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Pubbl. Ven, 15 Mar 2024

La partecipazione dei privati alla valorizzazione dei beni culturali

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Aniello Iervolino
AvvocatoUniversità degli Studi di Napoli Federico II



Il presente lavoro mira ad analizzare gli strumenti della partecipazione privata alla valorizzazione del patrimonio culturale. In particolare, con lo stesso si ripercorrerà l’excursus normativa con il quale il Legislatore è giunto a coniare il termine ”valorizzazione” per attribuirgli un significato autonomo rispetto alla nozione di “tutela”. Sarà esplorato il percorso dottrinale e giurisprudenziale che ha permesso al Legislatore di aprire le porte del patrimonio culturale ai privati. L´analisi verterà anche sullo studio degli articoli del Codice dei beni culturali e del Codice degli contratti pubblici che disciplinano le modalità di partecipazione del privato alla vita dei beni culturali. Infine, una parte significativa dello studio sarà dedicata al fundraising ed alla sponsorizzazione.


ENG

Private participation in the enhancement of cultural heritage

This paper aims to analyse the instruments of private participation in the enhancement of cultural heritage. In particular, with the same we will retrace the excursus normative with which the Legislator came to coine the term ”enhancement” to give it an autonomous meaning with respect to the notion of "protection". The doctrinal and jurisprudential path that has allowed the Legislator to open the doors of cultural heritage to private individuals will be explored. The analysis will also focus on the study of the articles of the Code of Cultural Heritage and the Code of Public Contracts governing the modalities of private participation in the life of cultural heritage. Finally, a significant part of the study will be dedicated to fundraising and sponsorship.

Sommario: 1. Le origini della disciplina dei beni culturali e della nozione di valorizzazione; 1.1 Il Legislatore apre alla partecipazione dei privati; 2. La valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica; 2.1 Le forme di gestione dei beni culturali; 2.2 I servizi “aggiuntivi”; 2.3 Il Codice dei contratti pubblici per i beni culturali; 3. Il Fundraising nei beni culturali; 3.1 La sponsorizzazione dei beni culturali. Dalla timidezza iniziale alla disciplina attuale; 3.2 Colosseo ed Ercolano. Due casi diversi di sponsorizzazione; 3.3 La Sponsorizzazione dell’Eni per la ricostruzione della Basilica di San Benedetto da Norcia; 4. Riflessioni conclusive.

1. Le origini della disciplina dei beni culturali e della nozione di valorizzazione

Il primo intervento sistematico in tema di beni culturali risale al 7 aprile 1820, con l’emanazione dell’editto da parte del Cardinale camerlengo Bartolomeo Pacca, sotto il pontificato di Pio VII, ove fu sancito l’obbligo di denunciare alla “Commissione di belle arti” ogni oggetto d’antichità e d’arte che si trovasse nelle chiese o in qualunque stabilimento ecclesiastico o secolare, per favorirne la catalogazione.

Nello stesso editto furono previsti, per la prima volta, vincoli e controlli finalizzati alla conservazione, al restauro, alla vigilanza sulla circolazione dei suddetti oggetti, consentendo l’alienazione di quelli ritenuti non «necessari o di sommo riguardo per il Governo» e limitando, invece, la vendita di quelli «di singolare e famoso pregio per l’arte e per l’erudizione» esclusivamente all’interno dello Stato e previa licenza.

Dopo i decenni postunitari senza alcuna effettiva disciplina della materia, cominciò a farsi spazio un lavoro normativo mirato a far fronte al progressivo depauperamento del patrimonio culturale per via delle sue numerose demolizioni ed esportazioni.

Con la Legge n. 185 del 12 giugno 1902 il principio della limitazione pubblicistica entrò nell’ordinamento nazionale e prevalse su quelli della piena proprietà e del libero commercio delle opere d’arte[1].

Nel solco del predetto intervento normativo, con la Legge Rosadi-Rava del 1909, con la Legge Croce del 1922 e con la Legge Bottai del 1939 si diede vita ad un progressivo incremento del potere autoritativo, volto ad incidere sulle libertà di godimento e di disposizione dei beni culturali da parte dei privati.

Si iniziò, dunque, una stabile sottoposizione dei beni culturali di proprietà privata a vincoli pubblicistici, al fine di favorirne la conservazione e rendere più complessa la vendita e l’esportazione.

In particolare, la Legge Bottai, che per circa sessant’anni ha costituito il punto di riferimento per la disciplina dei beni culturali, individuò nel potere pubblico l’unico efficace strumento in grado di garantire la conservazione del patrimonio culturale.

Così, i proprietari privati dei beni culturali cominciarono ad essere sottoposti alla stessa normativa che disciplinava quelli di appartenenza pubblica.

Nonostante i diversi interventi legislativi, l’espressione “bene culturale” non era stata ancora formalmente introdotta dal Legislatore.

La prima volta avvenne con la ratifica della Convenzione del 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato[2], ma fu la Commissione di indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico artistico e del paesaggio, cd. Commissione Franceschini, (istituita con L. n. 310 del 1964[3]) ad introdurre la definizione di bene culturale e di bene culturale ambientale[4].

E sempre la Commissione Franceschini utilizzò per prima il termine “valorizzazione”[5].

La valorizzazione fu successivamente riconosciuta come una delle funzioni pubbliche (sebbene ancorata al concetto di tutela) con l’art. 2 del D.L. n. 657/1974, istitutivo del Ministero per i beni culturali e per l’ambiente. La dichiarazione II recava come rubrica: «Provvedimenti per la tutela e la valorizzazione dei beni culturali».

La tutela, diversamente dalla valorizzazione, era già comparsa nell’ordinamento giuridico, più precisamente, al secondo comma dell’art. 9 Cost., che prevede tutt’ora che la Repubblica «Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».

Invero, sempre l’art. 9, al comma 1, cominciò a porre le basi per la futura introduzione della valorizzazione nel mondo del diritto dei beni culturali, stabilendo che: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica».

Lo sguardo lungo dei Padri Costituenti non fu immediatamente colto dalla dottrina che ritenne di sviluppare il concetto di valorizzazione basandosi su una estensiva interpretazione dell’art. 33 della Costituzione[6], poiché leggeva l’art. 9, comma 1 come una forma eccessiva di controllo pubblico sulle attività di promozione della cultura[7].

Negli anni ‘60, cominciò a prendere forma una diversa lettura del secondo comma dell’art. 9 Cost. in combinato disposto con il primo comma e con il principio personalistico e di uguaglianza sostanziale. Pertanto, la dottrina iniziò ad affermare che «in un ordinamento che vuol essere democratico non soltanto in senso formale ... e perciò appunto si propone il perfezionamento della personalità di tutti i consociati e il progresso materiale e spirituale della società nella sua integrità (artt. 1-4 Cost.), gli obiettivi dello sviluppo della cultura, del gusto estetico, della ricerca scientifica e tecnica (avuti di mira dall’art. 9) si collocano manifestamente come strumentali; e rispetto ad essi, la tutela, ad opera dei pubblici poteri, del patrimonio paesistico, artistico e storico del Paese si rivela, a propria volta, come mezzo al fine»[8].

Di lì a poco altra dottrina avrebbe sostenuto che in forza di queste disposizioni la formula costituzionale sul paesaggio «non può essere limitata alla protezione (delle bellezze naturali), né, tanto meno, alla loro semplice conservazione», ma, piuttosto, «investe ogni intervento umano che operi nel divenire del paesaggio, qualunque possa essere l’area in cui viene svolta»[9].

Qualche anno più tardi, altra parte della dottrina affermò ancora che «la medesima concezione dinamica della tutela può essere estesa al patrimonio artistico, sia per quanto riguarda gli immobili, sia per quanto riguarda i beni mobili ... con ciò sembra possibile una lettura unitaria, non solo del secondo comma, ma dell’intero articolo, col secondo comma costituente una accentuazione particolare del fine generale di promozione della cultura»[10].

In sostanza, una siffatta lettura ha condotto a ritenere che la vigenza della Costituzione abbia portato all’«abbandono di una concezione estetizzante ed elitaria delle cose d’arte, a favore di un processo di democratizzazione del patrimonio storico e artistico della Nazione”[11]: e, di conserva, anche al superamento di quella che è stata espressivamente definita come la «concezione totalizzante della tutela»[12].

Sic stantibus, si sarebbe potuta aprire la strada ad una diversa qualificazione della funzione della tutela, non solo in un’ottica di stabilità e conservazione ma anche in quella più dinamica e proattiva; al contrario, si preferì configurare un’ulteriore funzione pubblica in tema di beni culturali, rappresentata dalla valorizzazione.

La diversa lettura del primo comma dell’art. 9 Cost., quale disposizione che, oltre a predicare la necessità di una tutela del patrimonio culturale, introduce il principio della promozione della cultura come elemento utile per la crescita e lo sviluppo della società, ha consentito anche di cogliere lo stretto legame tra la promozione della cultura e le attività economiche[13].

È proprio questo processo interpretativo a costituire la spinta decisiva verso l’autonomia del concetto di valorizzazione, per la quale ha giocato un ruolo essenziale l’intensa attività giurisprudenziale costituzionale, supportata dal Legislatore (solo) con la riforma del Titolo V.

Il quadro nel quale ha operato la giurisprudenza costituzionale è il seguente.

Le Regioni ordinarie, attraverso la prima regionalizzazione (D.P.R. n. 11/1972), avevano competenza solo in materia di musei e biblioteche, nonostante destinassero ingenti risorse economiche per la cura dei beni culturali, vista l’esiguità delle risorse ministeriali.

Cosicché, come si vedrà anche infra, la giurisprudenza costituzionale[14] ha dovuto far emergere una sempre più insistente legittimazione delle Regioni e degli Enti Locali a provvedere agli interessi generali delle collettività e del territorio pur nel rispetto delle competenze riservate allo Stato.

In tal modo, si è venuta a creare una sorta di doppio binario di competenze.

Con il D.Lgs. n. 112/1998, è stata confermata la competenza statale in materia di tutela, ma è anche stata riconosciuta la competenza regionale in materia di valorizzazione, prevedendo una prima forma di decentramento della gestione dei beni (i musei) di appartenenza statale a Regioni ed Enti Locali (invero, non realizzata).

È in siffatto quadro normativo che si colloca l’operato della Corte Costituzionale, la quale, prima della L. Cost. n. 3/2021, ha valorizzato il principio di leale collaborazione tra le Amministrazioni, ritenendo possibile affidare la promozione dei beni culturali a tutti gli Enti ed ai soggetti a vario titolo coinvolti[15]

Con l’avvento della riforma del Titolo V della Costituzione, l’art. 117 ha conservato in capo allo Stato la potestà legislativa esclusiva sulla funzione di tutela[16], ma ha individuato la valorizzazione tra le materie devolute alla potestà legislativa concorrente delle Regioni[17].

La riforma ha anche previsto che, ai sensi dell’art. 116, comma 3 Cost., possano essere attribuite alle Regioni, attraverso una legge dello Stato con un procedimento rinforzato, «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» concernenti la materia della tutela dei beni culturali, e, ai sensi dell’art. 118, le funzioni amministrative debbano essere individuate in base al principio della sussidiarietà verticale, nonché di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza[18].

Nel periodo immediatamente successivo alla menzionata riforma costituzionale, la giurisprudenza costituzionale ha proseguito (se non incrementato) il proprio lavoro di chiarimento della differente funzione tra tutela e valorizzazione.

Si pensi alla sentenza n. 9/2004, in tema di attività di restauro, nella quale la Corte ha affermato che «il restauro dei beni culturali costituisce una delle attività fondamentali in cui si esplica la tutela dei beni medesimi», precisando, tuttavia, che «attraverso le operazioni di restauro può anche giungersi alla valorizzazione dei caratteri storico-artistici del bene, che è però cosa diversa dalla valorizzazione del bene al fine della sua fruizione. Quest’ultima, invero, non incidendo sul bene nella sua struttura, può concernere la diffusione della conoscenza dell’opera e il miglioramento delle condizioni di conservazione»[19].

La Corte, attraverso la menzionata pronuncia, ha individuato, quali elementi distintivi tra la tutela e la valorizzazione, le potenzialità legate alla diffusione ed alla promozione dell’opera (che sono assorbite dal concetto di valorizzazione), e gli interventi finalizzati alla conservazione della struttura (che attengono alla funzione di tutela).

Ciò posto, emerge una netta distinzione tipologica delle funzioni, in quanto la tutela ha assunto una natura eminentemente statica assolvendo funzioni di tipo difensivo-conservativo, mentre alla valorizzazione è stata attribuita una natura dinamica, che si esplica in azioni volte ad incrementare le opportunità di godimento pubblico del bene, migliorando l’efficienza del servizio di offerta alla pubblica fruizione.

Proprio sulla scorta di questa differenziazione, sono state poste le basi per riconoscere la partecipazione attiva dei privati alla gestione dei beni culturali.

1.1 Il Legislatore apre alla partecipazione dei privati

Alla fine degli anni Novanta, la dottrina aveva investito la valorizzazione del ruolo trait d’union tra Pubblica Amministrazione e privato nell’ambito dei beni culturali, cogliendo l’opportunità di una gestione imprenditoriale del patrimonio storico e artistico, che fosse funzionale all’attrazione di risorse finanziarie utili ad assicurare un miglioramento dello stato dell’arte dei beni culturali, nonché una loro maggiore fruibilità[20].

Il primo reale intervento volto a disciplinare la possibilità per i privati di incidere sui beni culturali afferisce al cd. decreto Ronchey, convertito in Legge n. 4/1993, che, all’art. 4, ha introdotto la possibilità per i privati di gestire in concessione alcuni servizi (cd. “aggiuntivi”, come quelli di riproduzione e vendita dei beni culturali, nonché i servizi di caffetteria, ristorante, guardaroba), dando così inizio al cd. processo di depublicizzazione. Individuarne il significato non è molto semplice: parte della dottrina ha ritenuto che non attenesse ad una repentina privatizzazione, cioè ad un trasferimento diretto dalla proprietà pubblica a quella privata, bensì costituirebbe «l’attivazione di una serie di dinamiche politiche, giuridiche ed economico-sociali volte alla disarticolazione del patrimonio culturale dall’impianto organizzativo e funzionale della Pubblica Amministrazione di cui era stato sino ad allora componente essenziale»[21].

Una delle norme più importanti che seguirono alla legge Ronchey e al successivo allargamento dell’ingresso dei privati, fu il già citato D.Lgs. 112 del 1998, che all’art. 148, poi abrogato dal Codice dei beni culturali, tentava di stabilire una prima tipizzazione delle categorie di tutela, riconoscendo come tale «ogni attività diretta a riconoscere, conservare e proteggere i beni culturali e ambientali” e di valorizzazione come “ogni attività diretta, mediante l’organizzazione di risorse umane e materiali, ad assicurare la fruizione dei beni culturali e ambientali, concorrendo al perseguimento delle finalità di tutela e di valorizzazione» e di gestione come «ogni attività diretta a migliorare le condizioni di conoscenza e conservazione dei beni culturali e ambientali e ad incrementarne la fruizione».

Successivamente, con il D.Lgs. n. 368/1998, istitutivo del Ministero dei Beni e delle attività culturali, il Legislatore comincia ad aprire ad accordi con i privati, volti a favorire la valorizzazione dei beni culturali, nonché alla costituzione o alla partecipazione di soggetti giuridici quali associazioni, fondazioni o società, ai quali il Ministero avrebbe potuto partecipare – addirittura – attraverso il conferimento dei beni stessi (art. 10).

La Legge n. 448 del 28 dicembre 2001 ha solo tentato di introdurre nuove forme di esternalizzazione a terzi nella gestione dei beni culturali, disponendo in favore di «soggetti diversi da quelli statali» la concessione della «gestione dei servizi finalizzati al miglioramento della fruizione pubblica e della valorizzazione del patrimonio artistico», secondo modalità demandate ad un apposito regolamento ministeriale.

Tuttavia, la dottrina ha nutrito molti dubbi sulla portata innovativa del predetto articolo.

In particolare, i «servizi finalizzati al miglioramento» non hanno riscosso un notevole seguito, presagendo una disciplina molto più limitativa rispetto al sopra citato art. 10 del D. Lgs. n. 368/1998[22].

Le basi costituzionali che hanno consentito al Codice Urbani (D. Lgs. n. 42/2004) di aprire definitivamente le porte dei beni culturali ai privati sono rappresentate dal principio partecipativo, ricavato indirettamente dall’art. 3, co. 2, Cost., che ha accostato il principio di eguaglianza sostanziale all’«effettiva partecipazione di tutti i lavoratori - si legga cittadini - all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

In pari termini, l’art. 118, Cost., imponendo allo Stato e agli enti territoriali «di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli ed associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà», ha messo in relazione la P.A. e i cittadini, garantendo a questi ultimi che le decisioni in materia fossero prese dall’Ente agli stessi più vicino.

A ciò si aggiunga che l’art. 9 Cost. ha previsto la tutela «del patrimonio storico e artistico della Nazione». L’espressione “Nazione” non è stata richiamata a caso ma «racchiude in sé un’idea di popolo, non asettica e indeterminata, ma connotata dalle peculiarità del territorio, dalle sue tradizioni e dalla sua storia e, come tale, custode del proprio patrimonio culturale, visibile e invisibile»[23].

Poste le basi costituzionali, il Legislatore, con il D.Lgs. n. 42/2004, ha riconosciuto espressamente al privato un ruolo di sparring partner nell’attività di valorizzazione dei beni culturali.

Invero, l’art. 6 del Codice Urbani si riferisce alla valorizzazione come «attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso, al fine di promuovere lo sviluppo della cultura».

In sostanza, il Legislatore - attraverso un lavoro sistematico finalizzato a dare priorità estrema alla valorizzazione sic et simpliciter del bene culturale - ha inteso prevedere che la valorizzazione consiste in un’attività volta a migliorare le condizioni e le opportunità dell’offerta culturale e, di conseguenza, della fruizione del bene culturale.

Ciò posto, però, il Legislatore, alla parte Terza, Titolo I, Capo II, ha dedicato una serie di norme volte a consentire - e disciplinare - la partecipazione dei private alla valorizzazione dei beni culturali.

In particolare, il Capo II si apre con l’art. 111 che stabilisce: «1. Le attività di valorizzazione dei beni culturali consistono nella costituzione ed organizzazione stabile di risorse, strutture o reti, ovvero nella messa a disposizione di competenze tecniche o risorse finanziarie o strumentali, finalizzate all’esercizio delle funzioni ed al perseguimento delle finalità indicate all’articolo 6. A tali attività possono concorrere, cooperare o partecipare soggetti privati.

2. La valorizzazione è ad iniziativa pubblica o privata.

3. La valorizzazione ad iniziativa pubblica si conforma ai principi di libertà di partecipazione, pluralità dei soggetti, continuità di esercizio, parità di trattamento, economicità e trasparenza della gestione.

4. La valorizzazione ad iniziativa privata è attività socialmente utile e ne è riconosciuta la finalità di solidarietà sociale».

Nell’annoverare le iniziative dei privati, la norma esaminata indica - seppur in via timidamente programmatica - una certa sensibilità verso un possibile ruolo dei cittadini nelle dinamiche culturali, sia sotto il profilo dell’iniziativa economica, sia, da un più generale angolo visuale, ossia quello del loro diretto coinvolgimento nelle attività di valorizzazione del patrimonio culturale[24].

Oltre al Codice dei beni culturali, il Legislatore italiano ha cercato di favorire l’intervento privato nell’ambito dei beni culturali anche attraverso altri interventi.

Si pensi, ad esempio al Codice del terzo settore, in base al quale, tra le «attività di interesse generale» che possono porre in essere gli enti del terzo settore si collocano anche «interventi di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e del paesaggio» (art. 5, comma 1, lett. f, D.lgs. n. 117/2017).

Un’altra norma particolarmente rilevante, che ha contribuito a dare respiro al mondo dei beni culturali durante l’emergenza epidemiologica, è il cd. Art-bonus, il D.L. n. 83/2014, convertito in L. n. 106/2014 che ha previsto un credito di imposta per favorire le erogazioni liberali per interventi di manutenzione, protezione e restauro di beni culturali pubblici, per il sostegno degli istituti e dei luoghi della cultura di appartenenza pubblica.

Altro intervento normativo di rilievo è poi la L. n. 133/2020, con cui l’Italia ha ratificato la Convenzione di Faro, ossia la Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società.

Per quanto interessa il presente lavoro, particolare importanza deve essere attribuita all’art. 1, lett. b), della Convenzione, che ha conferito al singolo ed alla collettività un ruolo di responsabilità verso il patrimonio culturale e, all’art. 2, lett. b), per via del quale il cittadino ha assunto un ruolo prioritario nei processi di individuazione, tutela, valorizzazione, fruizione e gestione di «aspetti specifici del patrimonio culturale che essa, nel quadro dell’azione pubblica, desidera mantenere e trasmettere alle generazioni future»[25].

Il carattere novativo è agevolmente riscontrabile nel potere d’iniziativa che i soggetti privati hanno nell’individuazione e nella tutela di alcuni beni del patrimonio culturale emblematici della storia di una comunità o di un territorio che, invece, nell’assetto codicistico è dominio esclusivo delle autorità pubbliche. L’innovazione risiede altresì nel carattere dinamico della comunità patrimoniale, costituita da un insieme di persone fisiche, accomunate dalla volontà di identificarsi nel valore culturale espresso dalla risorsa[26] che, per tale motivo, decidono di prenderne in carico la valorizzazione e la gestione, divenendo titolari di un “munus”[27].

Pertanto, l’obiettivo perseguito dalla Convenzione è quello di assicurare a “chiunque” il riconoscimento e l’esercizio del diritto all’eredità culturale, inteso, ai sensi dell’art. 1, lett. a), come diritto di ognuno di farsi parte attrice di un percorso di fruizione, tutela e valorizzazione della risorsa culturale.

Ad oggi, la volontà del Legislatore non è mutata.

Al contrario, più recentemente, il D.M. n. 8 del 13.01.2023[28] ha posto particolare attenzione all’implementazione dell’azione dei privati nell’ambito dei beni culturali, favorendone gli investimenti e gli interventi.

Tra le priorità politiche (art. 3) del Ministero, «sarà considerato prioritario l’accrescimento della capacità degli istituti e luoghi della cultura di autofinanziarsi, così come il reperimento di fonti finanziarie alternative rispetto al finanziamento pubblico», nonché, il miglioramento della qualità e della fruizione «dei luoghi della cultura attraverso l’ampliamento dei circuiti integrati e la collaborazione con enti pubblici non statali, con soggetti privati, tra cui gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti», con ciò evidentemente alludendo alla necessità di coinvolgere i privati in maniera ancora più marcata.

2. La valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica

Il D.Lgs. n. 42/2004 ha messo a disposizione degli Enti preposti alla tutela ed alla valorizzazione dei beni culturali un plafond di disposizioni attraverso le quali aprire le porte alla collaborazione con i privati.

L’art. 112, D. lgs. n. 42/2004, disciplina la fase programmatoria della promozione dei beni culturali, di competenza del MIC, delle Regioni e degli enti pubblici territoriali. Tali Enti sono tenuti a realizzare accordi volti ad elaborare «strategie e obiettivi comuni di valorizzazione, nonché (…) conseguenti piani strategici di sviluppo culturale».

Invero, ben prima dell’entrata in vigore del Codice dei beni culturali, trovandosi un vulnus sul punto, le Pubbliche Amministrazioni applicavano analogicamente l’art. 15 della l. 241/1990, l’art. 11 del TUEL, l’art. 152, comma 1, del D.Lgs. 112/1998.

Ma, in particolare, è stato l’accordo di programma ex art. 2, comma 203, L. n. 662/1996 a risultare lo strumento concertativo più usato dalla P.A.

L’accordo di programma, in effetti, era in grado di far coesistere programmazione economica e concertazione sociale, governo del territorio e autonomie territoriali[29], rafforzando la coesione sociale dei sistemi locali territoriali. La forza della programmazione negoziata risiede proprio nell’assenza di regole predefinite da parte dello Stato, configurandosi come uno strumento che proviene dal “basso”, ossia da quei soggetti direttamente portatori degli interessi e delle esigenze da tutelare[30].

Posta la fase “strategica” in capo ai suddetti Enti, l’art. 112, comma 5, D.Lgs. n. 42/2004, stabilisce che gli Enti interessati possono individuare alcuni “appositi soggetti giuridici”, ai quali affidare l’elaborazione e l’attuazione dei piani strategici suddetti. I soggetti giuridici ivi menzionati possono assumere forme tali da prevedere la partecipazione sia di privati proprietari di beni culturali sia di persone giuridiche (private) senza scopo di lucro[31], a condizione che lo specifico intervento nel settore sia direttamente previsto dalla legge o dal loro statuto.

Il comma 4 dell’art. 112, invece, prevedendo che gli accordi strategici promuovono l’integrazione, nel processo di valorizzazione concordato, delle infrastrutture e dei settori produttivi collegati, si ritrova anche ad aprire ad un coinvolgimento di svariati settori, fino a raggiungere soggetti che non siano direttamente interessati all’attività di valorizzazione, bensì alle attività economiche ad essa connessa (come, ad esempio, strutture e servizi destinati alla recettività o allo svago e settori produttivi tradizionali).

Così facendo, la valorizzazione del bene culturale è in grado di promuovere indirettamente la valorizzazione territoriale, «innescando espressamente quel processo circolare grazie, al quale, in ritorno, si favorisce l’allargamento della platea dei fruitori»[32].

A fronte di riflessi (diretti e indiretti) così positivi in favore di un numero di privati incalcolabile, dal punto di vista formale la platea dei privati che può essere coinvolta in questi procedimenti si rivela limitata. Tuttavia, appare indubbio che il D.Lgs. n. 42/2004 si basi su una logica di fondo collaborativa verso alcune categorie di privati, fino ad attribuirgli un ruolo da coprotagonista[33] nella pianificazione delle funzioni di valorizzazione[34].

La dottrina, in ogni caso, ha rilevato come un modello partecipativo così strutturato si rivela comunque “sbilanciato” verso la parte pubblica, a cui vengono riservate l’iniziativa, la definizione degli obiettivi e l’individuazione di strategie e programmi[35].

Le particolari categorie di soggetti privati, abilitati a poter prender parte alla programmazione culturale strategica e alle attività di valorizzazione, rimangono, infatti, ancora escluse dall’affidamento diretto delle concessioni delle attività di valorizzazione[36]: le indicazioni provenienti dal D.lgs. n. 42/2004 vanno, dunque, nel senso di privilegiare, in primis, i raccordi collaborativi fra gli enti pubblici e, solo in seconda battuta, di favorire l’approccio partecipativo dei soggetti privati[37].

2.1 Le forme di gestione dei beni culturali

L’art. 115 del Codice disciplina la gestione dei beni culturali.

La definizione di gestione ha suscitato numerosi dibattiti in dottrina, non essendo stato semplice individuare una nozione univoca[38]. La gestione è stata complessivamente intesa come un’attività di organizzazione di beni e mezzi materiali e immateriali finalizzata alla produzione e alla successiva erogazione dei servizi culturali, nonché a migliorare l’efficacia e l’efficienza delle attività svolte sui beni culturali.

In sintesi, la gestione è l’attività con la quale si realizzano la valorizzazione e la tutela.

L’art. 115 del D.Lgs. n. 42/2004 prevede due distinte modalità di gestione delle attività di valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica: diretta ed indiretta.

La gestione diretta è esercitata attraverso strutture organizzative interne alle amministrazioni, dotate di autonomia scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile, e (è questa la novità rispetto alla disciplina previgente) anche in forma consortile pubblica.

Al contrario, la gestione indiretta prevede il coinvolgimento di terzi.

La gestione indiretta, stante la natura di pubblico servizio propria dell’attività di valorizzazione ad iniziativa pubblica[39], è assicurata attraverso la concessione a terzi ovvero mediante l’affidamento di appalti pubblici di servizi[40] [come modificato dall’art. 8, comma 7-bis), L. n. 120/2020], anche in forma congiunta e integrata, da parte delle amministrazioni cui i beni pertengono o dei soggetti giuridici costituiti ai sensi dell’articolo 112, comma 5, qualora siano conferitari dei beni ai sensi del comma 7 (ndr. dell’art. 115).

Come già osservato al precedente paragrafo, i “soggetti giuridici” di cui all’art. 112, comma 5 possono essere partecipati anche dai privati proprietari dei beni culturali o dai soggetti no profit. Proprio per evitare conflitti d’interesse, il Codice si premura di specificare il divieto per tali soggetti privati di essere individuati come concessionari in gestione indiretta delle attività di valorizzazione.

L’art. 115, al comma 4, prevede che tali soggetti giuridici disciplinino il rapporto negoziale con il privato concessionario attraverso un contratto di servizio, elevando, in tal caso, i suddetti soggetti alla stessa stregua delle P.A.

In ogni caso, nonostante l’upgrade e la parificazione alle P.A. i “soggetti giuridici” conferitari dei beni non godono di una autonomia perfetta. L’art. 115, comma 6, infatti, attribuisce alle P.A. comunque un potere di controllo e vigilanza sulle attività del concessionario[41].

Relativamente alla figura del concessionario, il D.Lgs. n. 42/2004 non vi sono limitazioni eccezion fatta per il sopra citato divieto.

Fattore determinante della partecipazione dei privati è certamente l’utilità economica del territorio circostante, «considerata fattore generativo e conformativo dello sviluppo economico e sociale dell’area»[42].

Purtuttavia, come più volte visto al precedente capitolo, è obliterata la nozione di valorizzazione che intenda il bene culturale come esclusivo fattore produttivo di reddito. Anche per tale motivo, l’art. 115 regola i rapporti con i concessionari con un contratto di servizio, ove devono essere individuati i contenuti del progetto di gestione delle attività di valorizzazione, i relativi tempi di attuazione, i livelli qualitativi delle attività da assicurare e dei servizi da erogare, le professionalità degli addetti, i servizi essenziali che devono essere comunque garantiti per la pubblica fruizione del bene.

2.2 I servizi “aggiuntivi”

Nell’ambito della gestione indiretta assume un rilievo decisivo il tema dei servizi al pubblico, disciplinati per la prima volta con la L. Ronchey. 

L’art. 4 previde l’istituzione, presso musei, biblioteche e archivi di Stato, di una serie di servizi “aggiuntivi” – quali il servizio editoriale e di vendita riguardante le riproduzioni di beni culturali, il servizio di caffetteria, di ristorazione e di guardaroba - offerti al pubblico a pagamento.

Con il D.Lgs. n. 42/2004, il Legislatore ha individuato, all’art. 117, comma 2, una serie di «servizi di assistenza culturale e di ospitalità per il pubblico»[43].

La dottrina non ha considerato tassativa l’elencazione di tali servizi, ritenendola non esaustiva[44]. A tale orientamento ha aderito anche la giurisprudenza ritenendo che: “In presenza di un contratto che si caratterizza per la natura causale mista, comprendente aspetti funzionali sia dell’appalto di lavori che del servizio di vigilanza, ben può la p.a. estendere le garanzie assicurative di cui all’art. 30 l. n. 109 del 1994 a prestazioni diverse da quelle strettamente connesse all’esecuzione dei lavori e oggetto dei servizi aggiuntivi[45].

Il comma 3 dell’art. 117 stabilisce anche che tali attività possono essere gestite anche in forma integrata con i servizi di pulizia, vigilanza e biglietteria[46].

Tale disposizione è stata positivamente accolta dalla dottrina che ha rilevato come l’esternalizzazione della totalità dei servizi di valorizzazione museale favorisce una maggiore concentrazione delle risorse amministrative dell’Ente verso la “risoluzione di macroproblematiche, evitando di disperdere energie nella minuta gestione quotidiana[47].

Il successivo comma 4 ha invece previsto le forme di gestione di tali servizi, rinviando alle due tipologie (diretta o indiretta) di cui all’art. 115.

A questo punto, è bene chiarire che la dottrina è stata molto elastica nel distinguere le modalità di gestione delle attività di valorizzazione da quella dei servizi aggiuntivi.

Difatti, la scelta della P.A. di gestire in via diretta le attività di valorizzazione non pregiudica l’eventuale sua decisione di esternalizzare i servizi aggiuntivi, trattandosi di attività strutturalmente differenti e non potendo essere imposto un vincolo così pressante alla discrezionalità di cui dovrebbe godere la P.A. in tale fattispecie[48].

Quanto alla tipologia di gara per l’affidamento dei servizi di cui all’art. 117, la giurisprudenza ha assunto un ruolo chiarificatore determinante.

Innanzitutto, la giurisprudenza costante ha chiarito che la qualificazione come appalto o come concessione dipende non dal nomen iuris ma solo dalle concrete modalità con cui il privato affidatario viene ad essere remunerato: quindi alla scelta dello strumento dovrà corrispondere una minore (in caso di appalto) o una maggiore (in caso di concessione) traslazione del rischio operativo o gestionale[49].

Alla stregua di tale orientamento, in linea generale, la giurisprudenza ha ritenuto che i servizi aggiuntivi siano affidati con concessione; mentre, i servizi complementari – dai quali è possibile ricevere una forma di remunerazione diretta dal pubblico al privato - sono affidati con l’appalto[50].

Il Legislatore è, poi intervenuto con la L. n. 120/2020, al cui art. 8, comma 7-bis, ha integrato l’art. 117, comma 3 prevedendo che: «Qualora l’affidamento dei servizi integrati abbia ad oggetto una concessione di servizi ai sensi dell’articolo 3, comma 1, lett. vv), del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, l’integrazione può essere realizzata anche indipendentemente dal rispettivo valore economico dei servizi considerati. È ammessa la stipulazione di contratti di appalto pubblico aventi ad oggetto uno o più servizi tra quelli di cui al comma 1 e uno o più tra i servizi di pulizia, di vigilanza e di biglietteria».

La ratio della disposizione è quella di favorire l’affidamento integrato dei servizi complementari con quelli aggiuntivi.

La giurisprudenza ha avuto modo di analizzare a fondo la versione attuale dell’art. 117, comma 3, “proteggendo” i servizi aggiuntivi da quelli complementari, nel senso di imporre alla P.A., nel caso di gestione integrata dei due servizi, un ordine di priorità di valori, ponendo al primo posto i servizi aggiuntivi.

Una delle sentenze più significative sul punto è quella del Consiglio di Stato, n. 2259/2021, con la quale i Giudici di Palazzo Spada hanno innanzitutto ricordato che la regola generale vuole che i servizi aggiuntivi siano affidati mediante concessione, mentre quelli complementari attraverso l’appalto.

Successivamente, ha dichiarato che la preminenza dei servizi aggiuntivi è ricavabile dallo stesso comma 3 dell’art 117, nella parte in cui prevede la gestione concessoria integrata come mera possibilità, essendo la concessione propria dei soli servizi aggiuntivi, sicché «questi ultimi, in caso di uso di tale strumento giuridico – che costituisce una modalità di gestione finalizzata alla valorizzazione indiretta – non possono divenire in alcun caso (in assenza di deroghe previste dalla legge) né formalmente, né sostanzialmente accessori».

Pertanto, l’amministrazione può esternalizzare a privati i servizi complementari solo quando siano evidentemente strumentali alla valorizzazione culturale dei siti culturali.

In sostanza, il Consiglio di Stato ha sottolineato l’indifferenza e la recessività del valore economico (e dei suoi introiti) del servizio complementare di fronte alla valorizzazione dei beni culturali garantita dai servizi aggiuntivi.

Di conseguenza, l’Amministrazione stessa non deve immaginare, nell’elaborazione della procedura di gara, di mettere a «disposizione di privati un luogo della cultura per farne beni economici strumentali delle loro imprese, ma di meglio – organizzativamente - promuovere la fruizione e la conoscenza del patrimonio culturale che il luogo stesso rappresenta e per il quale è stato istituito, e delle collezioni che contiene».

Ed è a fronte di tale configurazione che l’operatore economico è tenuto a valutare ex ante la convenienza della propria partecipazione, non potendo pretendere dalla P.A. che l’attività di valorizzazione receda rispetto alle «sue più facili e immediate convenienze lucrative».

Proprio alla luce di tali argomentazioni, il Consiglio di Stato ha dichiarato nulle le disposizioni della lex specialis preparata da Consip per la Soprintendenza Speciale per il Colosseo e l’Area Archeologica centrale di Roma, nella parte in cui tali disposizioni attribuivano un punteggio alle diverse componenti dell’offerta tecnica tale da evidenziare una palese subalternità attribuita ai “servizi aggiuntivi” rispetto a quelli di biglietteria.

2.3 Il Codice dei contratti pubblici per i beni culturali

Il Codice dei beni culturali non è l’unico riferimento normativo dal quale si ricava la partecipazione dei privati alla valorizzazione dei beni culturali.

Uno strumento codificato nel D.Lgs. n. 50/2016 e nel successivo D.Lgs. n. 36/2023 è il partenariato speciale pubblico privato.

La codificazione del partenariato pubblico privato risale, come noto, al Libro verde della Commissione CE presentato il 30 aprile 2004[51], nel quale sono stati individuati due tipi di partenariato: contrattuale e istituzionalizzato. Il primo è «basato esclusivamente su legami contrattuali tra i vari soggetti», mentre il secondo prevede una forma di cooperazione tra il settore pubblico e il settore privato nella creazione e gestione congiunta di un soggetto giuridico terzo, che ha la missione di assicurare la fornitura di un’opera o di un servizio a favore del pubblico[52].

Il Codice dei Contratti Pubblici del 2016 ha individuato nell’art. 151, comma 3, la forma speciale di partenariato pubblico privato nell’ambito dei beni culturali, attivabile dal Ministero dei Beni culturali per «assicurare la fruizione del patrimonio culturale della Nazione»[53] e favorire altresì la ricerca scientifica applicata alla tutela.

Il neonato Codice dei Contratti Pubblici, all’art. 134, comma 2, ha aggiustato il tiro, estendendo tali forme di partenariato non solo alla fruizione ed alla tutela ma anche alla ricerca scientifica applicata alla “valorizzazione”.

Il Codice, in materia di beni culturali, ha previsto un procedimento semplificato, legittimando forme atipiche di partnership pubblico-privato ed allargando la platea dei privati (non solo no profit, come previsto dall’art. 112, comma 5, D.Lgs. n. 42/2004) che possono partecipare alla gestione dei beni culturali.

La dottrina ha a lungo discusso sulla reale portata della disposizione, subordinandola all’esatto significato della nozione di “partenariato”.

Una lettura di carattere eminentemente sistematico del D.Lgs. n. 50/2016 [art. 3, lett. eee) in combinato disposto con l’art. 180] ricondurrebbe il PSPP nello schema tipico del partenariato pubblico-privato inducendo ad ammettere come partner privati solo limitati soggetti in possesso di specifici requisiti tecnici, professionali ed economici[54]

Difatti, solo se lo si interpretasse in senso lato (riferibile ad ogni forma di collaborazione intercorrente fra il Ministero della Cultura e le più svariate tipologie di soggetti privati/pubblici), potrebbero essere legittimati soggetti ulteriori rispetto a quelli ordinariamente ammessi alla partecipazione delle gare pubbliche[55].

Soccorre, a tal proposito, la Circolare Ministeriale del Mibact del 9 giugno 2016[56] che ha evidenziato come l’art. 151, comma 3, rappresenti una «norma aperta che potrà man mano riempirsi di contenuti applicativi specifici sulla base dell’esperienza e delle buone pratiche che potranno essere avviate e sperimentate», pur rimanendo pur sempre una species rispetto al genus del partenariato di cui agli artt. 180 ss. del Codice dei contratti pubblici[57].

Le evidenze della pratica, prosegue la Circolare, hanno fatto emergere «figure ibride, di difficile collocazione giuridica, spesso cumulando una pluralità di tipi e di cause negoziali e di fini economico-sociali».

La D.G. Musei con Circolare n. 45 dell’8 novembre 2019[58], ribadendo il contenuto della circolare Mibact del 2016 sull’apertura a molteplici tipi e cause contrattuali, ha individuato un modello operativo per agevolare le forme di collaborazione fra Istituti dotati di autonomia speciale o Poli museali e soggetti privati, enti o organismi pubblici, per « la gestione di immobili o siti museali/archeologici ad oggi non aperti al pubblico».

Con tale strumento, la D.G. Musei ha inteso favorire l’attivazione delle forme di PSPP, prevedendo la pubblicazione per la durata di almeno trenta giorni sul sito web dell’Istituto/Polo e del ministero di un avviso recante la comunicazione che l’Istituto/Polo è alla ricerca di un partner cui affidare la gestione, del sito culturale, «con finalità di pubblica fruizione, valorizzazione e conservazione», secondo un capitolato tecnico allegato, che deve indicare la descrizione dell’immobile o del sito e gli elementi minimi dell’accordo.

I soggetti interessati possono presentare una proposta con un progetto di gestione, apertura alla fruizione e valorizzazione entro il termine di trenta giorni (o superiore) dalla pubblicazione.

Decorso il predetto termine, l’Istituto/Polo, nel caso di più proposte, affida la valutazione ad una commissione interna pluridisciplinare, applicando i principi di imparzialità e parità di trattamento.

Dal contenuto e dal tenore della Circolare emerge un invito ad utilizzare una forma semplificata di individuazione del partner privato.

Tale semplificazione, invero, sembrerebbe giustificata dal solo tipo di attività oggetto del partenariato (gestione, fruizione e valorizzazione di un immobile/sito non aperto al pubblico).

Ma la forma di collaborazione sfocia inevitabilmente in una concessione di servizi, ossia una forma ordinaria di partenariato pubblico-privato prevista dal Codice dei Contratti Pubblici.

A questo punto, la dottrina si è chiesta quale fosse la specialità che giustifichi la procedura semplificata prevista dal suddetto Codice; Sciullo l’ha rinvenuta «nel fatto che il partenariato previsto ha finalità (gestione, pubblica fruizione, valorizzazione e conservazione) e oggetto (beni culturali immobili) corrispondenti alle indicazioni contenute nell’art. 151, comma 3. E questo sarebbe motivo sufficiente per giustificare un regime derogatorio (ossia semplificato) per la scelta del partner privato. Per dirla con altre parole, ‘l’eccezione culturale’ consentirebbe uno snellimento procedurale ignoto ad altri ambiti»[59].

La casistica del partenariato speciale pubblico privato è varia.

L’importanza attribuita ai privati ed al PSPP può essere ricavata già solo dalla lettura dell’Avviso, pubblicato dal Ministero della Cultura, della linea di Investimento 2.1 Linea B-Attrattività dei Borghi[60], finalizzato al sostegno di progetti per la rigenerazione culturale e sociale di Borghi storici attraverso risorse della NGEU.

L’Avviso, all’art. 4, commi 11 e 13, non solo ha consentito agli Enti di partecipare anche attraverso «accordi di cooperazione in partenariato speciale pubblico-privato» ma, addirittura, ha previsto un maggior punteggio per tali forme di collaborazione[61].

Una delle prime applicazioni del PSPP pare rinvenirsi nel 2018 tra il Comune di Bergamo e il Teatro Tascabile di Bergamo - Accademia delle Forme Sceniche[62] (cooperativa sociale che, attraverso l’attività teatrale, persegue scopi di integrazione sociale). La forma di cooperazione, di durata ventennale (art. 10), ha ad oggetto il restauro, il recupero, la rifunzionalizzazione e la valorizzazione (svolgimento di attività teatrale e culturale) dell’ex Monastero del Carmine. Per garantire efficienza all’accordo, all’art. 5 è stato previsto un Tavolo tecnico, composto da un rappresentante delle parti, nonché da uno dell’allora Mibact diverso per ogni specifica tematica affrontata, come organo di confronto e collaborazione fra le parti per la gestione operativa dell’accordo e la verifica del suo stato di attuazione allo scadere del primo quinquennio.

Un caso più recente è avvenuto al Parco Archeologico di Pompei. Il PAP e Tim S.p.A. hanno sottoscritto un PSPP per la realizzazione di eventi correlati al 50° anniversario dal primo ciak del film-concerto dei Pink Floyd “Live at Pompeii”.

Oltre alla realizzazione di un docu-film che riprendesse il suddetto film-concerto, il 21 ottobre 2022, è andato in scena all’Anfiteatro del Parco Archeologico un remake del concerto del 1971, tenuto da artisti di spessore, caratterizzato dalla possibilità per alcuni soggetti selezionati di vivere, per la prima volta nel mondo dei beni culturali, un’esperienza immersiva attraverso i contenuti digitali in 3D in realtà aumentata, con l’utilizzo della tecnologia 5G mmWave, il 5G a onde millimetriche che sfrutta bassa latenza e elevata capacità di banda.

Un’altra forma di PSPP è quella realizzata sempre dal Parco Archeologico di Pompei con la società Urban Vision S.p.a che, a propria cura e spese, ha realizzato una riproduzione digitale di affreschi non presenti nel sito archeologico ed ora custoditi in diversi musei esterni, nonché in una campagna pubblicitaria volta alla promozione del progetto.

Ogni visitatore, può visionare tale riproduzione scaricando un’apposita applicazione.

Il Parco ha, peraltro, previsto una royalties del 15% a proprio favore, derivante dall’eventuale guadagno annuale dall’utilizzo dell’app.

3. Il Fundraising nei beni culturali

La variegata partecipazione dei privati alla vita dei beni culturali ha portato, nel tempo, le PP.AA. a strutturarsi per potersi rendere parte attiva nel loro coinvolgimento.

In particolare, molti Istituti hanno sviluppato nel tempo il settore del cd. fundraising.

Il fundraising consiste in azioni che un’istituzione culturale pone in essere per coinvolgere potenziali donatori e/o sponsor, siano essi pubblici e/o privati, in modo da generare un flusso costante di risorse in grado di contribuire a medio termine al sostegno della propria attività istituzionale[63].

Nel solco di quanto affermato da Sacco, il fundraising culturale «prima ancora di creare condizioni di sostenibilità per un’attività culturale, esso crea in primo luogo condizioni di accesso a contesti di esperienza potenzialmente ricchi e stimolanti per chi dona. Donare risorse a una organizzazione in modo maturo e consapevole significa avere una opportunità di accesso a nuova informazione e quindi a nuova conoscenza: una donazione matura presuppone infatti che il donatore sia interessato a sapere non soltanto come viene utilizzato il proprio denaro, ma anche per fare che cosa e perché»[64].

Le attività maggiormente attenzionate dalle istituzioni culturali attraverso il fundraising sono:

  • la sponsorizzazione (pura e tecnica, delle quali si parlerà più diffusamente in seguito);
  • le erogazioni liberali;
  • la partnership che consiste in un’attività finalizzata ad un coinvolgimento diretto e perpetuo del partner. Diversamente dalla sponsorship, la partnership involge anche il piano dell’ideazione, della realizzazione, della gestione e della valutazione delle ricadute socio-culturali degli interventi;
  • la corporate membership che consiste in programmi di affiliazione stabile con l’organizzazione culturale di cui condivide la mission.

Diverse sono state le misure fiscali mirate ad agevolare le erogazioni liberali ed a favorire, di conseguenza, le attività di fundraising nelle istituzioni culturali.

La L. n. 80/2005 ha dato una forte spinta in termini di agevolazioni fiscali per le donazioni alle organizzazioni non profit, incluse quelle che operano nel settore culturale. Tale Legge aveva reso le donazioni direttamente deducibili dal reddito, nel limite del 10 per cento del reddito complessivo dichiarato, e comunque nella misura massima di 70.000 euro annui.

La Legge n. 266/2005 (Finanziaria 2006) ha invece stabilito la possibilità di destinare una quota pari al 5% dell’IRPEF a determinate associazioni o enti operanti anche nei settori della tutela, conservazione, promozione del patrimonio storico artistico e della promozione della cultura, purché iscritte in uno specifico elenco dell’Agenzia delle Entrate.

Successivamente, come già labilmente accennato al capitolo I, l’art. 1 del D.L. n. 83/2014 (c.d. Decreto Cultura), ha introdotto il c.d. Art bonus, con l’obiettivo di favorire il puro mecenatismo.

L’Art bonus, difatti, (L. n. 106/2014) ha valorizzato le erogazioni liberali sia in denaro sia in forniture e servizi da parte di enti commerciali e non commerciali, fondazioni bancarie, ed altre organizzazioni con e senza scopo di lucro, versate con la consapevolezza (a differenza della sponsorizzazione) di non avere alcun ritorno in termini economici o di immagine.

Il credito d’imposta è del 65% degli importi donati e mira a favorire gli interventi di manutenzione e restauro di monumenti e teatri.

Le persone fisiche possono donare nel limite del 15% del loro reddito imponibile (lo stesso limite è previsto per gli enti non commerciali e per le società semplici), mentre le persone giuridiche possono donare nel limite del 5% dei ricavi annui di impresa.

Gli interventi finanziabili possono essere selezionati su tre diverse aree di intervento: 1) la manutenzione, protezione e restauro di beni culturali pubblici; 2) il sostegno ad istituti e luoghi della cultura di appartenenza pubblica (es. musei, biblioteche, archivi, parchi archeologici) e il sostegno alle fondazioni lirico-sinfoniche e ai teatri di tradizione; 3) la realizzazione il restauro e il potenziamento di strutture di enti o istituzioni pubbliche che, senza scopo di lucro, svolgono esclusivamente attività nello spettacolo.

Nonostante l’applicazione delle medesime disposizioni del D.Lgs. n. 42/2004, i beni mobili e gli immobili privati sono esclusi dai vantaggi fiscali di cui al decreto Art bonus, financo quando gli stessi beni siano oggetto di pubblica fruizione.

I risultati dell’Art bonus, inizialmente negativi, nel 2022 hanno segnato ottimi progressi: risultano oltre 2.434 gli enti registrati al portale (https://artbonus.gov.it/), 31.275 i mecenati, 5.731 gli interventi pubblicati sulla piattaforma, più di 757.020.319 i milioni di euro raccolti su tutto il territorio nazionale[65].

La necessità di aprirsi ai privati attraverso tali forme di partecipazione, ha spinto addirittura il Parco Archeologico del Colosseo ed al Parco Archeologico di Pompei a prevedere un ufficio ad hoc, condotto da funzionari altamente specializzati in materia.

Ulteriore manifestazione della centralità del fundraising può essere rinvenuta nell’indizione di procedure di gara finalizzate all’individuazione di operatori economici che svolgessero servizi di fundraising.

Nel 2017, per la prima volta nel mondo dei beni culturali, il Parco Archeologico di Paestum, in assenza di un ufficio deputato, ha pubblicato un «Invito a manifestare interesse per la ricerca di un soggetto cui affidare la campagna di fundraising».

Oggetto della procedura di gara era la realizzazione di un progetto di fundraising, finalizzato al «reperimento di finanziamenti in forma di donazioni e sponsorizzazioni a sostegno di iniziative, progetti, manifestazioni organizzati e/o promossi dal Parco Archeologico di Paestum, attraverso l’ampliamento della rete di sostenitori».

Tra i requisiti professionali richiesti spiccavano l’esperienza in prestazioni analoghe a quelle oggetto dell’avviso.

Più recentemente invece, il 28 novembre 2022, il Parco Archeologico di Pompei ha pubblicato un bando di gara avente ad oggetto «L’affidamento del “Servizio di Marketing Relazionale e Fundraising per il Parco Archeologico di Pompei»[66], con l’obiettivo di valorizzare il servizio di fundraising (pervero, già molto produttivo per l’Ente), consentendo all’ufficio di dotarsi di strumenti altamente specializzati per la realizzazione di una stabile comunità di interesse.

La sempre più intensa correlazione tra Marketing e Fundraising è stata, quindi, condensata in un’unica procedura di gara.

Diversamente dalla procedura indetta dal Parco Archeologico di Paestum, i requisiti professionali di partecipazione sono molto più stringenti essendo specificamente richiesti i seguenti titoli di studio: Economia della Cultura; Management della Cultura;

Diritto ed Economia dei Beni culturali. Le pregresse esperienze nei medesimi ambiti sono prese in considerazione dalla Commissione di Gara nella fase di valutazione dell’offerta tecnica, più in particolare nell’analisi del Curriculum dei professionisti.

Una siffatta scelta del Parco Archeologico di Pompei è sicuramente giustificata dalla volontà di ambire ad un operatore economico particolarmente qualificato, ma – correndo l’obbligo per la P.A. di verifica preventiva alla determina a contrarre, circa l’esistenza di soggetti che possano soddisfare le proprie esigenze – è anche giustificata da una (seppur ancora lenta) progressivo inserimento anche nel mercato italiano di società specializzate in fundraising.

In breve, le esigenze del PAP sono state individuate in 4 differenti “Azioni” (da distribuirsi nell’arco di 425 giorni).

L’AZIONE 1 si divide in:

  1. Analisi gestionale degli stakeholders, con l’obiettivo di arrivare a parametri per la classificazione di questi ultimi in ambito culturale e museale, che si basino sul livello di coinvolgimento e di interesse dimostrato da ciascuno di essi nei confronti del Parco Archeologico di Pompei.
  2. Questionari e/o interviste alla comunità al fine di creare forme consolidate di membership.
  3. Questionari e/o interviste a responsabili del Corporate Devolepment al fine di aumentare la collaborazione tra impresa e PAP.

L’AZIONE 2 mira, invece, alla creazione di una comunità di interesse coinvolta in una pianificazione virtuosa e sostenibile di attività volte alla valorizzazione del patrimonio materiale e immateriale, nonché alla creazione di iniziative imprenditoriali e collaborazioni che consentano di favorire l’incremento della qualità della vita della comunità.

Ciò deve essere eseguito attraverso la realizzazione di una struttura di membership.

In disparte l’AZIONE 3, dedicata al marketing relazionale, l’AZIONE 4 costituisce la fase di gestione del servizio e di monitoraggio delle modalità operative dispiegate nelle precedenti azioni.

Attualmente, la procedura di gara è nella fase dell’esame delle offerte.

3.1 La sponsorizzazione dei beni culturali. Dalla timidezza iniziale alla disciplina attuale

Nell’ambito del fundraising, le sponsorizzazioni sono divenute una vera e propria fonte di finanziamento (privato) dei beni culturali.

La sponsorizzazione consiste in un contratto in cui un soggetto (sponsee), dietro corrispettivo, assume l’obbligo di associare il nome o il segno distintivo di altro soggetto (sponsor) alle proprie attività, divulgandone l’immagine o il marchio.

Tra gli obblighi dello sponsor rientra la corresponsione di un finanziamento allo sponsee.

Tale finanziamento può assumere varie forme: si passa, infatti, dall’erogazione di denaro, alla fornitura di beni alle prestazioni di servizi.

L’obbligazione dello sponsee, invece, ha caratteristiche completamente differenti poiché non è di risultato, bensì di mero mezzo: lo sponsee, difatti, ha il solo obbligo di fornire quelle prestazioni previste nel contratto senza garantire il ritorno pubblicitario sperato dallo sponsor.

Naturale conseguenza di ciò è che la mancata rispondenza delle operazioni di sponsor alle aspettative in termini di ritorno di immagine non incide sulle sorti del contratto, non essendo suscettibile di risoluzione né, tantomeno, di un risarcimento dei danni dello sponsee allo sponsor.

Le sponsorizzazioni sono suddivise in attive e passive.

Per sponsorizzazioni attiva si intende il negozio giuridico col quale è la Pubblica Amministrazione a rivestire il ruolo di sponsor, finanziando e pubblicizzando l’attività di un soggetto terzo. Al contrario, nella sponsorizzazione passiva, la P.A. assume la veste di soggetto sponsorizzato, destinatario di un finanziamento (privato) indiretto.

Pertanto, nel caso di sponsorizzazione passiva, è l’Ente ad essere finanziato da un altro soggetto (che ricopre il ruolo di sponsor).

Le sponsorizzazioni passive si suddividono in tre diverse tipologie:

1) sponsorizzazioni “pure” o di “puro finanziamento”, ove lo sponsor si obbliga a corrispondere alla P.A. un finanziamento esclusivamente pecuniario, che può concretizzarsi anche nell’accollo di obbligazioni contratte dalla P.A. nell’ambito di un appalto;

2) sponsorizzazioni “tecniche”, nelle quali lo sponsor, a sue spese, si impegna a progettare e realizzare materialmente quanto richiesto dall’Ente (ad es., l’esecuzione di lavori, la fornitura di beni e servizi strumentali);

3) sponsorizzazioni “miste”, dove si intersecano la sponsorizzazione pura e quella tecnica. In tal caso, lo sponsor può, a titolo esemplificativo, finanziare parte di un progetto ed eseguirlo materialmente.

Venendo all’excursus normativo che ha legittimato la P.A. a stipulare un contratto di sponsorizzazione, è possibile osservare che il Legislatore è stato, ab origine, molto prudente.

Inizialmente, il contratto di sponsorizzazione nella P.A. è stato oggetto di una disciplina particolarmente lacunosa e contenuta in fonti normative disomogenee.

Una prima disciplina del contratto di sponsorizzazione si è avuta con l’art. 8, comma 12, della L. n. 223/1990 (cd. Legge Mammì), che aveva previsto per gli Enti la possibilità di avvalersi di contratti di sponsorizzazione per il finanziamento di programmi radiotelevisivi e radiofonici.

L’art. 43 della L. n. 449/1997 ha, invece, rappresentato il primo effettivo intervento normativo in materia. Nello specifico, le PP.AA. potevano «stipulare contratti di sponsorizzazione ed accordi di collaborazione con soggetti privati ed associazioni, senza fini di lucro, costituite con atto notarile» purché fossero rispettate tre distinte condizioni. I contratti di sponsorizzazione, in sostanza, avrebbero dovuto: essere diretti al perseguimento di interessi pubblici; escludere forme di conflitto di interesse tra l’attività pubblica e quella privata; portare risparmi di spesa rispetto agli stanziamenti disposti.

Tre anni dopo, l’art. 119 del D.Lgs. n. 267/2000 (cd. Testo Unico degli Enti locali - TUEL), ha stabilito che «al fine di favorire una migliore qualità dei servizi prestati i comuni, le province e gli enti locali indicati nel presente testo unico, possono stipulare contratti di sponsorizzazione ed accordi di collaborazione, nonché convenzioni con soggetti pubblici o privati diretti a fornire consulenze o servizi aggiuntivi».

Nel percorso evolutivo del contratto di sponsorizzazione, è necessario segnalare che l’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici (AVCP), nel 2001, era stata destinataria di un quesito da parte di un Comune, avente ad oggetto la possibilità per lo stesso Ente di procedere all’affidamento diretto “gratuito” degli interventi di manutenzione di un teatro comunale ad una associazione. Tale spesa sarebbe stata, poi, “compensata” dalla sponsorizzazione del proprio nome da parte dell’amministrazione.

A tale quesito l’AVCP[67] aveva esitato positivamente ritenendo che gli interventi ricompresi nell’ambito di applicazione della normativa sui lavori pubblici potevano formare oggetto di un contratto di sponsorizzazione ai sensi degli artt. 119 TUEL e 43 della legge 449/1997. Tale contratto, difatti, non avrebbe comportato esborsi per la pubblica amministrazione e determinato, di conseguenza, un risparmio di spesa.

Una volta certificata, a livello normativo, la possibilità per le PP.AA. di ricorrere al contratto di sponsorizzazione, si procede all’analisi della normativa che, in materia di appalti ha interessato tale tipologia di contratto.

Nel D.Lgs. n. 163/2006, la sponsorizzazione era disciplinata dall’art. 26[68].

In prima battuta, il combinato disposto degli artt. 26 e 27[69] del D.Lgs. n. 163/2006 sottraeva i contratti di sponsorizzazione passiva alla disciplina ordinaria codicistica, individuando una più snella procedura di selezione dello sponsor, fondata sull’invito ad almeno 5 concorrenti e su una modalità di scelta esclusivamente basata sui principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità.

Tuttavia, con deliberazione n. 9 dell’8 febbraio 2012, l’AVCP aveva rilevato la necessità di differenziare le procedure di selezione in base alla tipologia di sponsorizzazione passiva, in quanto, a detta dell’Autorità, l’art. 26 del D.Lgs. n. 163/2006, avendo ad oggetto l’acquisizione di lavori, servizi e forniture a cura dello sponsor, avrebbe potuto disciplinare la sola sponsorizzazione tecnica, non anche quella pura.

Pertanto, il Legislatore, con D.L. n. 5/2012, convertito in L. n. 35/2012, c.d. “decreto semplificazioni” aveva previsto un regime giuridico diverso, a seconda del tipo di sponsorizzazione.

Gli artt. 26 e 27 del D.Lgs. n. 163/2006, quindi, disciplinavano solo i casi di sponsorizzazione tecnica, mentre, le sponsorizzazioni di finanziamento puro venivano normate dalle disposizioni previste dalla Legge di Contabilità di Stato (R. D. 18 novembre 1923, n. 2440).

Le sponsorizzazioni miste, invece, soggiacevano, per la parte relativa alla sponsorizzazione tecnica, agli artt. 26 e 27 del D.Lgs. n. 163/2006, e, per la parte relativa al finanziamento puro, al R.D. n. 2440/1923.

Tutto quanto innanzi descritto fa riferimento alle sponsorizzazioni passive “generali”, ossia a quei contratti di sponsorizzazione che non contemplano i beni culturali.

La sponsorizzazione passiva dei beni culturali era, illo tempore, disciplinata solo dall’art. 120 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei Beni culturali e del Paesaggio) che l’aveva definita come «ogni contributo, anche in beni o servizi, erogato per la progettazione o l’attuazione di iniziative in ordine alla tutela, ovvero alla valorizzazione del patrimonio culturale, con lo scopo di promuovere il nome, il marchio, l’immagine, l’attività o il prodotto dell’attività del soggetto erogante».

È, infatti, solo a seguito del D.L. n. 5/2012, convertito in L. n. 35/2012, che veniva introdotto nel D.Lgs. n. 163/2006 l’art. 199 bis, rubricato “Disciplina delle procedure per la selezione di uno sponsor”.

Con sentenza del T.A.R. Lazio - Roma, Sez. II - quater, 25.07.2012, n. 6921, è stato immediatamente sancito che l’art. 199 bis rappresentasse una norma speciale rispetto a quella generale (artt. 26 e 27). Così statuendo, si è immediatamente riconosciuta la possibilità per l’art. 199 bis di prevedere un iter procedurale completamente diverso da quello “generale”.

La novità più importante dell’art. 199 bis era rappresentata dalla circostanza che la disposizione si potesse applicare indistintamente alle sponsorizzazioni tecniche ed a quelle di puro finanziamento.

L’art. 199 bis del D.Lgs. n. 163/2006 stabiliva l’obbligo per le amministrazioni aggiudicatrici di definire un programma triennale di interventi (lavori, servizi e forniture), finalizzati alla tutela dei beni culturali attraverso sponsorizzazioni, che avrebbe potuto essere in seguito integrato ed anche affiancato da studi di fattibilità e progetti preliminari relativi ai singoli interventi previsti.

Lo studio di fattibilità costituiva la richiesta minima per poter inserire l’intervento nel programma dei lavori.

Per la selezione dello sponsor, la P.A. avrebbe dovuto procedere attraverso una gara con pubblicazione del bando sul proprio sito istituzionale e su almeno due quotidiani nazionali, nonché sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana (in caso di superamento delle soglie comunitarie, l’avviso avrebbe dovuto essere pubblicato anche sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea), specificando il tipo di sponsorizzazione richiesta (pura, tecnica, mista), i requisiti necessari, i criteri di valutazione delle offerte e il termine per farle pervenire.

Valutate, le offerte, si procedeva con la pubblicazione della graduatoria.

A questo punto, si apriva una nuova fase di acquisizione delle offerte migliorative e, alla scadenza del termine, si procedeva alla stipula del contratto.

Quanto alle sponsorizzazioni di puro finanziamento, il criterio di aggiudicazione era rappresentato dal più alto finanziamento proposto; in merito alle sponsorizzazioni tecniche, il criterio di aggiudicazione era rappresentato dalla “migliore offerta realizzativa”.

Altro intervento normativo da evidenziare è il D.M. del 19 dicembre 2012 emanato dal Ministero dei Beni culturali, che ha prodotto una sorta di vademecum per la partecipazione dei privati al finanziamento o alla realizzazione degli interventi conservativi su beni culturali.

Il D.M. ha cercato di fare chiarezza rispetto al complesso impianto normativo che si era venuto a creare fino a quel momento, conferendo una nozione precisa di sponsorizzazione dei beni culturali[70].

Inoltre, il D.M. ha limitato l’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 199 bis del D.Lgs. n. 50/2016 ai soli contratti relativi ai lavori sui beni culturali, «oltre che, naturalmente, alle prestazioni di servizi e di forniture in essi inglobati e ad essi strumentali» ed ha puntualizzato le distinzioni con le forme di partenariato con gli enti del terzo settore e con il project financing, dando delle linee guida anche in ordine all’adozione di monumenti.

Il Legislatore del 2016, seguendo una direzione finalizzata alla semplificazione ed all’alleggerimento del procedimento amministrativo di selezione dello sponsor, ha introdotto una disciplina innovativa e semplificata sia per i contratti di sponsorizzazione passiva dei beni culturali che per quelli di sponsorizzazione passiva “generale”, avente ad oggetto tutti gli altri settori.

Le disposizioni del Codice dei Contratti Pubblici che hanno disciplinato, sino a luglio 2023, le sponsorizzazioni e le forme speciali di partenariato sono state gli artt. 19 e 151.

L’articolo 19 ha disciplinato i contratti di sponsorizzazione di lavori, servizi e forniture che, per importi superiori ai 40.000 euro, possono essere affidati con finanziamenti privati mediante una procedura che prevede la «… previa pubblicazione sul sito internet della stazione appaltante, per almeno 30 gg, di apposito avviso, con il quale si rende nota la ricerca di sponsor per specifici interventi, ovvero si comunica l’avvenuto ricevimento di una proposta di sponsorizzazione, indicando sinteticamente il contenuto del contratto proposto».

Decorso il periodo di pubblicazione dell’avviso, il contratto avrebbe potuto essere liberamente negoziato, purché nel rispetto dei principi di imparzialità e di parità di trattamento fra gli operatori che abbiano manifestato interesse, e ferma restando l’inesistenza dei motivi di esclusione di cui all’articolo 80 del D.Lgs. 50/2016[71].

L’art. 151 del D.Lgs. n. 50/2016, rubricato «Sponsorizzazioni e forme speciali di partenariato», nella parte in cui ha disciplinato le sponsorizzazioni nel settore dei beni culturali, ha operato un lapidario rinvio alle procedure “ordinarie” di scelta dello sponsor di cui al precedente art. 19.

Viene conservata la previsione di cui al D.Lgs. n. 163/2006, secondo cui: «L’amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali impartisce opportune prescrizioni in ordine alla progettazione, all’esecuzione delle opere e/o forniture e alla direzione dei lavori e collaudo degli stessi». Resta anche fermo quanto previsto dall’art. 120 del Codice dei beni culturali (d.lgs. n. 42/2004), circa la verifica di compatibilità della sponsorizzazione con le esigenze di tutela (conservazione, decoro, rispetto della dignità) del bene oggetto di intervento.

La seconda parte del comma 1 dell’art. 151 ha esteso l’ambito applicativo della sponsorizzazione anche al sostegno degli istituti e dei luoghi della cultura, di cui all’art. 101 del Codice dei Beni culturali, e delle fondazioni lirico-sinfoniche e dei teatri di tradizione.

Nella sostanza, si appalesa non dissimile l’art. 134, comma 3, del D.Lgs. n. 36/2023, che costituisce una sorta di fusione tra le due predette disposizioni, indicando l’importo minimo (40.000 euro) oltre il quale l’affidamento dei contratti di sponsorizzazione è sottoposto alla sola pubblicazione di un avviso, valido per trenta giorni, sul sito internet della stazione appaltante.

Un più diffuso approfondimento procedimentale viene fornito dalla Circolare del Mibact n. 28 del 17.06.2016, oltre a conferire chiarimenti in ordine al partenariato pubblico-privato, ha anche elaborato alcune osservazioni in merito alla sponsorizzazione, ricordando che anche le proposte teoricamente vantaggiose non devono forzatamente essere accolte dall’Ente, ma necessitano sempre di una valutazione sulla loro compatibilità con l’interesse pubblico tutelato dallo stesso.

Nel caso specifico, il Mibact si è premurato di rammentare che l’Amministrazione deve accertare “l’idoneità del futuro contratto a soddisfare esigenze di tutela e valorizzazione del bene culturale”.

Nella Circolare è altresì chiarita la circostanza nella quale è la stessa Amministrazione a proporsi come parte attiva nella ricerca di uno sponsor.

In tal caso, l’Amministrazione è tenuta a predefinire l’oggetto dell’intervento da sponsorizzare, il contributo richiesto, la tipologia di “benefit” in termini di ritorno di immagine.

Così come previsto per le proposte di partenariato pubblico-privato (cfr. la vicenda Urban Vision per il Parco Archeologico di Pompei), l’Amministrazione non deve dar vita ad una procedura competitiva, ma, tutt’al più, ad un «minimo confronto concorrenziale tra di esse (ndr. offerte), sia pure senza rigorose formalità, al fine di non ledere il principio di parità di trattamento (…), in ossequio ai noti principi comunitari di concorrenza e libertà di stabilimento».

Nel caso di sponsorizzazione pura, il Mibact ha ritenuto che potrà essere fissato un termine per eventuali proposte economiche al rialzo (in tal caso, l’eventuale residuo sarà utilizzato per l’attività di conservazione dei beni). Diversamente, l’Amministrazione non utilizzare come parametro di valutazione l’eventuale minore ritorno pubblicitario richiesto da una delle proponenti. Ciò, al fine di evitare di aggravare l’attività istruttoria, non trattandosi difatti di una procedura competitiva.

Solo nel caso di sponsorizzazione tecnica, è ammessa una «valutazione comparativa tecnica dei contenuti dei contenuti delle offerte poste a raffronto».

Individuato lo sponsor, il contratto può essere stipulato liberamente, prevedendo clausole e condizioni più idonee alla soddisfazione delle parti.

3.2 Colosseo ed Ercolano. Due casi diversi di sponsorizzazione

Tra le sponsorizzazioni più significative devono ricordarsi, senza ombra di dubbio, quelle relative ai lavori di restauro del Colosseo, sponsorizzati da Tod’s, ed ai lavori agli scavi di Ercolano, sponsorizzati, invece, dalla British School at Rome.

Il contesto nel quale sono state generate le sponsorizzazioni sopra citate ha dato vita ad una serie di questioni connesse all’applicazione delle norme relative alla selezione dello sponsor ed al rispetto della disciplina in materia di appalti pubblici.

Invero, per quanto riguarda la sponsorizzazione di Ercolano, sono sorti dubbi non propriamente giuridici, ma frutto di opinioni, basati sull’opportunità o meno di ricorrere a fondi privati per poter salvare beni di pregio culturale[72].

Per quanto attiene alla sponsorizzazione degli scavi di Ercolano, si rileva che l’atto genetico del rapporto risale all’aprile del 2001 con la sottoscrizione da parte della Soprintendenza Archeologica di Pompei e del Packard Humanities Institute, del Memorandum of Understanding.

L’accordo, di durata triennale, ha avuto come obiettivo principale quello di assistenza alla Soprintendenza nella conservazione dell’intero sito archeologico, oltre a realizzare progetti e lavori minori, necessari a stabilizzare le aree più a rischio del sito. Così, con la ratifica del Protocollo d’Intesa, nel maggio 2001 è stato lanciato l’Herculaneum Conservation Project che ha avuto un impatto notevole su tutto il sito archeologico.

Subito dopo l’accordo, è emersa la necessità di garantire che gli interventi oggetto dell’accordo fossero realizzati nella maniera più uniforme possibile. In sostanza, le pitture murali, gli arredi ed i giardini nonché le superfici architettoniche, avrebbero dovuto costituire ed essere percepiti come un unicum. Per giungere a tale obiettivo erano necessarie due condizioni fondamentali: l’impiego sistematico di un numero maggiore di professionalità specializzate, e la dilatazione nel tempo del progetto stesso.

Si è giunti, dunque, alla necessaria individuazione di una formula giuridica utile a rendere più incisivo, longevo ed efficace il finanziamento esterno.

Una svolta in tal senso si è avuta negli ultimi mesi del 2003, quando il Packard Humanities Institute ha manifestato l’intenzione di coinvolgere all’interno del progetto di conservazione la British School at Rome.

Cosicché, si è pervenuti, nel luglio del 2004, alla stipula di un apposito contratto di sponsorizzazione.

L’oggetto del contratto è stato costituito dalla sponsorizzazione, da parte della British School at Rome, «mediante realizzazione a propria cura e spese, di lavori di conservazione, restauro e valorizzazione del Sito di Ercolano». Tale impostazione, oltre a consentire la realizzazione più rapida e flessibile di una serie di interventi dinamicamente e organicamente intrecciati con il piano annuale e la programmazione triennale dei lavori, ha costituito, dal punto di vista economico, un doppio vantaggio per la Soprintendenza archeologica di Pompei, avendo contemporaneamente ottenuto un grande apporto finanziario dall’esterno e risparmiato notevoli risorse finanziarie.

Grazie alla sponsorizzazione, sono state ampliate le aree visitabili attraverso il rifacimento della maggior parte dei tetti degli edifici che stavano crollando, nonché l’inserimento di percorsi ad hoc per i disabili. La supervisione delle attività e dei lavori è stata affidata ad un comitato misto facente capo alla Soprintendenza di Ercolano, mentre le attività di programmazione, realizzazione degli interventi e monitoraggio sono stati assegnati ad un gruppo di funzionari della Soprintendenza tra cui la direttrice degli scavi di Ercolano.

Dubbi erano sorti in merito alle modalità di selezione dello sponsor, in quanto la Soprintendenza di Ercolano non ha seguito alcuna procedura di selezione pubblica.

In base alla normativa illo tempore applicabile, la Soprintendenza avrebbe dovuto osservare il combinato disposto degli artt. 26 e 27 del D.Lgs. n. 163/2006 s.m.i., a meno che l’attività di sponsorizzazione non fosse qualificabile come erogazione liberale.

Tale possibilità, tuttavia, appare improponibile, in quanto la Packard Humanities Institute, si è impegnata a gestire l’esecuzione dei suddetti lavori in cambio di alcuni benefit, come la pubblicizzazione del suo contributo, l’apposizione di una targa; eventi extra gratuiti per i propri ospiti, la possibilità di riprodurre immagini dei lavori svolti in virtù del contratto stipulato.

La dottrina ha quindi rinvenuto la giustificazione della mancata procedura selettiva nell’inquadramento del rapporto tra le parti come una forma di partenariato-pubblico[73].

La vicenda di Ercolano deve essere tenuta distinta da quella del Colosseo perché, se, da una parte, la British School at Rome (che aveva lamentato uno scarso ritorno di immagine) è una fondazione che non ha tra le proprie finalità istituzionali la produzione di valore aggiunto rispetto al capitale investito, Tod’s è un marchio che, per poter produrre redditività, necessita di ritorni di immagine.

In data 4 agosto 2010, il Commissario delegato per la realizzazione degli interventi urgenti nelle aree archeologiche di Roma e Ostia antica pubblicava l’avviso per la ricerca di sponsor per il finanziamento e la realizzazione di alcuni lavori di restauro relativi al Colosseo. Il 30 ottobre 2010 scadevano i termini per la presentazione delle proposte di sponsorizzazione.

A tale procedura prendevano parte due candidati, Ryanair.com e Tod’s s.p.a., le cui offerte, pervenute in termini e ritenute adeguate sul piano finanziario, risultavano non appropriate in quanto non aderenti alle modalità di presentazione indicate nell’avviso pubblico.

In pari data, però, con una nota formale, la Tod’s s.p.a. rimanifestava il proprio interesse a finanziare i lavori. A questo punto, il soggetto promotore ha reinterpellava gli altri soggetti che avevano manifestato interesse.

Alcuno dei suddetti soggetti riscontrava positivamente l’interpello e, pertanto, dopo il parere positivo dall’Ufficio Legislativo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, in data 21 gennaio 2011 veniva sottoscritto l’accordo tra il Commissario delegato, la Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Roma e la Tod’s s.p.a.

Il caso della sponsorizzazione da parte della Tod’s Spa, con particolare riferimento alla procedura adottata per la selezione dello sponsor, ha suscitato diverse reazioni.

Innanzitutto, il Garante della concorrenza e del mercato[74] ha ritenuto palesarsi un’indebita restrizione del confronto concorrenziale che avrebbe potenzialmente potuto portare l’amministrazione appaltante a beneficiare di un’offerta più vantaggiosa; una scadenza così imminente era, difatti, inadeguata a consentire l’esperimento di una effettiva competizione tra i soggetti convocati, comportando una inevitabile esclusione degli stessi.

È sulla base di quanto finora descritto che si è giunti ad un inasprimento delle disposizioni del Codice dei contratti pubblici in materia: in particolare, come già spiegato nell’excursus normativo, l’art. 20 del d.l. n. 5 del 2012 ha disposto l’inserimento dell’art. 199 bis nel D.Lgs. n. 163/2006.

La disposizione in esame specificava che, qualora non fosse stata presentata alcuna offerta, o alcuna di quelle presentate potesse essere ritenuta appropriata, ovvero tutte le offerte presentate fossero irregolari ovvero inammissibili, o non fossero rispondenti ai requisiti formali della procedura, la stazione appaltante avrebbe potuto, nei successivi sei mesi, ricercare, di sua sponte, lo sponsor e negoziare a trattativa privata il contratto di sponsorizzazione, ferme restando la natura e le condizioni essenziali delle prestazioni richieste nella sollecitazione pubblica.

Il contenuto dell’accordo era, dunque, quello di una sponsorizzazione pura in cui lo sponsor si limitava a conferire un finanziamento, mentre il promotore e la Soprintendenza assumevano l’impegno di realizzare i lavori di restauro contenuti nel Piano degli interventi e di dare periodiche notizie allo sponsor sullo stato di avanzamento dei lavori.

Il contratto prevedeva, inoltre, un piano di comunicazione che lo sponsor avrebbe potuto gestire in maniera diretta o tramite una Associazione/Fondazione senza fini di lucro denominata, a titolo esemplificativo, Amici del Colosseo, al fine di promuovere e dare visibilità pubblica ai lavori previsti nel Piano degli interventi.

Per la realizzazione delle attività programmate, era inoltre contemplata la costituzione di un centro «ubicato nelle immediate adiacenze del Colosseo», su cui lo sponsor avrebbe potuto apporre i propri “segni distintivi” per la durata degli interventi di restauro e nei due anni successivi, con la facoltà di organizzare “campagne di comunicazione”, anche stipulando previamente accordi o convenzioni con «associazioni, fondazioni, enti di ricerca e università, o altre istituzioni o enti pubblici o privati che perseguano e/o condividano, per i propri fini istituzionali, obiettivi analoghi a quelli dell’Associazione».

Tra le potestà dello sponsor, in più, rientravano l’utilizzazione in esclusiva delle operazioni di restauro da effettuare, tramite immagini fotografiche o filmati, «nel rispetto del dettato degli articoli 106 – 108 del Codice dei beni culturali e del paesaggio». All’Associazione di cui sopra, poi, era attribuito il diritto di utilizzare in esclusiva un logo raffigurante il Colosseo, con possibilità di registrare al riguardo un marchio, da utilizzare per la carta stampata ed in qualsiasi iniziativa promozionale o pubblicitaria. Direttamente allo sponsor, infine, erano accordati i diritti che seguono: - ottenere l’accesso al Colosseo, nei modi concordati con la Soprintendenza, di gruppi di persone, senza interferire con le ordinarie modalità di fruizione del monumento da parte del pubblico; - utilizzare la dizione «Sponsor unico per i lavori di restauro del Colosseo in base al Piano degli interventi».

Nonostante le differenze con la sponsorizzazione di Ercolano, il coinvolgimento di un’associazione no profit nella vicenda, l’elemento causale del contratto di sponsorizzazione del Colosseo ha assunto i tratti di una più ampia collaborazione, nella quale lo sponsor è stato investito dello svolgimento anche di una serie di attività di rilevanza pubblica e sociale in favore della collettività.

3.3 La Sponsorizzazione dell’Eni per la ricostruzione della Basilica di San Benedetto da Norcia.

Per poter identificare le corrette coordinate cognitive della peculiarità della fattispecie, appare opportuno procede ad una stringata descrizione dell’iter procedurale che ha interessato (ed ancora interessa) l’appalto per la ricostruzione della Basilica di San Benedetto da Norcia, in seguito al sisma verificatosi in Umbria, Marche, Lazio ed Abruzzo il 24 agosto 2016.

Il Decreto Legge 17 ottobre 2016, n. 189, recante «Interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dal sisma del 24 agosto 2016», convertito con modificazioni dalla legge 15 dicembre 2016, n. 229, all’art. 14 ha ricompreso le chiese e gli edifici di culto di proprietà di enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, di interesse storico-artistico ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, anche se formalmente non dichiarati tali ai sensi dell’articolo 12 del medesimo codice e utilizzati per le esigenze di culto, nell’ambito della ricostruzione pubblica.

Al successivo art. 15, il sopra citato D.L. n. 189/2016 ha individuato il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, oggi Ministero della Cultura (MiC), quale soggetto attuatore per gli interventi di ricostruzione delle chiese, ruolo limitato, con successive modifiche dell’articolato, solo a quelle chiese con importo di lavori superiore alla soglia di rilevanza europea di cui all’articolo 35 del D.Lgs. n. 50/2016, o per le quali non si siano proposte le diocesi, o di proprietà statale.

La Basilica di San Benedetto di Norcia, avendo subito un danno tale da rendere necessario un intervento di importo superiore al valore della soglia comunitaria, rientra quindi nell’ambito degli interventi da attuare a cura del MIC e specificatamente dall’Ufficio del Soprintendente speciale per le aree colpite dal sisma del 24 agosto 2016, ufficio istituito con D.M del 24 ottobre 2016. Tale ruolo di soggetto attuatore per la Basilica di San Benedetto è stato peraltro ribadito nell’art. 7 dell’ordinanza del Commissario Straordinario del Sisma n. 105 del 2020.

Il simbolico valore della Basilica di San Benedetto da Norcia[75] ha portato vari organismi a cooperare, in termini di risorse finanziarie, per garantire una quanto più fedele ricostruzione della Basilica di San Benedetto da Norcia.

Tra i diversi sostegni finanziari si ricordano, in particolare i fondi del Commissario Straordinario e un contributo della Commissione Europea[76].

Una siffatta situazione se, da una parte, ha potuto assicurare un’ottima base finanziaria, dall’altra parte ha generato la necessità di percorrere un complesso iter procedurale determinato dagli strumenti attuativi specifici che si sono inseriti nell’ambito delle previsioni normative di carattere generale e specifiche dell’evento sismico del 2016.

Il Protocollo d’intesa 13 febbraio 2018, firmato tra il MiBACT, il Commissario straordinario, la Regione Umbria, l’Arcidiocesi di Spoleto-Norcia e il Comune di Norcia, ha qualificato l’intervento sulla Basilica di S. Benedetto di Norcia come urgente e indifferibile ed ha definito i diversi passaggi di condivisione istituzionale tra i sottoscrittori, essenzialmente riconducibili a:

  • La realizzazione di un «Atto di indirizzo per l’elaborazione del documento preliminare alla progettazione» a cura di una Commissione di indirizzo appositamente nominata;
  • l’elaborazione del Documento di indirizzo alla progettazione a cura MiC da assoggettare ad approvazione della Commissione di indirizzo;
  • lo svolgimento di un Concorso internazionale di progettazione con la collaborazione gratuita del Consiglio Nazionale, concorso che, tuttavia, con successivo addendum al protocollo d’intesa del 27 gennaio 2020 è stato sostituito da una gara di progettazione in quanto dalla documentazione di indirizzo sono emerse condizioni tecniche tali da non per poter garantire una sufficiente “diversificazione” delle soluzioni progettuali per un concorso.

La convenzione fra MiBACT e Regione Umbria dell’8 marzo 2019 ha individuato i soggetti coinvolti nell’attuazione dell’intervento di recupero della Basilica, i rispettivi ruoli, le fasi dell’intervento e ha disciplinato le modalità di finanziamento, di rendicontazione ed erogazione dei fondi europei per l’importo di euro 6.000.000.

In fase di progettazione avanzata e di completamento delle attività di rimozione e selezione delle macerie e di messa in scurezza delle parti di struttura ancora in opera, l’11 gennaio 2021 è stato stipulato l’accordo di sponsorizzazione tecnica per la ricostruzione della Basilica di San Benedetto in Norcia, tra il Ministro per i beni le attività culturali e per il turismo (oggi Ministero della Cultura), in qualità di sponsee, e la società Eni S.p.A., in qualità di sponsor, nonché il Commissario straordinario e l’Arcidiocesi di Spoleto-Norcia, in base al quale ENI s.p.a., avvalendosi della società controllata Eniservizi S.p.A., ha assunto il ruolo di sponsor tecnico ai sensi degli articoli 19 e 151 del D. Lgs. n. 50 del 2016, per la realizzazione, a propria cura e spese, di uno o più lotti funzionali dell’intervento di ricostruzione della Basilica di San Benedetto in Norcia, nonché per l’assistenza al Ministero nelle attività di project management dell’intero intervento, il tutto fino a concorrenza della somma di euro 5.000.000.

Con Ordinanza speciale n. 8 del 6 maggio 2021, ai sensi dell’articolo 11, comma 2, del D.L. n. 76/2020 «Ricostruzione della Basilica di San Benedetto in Norcia»[77], il Commissario straordinario per la ricostruzione post sisma del 2016 ha qualificato come urgente l’intervento di ricostruzione della Basilica di San Benedetto in Norcia.

Al fine di assicurare la pronta attuazione delle opere e dei lavori necessari, in base all’istruttoria compiuta e alla stregua dei documenti elaborati dal RUP, nell’ordinanza speciale n. 8/2021 sono state indicate le misure acceleratorie e di semplificazione e razionalizzazione delle procedure idonee a conseguire i delineati obiettivi di speditezza ed efficienza ed efficacia nell’attuazione dell’intervento.

La specialità della procedura finalizzata alla ricostruzione di San Benedetto da Norcia è rinvenibile da quanto segue.

In questo contesto e ai sensi degli artt. 19 e 151 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 e art. 120 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, Eni - con proposta in data 02 novembre 2020, pubblicata sul sito del MiBACT in data 6 novembre 2020 – ha manifestato l’interesse per la sponsorizzazione tecnica della ricostruzione della Basilica di San Benedetto in Norcia.

Scaduti i termini di pubblicazione dell’avviso, con comunicazione del 9 dicembre 2020, il MiBACT informava Eni che in relazione alla lettera di manifestazione di interesse risultava pervenuta solo la sua offerta, ritenuta ammissibile e coerente con le finalità del relativo intervento.

Con specifico riferimento all’attività di project management, il ruolo di Eni consiste: nell’assistenza al RUP, in via meramente consultiva e senza sostituirsi alle funzioni esercitate da quest’ultimo, durante la fase di messa a punto della progettazione, mediante la messa a disposizione di tecnici e know-how; nella partecipazione allo Steering Committee che seguirà le fasi dell’intervento fino alla riconsegna della Basilica.

Relativamente all’attività di realizzazione dei lavori relativi all’Intervento, Eni sarà chiamata a realizzare e finanziare, le prime fasi dei predetti lavori e, più precisamente:

a) Scouting di operatori qualificati per le attività realizzative e approntamento capitolati di gara d’appalto lavori e servizi;

b) Gestione delle gare per gli affidamenti lavori e servizi in fase esecutiva;

c) Direzione Lavori e Coordinamento della Sicurezza in fase di Esecuzione; relativamente alla Direzione dei lavori ENI dovrà garantire l’alterità della figura del direttore dei lavori rispetto all’impresa/e esecutrice/i, il possesso da parte del direttore lavori dei requisiti di legge, ferma restando l’alta sorveglianza della Soprintendenza ABAP dell’Umbria per gli aspetti connessi alla tutela del bene oggetto dell’Intervento;

d) Esecuzione delle Opere relative allo specifico lotto o gli specifici lotti funzionali che saranno indicati dal MiBACT;

e) Collaudi tecnico-funzionali (in corso d’opera e finali);

f) Hand-over e familiarizzazione degli interventi realizzati per consegna finale dei lavori al MiBACT.

Il ritorno di immagine da parte di Eni è dato dal suo interesse a comunicare il proprio ruolo di impresa tecnologicamente avanzata ed a sostenere un intervento di alto valore culturale e scientifico a fronte di un significativo ritorno di immagine volto a rafforzarne il valore e la reputazione aziendale impegnata e attenta a valorizzare le radici culturali del territorio.

L’intervento di sponsorizzazione tecnica dell’Eni, come si è visto dalla descrizione degli eventi, ha sostanzialmente modificato l’andamento della procedura amministrativa sino a quel momento in essere.

L’aspetto inedito della vicenda è che la sponsorizzazione tecnica è solo parziale e, pertanto, parte dei lavori è stata affidata all’Eni in qualità di sponsor tecnico; altra parte dei lavori è, invece, oggetto di procedura di gara secondo le modalità previste dall’Ordinanza commissariale speciale n. 8/2021.

Questo tipo di sponsorizzazione differenzia tale fattispecie da tutte le altre sponsorizzazioni prima esaminate, in quanto le collaborazioni relative al Colosseo o agli Scavi di Ercolano avevano ad oggetto la sponsorizzazione, pura o operativa, per l’interezza dei lavori da eseguire.

Nel caso della Basilica di San Benedetto da Norcia, il Ministero della Cultura ha avuto la necessità di rivedere l’impostazione iniziale dell’appalto, dividendolo più lotti prestazionali solo successivamente alla pubblicazione del bando avente ad oggetto la redazione del progetto dei lavori di restauro.

Si è reso, per tali motivi, necessario procedere ad una successiva suddivisione dell’appalto in due distinti lotti prestazionali, definendo e circoscrivendo le attività che l’Eni dovrà porre in essere, in modo da tenere perfettamente separati i lavori finanziati con i fondi messi a disposizione dalla Comunità Europea (€ 6.000.000,00) con il valore economico dei lavori che l’Eni ha concordato di eseguire (€ 5.000.000,00).

Ciò ha provocato una necessaria rimodulazione della progettazione dei lavori di restauro realizzata dall’aggiudicataria dei servizi di progettazione.

La completa separazione dei lotti non esaurisce tutte le particolari tematiche che emergono dalla procedura che si è venuta a determinare.

Numerosi sono i quesiti che sorgono, in quanto se, da una parte, un lotto è sottoposto completamente alla normativa in materia di appalti pubblici, dall’altra parte, invece, si instaura un rapporto di carattere eminentemente privatistico.

Ci si chiede, infatti, se, ferma la presenza di un unico Responsabile Unico del Procedimento, figure come il Direttore dei Lavori o il Coordinatore per la Sicurezza nella fase di esecuzione, svolgendo specifiche attività nell’ambito del singolo lotto prestazionale, debbano essere diversi per ogni lotto.

Ulteriore peculiarità può essere rinvenuta nelle parti contraenti l’accordo di sponsorizzazione.

Nel caso di specie, infatti, data la particolarità dei lavori ed il substrato normativo che involge la fase di ricostruzione nei territori interessati dagli eventi sismici verificatisi a far data dal 24 agosto del 2016, è stato necessario coinvolgere più soggetti che ricoprissero la qualifica di sponsee.

La veste di quest’ultimo, difatti, non può essere completamente assunta dall’attuale Ministero della Cultura, in quanto agisce nella sola qualità di soggetto attuatore e, pertanto, quale soggetto responsabile dell’attuazione del progetto.

Ne è discesa, pertanto, la necessità di vedere coinvolti nell’accordo di sponsorizzazione sia il Commissario straordinario per la ricostruzione nei territori delle regioni Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria interessati dagli eventi sismici verificatisi a far data dal 24 agosto 2016 e dell’Arcidiocesi di Spoleto-Norcia. Il coinvolgimento del primo è stato necessario trattandosi dell’organo a cui i Legislatore ha attribuito i poteri necessari alla gestione degli interventi di ricostruzione dei predetti territori. La necessità di coinvolgere l’Arcidiocesi di Spoleto-Norcia è palese, trattandosi dell’Ente proprietario del complesso edilizio a ricostruirsi e, pertanto, del soggetto sul quale maggiormente incidono i riflessi della sponsorizzazione.

Tutte le peculiarità appena descritte costituiscono una fattispecie straordinaria, ma, allo stesso tempo, contenuta nei limiti normativi vigenti.

Alla luce di quanto rappresentato, la specialità che caratterizza l’appalto per il recupero della Basilica di San Benedetto da Norcia può costituire un’ulteriore modalità di gestione degli interventi che permetterebbe un risparmio in termini finanziari ma, al contempo, la possibilità per gli Enti di non perdere il contatto con il bene oggetto della sponsorizzazione.

4. Riflessioni Conclusive

La cultura come volano per l’economia non è rimasta solo una frase fatta.

Soprattutto nel corso degli ultimi due decenni, il Legislatore ha abilmente soppesato l’interesse pubblico alla tutela ed alla valorizzazione del bene culturale con quello del privato a sostenere la cultura, ma – giustamente – anche i propri interessi economici.

Il Codice dei beni culturali ed il Codice dei contratti pubblici hanno consentito il coinvolgimento dei privati nel mondo dei beni culturali sempre in misura equilibrata, ponendo la Pubblica Amministrazione come unico reale protagonista delle decisioni politico-amministrative.

Alcuni istituti, come i partenariati e le sponsorizzazioni, presentano un potenziale ancora non del tutto esplorato.

Lo stesso Mibact nel 2016 ha affermato che questi istituti saranno plasmati sulla base delle esperienze e, dalla casistica analizzata nel presente lavoro, si comprende la malleabilità di questi strumenti di partecipazione.

Peraltro, gli orientamenti politico-amministrativi più recenti viaggiano verso la ricerca sempre più frequente di finanziamenti privati, legittimando gli Istituti autonomi, i Poli museali ed ogni altro Ente operante nella cultura ad aprirsi sempre di più al sostegno – tecnico ed economico – esterno.


Note e riferimenti bibliografici

[1] R. Balzani, Per le antichità e le belle arti. La legge n. 364 del 20 giugno 1909 e l'Italia giolittiana. Dibattiti storici in Parlamento, Bologna, 2003 p. 444.

[2] T. Alibrandi – P.G. Ferri, I beni culturali e ambientali, Giuffrè Milano, 1985, p. 15.

[3]È affidato ad una Commissione l'incarico di condurre una indagine sulle condizioni  attuali  e  sulle esigenze in ordine alla tutela e alla valorizzazione delle cose di interesse storico, archeologico, artistico e del paesaggio e di formulare proposte concrete al fine di perseguire i seguenti obiettivi: 1)  revisione  delle  leggi di tutela (in coordinamento, quando necessario, con quelle urbanistiche) nonché delle strutture e degli ordinamenti amministrativi e contabili; 2) ordinamento del personale, in rapporto alle effettive esigenze; 3) adeguamento dei mezzi finanziati”.

[4] Bene culturale inteso come «testimonianza materiale avente valore di civiltà» (ora ripreso nell’art. 2 Codice). Dichiarazione I: Appartengono al patrimonio culturale della Nazione tutti i beni aventi riferimento alla storia della civiltà. Sono assoggettati alla legge i beni di interesse archeologico, storico, artistico, ambientale e paesistico, archivistico e librario, ed ogni altro bene che costituisca testimonianza materiale avente valore di civiltà.

 

[6] «l’arte e la scienza sono liberi e libero ne è l’insegnamento».

[7] F. Rimoli, La dimensione costituzionale del patrimonio culturale: spunti per una rilettura, in Riv. giur. ed., 2016, p. 505.

[8] A.M. Sandulli, La tutela del paesaggio nella Costituzione, in Scritti giuridici, vol. II, Napoli, 1990, p. 282.

[9] A. Predieri, Significato della norma costituzionale sulla tutela del paesaggio, in Urbanistica, tutela del paesaggio, espropriazione, Milano, 1969, p. 16; in tal senso, anche G. Morbidelli, La disciplina del territorio tra Stato e Regioni, Milano, 1974, pp. 157-159.

[10] F. Merusi, Art. 9, Commentario Branca della Costituzione, Bologna-Roma, 1975, p. 445.

[11] A. Predieri, op. cit., p. 16

[12] G. Sciullo, Beni culturali e principi della delega, in Aedon, 1, 1998.

[13] M. Cammelli, L'ordinamento dei beni culturali tra continuità e Innovazione, in Aedon, 2017, 3.

[14] V. al riguardo, Corte Costituzionale, 23/05/1991, n. 278, secondo cui «questa Corte non può mancare di osservare come l’inattuazione dell’impegno assunto con l’art. 48 del d.p.r. n. 616 del 1977 di precisare nell’ambito di una legge sulla tutela dei beni culturali da emanare entro il 31 dicembre 1979, le funzioni amministrative delle regioni e degli enti locali in ordine alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio storico, librario, artistico, archeologico, monumentale, paleo-etnologico ed etno-antropologico, rende gravemente lacunoso e incerto il quadro normativo sulla ripartizione delle competenze che in materia spettano allo Stato e alle regioni. Ciò vale ancor di più se si considera che in detta materia vigono in gran parte leggi anteriori all’instaurazione dell’ordinamento regionale e se si considera che essendo la ripartizione delle competenze tra Stato e regioni dipendente dal criterio dell’interesse nazionale o locale attribuibile al valore culturale di singoli beni o di categorie di beni, si rivela necessaria la definizione di adeguati raccordi e di condotte cooperative tra gli uffici statali, e quelli regionali e locali».

[15] Per una più analitica lettura della giurisprudenza costituzionale in materia di beni culturali prima della riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, M. Bellocci - P. Passaglia, La giurisprudenza costituzionale relativa al riparto di competenze tra Stato e Regioni in materia di «ambiente» e di «beni culturali», in www.cortecostituzionale.it (aprile 2009), par. 11; A.R. Pelillo, I beni culturali nella giurisprudenza costituzionale: definizioni, poteri, disciplina, in Aedon, n. 2/1998.

[16] L’allocazione delle potestà normative nella sfera dei beni culturali si completa inoltre, ai sensi dell’art. 117, comma 6, della Costituzione, con la previsione di una potestà regolamentare dello Stato, salva delega alle Regioni, circoscritta al solo ambito della tutela dei beni culturali in quanto materia di competenza legislativa statale di tipo esclusivo.

[17] F.S. Marini, Lo statuto costituzionale dei beni culturali, Giuffrè ed., Milano, 2002, p. 260.

[18] G. Pastori, Tutela e valorizzazione dei beni culturali in Italia: situazione in atto e tendenze, in Aedon, 3, 2004.

[19] Corte Costituzionale, 13/01/2004, n. 9; nonché Corte Costituzionale 28/03/2003, n. 94.

[20] S. Cassese, I beni culturali: dalla tutela alla valorizzazione, in Gior. dir. amm., 1998, p. 673.

[21] S. Marotta, Per una lettura sociologico-giuridica dei beni culturali come ‘beni comuni’, in Patrimonio culturale. Profili giuridici e tecniche di tutela, p. 38.

[22] M. Cammelli, Il nuovo Titolo V della Costituzione e la finanziaria 2002: note. Aedon 1/2002, p. 3.

[23] F. Donà, Partecipazione e sussidiarietà nella valorizzazione dei beni culturali: strumenti disponibili e prospettive future, in Federalsimi.it, Rivista di Diritto Pubblico italiano, comparato, Europeo, p. 5.

[24] F. Donà, op. cit. p. 7.

[25] D. Gambetta, Principio di sussidiarietà e valorizzazione “condivisa” del patrimonio culturale, Ambientediritto.it, Anno XXII - Fascicolo n. 1/2022 p. 16, secondo il quale: «Mentre il Codice domestico guarda ai privati come “contributori” nella valorizzazione, la Convenzione attribuisce quindi loro una posizione (originaria) di centralità nelle dinamiche di creazione e sviluppo del valore culturale, veicolata mediante l’innovativo103 e trasversale concetto di “comunità patrimoniale, con cui si descrive anche l’intimo collegamento identitario tra beni e persone».

[26] In Italia, tra i diversi esempi, si pensi alla comunità dei Friends of Molo San Vincenzo viene costituita con lo scopo di valorizzare il Molo San Vincenzo, principale difesa foranea del Porto di Napoli che presenta un importante valore storico-culturale e paesaggistico-architettonico ed ha versato a lungo in uno stato di abbandono, in quanto interdetto dalla Marina Militare.

La comunità, in collaborazione con autorità pubbliche, comunità e operatori del settore marittimo ha rivitalizzato l’area, sia attraverso il recupero della sua funzione di struttura marittima, sia mediante la realizzazione di uno spazio pubblico sul mare.

[27] V. Di Capua, La Convenzione di Faro. Verso la valorizzazione del patrimonio culturale come bene comune, ed. Il Mulino, Fasc. 3/2021.

[28] Recante «Atto di indirizzo concernente l’individuazione delle priorità politiche da realizzarsi nell’anno 2023 e per il triennio 2023-2025».

[29] R. Cuonzo, La programmazione negoziata nell’ordinamento giuridico, Padova, 2007.

[30] M. Centorrino - G. Lo Presti, Strumenti di sviluppo locale: la programmazione negoziata, Palomar ed., Bari, 2005, p. 31.

[31] Il favor per i soggetti non profit è stato tradizionalmente ricondotto alla maggiore prossimità di tali soggetti ai sistemi nazionali di welfare e, quindi, alla maggiore capacità di interpretare i bisogni della collettività e di concorrere con i soggetti pubblici: si veda, sul punto, il Parere del Consiglio di Stato n. 1405 del 14 giugno 2017 sullo schema del d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117.

[32] G. Severini, Art. 112, Codice dei beni culturali e del paesaggio, Giuffrè, ed. III/2019, p. 854, che afferma: «Deve trattarsi di progetti consoni alla preesistente e documentata connotazione culturale del territorio, in riguardo allo scopo fondamentale dell’art. 1, comma 2, per il quale «la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura».

[33] In aggiunta a quanto previsto dall’art. 112, l’art. 115, D.lgs. n. 42/2004 stabilisce che la gestione indiretta dei beni culturali «è attuata tramite la concessione a terzi delle attività di valorizzazione, anche in forma congiunta o integrata» da parte delle pubbliche amministrazioni a cui appartengono i beni culturali suddetti o dei soggetti giuridici di cui all’art. 112, co. 5, D.lgs. n. 42/2004, qualora abbiano ottenuto il conferimento dei beni attraverso l’espletamento di procedure di evidenza pubblica.

[34] P. Carpentieri, Commento all’art. 112, Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, 2005, p. 488. 

[35] B. Accettura, Politiche di valorizzazione e funzione sociale dei beni culturali. Pratiche di cittadinanza attiva, Federalismi.it, n. 16/2019, pp. 4-5. 

[36] Art. 115, comma 3, D.lgs. n. 42/2004. A tal proposito si intende anche richiamare quanto previsto dal D.M. 6 ottobre 2015, con cui è stata introdotta la possibilità di affidare in “concessione d’uso” ad associazione e fondazioni senza scopo di lucro «beni culturali immobili del demanio culturale dello Stato, per l’utilizzo dei quali non è corrisposto alcun canone e che richiedono interventi di restauro» per la «realizzazione di un progetto di gestione del bene che ne assicuri la corretta conservazione, all’art. 19, comma 6, l. n. 448/1998 che prevede l’affidamento a privati “in concessione o con contratto (…) che promuovono e si obbligano ad attuare il relativo progetto, l’adattamento, la ristrutturazione o la ricostruzione di beni immobili non più utilizzati dall’amministrazione statale e dagli enti locali, per la loro proficua utilizzazione da parte degli stessi soggetti e con corresponsione, per il tempo di godimento dei beni, di un prezzo all’amministrazione statale ed agli enti locali fissato tenendo conto dell’impiego finanziario derivante dall’esecuzione del progetto e del valore di mercato del bene», ma anche ai «Programmi unitari di valorizzazione dei beni demaniali per la promozione e lo sviluppo dei sistemi locali”, nell’ambito dei quali è stato previsto lo strumento delle concessioni o locazioni di valorizzazione, di cui all’art. 1, comma 262, l. n. 296/2006»

[37] C. Barbati, Esternalizzazioni e beni culturali: le esperienze mancate e le prospettive possibili (dopo i decreti correttivi del codice urbani), in Rivista giuridica dell’edilizia, n. 4-5/2006, p. 12; cfr. anche C. Napolitano, Il partenariato pubblico-privato nel diritto dei beni culturali, Atti del Convengo «Arte, cultura e ricerca scientifica. Costituzione e Amministrazione», AIPDA, Reggio Calabria, 4 - 6 ottobre 2018, p. 7-8.

[38] G. Clemente di San Luca - R. Savoia, Manuale di diritto dei beni culturali, Napoli, 2005, p. 322.

[39] C. Barbati, Le forme di gestione, Diritto e gestione, Ed. Il Mulino, 2011, p. 204.

[40] La dottrina, in realtà, ha ritenuto possibile anche l’affidamento in house a società il cui capitale sociale sia interamente partecipato dall’ente pubblico e che siano sottoposte ad un controllo analogo a quello che l’ente svolgerebbe sui propri servizi [D. Vaiano, La valorizzazione dei beni culturali, in Beni culturali, Giappichelli Editore, 2018, pag. 136 (che riconduce l’affidamento in house ad un’ipotesi di gestione diretta)].

[41] A tale previsione si aggiunge quella contenuta nel successivo art. 116 che, con riferimento alla tutela dei beni culturali conferiti o concessi in uso, prevede che tali beni restino a tutti gli effetti assoggettati al regime giuridico loro proprio e che, in particolare, le funzioni di tutela continuano ad essere esercitate dal Ministero della Cultura.

[42] G. Severini, Artt. 6-7, op. cit., p. 63: «La valorizzazione è fattore di attrazione di un territorio, e in questo effetto, difficilmente quantificabile, risiede la sua convenienza economica, considerata anche in ragione del c.d. benessere economico, o sviluppo sociale: non in quanto bene produttivo in sé (non sarebbe valorizzazione del bene culturale, ma da bene culturale)».

[43] «a) il servizio editoriale e di vendita riguardante i cataloghi e i sussidi catalografici, audiovisivi e informatici, ogni altro materiale informativo, e le riproduzioni di beni culturali;

b) i servizi riguardanti beni librari e archivistici per la fornitura di riproduzioni e il recapito del prestito bibliotecario;

c) la gestione di raccolte discografiche, di diapoteche e biblioteche museali;

d) la gestione dei punti vendita e l’utilizzazione commerciale delle riproduzioni dei beni;

e) i servizi di accoglienza, ivi inclusi quelli di assistenza e di intrattenimento per l’infanzia, i servizi di informazione, di guida e assistenza didattica, i centri di incontro;

f) i servizi di caffetteria, di ristorazione, di guardaroba;

g) l’organizzazione di mostre e manifestazioni culturali, nonché di iniziative promozionali».

[44] F. Bosetti, Art. 117, Codice dei Beni culturali e del Paesaggio, Roma, 2015, p. 70.

[45] Tra le prime, T.A.R. Campania - Napoli, sez. I, 13/05/2004, n. 8714.

[46] La gestione integrate può avvenire in senso orizzontale (ad es. tra più musei di una rete museale territoriale), oppure in senso verticale, ove un solo soggetto cura i differenti servizi offerti dalla stessa struttura.

[47] A.L. Tarasco, La valorizzazione del patrimonio culturale tra project financing e gestione diretta: la difficile sussidiarietà orizzontale, in Riv. Giur. Ed., 2005, p. 109.

[48] A.L. Tarasco, op. cit., p. 112.

[49] Cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. IV, 22/03/2021, n. 2426.

[50] Cassazione civile, Sezioni Unite, 27/05/2009, n. 12252; Cassazione Civile, Sezioni Unite, 09/12/2015, n. 24824; ma anche Consiglio di Stato, sez. V, 06/07/2020, n. 4307.

[51] Libro verde sulle partnership di tipo pubblico-privato e sul diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni (Com/2004/0327).

[52] Adunanza Plenaria, Consiglio Stato, n. 1/2008.

[53] Art. 151, comma 3, D.lgs. n. 50/2016: «Per assicurare la fruizione del patrimonio culturale della Nazione e favorire altresì la ricerca scientifica applicata alla tutela, il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo può attivare forme speciali di partenariato con enti e organismi pubblici e con soggetti privati, dirette a consentire il recupero, il restauro, la manutenzione programmata, la gestione, l’apertura alla pubblica fruizione e la valorizzazione di beni culturali immobili, attraverso procedure semplificate di individuazione del partner privato analoghe o ulteriori rispetto a quelle previste dal comma 1».

[54] G. Sciullo, Il partenariato pubblico-privato in tema di patrimonio, Aedon, Fasc. 3, 2021, pp. 155-156.

[55] P. Rossi, Partenariato pubblico-privato e valorizzazione economica dei beni culturali nella riforma del codice degli appalti, in Federalismi, n. 2/2018, p. 22. 

[56] Circolare MIBACT n. 17641 del 9 giugno 2016 «Sponsorizzazione di beni culturali - articolo 120 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 - articoli 19 e 151 del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50».

[57] A. Sau, La disciplina dei contratti pubblici relativi ai beni culturali tra esigenze di semplificazione e profili di specialità, in www.aedon.ilmulino.it, n. 1/2017

[58] La Circolare reca come oggetto «Note esplicative e modelli operativi per la realizzazione di forme speciali di partenariato pubblico-privato nei beni culturali ex art. 151, comma 3 del Codice dei contratti pubblici».

[59] G. Sciullo, Il partenariato pubblico-privato in tema di patrimonio, Aedon, Fasc. 3, 2021, p. 157.

[60] https://cultura.gov.it/borghi

[61] «In questo quadro, saranno ritenute meritevoli di un maggior punteggio le candidature accompagnate da formule di partenariato in grado di esprimere efficaci forme di coordinamento e collaborazione tra soggetti pubblici e privati, livelli istituzionali, soggetti del terzo settore e altri attori rilevanti per la realizzazione del Progetto. In particolare, saranno positivamente apprezzate, oltre a quegli accordi tra pubbliche amministrazioni in grado di favorire la efficiente ed efficace gestione di servizi e attività, forme flessibili e innovative di gestione in ambito culturale attraverso il ricorso a partenariati pubblico-privato».

[62] https://www.labsus.org/2020/01/linnovativo-istituto-del-partenariato-speciale-con-il-teatro-tascabile-di-bergamo.

[63] M. Veronelli, Il fundraising per la cultura: il caso delle sponsorizzazioni, Economia dei servizi, Il Mulino, Fasc. 3, 2014, p. 291.

[64] P.L. Sacco, Il fundraising per la cultura, Booklet Milano, Meltemi Express, 2006, p. 19.

[65] https://www.ilsole24ore.com/art/art-bonus-via-concorso-il-2023-ecco-cos-e-e-come-partecipare-AEuMj4fC

[66] http://pompeiisites.org/trasparenza/affidamento-del-servizio-di-marketing-relazionale-e-fundraising-per-il-parco-archeologico-di-pompei-cig-9454068fb4/

[67] Determina AVCP, 05/12/2001, n. 24.

[68] «1. Ai contratti di sponsorizzazione e ai contratti a questi assimilabili, di cui siano parte un’amministrazione aggiudicatrice o altro ente aggiudicatore e uno sponsor che non sia un’amministrazione aggiudicatrice o altro ente aggiudicatore, aventi ad oggetto i lavori di cui all’allegato I, nonché gli interventi di restauro e manutenzione di beni mobili e delle superfici decorate di beni architettonici sottoposti a tutela ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, ovvero i servizi di cui all’allegato II, ovvero le forniture disciplinate dal presente codice, quando i lavori, i servizi, le forniture sono acquisiti o realizzati a cura e a spese dello sponsor, si applicano i principi del Trattato per la scelta dello sponsor nonché le disposizioni in materia di requisiti soggettivi dei progettisti e degli esecutori del contratto.

2. L’amministrazione aggiudicatrice o altro ente aggiudicatore beneficiario delle opere, dei lavori, dei servizi, delle forniture, impartisce le prescrizioni opportune in ordine alla progettazione, nonché alla direzione ed esecuzione del contratto»

[69] «L'affidamento deve essere preceduto da invito ad almeno cinque concorrenti, se compatibile con l'oggetto del contratto. L'affidamento dei contratti di finanziamento, comunque stipulati, dai concessionari di lavori pubblici che sono amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori avviene nel rispetto dei principi di cui al presente comma e deve essere preceduto da invito ad almeno cinque concorrenti».

[70] «il contratto di sponsorizzazione può in via generale definirsi come negozio innominato, a titolo oneroso e a prestazioni corrispettive, stipulato tra due parti così definite: - lo sponsee, che, nell’ambito di iniziative destinate al pubblico (programmi televisivi, spettacoli musicali, lavori di restauro di beni di valore storico e/o artistico, competizioni sportive, ecc.) si obbliga a fornire prestazioni di veicolazione del nome, del marchio, dell’immagine, delle attività o dei prodotti di un altro soggetto (lo sponsor); - lo sponsor, generalmente un’impresa, che si obbliga, in cambio della suddetta veicolazione, ad una prestazione pecuniaria, ovvero ad assumere in proprio la realizzazione di lavori, servizi o forniture in favore dello sponsee».

[71] Come statuito anche dal Consiglio Stato, sez. V, 28/12/2020, n. 8403, così strutturata, la disposizione in esame riduce sensibilmente i “tempi” procedimentali, pur osservando i principi fondamentali dell’imparzialità e della parità di trattamento, predominando, dunque, la trattativa individualizzata sull’obiettiva comparazione delle proposte.

[72] A tal proposito, merita di essere segnalata la sentenza del Consiglio Stato, sez. VI, 31/07/2013, n. 4034, che così ha statuito: «L’acquisizione del finanziamento, il progetto di restauro e gli equilibri sinallagmatici, accettati dall’Amministrazione nei confronti dello sponsor, corrispondono a scelte sindacabili solo nei limiti, generalmente riconosciuti in tema di impugnazione di atti discrezionali (con esercizio nella fattispecie di discrezionalità mista: tecnica e amministrativa). Nel particolare settore in esame, in pratica, una lesione avrebbe potuto potrebbe essere ravvisata solo in corrispondenza ad illegittimità della ponderazione effettuata, in quanto illogica o arbitraria, purchè incidente su interessi giuridicamente protetti, di cui la parte appellante potesse ritenersi portatrice».

I Giudici di Palazzo Spada, in estrema sintesi, hanno inteso mettere a tacere ogni strumentalizzazione mediatica, attribuendo agli Enti la più ampia discrezionalità nella selezione dello strumento giuridico attraverso il quale soddisfare l’interesse pubblico alla valorizzazione del bene culturale.

Fermo il principio affermato dal Consiglio di Stato, si procede ad esaminare i due casi di sponsorizzazione.

[73] M. Veronelli, Le sponsorizzazioni culturali come forma di partenariato pubblico/privato, in Gaetana

Trupiano, Finanza della cultura. La spesa, il finanziamento e la tassazione, RomaTre-Press, Roma, 2015, p. 68.

[74] Delibera n. 1370 del 14.12.2011, nella quale ha altresì affermato che, mentre l’avviso iniziale aveva limitato i diritti di sfruttamento dell’immagine del Colosseo alla durata dei lavori di ristrutturazione, con espresso divieto di ogni forma di proroga, nell’Accordo tale periodo era ben più lungo e fissato rispettivamente, per la Tod’s Spa, fino a due anni successivi all’ultimazione dei lavori e, per la costituenda Associazione che lo sponsor è tenuto ad istituire, in 15 anni a decorrere dalla costituzione della stessa.

[75] Casa natale dei Santi Benedetto e Scolastica, rappresenta un esempio di architettura stratificata, edificata nella conformazione già nota nel XIII secolo e modificata nel corso dei secoli a causa anche degli eventi sismici che hanno interessato la cittadina di Norcia. La Basilica costituisce anche un simbolo di resilienza e rinascita della comunità nursina ed ha una riconosciuta importanza comunitaria per il culto di San Benedetto quale patrono d’Europa.

[76] Nello specifico, l’ordinanza commissariale n. 38 del 8 settembre 2017 (“Approvazione del primo piano di interventi sui beni del patrimonio artistico e culturale, compresi quelli sottoposti a tutela ai sensi del codice di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42”) ha previsto, all’art. 1, l’intervento di recupero, restauro e ripristino della Basilica di San Benedetto di Norcia, per un importo pari a euro 10.000.000, di cui euro 6.000.000 messi a disposizione dalla Comunità Europea, a valere sul POR FESR 2014-2020, Asse 8 “Prevenzione sismica a sostegno alla ripresa dei territori colpiti dal terremoto”, Azione chiave 8.4.1 “Interventi di microzonazione e di messa in sicurezza sismica degli edifici strategici e rilevanti pubblici ubicati nelle aree maggiormente a rischio”, ed euro 4.000.000 a valere sul fondo per la ricostruzione delle aree terremotate di cui all’articolo 4 del decreto legge n. 189 del 2016.

[77] Che ha attribuito alle ordinanze commissariali poteri derogatori del Codice dei Contratti Pubblici

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