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Pubbl. Ven, 27 Ott 2023
Sottoposto a PEER REVIEW

Giustizia riparativa e reati culturalmente orientati. Esperienze comparate per ripensare la risposta al delitto: Canada, Sudafrica e Nord Europa.

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Sophie Charlotte Monachini
Dottore di ricercaUniversità degli Studi di Verona



Il presente contributo intende analizzare l’applicabilità del modello restorative ai cd. reati culturalmente orientati, avvalendosi dell’esperienza comparata in materia. Dopo aver analizzato la problematica della rilevanza da attribuire alla motivazione culturale di una condotta penalmente rilevante nell’ottica del fenomeno più ampio di società multiculturale, si definisce il concetto di reato culturalmente orientato. Per approfondire la costruzione di un attrezzato modello giuridico penale di risposta a questi reati si analizzano le esperienze di altri ordinamenti giuridici che, per la loro peculiare storia non esente da periodi drammatici e violenti, hanno rappresentato degli interessanti laboratori per la sperimentazione di paradigmi di giustizia riparativa.


ENG

Restorative justice and culturally motivated crimes

Cultural diversity is one of the main features of nowadays societies and the connection between culture and crime is of increasing interest given today’s multicultural context.  As a matter of fact, some crimes are related to cultural behaviors, and they can be fully understood only through a culturally sensitive approach. These crimes, so called culturally motivated crimes, present new challenges to criminal law. Inspiring suggestions can be found in other countries in which cultural issues are distinctive features of the society, such as Canada and South Africa. 

Sommario: 1. Multiculturalismo e reati culturalmente orientati; 2. L’esperienza del Canada: giustizia riparativa e istanze culturali; 2.1. La riforma del codice penale e la successiva giurisprudenza; 3. L’esperienza del Sudafrica: la giustizia riparativa alla luce del concetto di uBuntu; 3.1. Il connubio tra uBuntu e giustizia riparativa; 4. La riforma Cartabia. Cenni ad un’esperienza nordeuropea; 5. Conclusioni.

Abstract: Il presente contributo intende analizzare l’applicabilità del modello restorative ai cd. reati culturalmente orientati, avvalendosi dell’esperienza comparata in materia. Dopo aver analizzato la problematica della rilevanza da attribuire alla motivazione culturale di una condotta penalmente rilevante nell’ottica del fenomeno più ampio di società multiculturale, si definisce il concetto di reato culturalmente orientato. Per approfondire la costruzione di un attrezzato modello giuridico penale di risposta a questi reati si analizzano le esperienze di altri ordinamenti giuridici che, per la loro peculiare storia non esente da periodi drammatici e violenti, hanno rappresentato degli interessanti laboratori per la sperimentazione di paradigmi di giustizia riparativa: il Canada, con forme di composizione delle controversie penali nei confronti della cultura aborigena, e il Sudafrica, con la capacità di superare un passato violento tramite la costruzione di percorsi riparativi ancorati a concetti atavici quali l’uBuntu. Infine, ripercorrendo in sintesi la riforma Cartabia che ha introdotto nel nostro ordinamento la giustizia riparativa in un’ottica di sistema, si analizza una interessante esperienza del Nord Europa, ossia il modello della cd. cross-cultural mediation per un approccio attento alle differenze culturali.

Abstract: Cultural diversity is one of the main features of nowadays societies and the connection between culture and crime is of increasing interest given today’s multicultural context.  As a matter of fact, some crimes are related to cultural behaviors, and they can be fully understood only through a culturally sensitive approach. These crimes, so called culturally motivated crimes, present new challenges to criminal law. Inspiring suggestions can be found in other countries in which cultural issues are distinctive features of the society, such as Canada and South Africa.  The aim is to analyze the connection between criminal law and multiculturalism through three research steps: the definition of culturally motivated crimes; the rediscovery of a criminal law based on dialogue and on dialectic process; lastly, thanks to the implementation in the Italian legal system of the so called Cartabia Reform, the development of a new legal methodology for culturally motivated crimes based on a comparative approach.

1. Multiculturalismo e reati culturalmente orientati

Da diversi anni, anche in Italia[1], la letteratura giuridica ha approfondito il rapporto intercorrente tra diritto penale e cultura interrogandosi in merito alla rilevanza da attribuire alla motivazione culturale alla base di una condotta penalmente rilevante e individuando alcuni principali problemi di sistema.

Anche la giurisprudenza italiana ha dimostrato negli anni una innegabile sensibilità rispetto al concetto di cultura con riferimento al diritto penale: plurimi sono stati i richiami alla coscienza collettiva, al sentire comune, al momento storico sociale, ecc.

Il diritto penale rimane, innegabilmente, roccaforte della cultura maggioritaria e questa condizione può generare conflitti normo-culturali per i soggetti appartenenti a culture differenti rispetto a quella maggioritaria su cui si fonda l’ordinamento giuridico dello Stato. Tale «dilemma normativo»[2] ha indotto la dottrina a coniare la categoria dei cd. reati culturalmente orientati.

Con questa espressione si fa riferimento a «un comportamento realizzato da un soggetto appartenente ad un gruppo culturale (etnico) di minoranza, che è considerato reato dall’ordinamento giuridico del gruppo culturale di maggioranza. Tale comportamento è, tuttavia, approvato, accettato o imposto all’interno del gruppo culturale di minoranza cui appartiene il soggetto agente»[3].

Da questa nozione emerge come il multiculturalismo che rileva per il diritto penale sia quello che genera una situazione di conflitto tra una norma giuridica e una norma culturale.

La definizione di reato culturalmente orientato elaborata negli anni dalla dottrina è molto ampia e ricomprende ipotesi delittuose diverse fra loro, soprattutto in relazione al bene giuridico tutelato e al grado di offensività delle condotte criminose poste in essere. Si tenga, altresì, presente che non vi sono disposizioni di parte generale, né nel Codice penale italiano né in quello degli altri Stati, che fanno espresso riferimento a questa categoria delittuosa di creazione dottrinale e giurisprudenziale.

Poiché è innegabile che il carattere multiculturale rappresenta una costante nelle odierne società, è necessario che il diritto sviluppi degli strumenti volti a regolare e a valorizzare la diversità culturale.

A tal proposito non può che richiamarsi la Dichiarazione Universale dell’UNESCO sulla Diversità Culturale che all’art. 1 recita: «La diversità culturale è, per il genere umano, necessaria quanto la biodiversità per qualsiasi forma di vita. In tal senso essa costituisce il patrimonio comune dell’umanità, e deve essere riconosciuta e affermata a beneficio delle generazioni presenti e future».

Alcuni paesi hanno affrontato la diversità culturale con approcci innovativi e le loro esperienze delineano possibili orizzonti giuridici di riferimento per l’individuazione di metodologie alternative di risposta al reato commesso per motivi culturali.

2. L’esperienza del Canada: giustizia riparativa e istanze culturali

Il Canada è notoriamente ritenuto un modello e un laboratorio in tema di multiculturalismo[4].

Limitando il campo d’indagine all’ambito prettamente giuridico, l’ordinamento canadese riflette lo spiccato carattere multiculturale della società tramite un sistema «tri-giuridico»[5]: alla tradizione di civil law e common law si affianca la componente di Indigenous Legal Tradition[6].

Sono proprio le tradizioni giuridiche aborigene ad aver costituito l’humus di riferimento per lo sviluppo del paradigma riparativo all’interno del panorama giuridico canadese. In estrema sintesi, si può affermare che il diritto, per le popolazioni aborigene canadesi, è parte integrante della quotidianità di ogni persona e contribuisce a formare il background culturale dell’intera comunità e il concetto di giustizia, in queste comunità, incorpora valori quali armonia ed equilibrio ed è concepita quale processo di riconciliazione che coinvolge e va a beneficio della collettività.

Con particolare riferimento al diritto penale, il reato è percepito quale strappo tra il reo e la società e l’obiettivo diventa, pertanto, quello di sanare una ferita tramite una giustizia che abbracci i valori restorative e transformative[7].

Per favorire una positiva contaminazione e così permettere che i valori fondamentali del concetto di justice as healing venissero riconosciuti e rispettati all’interno del sistema giuridico non aborigeno, al fine di costruire un modello assimilante, protettivo e favorente il pluralismo culturale del paese e di evitare che le marcate differenze giuridico-culturali si traducessero in indifferenza, inadeguatezza e insensibilità del sistema nei confronti delle questioni attinenti agli imputati di origine aborigena, a partire dagli anni ‘90, il Canada ha avviato una serie di riforme. L’obiettivo principale, anche alla luce del grave problema della sovra-rappresentazione carceraria[8] degli appartenenti alle comunità aborigene, è stato quello di ridurre l’utilizzo della pena detentiva[9] quale principale risposta al reato e di favorire paradigmi più attenti alle differenze culturali[10].

La gestione della cd. questione aborigena costituisce un orizzonte di massimo interesse anche per studiosi del diritto operanti in contesti politico-sociali privi di minoranze autoctone; è problema di appartenenza culturale-identitaria che riporta l’attenzione sulla necessità di una risposta giuridica efficace, effettiva e pragmatica, soprattutto in sede penale, ove il modello retributivo e carcero-centrico sembra non fornire soluzioni adeguate.

3. La riforma del codice penale e la successiva giurisprudenza

L’orizzonte di riferimento della riforma del 1996 è stato quello di tenere maggiormente in considerazione il fattore culturale degli appartenenti alla comunità aborigena per il tramite dei principi propri del paradigma riparativo di giustizia[11] .

In particolare, la riformata section 718.2 (e) ha imposto ai giudici[12] di valutare espressamente «all available sanctions other than imprisonment that are reasonable in the circumstances (...) with particular attention to the circumstances of aboriginal people»[13]. Tale previsione, come emergerà dall’analisi della successiva giurisprudenza, risulta essere particolarmente significativa in quanto rappresenta l’anello di congiunzione tra istanze culturali e approccio riparativo al reato.

Il leading case che valorizza i principi espressi in sede legislativa è rappresentato della decisione R v Gladue[14].

La Corte ha, in primis, dimostrato di aver piena consapevolezza del modello riparativo di giustizia: i giudici hanno, infatti, individuato l’orizzonte del paradigma riparativo nella ricomposizione dell’equilibrio esistente prima della commissione del reato per il tramite di sanzioni adeguate con riferimento ai bisogni della vittima, della comunità e del reo[15]. La riparazione del danno e la riconciliazione tra vittima, reo e società[16] assumono un ruolo fondamentale nella fase di commisurazione della sanzione penale: la Corte ha affermato che i «restorative sentencing goals do not usually correlate with the use of prison as a sanction and are better satisfied through community-based sanctions»[17].

La portata innovativa di questa pronuncia non è limitata, tuttavia, a riconoscere e valorizzare in sede giurisprudenziale i principi riparativi; cifra significativa è stata la riflessione che la Corte ha proposto con riferimento agli imputati di origine aborigena: per una corretta e concreta applicazione e declinazione del modello riparativo ai casi concernenti gli Aboriginals è necessario e imprescindibile tenere in considerazione il background culturale degli imputati[18] per giungere a una sentenza equa e ponderata alla luce dei principi riparativi[19], come sancito dalla sezione 718.2 (e) del codice penale[20].

Per la Corte, infatti, gli Aboriginal offenders soffrirebbero maggiormente la reclusione in carcere e, al contempo, non riuscirebbero a inserirsi in quei progetti rieducativi e risocializzanti riservati ai detenuti proprio a causa delle loro differenze culturali[21].

In altri termini, la Corte ha affermato che, proprio in virtù della rilevanza del fattore culturale, l’approccio riparativo meglio soddisferebbe tutte le funzioni della pena con riferimento a imputati aborigeni.

L’aspetto di maggior interesse, ai fini della comparazione con l’ordinamento italiano, risiede nell’espresso riconoscimento del fattore culturale in sede penale: il sistema riparativo è individuato quale metodo preferibile per la composizione dei conflitti giuridico-culturali, alla luce della inadeguatezza della giustizia penale carcero-centrica. È questa la cifra significativa del modello canadese che ben può rappresentare un valido orizzonte di riferimento per l’Italia, paese anch’esso interessato da complesse problematiche socioculturali, inerenti all’immigrazione.

Il Canada, in conclusione, offre sicuramente degli interessanti e fecondi spunti di riflessione circa la possibilità di individuare un paradigma di giustizia, soprattutto penale, più umano e rispettoso della dimensione sociale e culturale del singolo.

4. L’esperienza del Sudafrica: la giustizia riparativa alla luce del concetto di uBuntu

Il sistema sudafricano è definito come un modello ibrido[22]: marcata è la compresenza, anche nel panorama giuridico, delle diverse realtà culturali, storiche e sociali che contraddistinguono questo paese.

Il pluralismo giuridico sudafricano[23] si caratterizza per una componente di Western common law e una di African customary law[24] che insieme formano la cd. state law[25].

La seconda componente, ossia la African customary law, ha trovato pieno riconoscimento sia a livello legislativo che giurisprudenziale solo col finire dell’apartheid e con il conseguente processo di democratizzazione del paese.

Con l’entrata in vigore della Costituzione democratica nel 1996, la African customary law è stata equiparata al common law[26] e ha ottenuto pieno riconoscimento come fonte del diritto.

Nonostante gli sforzi per armonizzare le diverse componenti giuridiche e dar vita a un modello unitario, l’ordinamento sudafricano rimane fortemente caratterizzato da un marcato dualismo: la African customary law, formalmente equiparata alle altre fonti di diritto, resta, sostanzialmente, espressione di un sistema giuridico separato e distinto dal common law ed è, spesso, considerata di rango inferiore rispetto alla legge propriamente intesa[27].

Non mancano, tuttavia, esempi di positiva riuscita del processo di armonizzazione tra queste due componenti: il concetto di uBuntu costituisce una delle massime dimostrazioni in tal senso.

Il termine uBuntu (anche noto come botho in alcune lingue del paese) è comunemente associato a ideali di solidarietà, di comprensione reciproca e di rispetto della dignità dell’uomo sia come singolo che come parte di una comunità[28]; i principi sottesi a questo concetto non si rivolgono solo al singolo, ma anche all’individuo concepito come parte di un gruppo.

Come ben sintetizzato dall’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, premio Nobel per la pace[29], e figura fondamentale per il processo di riconciliazione del paese dopo gli anni di apartheid, l’uBuntu esprime l’appartenenza del singolo «to a bundle of life»[30].

Nonostante non esista una definizione univoca e non sia neppure volutamente adottata una traduzione letterale di questo termine, uBuntu è da intendersi quale principio alla base delle relazioni umane, sia del singolo che della comunità. La dignità[31], il rispetto per il prossimo, la tutela dei diritti umani fondamentali e dei valori democratici sono i principi fondanti di questo concetto. L’uBuntu valorizza l’essere umano portatore di una propria identità e, contemporaneamente, attribuisce fondamentale importanza al comportamento del singolo nelle sue interazioni con la comunità. L’individuo, oltre ad identificarsi col gruppo e a considerarsi parte integrante dello stesso, è in rapporto di profonda solidarietà con gli altri consociati.  L’essere umano, infatti, è tale attraverso gli altri: «humanity through community»[32] e «I am because we are»[33] sono alcune delle espressioni che meglio sintetizzano questo concetto.

5. Il connubio tra uBuntu e giustizia riparativa

Dal 1993, anno in cui il concetto di uBuntu è stato menzionato formalmente all’interno del sistema giuridico sudafricano, le Corti lo hanno diffusamente[34] utilizzato nelle loro motivazioni in diversi settori del diritto[35], ma l’ambito in cui esso ha rivestito e riveste tuttora un ruolo fondamentale è quello della giustizia penale. È stato, infatti, associato ai valori della giustizia riparativa, che ben si coniugano con l’obiettivo più intimo e profondo dell’uBuntu: la realizzazione dell’armonia sociale.

Si è, così, sviluppato un indirizzo giurisprudenziale che ha individuato proprio nell’uBuntu la fonte giuridica per l’introduzione del modello riparativo nel sistema penale sudafricano[36].

Alla luce del concetto di uBuntu, per cui il singolo è tale in quanto parte di un gruppo, è interesse primario della comunità che il reo ripari il danno e torni ad essere elemento proattivo del sistema.

Viene, pertanto, ribadito come l’approccio riparativo e riabilitativo volto al reinserimento del reo nella società debbano essere parte integrante della fase giudicante. Il modello riparativo attribuisce un ruolo centrale alla comunità che viene concepita come luogo principe per un efficace controllo della criminalità e per una adeguata risocializzazione del reo..

Questo interessante e innovativo connubio di uBuntu e restorative justice ha rappresentato la chiave interpretativa per promuovere i valori fondanti della Costituzione del nuovo Sudafrica democratico. L’uBuntu ha permesso alla componente di African customary law di emergere all’interno del sistema giuridico del paese, favorendo così lo sviluppo di «a cohesive, plural, South African legal culture»[37] improntata a ideali di riconciliazione e di armonia tra le diverse realtà che caratterizzano la composita società sudafricana.

6. La riforma Cartabia. Cenni ad un’esperienza nordeuropea

L’originalità e la duttilità giuridica che caratterizzano le esperienze comparate poc’anzi analizzate riportano l’attenzione sulla necessità di sperimentare e armonizzare modelli, procedure e strategie giuridiche in grado di addivenire a risposte al reato più inclusive e attente ai concreti bisogni dei protagonisti dei conflitti culturali.

Come ben noto, la nostra Costituzione sancisce espressamente, all’art. 27, comma 3, quale deve essere la funzione primaria della pena: il fine rieducativo è «l’unico scopo testualmente espresso»[38]. Ed è proprio l’art. 27, comma 3 della Costituzione a rappresentare l’orizzonte di senso della pena anche per il reo culturalmente orientato: la risocializzazione volontaria e non coattiva e l’opportunità di rielaborazione delle proprie scelte al fine di orientare la propria esistenza nel rispetto dei diritti fondamentali. Tale obiettivo si raggiunge necessariamente tramite la presa di considerazione del fattore culturale nella risposta punitiva, con particolare riferimento alle modalità con cui la stessa si esplica.

Il reinserimento sociale, la risocializzazione e la responsabilizzazione del reo, come delineato nel nostro ordinamento dall’art. 27, comma 3 della Costituzione, coinvolgono necessariamente il condannato, la vittima e, in particolar modo, il gruppo culturale di riferimento. Soprattutto con riferimento alla categoria dei reati culturalmente orientati non si può prescindere dalla centralità non solo della vittima, ma anche e soprattutto della comunità di appartenenza, elemento essenziale della «molecola criminale»[39] che contorna il reato.

Emerge, pertanto, la necessità di individuare un modello di giustizia più inclusivo e partecipativo che permetta una rilettura «sia concettuale che pratica al tradizionale modo di pensare e “praticare” la sanzione penale»[40]. Questo paradigma nasce in seno al concetto di giustizia riparativa[41] (o, dall’inglese, restorative justice)[42].

La giustizia riparativa pone al centro gli individui, che vengono coinvolti attivamente nella risoluzione del conflitto tramite la partecipazione ad un processo riparativo che mira a ricomporre, anche a livello emotivo, quanto lacerato dal reato. In una «nuova semantica del reato»[43], possiamo definire quest’ultimo come una lesione alle persone e alle relazioni tra le stesse e, pertanto la risposta al reato non può costituire una sofferenza ulteriore, un danno che si aggiunge a quello causato dall’illecito penale, ma piuttosto essa deve essere concepita come «un programma d’intervento in merito alla frattura prodotta da quel medesimo fatto: secondo le finalità politico-criminali desumibili dalla Costituzione (in particolare, dall’art. 27, terzo comma)»[44].

In particolare, nei reati culturalmente orientati, il processo riparativo costituirebbe anche il momento per un possibile confronto tra la comunità minoritaria e quella maggioritaria e si eviterebbe, così, quella assimilazione coatta perpetuata per il tramite dello strumento penale tipicamente inteso.

Pertanto, la giustizia riparativa interverrebbe positivamente nella dinamica dei reati culturalmente orientati sia in una «prospettiva microsociale», facilitando la riparazione e il superamento del conflitto tra le parti, sia in una «prospettiva macrosociale», favorendo l’incontro e il confronto tra diversi gruppi sociali[45]. La giustizia riparativa favorirebbe, infatti, l’integrazione sociale, ossia «the ability of different groups in society to live together in productive and co-operative harmony»[46], e contribuirebbe a favorire la pacifica coesistenza di diversi gruppi etnici all’interno delle moderne società[47].

Fondamentale in tal senso, per una declinazione positiva della proposta oggetto della presente riflessione è stata l’approvazione del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 di attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134 recante Delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari (cd. riforma Cartabia, dal nome del Ministro della Giustizia)[48].

Sintetizzando il dettato normativo, si può evidenziare come la giustizia riparativa presupponga un incontro volontario, confidenziale e riservato tra i protagonisti della vicenda penale che tramite un percorso dialogico e partecipato, facilitato da un soggetto terzo «equiprossimo»[49] (mediatore), giungono al cd. restorative outcome che si proietta al futuro (e non al passato, come la pena) in modo attivo e responsabile. Nello specifico, «la giustizia riparativa è un modello compiutamente articolato per la trattazione e la soluzione di conflitti sociali, la giustizia punitiva invece quasi mai risolve il conflitto, anzi lo alimenta con quel perverso meccanismo che conosciamo del “raddoppio del male”»[50].

Merita, infine, menzione la figura del mediatore disciplinata dagli artt. 59 e 60 della normativa sopraccitata. La formazione dei mediatori è di massima importanza per conferire alla giustizia riparativa rigore scientifico[51] (e giuridico) sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo e per garantire che i programmi riparativi possano effettivamente esprimere la loro massima potenzialità, anche in relazione ai reati culturalmente orientati. Poiché non è plausibile immaginare che i mediatori siano formati su tutti gli aspetti culturali che di volta in volta assumono rilevanza, è interessante la previsione di collaborazione tra esperti mediatori, l’idea alla base del modello di mediazione sviluppatosi in alcuni paesi scandinavi: il riferimento è alla cd. cross-cultural mediation. Questo particolare percorso riparativo è stato sviluppato agli inizi degli anni 2000 da un mediatore danese di origini afgane, Farwha Nielsen[52], per casi di honour-based violence e forced marriage all’interno delle comunità immigrate, stante l’incapacità del sistema giuridico tradizionale di affrontare efficacemente queste forme di violenza spesso endo-familiari[53]. Al fine di facilitare il dialogo inter-culturale e favorire un clima di fiducia e rispetto reciproci, la mediazione non viene condotta da un solo soggetto, ma da un team di due mediatori provenienti da contesti culturali differenti: alla figura del mediatore esperto in giustizia riparativa appartenente al gruppo maggioritario si aggiunge quella del secondo mediatore -definibile come mediatore culturale - appartenente ad un gruppo etnico affine[54] a quello delle parti coinvolte. 

Questo processo riparativo, definibile anche come «culturally balanced co-mediation»[55], è finalizzato a raggiungere un esito riparativo rispettoso delle differenze culturali, se - e solo se - queste ultime non violino i diritti umani[56].  Sul punto preme sottolineare come questa forma di mediazione non legittimi assolutamente la pratica culturale tout court, ma apra al dialogo e alla riflessione sulla tradizione stessa senza, pertanto, incorrere nel cd. «soffocamento comunitario» a danno della vittima o nel cd. «paradosso della vulnerabilità culturale»[57].

7. Conclusioni

L’originalità e la duttilità giuridica alla base dell’esperienze analizzate e l’approvazione in Italia della cd. Riforma Cartabia rinnovano l’attenzione sulla necessità di sperimentare e armonizzare modelli, procedure e strategie giuridiche in grado di addivenire a risposte al reato più inclusive e attente ai concreti bisogni dei protagonisti dei conflitti culturali per permettere al diritto, in particolare al quello penale, di affrontare complessità nuove e di gestire in modo costruttivo le relazioni sulle quali la pena necessariamente impatta.

Concepita in tal senso, la giustizia riparativa non entra in contrasto con il diritto e con il sistema penale: il concetto di integrazione sociale costituzionalmente previsto si declina, infatti, in modo armonioso con il paradigma riparativo. Il processo riparativo positivamente attuato rappresenta, dunque, una forma di risposta al reato «agita [o] proattiva»[58] (non, pertanto, meramente subita) che permette il pieno rispetto della finalità risocializzante della pena, tutelando al contempo le esigenze e i bisogni delle vittime del reato. La conciliazione tra esigenze apparentemente contrapposte (quelle della vittima e quelle del reo) che si realizza per il tramite di un metodo dialogico rappresenta la cifra significativa della restorative justice.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Senza alcuna pretesa di completezza, si segnalano alcune delle principali opere monografiche italiane in materia: Basile F., Immigrazione e reati culturalmente motivati. Il diritto penale nelle società multiculturali, Giuffrè, Milano, 2010; Bernardi A., Il “fattore culturale” nel sistema penale, Giappichelli, Torino, 2010; De Maglie C., I reati culturalmente motivati. Ideologie e modelli penali, Edizioni ETS, Pisa, 2010; Parisi F., Cultura dell’«altro» e diritto penale, Giappichelli, Torino, 2010; Provera A., Tra frontiere e confini. Il diritto penale dell’età multiculturale, Jovene, Napoli, 2018; Cavaggion G., Diritti culturali e modello costituzionale di integrazione, Giappichelli, Torino, 2018.

[2] Bigiarini A., La prova culturale nel processo penale, in Cassazione Penale, 2018, pp. 411-420, p. 411.

[3] Cfr., in particolare, De Maglie C., I reati culturalmente motivati, cit., p. 30 e Basile F., Immigrazione e reati culturalmente motivati, cit., p. 42 che riprendono la definizione di Van Broeck J., Cultural Defence and Culturally Motivated Crimes (Cultural Offences), in European Journal of Crime, Criminal Law and Criminal Justice, 2001, pp. 1-32, p. 5.

[4] Per un approfondimento storico sul punto, cfr. Magnet J.E., Multiculturalism and Collective Rights, in The Supreme Court Law Review, 2005, pp. 431-497.

[5] Borrows J., Indigenous Legal Traditions in Canada, in Washington University Journal of Law and Policy, vol. 19, 2005, pp. 167-223, p. 19; l’autore sottolinea che definire l’ordinamento giuridico canadese come bi-giuridico sia riduttivo e inesatto considerata la presenza di una moltitudine di tradizioni giuridiche aborigene.

[6] Cfr. Law Commission of Canada, Justice within: Indigenous Legal Tradition, 2006.

[7] Proulx C., Reclaiming Aboriginal Justice, Identity, and Community, Purich Publishing, Saskatoon, 2003, p. 34.

[8] Il preoccupante numero di soggetti appartenenti alla comunità aborigena presenti nelle carceri canadesi è stato portato per la prima volta all’attenzione dell’opinione pubblica negli anni Ottanta, grazie alla pubblicazione del Prof. Micheal Jackson dell’Università della British Columbia dal titolo Locking up Natives in Canada: a report of the Committee of the Canadian Bar Association on imprisonment and release.

[9] Bottoms A. (ed.), Restorative Justice and Criminal Justice, Hart Publishing, Oxford, 2003, pp. 237-256.

[10] Si ricorda che in Canada non è presente alcuna disposizione all’interno del codice penale volta a riconosce formalmente la cd. cultural defence. Il Dipartimento della Giustizia nel 1994, tra le varie iniziative per promuovere una politica multiculturale in territorio canadese, aveva suggerito l’introduzione della difesa culturale nella parte generale del codice penale. Molteplici sono state le voci contrarie a questa proposta che è stata, poi, abbandonata.

[11] Stephens M., Lessons from the Front Lines in Canada’s Restorative Justice Experiment: The Experience of Sentencing Judges, in Queen’s Law Journal, vol. 33, 2007, pp. 19-78, p. 26 definisce questo momento storico come il punto di inizio del «Canadian restorative justice experiment» e come «turning point in the Canadian approach to sentencing».

[12] Manikis M., Towards Accountability and Fairness for Aboriginal People: The Recognition of Gladue as a Principle of Fundamental Justice That Applies to Prosecutors, in Canadian Criminal Law Review, vol. 21, 2016, pp. 164-184 ribadisce come tali principi non debbano essere rispettati solo dai giudici, ma da tutti gli operatori del diritto.

[13] Section 718.2 (e) Canadian Criminal Code 1996.

[14] R v Gladue [1999] 1 SRC 688; l’imputata, Marie Gladue, una ragazza di diciannove anni appartenente alla comunità aborigena e madre di due figli, si è dichiarata colpevole per l’omicidio del marito, Reuben Beaver, avvenuto a Nanaimo in British Columbia. La notte del diciannovesimo compleanno, l’imputata, venuta a conoscenza della relazione amorosa tra sua sorella e suo marito, a seguito di feroce discussione, ha pugnalato l’uomo al petto causandone la morte. La donna è stata condannata ad anni tre di reclusione. La Corte, nel caso di specie, ha tenuto in considerazione diverse circostanze attenuanti, come la giovane età della donna, il fatto che fosse madre e l’assenza di precedenti penali. La sezione 718.2 (e) non ha trovato espressa applicazione nel caso di specie perché la Corte ha ritenuto che la donna non fosse più strettamente legata alla comunità aborigena di appartenenza, ma la vicenda ha costituito occasione per la Corte per sviluppare una articolata riflessione circa la riforma del 1996 e le sue conseguenze applicative.

Cfr. Pfefferle B.R., Gladue Sentencing: Uneasy Answers to the Hard Problem of Aboriginal Over-Incarceration, in Manitoba Law Journal, vol. 32, 2008, pp. 113-143.

Per una dettagliata analisi della giurisprudenza successiva a Gladue, cfr. Roach K., One Step Forward, Two Steps Back: Gladue at Ten and in the Courts of Appeal, in Criminal Law Quarterly, vol. 54, 2009, pp. 470-505.

[15] R v Gladue, cit., paragrafo 57. La Corte ribadisce come l’attenzione debba focalizzarsi su «the human beings closely affected by the crime».

[16]R v Gladue, cit., paragrafo 43.

[17] Ibidem.

[18] Manikis M., The Recognition of Prosecutorial Obligations in an Era of Mandatory Minimum Sentences of Imprisonment and Over-representation of Aboriginal People in Prisons, in The Supreme Court Law Review: Osgoode’s Annual Constitutional Cases Conference, vol. 71, 2015, pp. 277-300, pp. 277-278 sottolinea che il principio giuridico di proportionate sentence ha assunto una interpretazione estensiva in Canada, includendo anche elementi connessi appunto al background culturale del reo.

[19] Roach K., Rudin J., Sentencing Indigenous Offenders: From Gladue to the Present and Beyond, in Cole D., Roberts J.V. (ed.), Sentencing in Canada, Irwin Law, Toronto, 2020, pp. 226-249, p. 230 segnalano che, nonostante la Corte ribadisca l’importanza di tenere in considerazione la prospettiva aborigena, non vi è alcun riferimento all’Indigenous law che potrebbe discostarsi, anche sensibilmente, da un approccio riparativo di matrice occidentale. Questo riporta l’attenzione sulla necessità di continuare quel cammino di conoscenza reciproca, di riconciliazione e di riconoscimento di pari dignità giuridica a tutte le componenti del tessuto sociale e culturale canadese.

[20] Nell’opera del giudice Turpel-Lafond M.E., Sentencing within a Restorative Justice Paradigm: Procedural Implications of R v Gladue, in Criminal Law Quarterly, vol. 43, 1999, pp. 34-50 l’obiettivo, che si cerca di raggiungere con la pronuncia in esame, viene riassunto quale tentativo di «build a bridge between their (Aboriginals) unique personal and community background experiences and criminal justice».

[21] R v Gladue, cit., paragrafo 67-68.

[22] Bennett T.W., Ubuntu. An African Jurisprudence, Juta, Claremont, 2018, p. 2 definisce il modello sudafricano come «hybrid or mixed».

[23] Sul punto si segnala che il Sudafrica è stato definito come Rainbow Nation proprio per sottolineare la diversità culturale del paese che si declina in ogni settore e ambito della società.

[24] Cfr. sul punto Rantenbach C., Introduction to Legal Pluralism in South Africa, LexisNexis South Africa, Durban, 2018.

[25] Queste due componenti vengono ufficialmente riconosciute come fonti del diritto, ma vi è, poi, una moltitudine di cd. non-state laws.

Matthee J.L., One Person’s Culture is another Person’s Crime: A Cultural Defence in South African Law?, Potchefstroom Campus of the North-West University, 2014, reperibile al link https://repository.nwu.ac.za/bitstream/handle/10394/13362/Matthee_JL.pdf?sequence=1&isAllowed=y.

[26] Per una approfondita analisi, anche storica, del rapporto tra customary e common law, cfr. Grobler C., An Analysis of the Cultural Defence in South Africa Criminal Law, University of Pretoria, Faculty of Law, 2014, reperibile al link https://repository.up.ac.za/bitstream/handle/2263/46121/Grobler_Analysis_2014.pdf?sequence=1&isAllowed=y.

[27] Bennett T.W., Ubuntu: An African Equity, cit., p. 30.

[28] Cfr. Skelton A., The South African Constitutional Court’s Restorative Justice Jurisprudence, in Restorative Justice: An International Journal, vol. 1, 2013, pp. 122-145, p. 123.

[29] Cfr. Ceretti A., Desmond Tutu. L’Arcivescovo della Nazione Arcobaleno, in Questione giustizia, 3 gennaio 2022, reperibile al link https://www.questionegiustizia.it/articolo/desmond-tutu-l-arcivescovo-della-nazione-arcobaleno?idn=78&idx=28211&idlink=3&utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=20220108.

[30] Tutu D., No Future Without Forgiveness, Rider, London, 1999, p. 34-35.

[31] La tutela e il rispetto della dignità umana sono strettamente collegati con una nozione storico-filosofica di giustizia. Sul punto cfr. Foley T., Developing Restorative Justice Jurisprudence. Rethinking Responses to Criminal Wrongdoing, Ashgate, Surrey, 2015, p. 47.

[32] Bennett T.W., Ubuntu. An African Jurisprudence, cit., p. 33.

[33] Ibidem.

[34] Bennett T.W., Ubuntu. An African Jurisprudence, cit., p. 60 riporta come la parola uBuntu sia stata citata in più di 39 casi giurisprudenziali negli ultimi anni; tra questi, 19 casi davanti alla Constitutional Court e 2 casi alla Supreme Court of Appeal.

[35] Sul punto di rimanda all’analisi di Bennett T.W., Ubuntu. An African Jurisprudence, cit., pp. 60-100.

[36] Sul punto, interessante è la riflessione di Skelton A., Tapping Indigenous Knowledge: Traditional Conflict Resolution, Restorative Justice and the Denunciation of Crime in South Africa, in Acta Juridica, 2007, pp. 228-246. L’autrice sottolinea come lo studio della giustizia riparativa in Sudafrica non possa prescindere dall’analisi delle tradizioni culturali e giuridiche delle popolazioni indigene. Sono, infatti, molteplici i punti di contatto tra la Restorative Justice e le Indigenous Legal Traditions: entrambe mirano alla riconciliazione tra le parti favorendo il coinvolgimento della comunità; sono modelli applicabili sia a controversie civilistiche che penalistiche, senza tracciare una netta linea di demarcazione tra i due ambiti del diritto; prediligono un approccio informale alla giustizia con una particolare attenzione anche alla disposizione delle persone che prendono parte agli incontri.

[37] Keep H., Midgley R., The Emerging Role of Ubuntu-botho in Developing a Consensual South African Legal Culture, in Bruinsma F., Nelken D. (ed.), Recht der Werkelijkheid, Reed Business, Gravenhage, 2007, pp. 29-56, p. 30.

[38] Pugiotto A., Il volto costituzionale della pena (e i suoi sfregi), in Associazione italiana dei costituzionalisti, 2014, pp. 1-18, p. 2.

[39] Cfr. Lodigiani G.A., Mannozzi. G., La giustizia riparativa. Formanti, parole e metodi, Giappichelli, Torino, 2017, p. 9. Gli autori evidenziano come dietro ad ogni reato, oltre al reo e alla vittima, vi siano: la comunità, le agenzie di controllo formale (appartenenti all’ordinamento) e le agenzie di controllo informale (scuola, famiglia).

[40] Reggio F., La nave di Milinda. La Restorative Justice fra conquiste e sfide ancora aperte, in Sarra C., Reggio F. (a cura di), Diritto, Metodologia Giuridica e Composizione del Conflitto, Primiceri, Padova, 2020, pp. 11-100, p. 11.

[41] Il concetto di giustizia riparativa appare nel dibattito scientifico occidentale a partire dal 1977, anno di pubblicazione dell’articolo del criminologo norvegese Nils Christie dal titolo Conflicts as Property. In questo articolo, l’autore critica il sistema penale di matrice retributiva improntato a una risposta statuale al reato e afferma la necessità di restituire il conflitto ai diretti interessati, ossia la vittima, il reo e la comunità. Cfr. Rigoni C., Crime, Diversity, Culture, and Cultural Defence, in Pontell H.N. (ed.), Oxford Research Encyclopedias: Criminology and Criminal Justice, Oxford University Press, New York, 2018 (online version), reperibile al link https://oxfordre.com/criminology/view/10.1093/acrefore/9780190264079.001.0001/acrefore-9780190264079-e-409?print=pdf. 

[42] La letteratura in materia di giustizia riparativa è ormai sconfinata. Senza pretese di completezza, tra le principali opere monografiche o collettanee, in lingua italiana, si vedano Mannozzi G., La giustizia senza spada, Giuffrè, Milano, 2003; Bouchard M., Mierolo G., Offesa e riparazione. Per una nuova giustizia attraverso la mediazione, Mondadori, Milano, 2005; Mazzucato C., Consenso alle norme e prevenzione dei reati, Aracne, Roma, 2005; Picotti L. (a cura di), Tecniche alternative di risoluzione dei conflitti in materia penale, Cedam, Padova, 2010; Eusebi L. (a cura di), Una giustizia diversa. Il modello riparativo e la questione penale, Vita e Pensiero, Milano, 2015; Mannozzi G., Lodigiani G. (a cura di), Giustizia riparativa. Ricostruire legami, ricostruire persone, Il Mulino, Bologna, 2015; Falcinelli D., Il diritto penale della vittima del reato, Dike Giuridica, Roma, 2017; Lodigiani G.A., Mannozzi. G., La giustizia riparativa, cit.; Mattevi E., Una giustizia più riparativa. Mediazione e riparazione in materia penale, Editoriale Scientifica, Napoli, 2017; Lorenzetti A., Giustizia riparativa e dinamiche costituzionali. Alla ricerca di una soluzione costituzionalmente preferibile, FrancoAngeli, Milano, 2018;Cartabia M.M.C., Ceretti A., Un’altra storia inizia qui. Giustizia come ricomposizione, Bompiani, Milano, 2020; Grandi G., Fare giustizia. Un’indagine morale sul male, la pena e la riparazione, Padova University Press, 2020; Lattari P., La giustizia riparativa: Una giustizia “umanistica”. Una cultura dell’”incontro” per ogni conflitto, KeyEditore, Milano, 2021.

Per ulteriori approfondimenti, si rimanda alla pagina web del principale network europeo in materia di giustizia riparativa, con sede a Leuven (Belgio): European Forum for Restorative Justice, https://www.euforumrj.org/en.

[43] L’espressione è tratta Parisi F., Il diritto penale tra neutralità istituzionale e umanizzazione comunitaria, in Diritto penale contemporaneo, 16 novembre 2012, reperibile al link https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/upload/1353059000PARISI%202012a.pdf, p. 10.

 

[44] Eusebi L., La pena tra necessità di strategie preventive e nuovi modelli di risposta al reato, in Rivista italiana di Diritto e Procedura Penale, 2021, pp. 823-854, p. 829.

[45] Simile riflessione è proposta da Muzzica R., Longobardo C., I reati culturalmente orientati: una triplice prospettiva criminologica, in Rassegna Italiana di Criminologia, 2015, pp. 48-57, p. 55.

[46] Albrecht B., Multicultural Challenges for Restorative Justice: Mediators’ Experiences from Norway and Finland, in Journal of Scandinavian Studies in Criminology and Crime Prevention, 2010, pp. 3-24, p. 19.

[47] Ibidem.

[48] D.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (G.U. 17 ottobre 2022, n. 243) di attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134 recante Delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari (cd. riforma Cartabia).

Per completezza si segnala che l’art. 6 del d.l. 31 ottobre 2022, n. 162 (c.d. decreto rave, il primo del governo Meloni) ha inserito nel d.lgs. n. 150/2022 l’articolo 99 bis, differendo così al 30 dicembre 2022 l’entrata in vigore della riforma Cartabia. Il d.l. 162/2022 è stato convertito in l. 30 dicembre 2022, n. 199.

[49] Bortolato M., La riforma Cartabia: la disciplina organica della giustizia riparativa. Un primo sguardo al nuovo decreto legislativo, in Questione Giustizia, 2022, reperibile al link https://www.questionegiustizia.it/articolo/giustizia-riparativa-cartabia

[50] Bortolato M., La riforma Cartabia, cit., reperibile al link https://www.questionegiustizia.it/articolo/giustizia-riparativa-cartabia.

[51] In tal senso Mannozzi G., Le potenzialità della giustizia riparativa, in Patrizi P. (a cura di), La giustizia riparativa. Psicologia e diritto per il benessere di persone e comunità, Carocci, Roma, 2019, pp. 129-140, p. 135.

[52] Nielsen F., Cross-Cultural Mediation: Dialogue in Honour-Related Conflicts, in Overland G., Guribye E., Lie B. (eds.), Nordic Work with Traumatised Refugees: Do We Really Care, Cambridge Scholars Publishing, Newcastle, 2014, pp. 234-244.

[53]Albrecht B., Multicultural Challenges for Restorative Justice, cit., pp. 3-24 si sofferma sull’applicazione della cross-cultural mediation a reati commessi a danno di vittime appartenenti a un gruppo minoritario diverso rispetto a quello del reo. L’autore propone quattro casi studio in materia dove, seppure non trattandosi di reati culturalmente orientati, la differenza culurale ha una particolare rilevanza nella risoluzione del conflitto.

[54] Come ben evidenziato dalla letteratura citata in materia, è preferibile che il secondo mediatore non sia del medesimo gruppo culturale minoritario delle parti per evitare che si perda quella imparzialità richiesta al facilitatore.

[55] Mason S.J.A., Kassam S., Bridging Worlds: Culturally Balanced Co-Mediation, in Politorbis, 2011, pp. 69-74.

[56] Ibidem. L’autore ribadisce come nessuna forma di violenza nei confronti della vittima possa essere tollerata in virtù delle tradizioni culturali.

[57] Il soffocamento comunitario e il paradosso della vulnerabilità culturale vengono segnalati da Parisi F., Il diritto penale, cit., pp. 5-6 come possibili controindicazioni dell’applicazione del paradigma restorative ai reati culturalmente orientati. Con la prima espressione si fa riferimento al rischio che, con il coinvolgimento della comunità nel processo riparativo, sia limitato il diritto della vittima di allontanarsi dalle regole culturali del gruppo; con la seconda formula si indica, invece, «il pericolo che tutele accordate ai vulnerabili gruppi culturali minoritari finiscano per legittimare forme di aggressione ai danni dei soggetti a loro volta più vulnerabili all’interno del singolo gruppo».

[58] Eusebi L., «Gestire» il fatto di reato. Prospettive incerte di affrancamento dalla pena «ritorsione», in Paliero C.E., Viganò F., Basile F., Gatta G.L. (a cura di), La pena, ancora: fra attualità e tradizione, Giuffrè, Milano, 2018, pp. 223-250, p. 236.

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