, in un contesto europeo ove non c’è ancora una Costituzione comune che garantisca la sfera delle libertà del cittadino europeo, non c’è un minimo di uniformità nei reati, non ci sono regole giudiziarie e ordinamentali comuni (l’Italia, per esempio, è l’unico Paese in cui il pubblico ministero abbia l’obbligo dell’azione penale; in alcune nazioni i pubblici ministeri sono sottoposti al controllo del governo; in molte altre c’è la separazione di carriere tra pubblici ministeri e giudici). In queste condizioni – si è osservato – in assenza, cioè, di leggi e procedure comuni a garanzia delle libertà del cittadino residente nel territorio UE, il mandato di arresto europeo sarebbe fonte di abusi senza tutela e senza controllo.

Siffatte osservazioni, che condivido pienamente, costituiscono riprova del fatto che la strada verso l’uniformità dei vari sistemi giuridici nazionali, nell’ottica della creazione, nel territorio dell’Unione europea, di uno spazio comune di giustizia, è ancora irta di ostacoli, prospettandosi, di volta in volta, delicati impatti di ordine costituzionale sugli ordinamenti dei singoli Stati dell’Unione: la si deve, tuttavia, preferire a quella, tradizionale, di tipo intergovernativo, basata sulla reciproca assistenza giudiziaria in materia penale tra Stati.

***

Commento di Emanuele Vannata

Dottorando di ricerca in “Scienze Giuridiche” 

(curriculum internazionalistico-europeo-comparato)

Dipartimento di Scienze Giuridiche – Università degli Studi di Salerno

A distanza di circa 22 anni dalla relazione su «Il cittadino europeo ed il cittadino italiano di fronte al processo penale» – al netto delle evoluzioni (e delle involuzioni) storico-normative sottese al processo di integrazione europea – si avverte, senza ombra di dubbio alcuna, la straordinaria lucidità e lungimiranza di uno dei più grandi Maestri del diritto, il Prof. Avv. Andrea Antonio Dalia.

Il tanto onorevole quanto difficile compito di commentare alcune Sue preziose riflessioni, che sollecitano le nervature più sensibili della costruzione europea, è reso più agevole soltanto dalla consapevolezza di trovarsi di fronte ad un Giurista che, in poche battute, ha saputo cogliere l’essenza degli anni a venire e decodificare magistralmente la cifra valoriale di cui l’Unione europea è portatrice.

Molti sono i temi affrontati, che attraversano la “nuova” identità europea, non più meramente economica, ma dispensatrice di fondamentali diritti civili, politici, economici e sociali, di cui i cittadini europei – “soltanto” cittadini nazionali nell’Unione europea (UE) pre-Maastricht – sono ora titolari. 

Sulla scorta della proclamazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, allora ancora priva del valore vincolante ad essa conferito dal Trattato di Lisbona ex art. 6 del Trattato sull’Unione europea (TUE), la relazione ripercorre la «trasformazione di uno spazio, originariamente solo geografico ed economico, in uno spazio comune di diritti, di principi, di valori indivisibili e universali», evidenziando le profonde interconnessioni tra ordinamento euro-unitario e sistemi penali nazionali, che avrebbero portato negli anni successivi alla realizzazione di uno Spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia (SLSG), proiettato verso il progressivo consolidamento della idea di uno spazio giudiziario “euro-centrico”[1].

Non senza lucida avvertenza delle difficoltà sottese alle «sostanziali diversità dei sistemi giudiziari dei Paesi membri dell’Unione europea, dovute a motivi profondamente radicati nella loro storia e tradizione», ma anticipando molte delle innovazioni che avrebbero ricoperto, negli anni a venire, un ruolo di assoluta centralità nel quadro della evoluzione della cooperazione giudiziaria in materia penale (e.g., il Mandato di arresto europeo, l’Ordine europeo di indagine, la Procura europea), la relazione evidenzia un tema di ancora stringente attualità: l’essenzialità dell’ armonizzazione dei sistemi giuridici penali e processuali penali nazionali, quale obiettivo imprescindibile della realizzazione di uno «spazio comune di giustizia», nel quale ai cittadini europei possa appartenere “un comune senso di giustizia” e in cui si trovino ad essere «egualmente tutelati contro le possibili aggressioni alla loro sicurezza ed alla loro sfera di libertà». 

Inoltre, nello spirito di amalgamazione di culture e tradizioni giuridiche tra loro più o meno distanti, quali quelle degli Stati membri UE, la relazione non manca di affrontare il tema della sovranità nazionale, evidenziando l’importanza di superare «i preconcetti e le diffidenze verso i sistemi giuridici stranieri», rinunciando a «rivendicare ad ogni costo la propria ‘unicità’», che è anche l’occasione per sottolineare le peculiarità «di non poco momento» che presenta l’ordinamento italiano, nella prospettiva di verificare le possibilità di successo di un’azione di  armonizzazione dei sistemi giuridici europei a livello di ordinamento giudiziario senza una reale riforma dell’istituzione giudiziaria nel suo complesso.

Ecco che, quindi, una volta tracciate le principali coordinate concettuali, frutto delle acute riflessioni di un Maestro, sarà compito e obiettivo di chi scrive riportarle alla luce, tentando di governarne le complessità, nella direzione di individuare le traiettorie del Suo pensiero e testarne la resistenza al tempo e alla evoluzione storico-sociale e politico-normativa dell’Unione europea.

È ben risaputo che, a norma dell’art. 9 TUE e dell’art. 20 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE), è cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro, trovando la sua definizione in conformità alla legislazione nazionale e ponendosi in termini di complementarietà rispetto alla cittadinanza nazionale. 

Inoltre, la cittadinanza dell’UE consta di un insieme di diritti e doveri che si aggiungono a quelli connessi allo status di cittadino di uno Stato membro, ma al tempo stesso costituisce qualcosa in più di un insieme di diritti che, di per sé, potrebbero essere concessi anche a coloro che non la possiedono.

È in questa direzione, infatti, che si pongono le riflessioni del Prof. Dalia, il quale, insistendo sulla proclamazione della Carta dei diritti fondamentali quale momento straordinario di demarcazione dell’identità del cittadino europeo, ne coglie il «valore ideale e storico straordinario», rammentando come essa delinei “«in maniera chiara e precisa il volto del cittadino europeo, titolare di fondamentali diritti civili, economici, sociali e politici, che le istituzioni comunitarie devono rispettare in tutte le azioni e le politiche dell’Unione».

Difatti, la cittadinanza dell’Unione –  che presuppone la cittadinanza di uno Stato membro, senza sostituirla – rappresenta anche una nozione giuridica e politica autonoma rispetto a quella di cittadinanza nazionale, presupponendo l’esistenza di un collegamento di natura politica tra i cittadini europei, che non è un mero rapporto di appartenenza ad un popolo, ma si fonda sul loro impegno reciproco ad aprire le rispettive comunità politiche agli altri cittadini europei e a costruire una nuova forma di solidarietà civica e politica su scala europea[2]. Ecco, quindi, che il nesso in questione non presuppone l’esistenza di un unico popolo, ma di «uno spazio politico europeo, dal quale scaturiscono diritti e doveri»[3], rafforzando i legami che ci uniscono ai nostri Stati (atteso che siamo cittadini europei proprio in quanto siamo cittadini dei nostri Stati) e, al contempo, ci emancipa (atteso che siamo cittadini al di là dei nostri Stati)[4]

In una tale evoluzione, che pregna di significato un’organizzazione internazionale che non è più fondata solo sul mercato, ma sulla «comunanza dei valori di democrazia, di libertà, di solidarietà e di giustizia», si apprezza il contributo della Carta nel completamento e nell’arricchimento della cittadinanza UE di altri diritti e di altri valori, che vengono così riconosciuti come «patrimonio comune dei popoli europei». Non bisogna dimenticare che molti dei diritti e valori sanciti dalla Carta di Nizza vivono (e vivevano al tempo della sua proclamazione) già nelle Costituzioni degli Stati membri dell’Unione, come pure nelle principali Carte internazionali di protezione dei diritti umani, tra cui in primo luogo la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) del 1950, il cui contenuto materiale è da ritenersi ormai parte integrante del tessuto normativo dell’Unione europea, come lucidamente avvertito dal Prof. Dalia. Non è superfluo evidenziare che, accanto al diritto primario, il combinato disposto degli artt. 216 TFUE, 288 TFUE e 6, par. 3 TUE, fornisce ai diritti fondamentali di cui alla Carta valore vincolante pari ai Trattati e, inoltre, questi conferiscono esplicitamente ai diritti fondamentali, come garantiti dalla CEDU, il “rango” di principi generali del diritto dell’Unione. Questi ultimi – che possono inoltre risultare dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri – sono da annoverarsi tra le fonti del diritto dell’UE tanto quanto la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’UE (CGUE) e il diritto internazionale, spesso considerato fonte di ispirazione per la CGUE all’atto di sviluppare la propria giurisprudenza.

Nell’era post-moderna in cui viviamo, Paolo Grossi identificava nell’Unione europea un laboratorio giuridico, una «fucina dove si viene forgiando un diritto che si innerva soprattutto in principii»[5] e rispetto cui la peculiarità del messaggio giuridico europeo risiede proprio nella presa di coscienza che l’Unione è una comunità di diritto, e lo è non solo e non tanto perché fondata su un Trattato, ma perché trova il suo cardine portante nei principi generali del diritto, di cui fanno parte i diritti fondamentali[6]

Nella relazione in commento, viene valorizzato un altro degli aspetti più rilevanti che avrebbe caratterizzato lo spazio giudiziario europeo, ponendo la Carta dei diritti fondamentali quale «punto di riferimento essenziale non solo per l’attività delle istituzioni comunitarie, ma anche per l’attività interpretativa dei giudici europei, che ad essa si richiameranno, quanto meno, per ‘rafforzare’ conclusioni raggiungibili comunque su altre basi». Qui, il riferimento è al rapporto dinamico fra Corti e sistemi (Gherichtsverbung)[7] che pregna di significato la “corrispondenza” dei diritti non in un’ottica di contrasto con la pluralità di sistemi, ma come momento necessario per assicurare l’evoluzione dei diritti fondamentali ed un costante miglioramento della loro protezione. Questa, ad esempio, è la direzione in cui, ad opinione di chi scrive, dovrebbe essere interpretato l’art. 52 della Carta che, com’è noto, definisce portata e interpretazione dei diritti e dei principi in essa riconosciuti. Del resto, il par. 4 dell’art. 52 evidenzia ancor più l’idea di “armonia” tra sistemi, valorizzando il ruolo delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. La regola d’interpretazione contenuta nel par. 4 si fonda sulla formulazione dell’art. 6, par. 3 TUE e, come precisato anche dalle Spiegazioni alla Carta[8], non impone una prospettiva al “ribasso” («minimo comune denominatore») ma implica invece “un elevato livello di tutela” nella ricerca di un costante coordinamento ed equilibrio fra sistemi, in modo da offrire un elevato livello di tutela che sia consono al diritto dell’Unione e in armonia con le tradizioni costituzionali comuni.

Tuttavia, sebbene l’Agenda Strategica 2024-2029[9] ribadisca il ruolo dell’Unione nel difendere i diritti e le libertà fondamentali dei suoi cittadini, come sancito nei Trattati, e proteggerli dalle minacce attuali e da quelle emergenti, tenendo ben presente che i valori comuni su cui si fondano i nostri modelli di democrazia e società sono alla base della libertà, della sicurezza e della prosperità europee, quando si parla di “diritti”, è bene considerare che un diritto non è tale se non trova adeguata ed effettiva tutela[10]. Tale assunto vale in particolare per quanto riguarda la prospettiva dell’accesso alla tutela giurisdizionale e ne era ben consapevole il Prof. Dalia, laddove icasticamente sottolineava come il percorso verso la cittadinanza europea in senso pieno «non può dunque prescindere dal riconoscimento a tutti coloro cherisiedono nel territorio dell’Unione del ‘diritto alla giurisdizione’», da intendersi sia come diritto di adire un organo giurisdizionale indipendente per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi, sia come diritto di agire come protagonisti di un contraddittorio nella elaborazione delle premesse della decisione giudiziale.

D’altronde, la costruzione di una «Europe of Justice» – in cima alle priorità dell’UE a partire dal programma di Stoccolma del 2010[11] – nel quadro più generale del rafforzamento dello SLSG richiede un accesso più agevolato alla giustizia (si veda, inter alia, l’art. 67 TFUE). Ciononostante, lo SLSG è soprattutto uno spazio di godimento dei diritti fondamentali e della loro tutela giuridica, anche attraverso il diritto di rivolgersi ad un giudice quando sono oggetto di violazione[12]. In questa precisa direzione si colloca in particolare, tra gli altri diritti fondamentali, il diritto di accesso alla giustizia e a un ricorso effettivo, garantito dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che costituisce un elemento essenziale per lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia[13]. Vieppiù, la Corte di giustizia ha riconosciuto in via pretoria il diritto ad un ricorso effettivo sin dalla sentenza Johnston del 1986[14], incardinando la garanzia di un sindacato giurisdizionale ad espressione di un principio giuridico generale su cui sono basate le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. 

Ogni individuo i cui diritti garantiti dall’acquis communautaire siano stati violati ha diritto, quindi, ad un ricorso effettivo dinanzi ad un giudice. Purtuttavia, non si dimentichi neppure che tale diritto di accesso trova nel diritto dell’Unione (e nel Capo VI della Carta, in particolare) ulteriori specificazioni[15], che il Prof. Dalia non manca di porre in luce. Infatti, Egli individuava «come contrassegno tipico dello ‘spazio giudiziario europeo’», il diritto di accesso a un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge, il quale esamini pubblicamente ed equamente la controversia sottoposta alla sua cognizione e la definisca senza ritardi ingiustificabili, diritto a sua volta già espressamente enunciato nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 (art. 10), nella CEDU (art. 6) e nel Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 (art. 14).

Risulta, quindi, essenziale comprendere e valorizzare le interconnessioni tra la piena applicazione della Carta dei diritti fondamentali e il perfezionamento di uno spazio giuridico e giudiziario per la tutela dei diritti fondamentali nell’Unione europea, che sono ben confermate anche nell’ultima relazione della Commissione sull’applicazione della Carta intitolata proprio alla tutela giurisdizionale effettiva e all’accesso alla giustizia[16]. Il diritto al sindacato giurisdizionale è ampiamente riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, trova corrispondenza nel diritto positivo dell’Unione europea e rientra altresì nei principi generali dello Stato di diritto comuni alle tradizioni costituzionali degli Stati membri. Secondo Grossi, alla Corte di giustizia è sostanzialmente affidato un ruolo rilevante di promozione e determinazione del «progrediente diritto dell’Unione», particolarmente sul tema vitalissimo della individuazione dei diritti fondamentali del cittadino europeo. 

L’Unione trova, infatti, la sua inabdicabile essenza portante nei principi e nei valori su cui essa riposa – i quali costituiscono l’esperienza giuridica europea e, nel mutamento, le forniscono solidità e resistenza all’usura – nella consapevolezza che non può prescindere dal pluralismo del diritto europeo e globale. Tali principi, (anche) in virtù dellaloro flessibilità e indefinitezza, posseggono una forza espansiva che, grazie alla interpretazione di quelli che Grossi definiva «giudici scienziati legislatori»[17], potrebbero e dovrebbero fecondare e arricchire l’ordinamento giuridico, rendendo ancora l’Unione e la sua Corte protagonisti del diritto europeo e attenti alla dinamica presente/futuro.

La realizzazione dello SLSG si fonda sul rispetto dei diritti fondamentali ma, parimenti, implica il rispetto anche dei diversi ordinamenti giuridici e delle diverse tradizioni giuridiche degli Stati membri. Tra gli obiettivi che caratterizzano lo Spazio, ex art. 67 TFUE, rientra in particolare la garanzia di «un livello elevato di sicurezza attraverso misure di prevenzione e di lotta contro la criminalità, il razzismo e la xenofobia», il quale trova compimento attraverso «misure di coordinamento e cooperazione tra forze di polizia e autorità giudiziarie e altre autorità competenti, nonché tramite il riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie penali e, se necessario, il ravvicinamento delle legislazioni penali». È bene considerare che – come avvertito anche dal Prof. Dalia – pur non essendo incardinata una competenza normativa in materia penale nel quadro dei Trattati, rientrando il diritto e la procedura penale nell’alveo ordinamentale di ciascuno Stato membro, ciò «non impedisce di intravedere profonde interconnessioni tra ordinamento comunitario e sistemi penali nazionali». Difatti, se da un lato la progressiva eliminazione dei controlli alle frontiere all'interno dell'UE ha considerevolmente agevolato la libera circolazione dei cittadini dell’UE, dall'altro ha anche reso più facile la realizzazione di attività criminose su scala transnazionale. Per poter affrontare la sfida della criminalità transfrontaliera, lo SLSG prevede misure volte a promuovere la cooperazione giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri. Sono ben note le misure specifiche adottate per contrastare la criminalità transfrontaliera e il terrorismo e per garantire la tutela dei diritti delle vittime, degli indagati e dei detenuti all'interno dell’UE, che si sono di fatto tradotte in una sempre crescente influenza del Diritto dell’Unione, con particolare riferimento in specie alla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, nonché alla lotta contro la criminalità transfrontaliera.

La base giuridica della cooperazione giudiziaria in materia penale, com’è risaputo, è rappresentata dagli artt. da 82 a 86 TFUE. A norma del TFUE, par. 1, la cooperazione giudiziaria in materia penale nell’Unione è fondata sul principio di riconoscimento reciproco delle sentenze e delle decisioni giudiziarie[18] e include il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri nei settori di cui al par. 2 e all’art. 83 TFUE. Le misure di cooperazione giudiziaria in materia penale sono adottate in gran parte secondo la procedura legislativa ordinaria e sono soggette al controllo giurisdizionale della CGUE. Vieppiù, l’art. 83 del TFUE conferisce al Parlamento europeo e al Consiglio il diritto di elaborare norme minime per la definizione dei reati in sfere di criminalità particolarmente grave con una dimensione transfrontaliera, dovuti alla natura o alle conseguenze di tali reati o a una particolare esigenza di combatterli su basi comuni (i c.d. “euro-crimini”, tra cui terrorismo, tratta di esseri umani, criminalità organizzata, criminalità informatica, soltanto per citarne alcuni)[19].

Dall’assetto normativo post-Lisbona risulta evidente che quella cooperazione giudiziaria tra Stati (di tipo essenzialmente intergovernativo alle sue origini) ha teso sempre più alla creazione di un “sistema penale europeo” sovranazionale. Consapevole di tale possibile e auspicabile evoluzione, già nel 2002 il Prof. Dalia, infatti, riteneva «indispensabile un’azione di armonizzazione dei sistemi giuridici nazionali, vale a dire il progressivo avvicinamento e la progressiva conformazione degli strumenti e delle istituzioni tramite i quali la giustizia penale è attualmente amministrata negli Stati dell’Unione europea». Non casualmente l’esempio più lampante che veniva richiamato era quello del c.d. Corpus Iuris[20], la corposa proposta, a cura di Mireille Delmas-Marty, relativa alla tutela penale degli interessi finanziari dell’UE del 1997, poi riveduta ed ampliata in quattro volumi nel 2000[21], la cui prospettiva più immediata era quella della costituzione di un Pubblico ministero europeo, con funzioni di coordinamento delle indagini (relative alle più gravi forme di criminalità) che si svolgono nei vari Stati dell’Unione. Ed oggi, dal 1° giugno 2021, data della sua piena operatività, ci troviamo difronte all’ istituzione del primo Ufficio di Procura sovranazionale in ambito europeo (European Public’s Prosecutor Office - EPPO)[22], chiamata, non più soltanto a stimolare e migliorare il coordinamento delle indagini e delle azioni penali condotte dalle autorità nazionali – quale sostanziale mandato affidato all’Agenzia dell’Unione europea per la cooperazione giudiziaria penale (Eurojust) e, per altri versi, all’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF) – ma bensì ad esercitare quella stessa azione penale tradizionalmente riservata al domaine réservé dello Stato, seppure attualmente “soltanto” in relazione all’individuazione e al perseguimento degli autori di reati che ledono gli interessi finanziari dell’UE (e.g., frode, riciclaggio, corruzione, appropriazione indebita)[23].

Tuttavia, sia che si tratti di creare istituzioni/organi inquirenti (organi giudiziari o di polizia) di livello sovranazionale capaci di interloquire con le diverse autorità (giudiziarie e di polizia) nazionali, sia che si tratti di realizzare a livello UE procedimenti e strumenti di indagine (non può nascondersi la rilevanza storica e pratica dell’introduzione del Mandato di Arresto europeo (MAE), come dell’Ordine Europeo di Indagine (OEI) o, ancora, l’implementazione di sistemi informatici e di banche dati, come ECRIS, SIS, VIS, ETIAS e così via, considerata l’obsolescenza degli strumenti classici di mutua assistenza giudiziaria) che tengano anche dell’ “evoluzione digitale” della criminalità[24], il nodo centrale più volte emerso resta sempre l’armonizzazione dei sistemi giuridici penali e processuali penali nazionali, elemento imprescindibile, se l’obiettivo è quello della realizzazione di uno spazio comune di giustizia, in cui i cittadini europei abbiano un comune senso di giustizia e siano egualmente tutelati contro le possibili aggressioni alla loro sicurezza ed alla loro sfera di libertà[25].

Invero, le considerazioni in commento paiono spingersi ancora più in là, nel quadro di una condivisibile generale consapevolezza che la strada verso l’uniformità dei vari sistemi giuridici nazionali, nell’ottica della creazione, nel territorio dell’Unione europea, di uno spazio comune di giustizia, «è ancora irta di ostacoli, prospettandosi, di volta in volta, delicati impatti di ordine costituzionale sugli ordinamenti dei singoli Stati dell’Unione». Infatti, il Prof. Dalia ha inteso evidenziare alcune peculiarità proprie dell’ordinamento italiano o, per meglio dire, dell’assetto giudiziario italiano, che – a suo dire – minerebbero «le possibilità di successo di un’azione di armonizzazione dei sistemi giuridici europei a livello di ordinamento giudiziario».

In effetti, a distanza di più di vent’anni, nonostante il susseguirsi di riforme che hanno “rivoluzionato” (non in senso particolarmente positivo) il processo penale, non v’è traccia ancora di una reale riforma dell’istituzione giudiziaria, che ponga le premesse per un effettivo allineamento del nostro Paese agli altri Paesi UE a consolidata democrazia. Come acutamente evidenziato, si pensi alla vexata quaestio della separazione delle carriere giudicante e requirente dei magistrati – ora nuovamente agli onori della cronaca mediatica, in ragione dell’impianto di riforma costituzionale presentato dal Governo alla Camera dei Deputati il 13 giugno 2024[26], ora in discussione nell’Aula di Montecitorio, a seguito dell’approvazione da parte della Commissione Affari Costituzionali del 4 dicembre 2024 – come pure il rilevante tema della valutazione dell’attività professionale dei magistrati[27], da ultimo rimaneggiato dalla c.d. “riforma Cartabia” (in particolare, dalla L. 17 giugno 2022, n. 71) e dal D. Lgs. 28 marzo 2024, n. 44, attuativo della stessa. Si tratta (ancora) in entrambi i casi di difformità sistemiche rispetto alla stragrande maggioranza dei Paesi UE, dove la separazione delle carriere è realtà (è noto che l’Italia sia l’unico Paese dell’Unione dove le funzioni di Pubblico Ministero vengono svolte da magistrati ai quali vengono attribuite le stesse garanzie di indipendenza dei giudici) e dove le valutazioni dei magistrati per la promozione ai vari livelli della carriera giudiziaria avviene mediante esami o attraverso una valutazione degli atti giudiziari emanati. Non da ultimo poi, il caso italiano appare peculiare – come sottolineato dal Prof. Dalia – anche in relazione al numero e alla varietà degli incarichi extra-giudiziari consentiti, oltre che «per la confusione tra magistratura e classe politica che ne discende».

In conclusione, appare possibile sostenere che il processo di integrazione europea ha indubbiamente alimentato e, per certi versi, virtuosamente trasformato il panorama giuridico (anche penale) europeo, dando vita a un sistema giuridico comune in cui la protezione dei diritti fondamentali e l’accesso alla giustizia sono obiettivi imprescindibili. Tale processo, nel più ampio quadro della cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale e, in specie, dell’armonizzazione dei sistemi giuridici, ha prodotto un crescente rafforzamento dei diritti fondamentali dei cittadini, ma al tempo stesso ha implicato inevitabilmente delle difficoltà insite nella diversità delle tradizioni giuridiche dei vari Stati membri. L’analisi del Prof. Dalia, lungimirante e pionieristica, resta di sorprendente attualità nel delineare non solo l’evoluzione della cittadinanza europea, ma anche il crescente ruolo di una cooperazione giudiziaria che, pur nel rispetto delle specificità e delle tradizioni giuridiche dei singoli Stati membri, sta contribuendo alla realizzazione di un “sistema penale europeo” integrato. La creazione di un vero e proprio “spazio giudiziario europeo” ha, infatti, condotto a soluzioni significative, come dimostrato tanto dagli strumenti internazionali in materia di cooperazione giudiziaria in materia penale quanto dalla vasta gamma di atti legislativi nel campo delle norme minime comuni. Si tratta nel complesso di strumenti che testimoniano l’avanzamento dell’idea di un’Europa sempre più integrata nel campo giuridico e giudiziario.

Tuttavia, la realizzazione di uno spazio comune di giustizia richiede un delicato equilibrio tra il rispetto delle tradizioni costituzionali e la necessità di garantire un livello uniforme di tutela dei diritti. Le differenze tra i vari ordinamenti giuridici, tra cui nondimeno vanno considerate le peculiarità di quello italiano, non vanno intese come ostacoli insormontabili, ma come opportunità per arricchire il processo di armonizzazione, nella consapevolezza che l'Unione europea non è solo un’entità economica, ma una comunità di valori e diritti. La vera sfida, come evidenziato dal Prof. Dalia, sta nel riconoscere che l’accesso alla giustizia e la protezione dei diritti fondamentali devono rimanere al centro del progetto europeo, senza mai perdere di vista il principio di solidarietà che unisce i cittadini europei, pur nella loro diversità. In questo contesto, la dimensione giuridica dell’Unione si conferma come uno degli strumenti più potenti per garantire la protezione dei diritti fondamentali, contribuendo alla creazione di una giustizia veramente comune, in grado di rispondere alle sfide del presente e del futuro.

Bisogna inevitabilmente tenere conto, inoltre, che la criminalità transnazionale rappresenta uno degli aspetti più complessi e urgenti da affrontare nel contesto dell’Unione europea. La crescente globalizzazione e la mobilità delle persone e delle merci hanno creato opportunità per organizzazioni criminali di operare oltre i confini nazionali, rendendo sempre più necessario un approccio cooperativo tra gli Stati membri. Le mafie, il traffico di droga, la tratta di esseri umani, il terrorismo, i crimini informatici e i crimini ambientali sono solo alcune delle manifestazioni di una criminalità che non conosce più confini. Bisogna considerare, infatti, che le autorità, di contrasto e giudiziarie, spesso non hanno la capacità e le risorse per individuare, indagare e perseguire efficacemente tali categorie di reati, che sono spesso complessi, multidisciplinari e di natura transfrontaliera. Inoltre, l’esistenza di diversi approcci investigativi e legislativi per affrontare tali sfere di criminalità nei vari Paesi pone ulteriori sfide e complessità operative che richiedono inevitabilmente una cooperazione sempre più forte ed intensa tra le autorità giuridiche e di polizia degli Stati membri.

In questo contesto, le iniziative come l’istituzione della Procura europea, l’introduzione del MAE e dell’OEI, l’implementazione delle piattaforme informatiche e delle banche dati, sono diventati strumenti fondamentali per facilitare le indagini, l’efficace perseguimento di indagati e condannati, la raccolta delle prove ma anche per garantire che i diritti fondamentali dei cittadini non siano sacrificati nella lotta al crimine. Il coinvolgimento delle agenzie europee, come Europol e Eurojust, ha permesso di migliorare la condivisione di informazioni e il coordinamento tra le forze di polizia, rendendo più efficace il contrasto alla criminalità transnazionale. Tuttavia, nonostante i progressi, i gruppi criminali sono sempre più sofisticati e adattabili, utilizzando spesso nuove tecnologie, il dark web, per condurre le loro attività illecite. La cross-border dimension della criminalità ambientale e il crescente coinvolgimento della criminalità organizzata richiedono sempre più spesso lo svolgimento simultaneo di indagini sui territori di diversi Stati membri, con il rischio che il difficile (o mancato) adeguato coordinamento tra autorità – tanto amministrative quanto giudiziarie – possa condurre a indagini parallele e doppie sanzioni. 

La devoluzione di tali crimini alla sola potestas puniendi nazionale, pur nelle difficoltà alcune delle quali qui già menzionate, è carente di efficacia senza (almeno) un solido potenziamento della cooperazione (giudiziaria) internazionaleche possa contribuire tanto al mero coordinamento investigativo, all’armonizzazione legislativa o alla diffusione di best practices quanto a forme più intense ed avanzate che implichino l’esercizio dell’azione penale al di fuori del domaine réservé dello Stato. Si badi, ad ogni modo, che con ciò non si vuole affermare che il panpenalismo sia la panacea di tutti i “mali”, soprattutto laddove fin troppo spesso la pervasività del penale in ogni piega delle relazioni sociali e la pulsione emotiva – utile soltanto a soddisfare l’opinione pubblica – hanno condotto alla proliferazione di fattispecie penali simboliche e ineffettive. In ossequio al principio di sussidiarietà del diritto penale, occorre piuttosto assicurare alla pena quel rigore di extrema ratio che conferisce credibilità all’intervento penale, assicurando, nello stesso tempo, la difesa ed il rispetto di libertà e personalità individuale, contribuendo, inoltre, non poco, ad alleggerire il carico, pressocché insopportabile, di una giustizia penale in pieno collasso[28].

Pertanto, nella consapevolezza che la criminalità transnazionale è una minaccia globale, la risposta richiesta non può che essere altrettanto globale e integrata. Le Istituzioni europee, rafforzate dalla cooperazione tra gli Stati membri, sono chiamate a continuare a sviluppare strumenti giuridici che permettano di contrastare questi fenomeni in modo efficace, tutelando al contempo i diritti dei cittadini. La creazione di uno spazio giuridico comune, oltre che uno spazio di politiche condivise, è dunque essenziale per rispondere adeguatamente alle sfide poste dalla criminalità transnazionale, che minaccia non solo la sicurezza ma anche i valori fondamentali dell’Unione europea.


Note e riferimenti bibliografici

[1] A. DI STASI, Lo spazio europeo giustizia e cooperazione giudiziaria in materia penale: il rispetto dei diritti fondamentali e della diversità tra ordinamenti nazionali e tradizioni giuridiche, in “Spazio europeo di giustizia” e procedimento penale italiano. Adattamenti normativi e approdi giurisprudenziali, a cura di Kalb, Torino, 2012, 3 ss.; A. DI STASI, Lo spazio europeo di giustizia come segmento del più ampio spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia: incidenza virtuosa della tutela dei diritti fondamentali e limiti alla sua realizzazione, in A. DI STASI, A. LANG, A. IERMANO, A. ORIOLO, R. PALLADINO, Spazio europeo di giustizia e applicazione giurisprudenziale del Titolo VI della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Napoli, 2024, 13 ss.

[2] Corte giust. UE, conclusioni dell’avvocato generale Poiares Maduro del 30 settembre 2009, causa C-135/08, Janko Rottman c. Freistaat Bayern, punto 23.

[3] Ibid.

[4] Ibid. Si veda A. DI STASI, Cittadinanza nazionale under evolution e cittadinanza europea under stress tra vecchie e nuove frontiere: le ragioni di un itinerario di ricerca, in Cittadinanza europea e cittadinanza nazionale. Sviluppi normativi e approdi giurisprudenziali, a cura di Di Stasi, Baruffi, Panella, Napoli, 2023, 11 ss.

[5] P. GROSSI, Ritorno al Diritto, Roma-Bari, 2015, p. X.

[6] Corte giust. UE, sentenza del 25 luglio 2002, causa C-50/00 P, Unión de Pequeños Agricultores c. Consiglio dell’Unione europea, punto 38.

[7] V. A. VOßKUHLE, The Coooperation Between European Courts: The Verbund of European Courts and its Legal Toolbox, in The Court of Justice and the Construction of Europe: Analyses and Perspectives on SixtyYears of Caselaw, edited by Rosas, Livits, Bots, The Hague, 2013, 81 ss.

[8] Spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali, in GUUE C 303, del 14 dicembre 2007, p. 17.

[9] Consiglio europeo, Agenda strategica 2024-2029, del 27 giugno 2024, disponibile al link https://www.consilium.europa.eu/media/4aldqfl2/2024_557_new-strategic-agenda.pdf.

[10] G. TESAURO, The Effectiveness of Judicial Protection and Cooperation Between the Court of Justice and National Courts, in Yearbook of European Union Law, 1993, 13(1), 1 ss.

[11] Consiglio europeo, Programma di Stoccolma. Un’Europa aperta e sicura al servizio e a tutela dei cittadini, 2010/C 115/01, in GUUE C115, del 4 maggio 2010, p. 1.

[12] V. F. POCAR, Osservazioni introduttive: Spazio di libertà, sicurezza e giustizia, brexit e tutela dei diritti fondamentali, in Lo Spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia a vent’anni dal Consiglio europeo di Tampere, a cura di Di Stasi, Rossi, Napoli, 2023, 19 ss., 19.

[13] Più nel dettaglio, v. G. D’ AVINO, Il diritto alla tutela giurisdizionale effettiva nell’art. 47 par. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, in Tutela dei diritti fondamentali e spazio europeo di giustizia. L’applicazione giurisprudenziale del Titolo VI della Carta, a cura di Di Stasi, Napoli, 2019, 151 ss.

[14] Corte giust. UE, sentenza del 15 maggio 1986, causa 222/84, Marguerite Johnston c. Chief Constable of the Royal Ulster ConstabularyCfr., Corte giust. UE, Quinta Sezione, sentenza del 3 dicembre 1992, causa C-97/91, Oleificio Borelli SpA c. Commissione delle Comunità europee; Corte di giustizia UE, sentenza del 15 ottobre 1987, causa 222/86, Union nationale des entraîneurs et cadres techniques professionnels du football (Unectef) c. Georges Heylens e altri.

[15] V. A. DI STASI, A. LANG, A. IERMANO, A. ORIOLO, R. PALLADINO, op. cit.

[16] Relazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, Tutela giurisdizionale effettiva e accesso alla giustizia. Relazione annuale 2023 sull’applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, del 4 dicembre 2023, COM/2023/786 final.

[17] P. GROSSI, op. cit., p. X.

[18] G. DALIA, Riconoscimento, valore ed esecuzione delle sentenze penali straniere, Napoli, 2020.

[19] A. ORIOLO, Criminalità transnazionale e Unione europea: verso un approccio human-rights based nell’azione globale per la sicurezza comune, in Criminalità Transnazionale e Unione europea, Oriolo, Castaldo, Di Stasi, Nino, Napoli, 2024, 177 ss.; T. RUSSO, The Evolution of European Criminal Competence in the Fight Against Transnational Crime, in Euweb Legal Essays, 2024, n. 1, 55 ss.

[20] Corpus juris portant dispositions pénales pour la protection des intérêts financiers de l’Union européenne, edited by Delmas-Marty, Paris, 1997; La mise en oeuvre du Corpus Juris dans les Etats members, edited by Delmas-Marty, Vervaele, Antwerpen, Vol.1-4, 2000. 

[21] Frutto anche di una lunga serie di riflessioni protrattesi nel corso degli anni e condotte da numerosissimi esperti, con il favore di Parlamento e Commissione. V. Parlamento europeo, Risoluzione sulla creazione di uno spazio giuridico e giudiziario europeo per tutelare gli interessi finanziari dell’Unione europea contro la criminalità internazionale, del 12 giugno 1997, in GU C 200 del 30 giugno 1997, 157; Commissione delle Comunità europee, Libro verde sulla tutela penale degli interessi finanziari comunitari e sulla creazione di una procura europea, dell’11 dicembre 2001, COM (2001)715. 

[22] N. PARISI, La Procura europea: un tassello per lo spazio europeo di giustizia penale, in Studi sull’integrazione europea, 2013, n. 8, 47 ss.; S. ALLEGREZZA, Statuto e poteri del Pubblico ministero europeo, in I nuovi orizzonti della giustizia penale europea, Aa. Vv., Milano, 2015, 279 ss.; L. BACHMAIER, The European Public Prosecutor’s Office: The Challenges Ahead, Cham, 2018; A. ORIOLO, The European Public Prosecutor’s Office (EPPO): A Revolutionary Step in Fighting Serious Transnational Crimes, in ASIL Insights, 2018, Vol. 22, Issue 4; Shifting Perspectives on the European Public Prosecutor’s Office, edited by Geelhoed, Erkelens, Meij, The Hague, 2018; L. PALMIERI, La riforma di Eurojust e i nuovi scenari in materia di cooperazione giudiziaria, Milano, 2019; L. KALB, Questioni problematiche in tema di Procura europea, in Lo Spazio di Libertà Sicurezza e Giustizia a vent’anni dal Consiglio europeo di Tampere, a cura di Di Stasi, Rossi, Napoli, 2020, 291 ss.

[23] Il riferimento è al tema dell’estensione delle competenze della Procura europea, già al centro del dibattito accademico, e anche oggetto di concrete iniziative istituzionali, in particolare della Commissione europea relativamente agli strumenti di contrasto al terrorismo internazionale (Comunicazione della Commissione, Un’Europa che protegge: un’iniziativa per

estendere le competenze della Procura europea (EPPO) ai reati di terrorismo transfrontalieroContributo della Commissione europea alla riunione dei leader di Salisburgo del 19-20 settembre 2018, COM/2018/641.). Sia consentito rinviare a E. VANNATA, Profili evolutivi della competenza della Procura europea: dalla lotta agli illeciti finanziari alla repressione degli ecocrimes, in Iura & Legal Systems, 2022, IX.2022/2, 19 ss.; E. VANNATA, Cambiamento climatico, criminalità ambientale e Unione europea tra tutela penale dell’ambiente, ecocrimes e spazio giudiziario “euro-centrico”, in Criminalità transnazionale e Unione europea, op. cit., 577 ss.

[24] Si veda S. BUSILLO, Conservazione e produzione della prova digitale nella nuova disciplina europea: il potenziale disallineamento con i principi espressi dalla giurisprudenza di settore, in Freedom, Security & Justice: European Legal Studies, 2023, n. 3, 27 ss.; G. DALIA, La natura transnazionale della digital evidence tra richieste di cooperazione e pretese di sovranità. Un equilibrio necessario per il contrasto alle nuove forme di criminalità, in I-LEX, 2023, Vol. 16, n. 1, 37 ss.

[25] T. RUSSO, Alcuni spunti riflessivi sull’evoluzione della competenza penale dell’Unione europea e sulle criticità “procedurali” della cooperazione giudiziaria in materia, in Rivista della cooperazione giuridica internazionale, 2024, XXVII, n. 76, 88 ss.

[26] Per una consultazione complessiva dell’impianto di riforma, si veda Camera dei Deputati, Documentazione per l’esame di Progetti di legge. Norme per l’attuazione della separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura. AA.C. 23-434-806-824-1917. Legge Costituzionale, n. 33, del 9 luglio 2024, disponibile al seguente link https://documenti.camera.it/leg19/dossier/pdf/gi0010.pdf. Per un inquadramento critico complessivo, si veda l’interessante Forum su «Le proposte di revisione costituzionale d’iniziativa parlamentare in tema di giustizia», pubblicato nel fasc. n. 1/2024 della rivista «Il Gruppo di Pisa», con i contributi di R. BALDUZZI, F. DAL CANTO, G. FERRI, G.A. FERRO, F. PASTORE e G. SILVESTRI.

[27] Tema che, peraltro, va coniugato con la dibattuta questione della responsabilità civile dei magistrati. V. G. DALIA, La responsabilità dei magistrati, in L’errore giudiziario, a cura di Luparia Donati, Milano, 2021, 811 ss. Per un inquadramento critico, anche alla luce delle recenti riforme, delle valutazioni professionali dei magistrati, v. G. ZAMPETTI, Valutazioni di professionalità dei magistrati e ruolo dei membri laici dei Consigli giudiziari: le recenti novità legislative tra questioni interpretative e profili di compatibilità costituzionale, in Osservatorio costituzionale, 2024, n. 6, 27 ss.

[28] S. MOCCIA, Sul difficile rapporto tra principio di sussidiarietà, diritti fondamentali e politica criminale agli albori della postmodernità, in Diritti dell’uomo e sistema penale, a cura di Moccia, Vol. I, Napoli, 2002, 123 ss., 137.