Una Giustizia riparativa per i reati tributari?
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Francesco Bonetta
La riforma Cartabia introduce la valorizzazione di modelli di giustizia riparativa che dovranno integrarsi con il modello di giustizia retributiva oggi comunemente applicato. Ci si deve però domandare in che modo la giustizia riparativa sarà compatibile (se effettivamente lo sarà) con i reati contro la Pubblica Amministrazione, con i reati economici e, in particolar modo, con quelli tributari. In relazione a questi ultimi, il sistema ha fatto ampio utilizzo delle c.d. “condotte riparatorie” (ben differenti dalla giustizia riparativa) che determinano il venir meno della punibilità del reato in caso di pagamento delle somme contestate, comprese di sanzioni ed interessi.
Sommario: 1. Il contesto dei reati tributari ed il sistema delle condotte riparatorie. 2. Il rapporto tra logiche riparative, logiche riparatorie e modello 231. 3. I reati privi di una persona fisica come “vittima” e l’insufficiente definizione del comma 2 dell’art. 42 del d.lgs. 150/2022. 4. La comprensione dei reati tributari come fenomeno sociale e l’insufficienza algoritmica delle condotte riparatorie. 5. Punti di frizione tra principio della capacità contributiva e contaminazione del modello riparatorio con quello retributivo. 6. Percorsi riparativi e paradigmi di controllo connessi ai reati tributari.
1. Il contesto dei reati tributari ed il sistema delle condotte riparatorie.
La riforma Cartabia introduce la valorizzazione di modelli di giustizia riparativa che dovranno integrarsi con il modello di giustizia retributiva oggi comunemente applicato. Ci si deve però domandare in che modo la giustizia riparativa sarà compatibile (se effettivamente lo sarà) con i reati contro la Pubblica Amministrazione, con i reati economici e, in particolar modo, con quelli tributari. In relazione a questi ultimi, il sistema ha fatto ampio utilizzo delle c.d. “condotte riparatorie” (ben differenti dalla giustizia riparativa) che determinano il venir meno della punibilità del reato in caso di pagamento delle somme contestate, comprese di sanzioni ed interessi.
A ciò si aggiunge che tali reati non possiedono una persona fisica da identificare prima facie come vittima del reato stesso; sembra pertanto preclusa una via alla “riparazione” che passi attraverso un incontro tra la persona offesa e l’autore della condotta antigiuridica. Il non ricondurre costantemente la qualificazione di vittima del reato al consesso sociale che patisce un pregiudizio a causa dalla violazione tributaria rappresenta una evidente criticità del sistema.
Da una parte, ciò sottolinea una limitata empatia del legislatore nei confronti dei modelli di riparazione che si basino sulla comprensione, attraverso uno specifico percorso dedicato, del disvalore sociale connesso ai reati previsti dal d.lgs. 74/2000. Dall’altra, si consegna il diritto penale tributario al sistema, algoritmico e sostanzialmente impersonale, della riparazione postuma quale unica alternativa alla punizione. Il ristoro economico di quanto sottratto alla comunità, però, oltre a rappresentare un paradigma sostanzialmente inefficiente (sia dal punto di vista della riparazione del male arrecato sia dal punto di vista strettamente retributivo) resta riservato a coloro che sono effettivamente soggetti capienti, nonostante l’intero sistema tributario debba ispirarsi ad un generale canone di imparzialità e capacità contributiva. Per questa ragione, almeno nello specifico ambito dei reati tributari, si dovrebbe tendere ad una contaminazione del modello di giustizia riparativa con quello di giustizia retributiva.
Da questo punto di vista, la condotta successiva al reato, che può comportare la restituzione delle somme evase in tutto o in parte, dovrebbe costituire soltanto una parte del percorso rieducativo volto a ricucire lo strappo tra contribuente e comunità, integrandovi una necessaria dimensione psicologico-sociale. Così la giustizia riparativa dovrebbe rendersi uno strumento proteiforme, in grado, al contempo, tanto di integrarsi con gli elementi costitutivi del reato fiscale (dove le condotte riparatorie spesso vengono poste in essere sulla base di un mero arbitraggio tra l’intensità percepita del rischio ed il costo emergente della condotta riparatoria), quanto di proporre un percorso psicologico e valoriale che permetta la piena comprensione del disvalore arrecato. Tale comprensione deve condurre alla ragionevole aspettativa, quale elemento costitutivo della pace sociale ricostituita o “riparata”, che il comportamento vietato non venga ripetuto in futuro.
1. Il contesto dei reati tributari ed il sistema delle condotte riparatorie
La riforma Cartabia ha introdotto in Italia percorsi di giustizia riparativa che dovranno integrare[1] il modello normale di giustizia retributiva[2]. Ciò avverrà attraverso la creazione di un rapporto diretto tra la vittima del reato ed il suo presunto autore; lo scopo è il cosiddetto “esito riparativo” che viene descritto dalla legge come: “l’accordo (…) volto alla riparazione dell’offesa e idoneo a rappresentare l’avvenuto riconoscimento reciproco e la possibilità di ricostruire la relazione tra i partecipanti”[3].Tale impostazione concettuale tiene ben presente il significato della parola riparazione nell’elaborazione della dottrina penalistica[4] e nei movimenti storici che si sono occupati del tema della riconciliazione[5], affondando le radici in un modo di vedere la giustizia che valorizza il dato umano più che la “pena subita”. Non è un mistero che la stessa Ministra Cartabia si sia ispirata al Libro dell’incontro[6], testo di fondamentale importanza per chiarire la base assiologica della successiva riforma[7].
Un radicale cambio di regime, dunque, che rischia di rendere obsoleti gli schemi valutativi ai quali il diritto penale è stato abituato; sembra infatti si possa dire che ancor prima di rappresentare una riforma in termini di strumento normativo, la giustizia riparativa necessiti di essere pienamente compresa e meditata dal punto di vista valoriale. A tale problema generale, immanente a qualsiasi ragionamento che la riguardi[8], se ne aggiunge un secondo, di natura particolare, che si riferisce a specifiche partizioni del diritto penale, come il diritto penale tributario, che impone ulteriori ragionamenti sia in tema di applicabilità delle logiche riparative, sia in tema di compatibilità dei nuovi percorsi con gli strumenti che, in questo momento, fanno parte del sistema.
Un primo tema è, ad esempio, quello delle condotte riparatorie, ampiamente utilizzate per la gestione del sistema punitivo penal-tributario, e della loro necessaria integrazione con il percorso riparativo, ove questo sia effettivamente possibile.
Si pone così immediatamente il tema della differenza tra giustizia riparatoria e giustizia riparativa, intendendo la prima come quell’agire economico che, attraverso comportamenti successivi al fatto di reato tende a compensare il danno inferto alla vittima o alla comunità (ad es. il pagamento del debito tributario comprensivo di sanzioni ed interessi) e la seconda, in senso essenzialmente diverso, come quella giustizia che, al contrario, dovrebbe permettere un esito umano che giovi alle parti e che sostituisca o integri la pena. Come ha evidenziato la dottrina, si tratta di passare dal concetto di “pena subìta” a quello di “pena agìta”[9].
Nel settore della giustizia penale tributaria, però, la logica è sempre stata marcatamente riparatoria[10] ed il pensare a logiche riparative va al di fuori degli schemi cui gli operatori sono abituati, tanto che si può affermare: “Ponti d’oro al nemico che fugge ma che paga”[11]. La logica conseguenza è che il senso della repressione penale nel contesto dei tributi è rappresentato da una costante azione di forzatura sul contribuente ritenuto infedele che, per evitare conseguenze penali, viene portato a pagare quanto contestato senza particolari indagini sulla sua condizione psicologica, né sulle circostanze del reato[12]. Tale sistema di condotte riparatorie, però, non ha nulla a che spartire con la giustizia riparativa, anzi, ne segna il momento di maggior allontanamento possibile, favorito da un sistema che, da una parte, tende all’arbitraggio fiscale e dall’altra considera il reato tributario come un fenomeno essenzialmente aritmetico.
Così non importa a nessuno se il contribuente, alla fin fine, ha davvero evaso le somme contestate, ma si permette una sostanziale impunità a certe condizioni (si pensi a quanto previsto dall’art. 13 commi 1 e 2 del d.lgs. 74/2000 ed il recete “scudo penale”[13]); si tratta di ragionamenti lontanissimi da una logica dell’incontro e della comprensione reciproca, in vista di una necessitata pacificazione sociale.
Nella pratica ci si trova spesso di fronte ad un contribuente che, affrontando una situazione scomoda e nella prospettiva di dover sostenere un processo penale[14] con tutte le implicazioni ad esso connesse, si vede proporre un accordo economicamente gravoso e moralmente non condivisibile che si sostanzia in un pagamento di quanto astrattamente contestabile in anticipo rispetto ai controlli. Appare evidente a chiunque che, in tale caso, il contribuente onesto che però deve pagare, subisce un effetto criminogeno che, al netto dei luoghi comuni, lo porterà ad interrogarsi sulla giustizia del sistema.
Si pensi, ad esempio, all’operatore economico che si renda conto della sostanziale infedeltà della sua controparte contrattuale che ha fornito false generalità o dati aziendali infedeli ponendolo nella condizione di registrare in contabilità e riportare in dichiarazione una fattura soggettivamente falsa. Sarà certamente possibile denunciare il soggetto che ha prodotto la fattura, emettere una nota di credito e poi successivamente una nuova fattura (ed integrare la dichiarazione). Ciò, tuttavia, non necessariamente determinerà il venir meno del reato contestabile (ex art. 2 del d.l. 74/2000) che si è concretizzato (ormai) con la registrazione della fattura soggettivamente falsa e la successiva trasmissione della dichiarazione che la comprende.
Inoltre, non è detto che nei fenomeni di frode un minimo articolati si sia in grado di individuare chi è il soggetto cui la fattura dovrebbe essere correttamente emessa (si pensi alla ricezione di una partita di merce da un fornitore con cui non si hanno rapporti diretti, se non telematicamente), con il rischio di commettere nuovamente reato anche a seguito della dichiarazione (eventualmente) integrativa della precedente. Insomma, una situazione senza senso apparente, in cui ogni comportamento riparatorio rischia di peggiorare la situazione senza che vi sia modo di uscirne attraverso i mezzi del contribuente medio[15].
Come detto, quinsi, il contribuente si ritrova nella complessa situazione di dover decidere se affrontare il procedimento penale, al fine di provare la propria buona fede, ovvero se attuare una condotta riparatoria che lo scudi dal reato a fronte però di una totale acquiescenza dal punto di vista tributario In tale ultimo caso, il contribuente, ai sensi dell’art. 13 del d.lgs. 74/2000, dovrà riprendere come indeducibile il costo, mettere nuovamente a debito l’iva benché effettivamente pagata, versare (attraverso l’istituto del ravvedimento) quanto astrattamente contestabile oltre sanzioni ed interessi prima dell’inizio di una eventuale verifica[16].
Non si tratta forse della più intensa negazione dell’esito riparativo[17], per come lo vorrebbe intendere la Riforma Cartabia e dell’apoteosi della logica riparatoria a tutti i costi?
A questo punto, infatti, si prescinde totalmente dall’effettiva colpevolezza e sembrano interessare al legislatore solo i profili economici della vicenda essendo totalmente assente una valutazione dell’elemento psicologico[18].
Affermano molti consulenti (con ottime ragioni) che, stante l’incertezza del sistema (e la mancanza di regole di condotta certe da seguire in tema di contenimento del rischio fiscale), non può non consigliarsi di versare le imposte anche se non si è commesso alcun reato, uscendo dal penalmente rilevante. Tale soluzione può essere validamente sostenuta per diverse ragioni.
Come si dirà meglio, se il contribuente è strutturato, qualsiasi valutazione di convenienza si troverà in una intersezione logica con la ragionevolezza generale ed il rischio potenziale di una contestazione di reato (anche in tema di immagine sui mercati) quale parametro alla base delle scelte imprenditoriali. Queste logiche riguardano non tanto l’aver integrato o meno la condotta vietata ma la possibilità che questa sia contestata validamente dalla procura[19]. Così, al fine di evitare possibili problematiche basate su elementi legati al mero fumus del reato e visto il rischio di incorrere in misure afflittive tanto per l’impresa quanto per i suoi amministratori, non si esclude che si potrebbe essere portati a ravvedere anche comportamenti che non hanno nulla di delittuoso ma che derivano da contingenze di difficile dimostrazione in giudizio.
Questo è l’ambiente in cui si muove il contribuente medio in tema di reati tributari e questo è il contesto in cui dovrebbe provare ad innestarsi la giustizia cd. “ripartiva”.
2. Il rapporto tra logiche riparative, logiche riparatorie e modello 231
Ora, per addivenire a logiche compiutamente riparative è necessario valutare con particolare attenzione l’elemento psicologico[20] che pure dovrebbe essere indubitabilmente protagonista dei reati tributari[21]. Se le motivazioni che hanno portato al reato sono correttamente comprese, sarà più facile interpretare la pena come un percorso che deve in ogni caso tendere ad una rieducazione (anche tributaria) piuttosto che una mera applicazione di un potere coercitivo.
Atteso però che tale specifico supplemento d’indagine in tema di elemento psicologico spesso risulta assente e che nessuno si preoccupa dei fini che si pongono alla base del reato tributario[22], accade di osservare purtroppo automatismi presuntivi a danno delle aziende che possono portare a scelte irrazionali da parte di chi fa impresa, duplicando la ripresa tributaria.
Ne discende inoltre l’impossibilità di sfruttare correttamente l’arbitraggio che la norma penale sembra proporre e che trova il suo equilibrio nell’art. 13, commi 1 e 2 (e nel nuovo “scudo penale”[23]).
Ciò accade anche a causa di quanto introdotto nel nuovo modello ai sensi del d.lgs. 231/01 e che ricomprende, quali reati presupposto ai fini della responsabilità amministrativa da reato, anche gli illeciti penal-tributari[24], influenzando la politica decisionale ai fini dell’adesione alle condotte riparatorie[25].
Si tratta però di valutazioni che con le logiche riparative non hanno alcun dialogo e che sono poste in essere tanto per evitare un danno reputazionale quanto per scongiurare una eventuale responsabilità penale che può avere luogo, a questo punto, indipendentemente dall’elemento soggettivo e che può condurre a procedimenti cautelari in grado di paralizzare l’attività aziendale. Con il rischio (drammatico dal punto di vista riparativo) di essere portati a ravvedere anche comportamenti che non hanno nulla di delittuoso ma che sono semplicemente figli di una contingenza di difficile dimostrazione in giudizio.
Si pensi, per fare un altro esempio, ad alcuni casi di falsa fatturazione qualitativa, in cui la contestazione riguarda l’insita qualità o la corretta qualificazione di un bene o, in certi casi, la sua corretta valorizzazione. Un imprenditore accorto che si renda conto di un problema di dubbia rilevanza penale in relazione ad un suo fornitore, ad esempio, potrebbe preferire sterilizzarlo (atteso che una ipotesi di falsa fatturazione incide tanto sull’emittente quanto sul soggetto che la utilizza inserendola in dichiarazione) attraverso l’istituto del ravvedimento. Ma ciò elegge la condotta riparatoria quale soluzione more geometrico demonstrata da adottare al fine di una correzione piena delle condotte costituenti reato.
Il ragionamento si pone al pari della restituzione del bene successivamente al concretizzarsi di un reato che, come il furto, implichi lo spossessamento, limitando la punibilità in relazione al risarcimento economico dell’eventuale danno generato dal reato stesso. Chi si è appropriato del bene, secondo questa logica, avrà sempre la possibilità di pagare un importo (più o meno) pari a quanto sottratto e potrà continuare tranquillamente per la propria strada. Si tratta di un modo di pensare totalmente opposto alla logica riparativa che invece prevede di concentrarsi ed aver cura di chi è stato spossessato (ed ha subito il reato) e sulla corretta comprensione di quanto ha avuto luogo. Ma è evidente che se l’autore della condotta, ignorando il rapporto con la vittima, può pagare e proseguire senza che null’altro sia previsto, siamo lontanissimi dall’idea di un possibile esito riparativo.
Né il discorso è indebolito dalla presenza del nuovo 162ter cp o dall’estensione dei reati perseguibili a querela ai sensi della stessa riforma Cartabia. Infatti, nel caso di quest’ultima la riforma si pone come scopo quello di lasciare alla vittima la possibilità di decidere se lo Stato debba perseguire, o meno, l’autore del reato. Nel caso del citato 162ter, benché le logiche siano diametralmente opposte a quelle di giustizia riparativa[26] sembra si tenti, anche in relazione a fattispecie espressive di un conflitto dalla dimensione essenzialmente ‘privata’, una possibile risocializzazione “dal momento che il serio sforzo del reo verso la riparazione può giungere a dimostrare lʼassenza di un bisogno di rieducazione”[27]. In eguale contesto sembra inserirsi la previsione normativa che consente al giudice di valutare la congruità dell’offerta riparatoria al reo (e non accettata dalla persona offesa) al fine di ritenere ugualmente estinto il reato.
Si tratta di logiche ovviamente avulse dal contesto dei reati tributari e ad essi non applicabili.
3. I reati privi di una persona fisica come “vittima” e l’insufficiente definizione del comma 2 dell’art. 42 del d.lgs. 150/2022
A seguito di quanto fin qui premesso, sono necessarie alcune considerazioni in tema da giustizia riparativa.
Il primo tema che ci si deve porre è quello della concreta configurabilità del concetto di “vittima” nei reati tributari, secondo le categorie, appunto, della giustizia riparativa[28]. Come noto la lettera b) dell’art. 42 del d.lgs. 150/2022 definisce la vittima del reato come “la persona fisica che ha subìto direttamente dal reato qualunque danno patrimoniale o non patrimoniale, nonché il familiare della persona fisica la cui morte è stata causata dal reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona”. Vi è dunque, a voler dare loro una interpretazione letterale alle parole utilizzate dalla norma, una esclusione della configurabilità della giustizia riparativa in tutti quei casi in cui la vittima del reato sia la comunità piuttosto che il singolo ovvero, più genericamente, in tutti quei casi in cui la vittima non sia personificata. Nel caso di specie, nei reati tributari, non si parla di una comunità raggruppabile in associazioni o enti, che pure rientrerebbero tra i soggetti titolari di uno specifico ruolo nel procedimento che porta alla riparazione, ma della comunità indistinta, che richiama il patto di convivenza cui soggiacciono i tributi. Se infatti si richiama il concetto di imposta, come la dottrina lo ha elaborato, essa viene riferita in modo indivisibile alla comunità (a differenza della tassa che richiama un rapporto quasi sinallagmatico) e pertanto il bene giuridico leso nei reati tributari (con ciò intendendo le fattispecie inserite del d.lgs. 74/2000 ad esempio nell’art. 2 che fa riferimento all’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto) non potrà che riferirsi all’intera comunità statuale.
Il secondo tema è strettamente procedurale atteso che, seppure una possibile vittima si volesse identificare con la comunità allargata dei cittadini, giungere all’esito riparativo sarebbe di fatto impossibile. Si dovrebbe immaginare, infatti, un incontro tra un rappresentante dello Stato (identificabile in chi? Agenzia delle entrate? Guardia di finanza? Ministero delle finanze?) facilitato da un mediatore ed in relazione ad una conclusione (un “esito riparativo”) che non mette la vittima al centro del problema, ma il reo. Se infatti, nei normali procedimenti di mediazione la reciproca comprensione dovrebbe condurre all’esito riparativo, non può esservi comprensione se i soggetti della mediazione sono un essere umano e un ente (ovvero il rappresentante di un ente astratto).
Ad una prima lettura, quindi, il modello di giustizia riparativa appare insufficiente ad abbracciare quei reati (e sono numericamente moltissimi) che non si interfacciano con una vittima personificata. Si tratta di un problema noto, tanto che autorevole dottrina ha affermato: “La giustizia riparativa (…) non costituisce una vera alternativa al ripensamento della pena classica, ma un suo correttivo in ambiti che trovo ancora circoscritti, perché la giustizia riparativa in senso stretto, modellata sulla mediazione penale, relativa alla ricostituzione personale del rapporto autore-vittima, non è certo sempre applicabile, in quanto la vastità dei reati senza vittima, e dei reati di pericolo astratto, rende impossibile un tipo di soluzione come questa in via costante o principale”[29].
Sembra ci si trovi di fronte ad un caso in cui la vittima del reato (non personificata) ed il soggetto passivo del reato (identificato nello Stato, inteso come quel soggetto che subisce la lesione del bene giuridico tutelato[30]) restano distinti e sembra parimenti impossibile costruire un vero e proprio dialogo tra tutti gli attori in gioco.
La conseguenza di quanto detto è che la giustizia riparativa, come intesa dalla riforma Cartabia, sembrerebbe inapplicabile in tutti quei reati in cui la vittima non può essere individuata e convocata al fine di dare avvio al procedimento di riparazione. Paradossalmente, se il fine fosse quello di evitare l’applicazione di una pena la cui utilità è fortemente discutibile (oltre che talvolta sproporzionata) resterebbero soltanto le condotte riparatorie, affidando così la gestione dei reati tributari alla matematica delle imposte piuttosto che alla psicologia della sanzione.
A parere di chi scrive una tale limitazione non era lo scopo di chi ha redatto la norma atteso che il comma 1 dell’art. 44 recita invece che: “I programmi di giustizia riparativa disciplinati dal presente decreto sono accessibili senza preclusioni in relazione alla fattispecie di reato o alla sua gravità”; vi è dunque un evidente anelito verso un’applicazione ampia dei programmi riparativi e ciò rientra certamente nello scopo più profondo della riparazione del reato.
Resta però il fatto che costruire il programma riparativo sembra impossibile in mancanza dei soggetti minimi che lo devono comporre (intendendo tali soggetti minimi con vittima, autore del reato e mediatore). Ove non ci si attivi per trovare una soluzione, si andrebbero a porre al di fuori della riforma (intendendo così al di fuori dei programmi) tutta una serie di reati che hanno non soltanto un grande disvalore sociale (si pensi ai minimi edittali dell’art. 2 del d.lgs. 74/2000) ma che dovrebbero essere al centro di programmi tesi a far comprendere il danno alla collettività arrecato da essi, questione che spesso resta opaca a causa di categorie sociologiche di riferimento inadeguate.
Sembra però che si continui ad intendere il diritto penale come diritto dell’atto violento, in cui la vittima è, per tale ragione, esclusivamente fisica, individuata e centro di imputazione emotiva.
Si tratta di una posizione con i piedi ben saldi in un passato in cui attenzione alla vittima voleva dire attenzione al soggetto concretamente danneggiato da un fatto naturalisticamente e carnalmente apprezzabile. Intendendo così la vittima si cede infatti spazio in favore di tutta una serie di condotte che, per quanto configurino un danno alla collettività piuttosto che al singolo soggetto, hanno un maggior bisogno di comprensione e di rieducazione di molte altre e che quindi hanno maggiormente bisogno di riparazione.
Detto in altre parole, è immediatamente intuitivo il danno legato alle lesioni o all’omicidio poiché spesso il danno stesso è l’evento desiderato dall’autore del reato; molto più complesso è far capire in che modo il danno alla collettività si manifesta nel caso dei reati tributari che, spesso, non sono nemmeno facilmente definibili.
4. La comprensione dei reati tributari come fenomeno sociale e l’insufficienza algoritmica delle condotte riparatorie
Alla insufficienza di quanto previsto nel decreto Cartabia, si aggiunge una mancata comprensione delle fattispecie di reato qualificabili come tributarie che hanno il loro luogo d’elezione all’interno del d.lgs. 74/2000. In primo luogo, perché tali reati hanno sempre un’offensività indiretta e successiva alla condotta sanzionata, in secondo luogo, poiché talvolta puniscono in maniera indiretta comportamenti non direttamente legati ad un danno economico all’Erario. In ultimo, non può essere ignorato che socialmente i reati tributari vengono continuamente depotenziati attraverso ragionamenti giustificatori legati a categorie concettuali esogene rispetto al contesto impositivo.
Questi tre profili giustificherebbero un percorso riparativo che ponga al centro il soggetto autore della condotta in una duplice veste, come trasgressore e come membro della comunità lesa dal comportamento antigiuridico. In relazione ad essi si rileva un problema di:
- Percezione dell’offesa. Partendo dal primo profilo che ha ad oggetto l’offensività percepita, appare evidente che il non versare l’IVA, ad esempio, in un contesto di frode carosello non determini un danno per la collettività immediatamente visibile. Nemmeno le condotte accessorie a data fattispecie fraudolenta, il vendere i prodotti con un congruo abbattimento nel prezzo attuando comportamenti affini al dumping, sono di pronta ed immediata evidenza.
Per tale ragione il trasgressore, da una parte non comprende cosa sta facendo in maniera visiva e sensoriale (a differenza di quanto avviene nei reati violenti, in cui le conseguenze dell’atto impongono una immediata considerazione della condotta), dall’altra necessita di forme specifiche per la rieducazione, forme che possa comprendere in pieno. In questo senso, il percorso riparativo, anche attraverso la figura di un mediatore, non può ritenersi inutile, essendo di supporto alla comprensione della condotta ed al riconoscimento del trasgressore stesso come vittima indiretta delle proprie azioni.
- Comprensibilità tecnica della condotta. In relazione al secondo profilo, poi, un programma riparativo diviene necessario poiché taluni reati sono poco comprensibili ai non tecnici e, allo stesso modo, andrebbero spiegati e quindi resi compiutamente trasparenti anche ai trasgressori durante il percorso rieducativo. Ad esempio, particolarmente difficile sarà far comprendere (ri-educare) un soggetto che si macchia di un reato tributario come quello dell’art 11 del d.lgs. 74/2000 (reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte) la cui condotta si inquadra in una prospettiva strettamente tecnica ed ancillare rispetto al pagamento del debito tributario. Analizzando tale reato, si apprende infatti che il danno non è il mancato pagamento ma l’aver sottratto all’Amministrazione la teorica garanzia del credito tributario. Così: “(…) attraverso l'incriminazione della condotta prevista dall'art. 11 del d.lgs. n. 74 del 2000 il legislatore ha inteso evitare che il contribuente si sottragga al suo dovere di concorrere alle spese pubbliche creando una situazione di apparenza tale da consentirgli di rimanere nel possesso dei propri beni fraudolentemente sottratti alle ragioni dell'Erario”[31]. Si badi che, come chiarito anche dalla stessa Cassazione, nel caso di specie l’oggetto giuridico del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte non è il diritto di credito del fisco, bensì la garanzia generica data dai beni dell'obbligato, potendo quindi il reato configurarsi anche qualora, dopo il compimento degli atti fraudolenti, avvenga comunque il pagamento dell'imposta e dei relativi accessori[32].
- Profili giustificatori. Infine, bisogna soffermarsi sulle giustificazioni di natura sociologica che il contribuente riesce volta per volta ad utilizzare e che nascono da una errata comprensione del modo in cui funzionano i tributi. Queste possono riguardare tanto esperienze personali del contribuente medio (che si lagna, ad esempio, di non avere a disposizione servizi che giustificano il pagamento dei tributi), sia questioni di più ampio respiro (che si ispirano alla presunta corruzione della classa politica e giudiziaria), sia la propria condizione personale (e che rientrano nella valutazione connessa al cd. minimo vitale o all’evasione di sopravvivenza). In ogni caso, si tratta di variabili che alterano sensibilmente il gettito poiché non riguardano solo il contribuente evasore ma anche quello che, inconsapevolmente o incurantemente, pone in essere una evasione minuta che, a certe condizioni, può però essere penalmente rilevante.
Inoltre, il meccanismo attraverso cui è articolata l’organizzazione delle sanzioni non sembra utile ad asciugare questo “dialogo tra sordi”.
Il sistema è stato infatti a monte strutturato con il fine di incentivare non soltanto l’adempimento spontaneo ma anche la generazione di sacche di convenienza (basate sull’arbitraggio e la dosimetria delle sanzioni) che dovrebbero guidare il contribuente su binari prestabiliti e finalizzati alla massimizzazione del gettito. Secondo questi ultimi, alla maggiore devianza rispetto il modello legale corrisponde una maggiore sanzione proporzionale di natura pecuniaria, che, a certe condizioni, può essere ravveduta secondo i termini che la legge volta per volta prevede. Si tenta, in altre parole, di favorire la resipiscenza in tempi duttili e graduati senza che vi sia una vera e propria riflessione sulle motivazioni che hanno condotto il trasgressore alla violazione, questione, quest’ultima, che diviene totalmente irrilevante. Tale gradazione della potestà sanzionatoria, basata su un attento equilibrio tra azione punitiva e possibilità di ravvedersi, viene ritenuta efficace poiché si pensa che il cittadino sappia identificare il suo potenziale risparmio in modo relativamente semplice e chiaro e che il suo scopo sia minimizzare l’impatto economico della condotta di reato. Ciò, d’altra parte, conviene apparentemente a tutti.
Si tratta però di un approccio tipicamente quantitativo, inapplicabile nel contesto penale, che tenta di massimizzare il gettito minimizzando lo spazio decisionale della sanzione. Il fatto che le sanzioni tributarie, anche penali, vengano interpretate in modo automatizzato (ad esempio permettendo un arbitraggio della sanzione penale) implica una presunzione di calcolabilità dell’impatto della sanzione stessa che se è possibile per le sanzioni pecuniarie è impossibile per la sanzione penale atteso la differenza di ciascuno dinanzi alla pena.
5. Punti di frizione tra principio della capacità contributiva e contaminazione del modello riparatorio con quello retributivo
Premesso quanto detto, una corretta comprensione del percorso riparativo in tema di reati tributari dovrebbe acquisire una sua articolazione propria, stante le specificità del tema e muoversi in categorie, in questo momento, non valorizzate dal sistema.
Sembra inevitabile tenerne conto.
Infatti, il principio di ragionevolezza e l’art. 27 della Costituzione impongono che la rieducazione, anche attraverso un percorso riparativo, venga garantita a tutti, sia nei casi in cui la complessità della fattispecie imponga un maggior sforzo per comprendere il portato delle condotte poste in essere, sia nei casi in cui il trasgressore si ponga quale vittima indiretta delle proprie azioni.
In secondo luogo, appare apertamente ingiusto “affidare” i reati tributari ai comportamenti riparatori invece che ai percorsi riparativi. Ove ciò avvenisse, da una parte, lo Stato abdicherebbe ad un suo ruolo specifico, che è quello di dialogare con il cittadino (anche quando commette reati) riconoscendo che tale dialogo è molto più importante, nell’ottica penale, di una sistemazione economica della vicenda oggetto di reato. Dall’altra, sarebbe apertamente discriminatorio, ed in contrasto con il principio di capacità contributiva, imporre un accesso alla riparazione basato sulla capacità economica del trasgressore. Se, come per molti versi oggi accade, la sistemazione economica finisse sempre per estinguere il disvalore penale, si giungerebbe all’assurdo per cui colui che ricco sarebbe libero di delinquere, potendo aspettarsi solo conseguenze che è in grado di compensare, mentre chi non è abbiente dovrebbe subire la privazione della libertà, sanzione massima nel panorama penale, a fronte di reati che spesso non ha nemmeno gli strumenti di comprendere tecnicamente.
Ne deriva quindi la necessità di immaginare un percorso riparativo anche per i reati tributari.
Quanto detto implica l’interpretazione estensiva del concetto di vittima del reato che va individuato, nel caso specifico, come lo Stato e, in via gradata, come lo stesso trasgressore, inteso come parte della comunità di cittadini cui i fondi sono sottratti.
Deve quindi intendersi un modo nuovo di immaginare la riparazione del rapporto tra le parti: se intendessimo ciò come esclusiva compensazione economica torneremmo di nuovo nell’alveo delle condotte riparatorie escludendo qualsiasi portato psicologico. È ovvio invece che il paradigma debba essere differente.
Così, l’unico modo di ricostituire correttamente il rapporto tra Stato e cittadino, è quello di creare un ragionevole affidamento che la condotta di reato non sarà ripetuta in futuro e che quindi, poste le condotte riparatorie che possono e devono avere un ruolo nel sistema, si genererà un nuovo legame tra contribuente e comunità, sulla base di differenti presupposti.
6. Percorsi riparativi e paradigmi di controllo connessi ai reati tributari
L’Unico modo di attuare quanto ipotizzato è quello di generare un percorso ripartivo-tributario in cui dal lato della vittima (lo Stato o l’Amministrazione) vi sia un’apertura in termini di fiducia verso il trasgressore e da parte dell’autore della condotta vietata vi sia l’impegno ad aderire, nella pratica, a comportamenti e principi che permettano alla vittima stessa (lo Stato) di riconoscere un cambio di prospettiva.
Quindi un vero e proprio percorso in cui il soggetto cui la condotta è attribuita viene, anche grazie ad un’opera di mediazione che deve sorvegliare la procedura, portato a dimostrare praticamente la fedeltà fiscale sia attraverso strumenti conoscitivi ed esperienziali (che mostrino la reale portata del danno causato alla comunità dal reato) sia attraverso condotte libere ancorché poste sotto controllo, che assicurino allo Stato che la condotta vietata non si ripeterà in futuro.
Si tratta di una soluzione non in contrasto con la direzione che il fisco sembra prendere, a seguito dell’ultima delega fiscale. Infatti, uno dei principi che appare valorizzare il legislatore riguarda la predeterminazione degli imponibili futuri, anche attraverso un contraddittorio anticipato tra contribuente ed Erario. In un modo che sembra ricordare il vecchio “concordato”, il fisco si pone in una funzione di controllo statico nei confronti di quei soggetti che, sulla base di parametri che sono stati precedentemente decisi, vorrà anticipare la determinazione del reddito d’impresa.
Ebbene, in modo non dissimile un percorso riparativo può riguardare la fedeltà fiscale futura, decisa con anticipo con l’Ufficio; una sorta di impegno ad adempiere fedelmente alle imposte per un numero predeterminato di anni ed in relazione alla quale il venir meno del patto fiscale determinerà conseguenze anche dal punto di vista della gestione classica della pena intesa come privazione della libertà.
Una sorta di “messa alla prova tributaria” che non passa attraverso lavori socialmente utili e nemmeno attraverso l’apprensione coatta delle risorse del contribuente attraverso sanzioni spesso insopportabili, ma attraverso un vero e proprio rapporto biunivoco dove la vittima (lo Stato) al netto delle riparazioni economiche che pure sono opportune, deve assicurarsi che il contribuente si comporti in modo fiscalmente virtuoso.
Una logica esattamente opposta a quella prevista dal recente “scudo fiscale” o dalla lettura dell’art. 13 del d.lgs. 74/2000.
Tutti questi bei ragionamenti, però, passano attraverso l’identificazione della vittima primaria nei cui confronti andrà avviato il processo riparativo e cioè la collettività. Solo in questo modo si potrà allontanare il pensiero da quella definizione che interpreta il fisco quale mala bestia “(…) onde qualunque artificio, qualsiasi menzogna o finzione da parte del contribuente per evadere un contributo è considerato, anche dalle persone più oneste, come un mezzo correttissimo di legale e legittima difesa”[33].
Il cambiamento è quindi di natura concettuale prima che tecnica.
Ancor prima di poter lavorare sull’esito riparativo si deve infatti lavorare sul concetto di vittima e sulla necessità di comprendere la psicologia dei tributi e dell’evasione fiscale. Quando genericamente si afferma che la vittima dei reati tributari è la comunità o lo Stato, infatti, si vuole affermare un collegamento diretto tra l’omesso versamento dei tributi e la carenza strutturale di efficienza della macchina pubblica. L’evasione fiscale, che in Italia ha raggiunto numeri assolutamente preoccupanti[34], infatti, non compresa perché non studiata a sufficienza a livello assiologico, non riesce ad essere letta dal trasgressore come ciò che è: una sottrazione fraudolenta di risorse che, correttamente destinate, potrebbero migliorare la qualità della vita anche dell’autore della condotta vietata. Da questo primo atto di corretto inquadramento del fenomeno, deve articolarsi la possible riparazione.
[1] F. PALAZZO, Giustizia riparativa e giustizia punitiva, in G. Mannozzi – G.A. Lodigiani (a cura di), Giustizia riparativa, Bologna, 2015, 67 ss.; ID., Sanzione e riparazione all’interno dell’ordinamento giuridico italiano: de lege lata e de lege ferenda, in Pol. dir. 2017, 349 ss.
[2] Scrive Donini che: “La concezione millenaria, per essere subito espliciti, è la retribuzione, intesa non come proporzione nella risposta all’illecito, ma come reazione simmetrica a un fatto del passato con finalità intrinseca di castigo, la quale si spiega da sé in modo automatico, e solo in un momento successivo di riflessione si corregge in modo proporzionalistico aderendo a una visione che appaia razionale”. M. DONINI, Pena agìta e pena subìta. Il modello del delitto riparato, in Studi in onore di Lucio Monaco, Urbino, 2020, pag. 389.
[3] Art. 42 d.lgs. 150/2022 comma 1 lettera e). Citando le parole dello stesso Ministro Cartabia, non si tratta di giungere alla totale riconciliazione umana tra vittima e autore del reato che “ (…) non finiscono amici (…) si allontanano ognuno per la sua strada (…) quindi non è che stiamo parlando di un mondo di, come dire, di favole con l’happy ending (…)” ma a quello specifico momento in cui, alla fine del percorso “(…) escono entrambi liberati” Le parole sono riprese dall’intervento del Ministro Marta Cartabia del 14 marzo 2022 all’Università Cattolica dal titolo: “La giustizia riparativa può diventare un nuovo pilastro della giustizia, complementare a quella penale”, trascrizione disponibile su youtube minuti da 30:35 a 30:56.
[4] Sul punto mi limito a K. DALY, The Punishment Debate in Restorative Justice, in J. Simon e R. Sparks (a cura di), Punishment and Society (The Sage Handbook of), Sage, Los Angeles/Londra, 2013, pp. 356 ss e H. ZEHR, The Little Book of Restorative Justice, Intercourse (PA), Good Books 2002
[5] In tema mi limito a D. TUTU, No future without forgiveness, New York, 1999 che compendia gli sforzi della Truth and Reconciliation Commission.
[6] AA. VV. Il libro dell'incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto, Milano, 2015.
[7] Sul punto anche V. M. CARTABIA – A. CERETTI, Un’altra storia inizia qui. La giustizia come ricomposizione, Milano, 2020
[8] G. SPANGHER, La riforma Cartabia: un nuovo processo per nuovi protagonisti, in Il Processo, fasc.3, 1 dicembre 2022, pag. 941: “Resta aperta la questione della presenza e quindi della scommessa della giustizia riparativa, di cui si dovranno definire, scandendo meglio i rapporti con il procedimento di cognizione tra una giustizia alternativa, sostitutiva o parallela, evitando inutili ideologiche “fughe in avanti””.
[9] M. DONINI, Pena agìta e pena subìta. Il modello del delitto riparato, cit. passim
[10] Cfr. d.l. 34/2023, art. 23, in corso di conversione.
[11] L TAVASSI, Riti alternativi “ad effetti speciali” nella giustizia penale tributaria, in Archivio Penale, Fascicolo n. 3 – Settembre-Dicembre 2021 (Web), pagg. 5-6: “L’inasprimento delle pene e l’implementazione degli strumenti repressivi che già nel corso dell’accertamento pongono vincoli di indisponibilità sul patrimonio descrivono un sistema dal duplice volto: da un lato disponibile a stendere ponti d’oro per quel contribuente infedele che, pur di sfuggire alle conseguenze penali, estingua il debito tributario comprensivo di sanzioni amministrative e interessi; dall’altro, rigorosamente punitivo e “recuperatorio” nel caso di mancata leale collaborazione. Insomma, si descrive un sistema penale e processuale che si potrebbe definire per l’imputato a cooperazione necessaria in cui si fa nuovamente largo l’antico brocardo secondo cui hosti non solum dandam esse viam ad fugiendum, sed etiam muniendam”
[12] Al contrario nella logica riparativa: “Il confronto avviene in un ambito valoriale prestabilito ovvero risulta chiaro ed evidente chi è autore e chi vittima, chi ha offeso e chi ha subito l’offesa, “chi ha ragione e chi ha torto”, altrimenti si perderebbe il carattere assiologico dell’intero sistema”. R. BARTOLI, Una breve introduzione alla giustizia riparativa nell’ambito della giustizia punitiva, disponibile su https://www.sistemapenale.it/it/articolo/bartoli-introduzione-giustizia-riparativa-giustizia-punitiva . Contributo destinato alla pubblicazione sulla rivista Giustizia consensuale.
[13] Faccio riferimento a quanto disposto all’art. 23 del decreto legge 34/2013, alla chiusura di questo articolo ancora non convertito, che recita al comma 1: “I reati di cui agli articoli 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, non sono punibili quando le relative violazioni sono correttamente definite e le somme dovute sono versate integralmente dal contribuente secondo le modalità e nei termini previsti dall'articolo 1, commi da 153 a 158 e da 166 a 252, della legge 29 dicembre 2022, n. 197, purché le relative procedure siano definite prima della pronuncia della sentenza di appello”.
[14] in cui ad esempio si può presumere il reato di un terzo lo coinvolga, come della relazione art. 2 art. 8 del d.l. 74/2000
[15] Una situazione apparentemente degna della frase: “Qualcuno doveva aver denunciato Josef K. perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato”. F. KAFKA, Il processo, Torino, 1983, trad. di Primo Levi.
[16] Infatti atteso che: “I reati di cui agli articoli 2, 3, 4 e 5 [del d.l. 74/2000]” non sono punibili se i debiti tributari, comprese sanzioni e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, a seguito del ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d'imposta successivo, sempreché il ravvedimento o la presentazione siano intervenuti prima che l'autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell'inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali” . In altre parole, pagando si esce dal problema. Cfr. inoltre, art. 23, d.l. 34/2023.
[17] Che tra condotte riparatorie e giustizia riparativa vi è un contrasto, oserei dire, ontologicamente insanabile è questione ormai nota. Cfr. G.P. DEMURO, L’estinzione del reato mediante riparazione: tra aporie concettuali e applicative, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, 466
[18] Peraltro, in fase cautelare si darà ampio spazio a presunzioni di natura tributaria che poco o nulla hanno a che vedere con le categorie penalistiche. Si tratta di ragionamenti presuntivi spesso grossolani che, secondo la Cassazione, possono sostenere il procedimento cautelare, con un effetto potenzialmente deflagrante sulla reputazione e la governance di una azienda strutturata. È stato affermato che “in tema di reati tributari è legittimo, nel procedimento cautelare reale, nel quale è sufficiente l’oggettiva sussistenza del “fumus” del reato e si può prescindere da qualsiasi profilo che riguardi la colpevolezza del suo autore, il ricorso alle presunzioni tributarie” (Cass. pen., Sez. III, 21 agosto 2019, n. 36302).
[19] Ad esempio, in tema di pubblici appalti ai sensi del nuovo decreto legislativo 31 marzo 2023, n. 36, in part. art. 10, 94 e 95.
[20] Sulla opportunità di una maggiore valorizzazione dell’elemento psicologico del reato penal tributario: F. CONSULICH, Il diritto di Cesare lo stato del diritto penale tributario al volgere del decennio, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc. 3/2020, 1352 e ss.
[21] Nel peculiare contesto di riferimento, nei reati tributari di tipo dichiarativo (artt. 2-3-4-5 d.lgs. 74/2000) è previsto il dolo specifico e non è ammesso il tentativo (art. 6 d.lgs. 74/2000).
[22] Esempi emblematici sono presenti nella giurisprudenza recente della Corte di Cassazione. Così si deve rilevare come non versare l'Iva per pagare gli stipendi è reato. Nello specifico l’imprenditore che decida di destinare le somme rinvenienti dal mancato versamento all'erario del tributo ai dipendenti, e dare in questo modo continuità all’azienda integra, comunque, la violazione dell'art. 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000. In tal senso, la sentenza della Corte di cassazione n. 30628, sezione penale, depositata il 5 agosto 2022. La Corte di cassazione richiama la decisione delle SS.UU. n. 37424 del 28/03/2013 ove stabilisce che l'art. 10-ter, d.lgs. n. 74 del 2000, richiede il dolo generico “per la cui integrazione è, perciò, sufficiente la consapevolezza, in capo all'agente, di non voler versare all'Erario le ritenute effettuate”. Diversamente aveva però disposto Cassazione penale, sez. III, Sentenza 12/02/2018 n° 6737 in relazione al reato di cui al 10bis del d.lgs. 74/2000. Così: “[la Corte territoriale] avrebbe, invece, dovuto accertare in modo completo la fattispecie criminosa, ovvero anche in relazione all'elemento soggettivo, non potendo a priori escludere che la convinzione che i dipendenti necessitassero l'immediata corresponsione (non di somme di denaro di per sè, bensì) di "mezzi di sostentamento necessari" per loro e per le loro famiglie, se realmente fosse stata propria della imputata e se realmente l'avesse indotta a pagarli a costo di omettere il versamento delle ritenute, fosse stata nel caso concreto compatibile con il dolo del reato in questione, ovvero con una contestuale consapevolezza di illiceità”.
[23] Cfr. art. 23 d.l. 30 marzo n. 23 (cd. “decreto bollette”) in attesa di conversione.
[24] Con il d.l. n. 124/2019, la responsabilità amministrativa da reato degli enti oggi comprende, quale reato-presupposto, anche quello di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74/2000.
[25] Per tale ragione, detto imprenditore potrebbe trovarsi costretto a porre in essere un sistema di controllo ulteriore rispetto a quelli normalmente predisposti per prevenire i reati presupposto ex 231/2001 che tenendo conto anche delle variabili strettamente tributarie con il fine di evitare possibili contestazioni basate su elementi legati al mero fumus del reato. Sul punto Cass. pen. Sez. III, 27 gennaio 2022, n. 16302 con nota di C. SANTORIELLO, Arriva la prima condanna ex lege 231 di una società per un illecito fiscale – Commento, in il fisco, n. 21, 23 maggio 2022, p. 2084.
[26] Come rilevato in dottrina su tale aspetto dell’art. 35, D.Lgs. n. 274 del 2000, cfr. MANNOZZI, La giustizia senza spada: uno studio comparato su giustizia riparativa e mediazione penale, Milano, 2003, 317 ss.
[27] R. MUZZICA, Sullʼart. 162-ter c.p.: una norma dannosa per la Giustizia riparativa, inutile a fini deflattivi, in Archivio Penale in Fascicolo n. 1 – Gennaio-Aprile 2018 (web), pag. 6: “Una pena irrogata nei confronti di un soggetto che, dopo aver commesso un illecito penale espressivo un conflitto dalla dimensione privatistica, lo abbia prontamente riparato, neutralizzando il danno arrecato alla vittima, non appare finalizzata alla rieducazione ma bensì irragionevole e sproporzionata, poiché imposta ad un soggetto di fatto socialmente integrato. Pertanto la pena sarà percepita come ingiusta tanto dal singolo destinatario, quanto dai consociati, generando così – unitamente ad effetti desocializzanti per il reo – una disgregazione dei consensi intorno ai valori dellʼordinamento tutelati dalle norme penali. Sebbene la funzionalità specialpreventiva positiva dellʼart. 162 ter c.p. sia in astratto condivisibile, tuttavia, da ciò non deriva necessariamente lʼattribuzione della qualifica di “istituto orientato ai fini della Giustizia riparativa””. Cfr. anche G. VAGLI, Brevi considerazioni sul nuovo articolo 162-ter c.p. (estinzione del reato per condotte riparatorie), Giurisprudenza Penale Web, 2017, F. CAPOROTUNDO, L’estinzione del reato per condotte riparatorie: luci ed ombre dell’art. 162-ter c.p., in Archivio Penale, Fascicolo n. 1 – Gennaio – Aprile 2018 web.
[28] Sui profili definitori classici del concetto di vittima, V. DEL TUFO, Vittima del reato, in Enc. dir., vol. XLVI, Milano, 1993, 996 ss.; A. PAGLIARO, Tutela penale della vittima nel sistema penale delle garanzie, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2010, 44 s ed ancora, di recente, AA.VV. a cura di Marta Bargis ed Hervé Belluta, Vittime di reato e sistema penale: La ricerca di nuovi equilibri, Torino, 2017.
[29] M. DONINI, Pena agìta e pena subìta. Il modello del delitto riparato, cit., pag. 390-391
[30] Il problema deriva probabilmente dal fatto che le categorie di riferimento sono relativamente nuove. Già la dottrina ha affermato che: “(…) la definizione di vittima del reato (una novità) discende direttamente dalla norma vincolante contenuta nella Direttiva 2012/29/UE e non coincide esattamente con le figure note dell'ordinamento nazionale (persona offesa, danneggiato, parte civile) ed è dunque applicabile solo nell'ambito dei programmi di giustizia riparativa” (M. BORTOLATO, La disciplina organica della giustizia riparativa, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc.3, 1 Settembre 2022, pag. 1259).
[31] Cass. pen., Sez. III, Sent., (data ud. 22/11/2022) 20/02/2023, n. 7041
[32] Cass. Sez. 3, n. 36290 del 18/05/2011
[33] Secolo XIX, 12 aprile 1927. Il contribuente e il fisco, riprodotto in Diritto e pratica tributaria, 1927, pp. 55-56
[34] “Comparable, though non-official, estimates place Italy among the European countries where the underground economy is more widespread (CASE-CPB, 2013; Kelmanson et al., 2019); shadow economy is held a serious concern in Italy, as highlighted by the European Commission (2020). According to the Italian National Statistical Institute (Istat), which estimates the value added produced by the underground economy as a way to achieve exhaustiveness of GDP and other aggregates in the National accounts, in 2018 about 11 per cent of total value added was either under-reported or produced by undeclared work (Istat, 2020)”. In Questioni di Economia e Finanza, (Occasional Papers), Pecunia olet. Cash usage and the underground economy by Michele Giammatteo, Stefano Iezzi and Roberta Zizza.