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Pubbl. Mar, 3 Ott 2023

La ragionevolezza delle Corti nazionali ed europea nella tutela delle libertà di espressione

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Vanni Nicolì
Dottorando di ricercaUniversità degli Studi Internazionali di Roma



L´articolo 18 della Dichiarazione universale dei diritti umani protegge la libertà di espressione e, con essa, quella di religione (dalla libertà di credo, alla libera manifestazione dei propri culti). Il godimento assoluto di tale diritto, in una società multiculturale come quella europea, si scontra con altri diritti e con alcuni principi e valori nazionali che non possono essere trascurati dai giudici nel momento in cui le istanze delle maggioranze si scontrano con quelle delle minoranze.


ENG

The reasonableness of National and European Courts in the protection of expression freedom

Article 18 of the Universal Declaration of Human Rights protects freedom of expression and, with it, freedom of religion (from freedom of belief to the free manifestation of one´s religion). The absolute enjoyment of this right, in a multicultural society such as Europe, clashes with other rights and with certain national principles and values that cannot be disregarded by judges when the demands of majorities clash with those of minorities.

Sommario: 1. Introduzione – 2. La natura giuridica della Dichiarazione universale dei diritti umani e l'articolo 18 - 3. Gli interventi delle giurisdizioni nazionali in materia di libertà di pratiche religiose e culturali – 3.1 Italia – 3.2 Francia – 4. Gli interventi della Corte di giustizia in materia di libertà di pratiche religiose e culturali – 5. Conclusioni 

1. Introduzione

La Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, adottata in seguito al drammatico scenario sociale e umanitario della Seconda Guerra Mondiale, protegge alcuni valori universali che tutelano la libertà e la dignità di tutti gli esseri umani. Tra i trenta articoli di questa Carta, il numero 18 è intitolato “libertà di pensiero” e prevede per ciascun individuo il diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione. In particolare, in quest’ultimo ambito troviamo le libertà di cambiare religione o credo e manifestare liberamente i propri riti, culti e pratiche, tanto in forma isolata o comune, quanto in modo pubblico o privato.

L’affermazione e la protezione di tale diritto, negli anni, si sono confrontate con una società europea che, in virtù dei crescenti flussi migratori (in aumento dal punto di vista del numero dei soggetti coinvolti e delle rotte seguite per raggiungere il “Vecchio continente”), si caratterizza per un’evidente eterogeneità etnica e culturale che continua a rendere la società europea sempre più multiculturale.

Parlare di multiculturalismo porta, inevitabilmente, a confrontarsi con un concetto che include più significati. La prospettiva immediata e diretta è quella che vede il multiculturalismo come coesistenza, nello stesso nucleo sociale, di più culture che non intrecciano rapporti tra di loro[1]. In tale contesto, abbiamo l’applicazione di un modello socio-politico tendente all’assimilazione e alla neutralità dello spazio pubblico, favorita da una governance che annulla il confronto tra i membri dello stesso tessuto sociale, in cui ognuno è privato della propria specifica identità[2]. Un’altra immagine del multiculturalismo è quella che indica la società come una comunità politica la cui identità è il risultato dell’incontro e della comunicazione tra varie identità culturali[3]. Tale dialogo avviene secondo una logica costruttiva di confronto e comprensione reciproca. L’obiettivo politico di una governance che inquadra in questo modo la società è l’inclusione, cercando di garantire la giustizia e l’apertura verso ciascuna componente etnica e culturale della società[4].

In tale contesto sociale e politico-giuridico, il legame tra l’applicazione dell’art. 18 della già citata Dichiarazione e i cambiamenti demografici dell’Europa è diventato ancor più evidente e importante nel momento in cui i Paesi europei, mete di questi flussi, hanno accolto e integrato nei loro tessuti sociali la popolazione migrante[5]. Infatti, da questa convivenza sono sorte alcune problematiche relative alla possibilità di manifestare liberamente e pienamente la propria religione in quanto alcuni riti, tradizioni o anche il ‘semplice’ riconoscimento di associazioni religiose si sono scontrati con i principi e gli interessi dei Paesi europei. Quest’ultimi, a loro volta, sono espressione di quelli delle maggioranze nazionali.
 
Il confronto tra queste differenti posizioni ha trovato degli importanti risvolti in ambito legislativo, con specifiche normative nazionali che, in alcuni casi, non hanno sempre soddisfatto le istanze delle minoranze. Per questa ragione, alla fase legislativa, è seguita quella dibattimentale nella quale sono emerse e si sono contrapposte le differenti posizioni delle parti coinvolte.

Questo secondo momento ha visto, dapprima, l’intervento delle Corti nazionali dei Paesi interessati e, in seguito, quello della Corte di giustizia dell’Unione europea. Nello specifico, quest’ultima è stata chiamata sia a verificare, in diverse occasioni, la competenza del sindacato unionale nelle vertenze sottoposte all’attenzione dei giudici, che la legittimità delle misure nazionali rispetto al diritto europeo.

Gli interventi di questi due organi decisionali, in alcuni casi, hanno portato ad esiti differenti. Il confronto tra le decisioni delle giurisdizioni nazionali ed europea apre ad un’importante riflessione dato che entrambe hanno basato le rispettive sentenze su principi come la proporzionalità e la ragionevolezza, ma per finalità differenti.

Infatti, la logica giuridica seguita dai tribunali nazionali ha visto e vede un lavoro di bilanciamento tra le istanze delle minoranze, affinché queste vedano riconosciuti i loro diritti, e gli interessi e i valori del Paese ospitante, al fine di proteggere alcuni principi fondamentali (pensiamo, in Italia, al buon costume o al mantenimento dell’ordine pubblico). La mediazione tra queste due legittime posizioni giuridiche diventa importante perché una decisione in materia non solo potrebbe cambiare le politiche nazionali[6], ma potrebbe anche modificare il modo di proteggere, dal punto di vista normativo, una determinata minoranza e/o un suo rito specifico. Dal sindacato della Corte di giustizia, invece, emerge un peso decisionale ancora maggiore. Infatti, l’intervento di quest'ultima acquisisce un valore ancor più grande data l'eco delle sue decisioni che incide negli equilibri socio-politici dei ventisette Stati membri. Un orientamento o una decisione di questa Corte potrebbe, inoltre, comportare (come anche per il sindacato nazionale) una modifica al corpus normativo di un Paese membro, ovvero al modus legiferandi nazionale, e potrebbe costituire un precedente in grado di condizionare e segnare gli altri Paesi membri e i loro rapporti con le minoranze, dato l’importante ruolo della Corte di giustizia che è chiamata a garantire l’osservanza del diritto unionale e i trattati che fondano l’UE.

In questa sede, vedremo come il lavoro decisionale delle due Corti non solo incide sui rapporti tra gli Stati e le loro minoranze, ma anche, conseguenzialmente, sull’applicazione del già citato art. 18 della Dichiarazione universale. Poi, nello specifico, nell’esaminare alcuni casi trattati dalle Corti nazionali, si sceglieranno, in particolare, due Paesi europei, Italia e Francia. Tale opzione deriva dal fatto che questi due Stati sono rappresentanti di due differenti modelli di gestione delle differenze culturali e di integrazione degli stranieri. In particolare, il sistema italiano si caratterizza per fornire ad un soggetto immigrato un percorso di integrazione. Pensiamo, ad esempio, all’opera del legislatore italiano che nel 2009 ha introdotto il cosiddetto “accordo di integrazione”, con il quale lo straniero sottoscrive l’impegno a conseguire specifici obiettivi, dal punto di vista integrativo, da raggiungere durante il periodo di valenza del permesso di soggiorno[7].

Il sistema francese, invece, si caratterizza per una tradizione di assimilazione che ha visto la propria origine nei continui flussi migratori che hanno interessato la Francia tra l’Ottocento e il Novecento dello scorso secolo. Lo storico Braudel ha definito l’assimilazione come la via francese senza dolore all’immigrazione[8]. Tale modello ha funzionato per un certo periodo, secondo Renan, perché gli immigrati che giungevano in Francia lo facevano nella speranza di poter «essere come i Francesi» [9].

Date la complessa natura eterogenea del tessuto sociale e demografico dei due Paesi citati in precedenza e la storicità dei loro modelli socio-politici di accoglienza e gestione della diversità, non sarà possibile citare e affrontare tutte le sentenze italiane e francesi. Da tale impossibilità, ne seguirà una selezione delle sentenze, riportando ed esaminando quelle che esplicano i principi statali applicati durante l'esame, in contraddittorio, del rapporto tra lo Stato e i suoi valori, da una parte, e le minoranze e le loro istanze, dall'altra. In particolare, ci si concentrerà su quelle vertenze che esplicano il ragionamento delle Corti nazionali nel non poter accettare l'osservanza di determinati riti o tradizioni culturali e religiose estranee al bagaglio culturale delle maggioranze perché lesive di valori statuali nazionali che definiscono e caratterizzano quel determinato Paese.

In seguito, verrà fatta un'analisi di alcune pronunce della Corte di giustizia europea al fine di cercare di comprendere come tale Corte opera nel bilanciare le istanze della maggioranza e delle minoranze, soprattutto nei luoghi di lavoro che hanno rappresentato, da pochi anni a questa parte, le prime occasioni di confronto, riflessione e intervento giuridici sulla libertà di espressione religiosa da parte della Corte di giustizia dell'Unione europea[10].  

Inoltre, con l’analisi delle giurisdizioni nazionali e unionale, ci si concentrerà su due aspetti racchiusi nel ventaglio dei diritti garantiti dall’art. 18: il primo, relativo alla possibilità di manifestare liberamente le proprie pratiche culturali e religiose, anche in un “nuovo” Paese; il secondo, invece, inerente al rapporto tra simboli religiosi che manifestano l’adesione ad un credo e la neutralità di alcuni luoghi, come le scuole o gli ambienti di lavoro.   

2. La natura giuridica della Dichiarazione universale dei diritti umani e dell'articolo 18

Come affermato nel precedente paragrafo, l'art. 18 è parte integrante della Dichiarazione universale dei diritti umani. L'adozione di tale Dichiarazione da parte dell'Assemblea generale trova una base giuridica negli art. 10 e 11 della Carta delle Nazioni Unite. Nello specifico, la prima disposizione prevede il potere, da parte dell'Assemblea, di discutere su qualunque questione o argomento che rientri negli obiettivi previsti dalla succitata Carta; la seconda disposizione, invece, prevede, tra i fini dell'ONU, il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale; la costruzione di relazioni amichevoli tra gli Stati secondo il principio di eguaglianza e la cooperazione sociale, umanitaria, politica ed economica tra i Paesi.

Con riferimento alla natura giuridica di questi due atti (ovvero la Dichiarazione e la Carta delle Nazioni Unite), possiamo affermare che sono dei documenti che intendono dare determinazione ed espressione ai bisogni obiettivi ed elementari che l'umanità ha avvertito come tali[11]. Inoltre, la Dichiarazione universale si pone come punto di confluenza tra i processi di generalizzazione e di positivizzazione dei diritti umani[12]. In relazione al suddetto processo di generalizzazione, la Dichiarazione si caratterizza per essere un punto di arrivo per il quale è difficile immaginare un superamento; per quanto concerne, invece, il processo di positivizzazione, la Dichiarazione, priva, come noto di formale vincolatività giuridica, si pone soprattutto come punto di partenza di un successivo percorso culminante nella piena giuridificazione delle statuizioni in materia di protezione dei diritti umani e di garanzia della loro effettività[13]. Questo percorso è chiamato a dipanarsi in coerenza con quella che è stata definita «la doppia vocazione del costituzionalismo europeo», che implica una sua articolazione in una dimensione più eminentemente garantistica e in una che è stata definita democratico-partecipativa, connessa alla necessità che il potere sia assoggettato a limitazioni (da far valere per via primariamente giurisdizionale) ed esercitato assicurando il concorso effettivo dei membri di una determinata comunità politica[14].

Oggi, a distanza di 75 anni dall'adozione della Dichiarazione, possiamo affermare come le norme di tutela dei diritti umani abbiano acquisito uno status speciale perché prescrivono regole di comportamento accettate universalmente da parte degli Stati della comunità internazionale. Sebbene tali diritti godano di questo ampio consenso, in molti Paesi si rinviene una certa distanza tra le norme di tutela e la pratica dei diritti, dato che questi ultimi si prestano ad una lettura formalistico-giuridica e ad una socio-politica[15]. Sotto il primo profilo, si fa riferimento alle Carte internazionali dei diritti ed alla loro valenza all’interno degli Stati; mentre, sotto il secondo si guarda all'effettività di quei diritti, che non dipende dal canone formale di riconoscimento degli stessi, ma dalla loro concreta operatività e giustiziabilità[16].

Risulta molto presente, in dottrina, il pensiero secondo il quale la Dichiarazione universale si caratterizza per essere il coronamento di secoli di riflessione sulla dignità e sui diritti umani[17] e l'art. 18 si presenta come una sintesi di antiche prescrizioni etiche e idee fondamentali della teoria dei diritti umani occidentali[18]. Ciò che ha sorpreso la dottrina è che tale disposizione non ha anche interessato la protezione diretta alle comunità religiose o al diritto di stabilire istituzioni confessionali, ma ha inglobato una nuova e diversa dimensione della libertà religiosa relativa al diritto di cambiare religione o credo. Questo nuovo aspetto ha visto, per la prima volta (proprio grazie all'adozione della Dichiarazione nel 1948) un'attenzione e una sensibilità internazionali[19]

3. Gli interventi delle giurisdizioni nazionali in materia di libertà di pratiche culturali e religiose

3.1 Italia

Il primo Paese ad essere analizzato è l’Italia. La Costituzione italiana allude ai diritti dell'uomo una sola volta, ovvero nell'art. 2, proclamando che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singoli che come membri di formazioni sociali[20]. Inoltre, con la sentenza 199 del 1986 la Corte costituzionale ha affermato che i doveri inderogabili di solidarietà richiamati nel già citato art. 2 incombono sull'autorità giudiziaria che è, a sua volta, incaricata dalle leggi ordinarie di dare effettiva tutela ed esercizio ai diritti umani. La Dichiarazione universale afferma che tutti gli esseri umani nascono eguali, sia in dignità che in diritti e come tali hanno diritto e dovere al rispetto reciproco. Con l’uguaglianza coesistono le differenze oggettive e ineliminabili di cui ciascuno è portatore. L’apparente contraddizione tra eguaglianza e diversità si risolve con l'affermazione e il riconoscimento reciproco della pari dignità così come riportato nell’art. 3 della nostra Costituzione. Secondo tale previsione, le differenze non possono rappresentare ostacoli insuperabili, nè giustificare condizioni di inferiorità, sopraffazione, discriminazione e l'eventuale presenza di ostacoli devono essere rimossi dalla Repubblica[21].

La prima sentenza italiana che presentiamo è quella della Corte costituzionale, la n. 203 del 1989 che definisce, come tratto caratterizzante dello Stato, la laicità. In particolare, questa decisione ha elevato la laicità ad uno dei principali valori della forma di Stato italiana. Infatti, tale principio (enucleato ex art. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione) non si caratterizza come indifferenza nei confronti delle religioni, ma come garanzia e salvaguardia della libertà di religione in un Paese e in una società che, caratterizzata da pluralismo confessionale e culturale[22], vede una disciplina costituzionale divisa tra il favor libertatis (art. 2, 3 e 19) e il favor religionis (art. 7, 8 e 20). La coesistenza tra queste differenti impostazioni non è stata, però, sinonimo di armoniosa e pacifica convivenza[23]. Quest’ultimo elemento proviene direttamente dalla rilevanza costituzionale delle confessioni e delle istituzioni religiose, al di sopra delle quali troviamo la sovranità e l’indipendenza della Chiesa cattolica e l’esperienza proveniente dal rapporto pattizio tra questa e lo Stato italiano[24].

Una volta inquadrate le caratteristiche principali del modello politico e giuridico italiano in materia di rapporto con le minoranze, vediamo ora, attraverso un riesame di alcune sentenze, come il sindacato nazionale (attraverso i giudizi della Corte costituzionale, della Cassazione e dei Tribunali) sia intervenuto per bilanciare i diritti insiti nell'art. 18 della Dichiarazione rispetto agli equilibri sociali e culturali di alcuni specifici spazi pubblici (in particolare, luoghi di lavoro o scuole) o, più in generale, nel territorio italiano. 

Un primo e importante caso che ha interessato la Corte costituzionale ha riguardato la libertà di religione sul posto di lavoro. La sentenza n. 195 del 1972 (conosciuta anche come “caso Cordero”) ha visto il ricorso di un docente di diritto processuale penale avverso l’Università Cattolica presso la quale il ricorrente insegnava. Ciò che è stato contestato ineriva alla recessione del rapporto di lavoro da parte dell’Ateneo perché l’orientamento religioso del docente risultava in contrasto con quello dell’istituto universitario. Nello specifico, il Consiglio di Stato, che ha emesso l’ordinanza di rinvio alla Corte costituzionale, ha messo in evidenza come il mancato nulla osta da parte dell’autorità ecclesiastica sulla nomina del docente comportasse una soggezione non ammissibile dello Stato nei confronti della Chiesa in materia di insegnamento e questo sarebbe stato in contrasto con gli art. 3, 7 e 33 della Costituzione.

La Corte costituzionale ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale. La Corte costituzionale ha rilevato come, in base all'art. 7 della Costituzione, la separazione e la reciproca indipendenza tra l’ordinamento dello Stato e quello della Chiesa non escludeva che un regolamento dei loro rapporti potesse essere sottoposto a disciplina pattizia, purché non venissero violati i "principi supremi" dell'ordinamento costituzionale italiano che non possono essere assolutamente derogati. Inoltre, l'art. 33 della Costituzione, ultimo comma, sottolinea come lo Stato non abbia l'esclusività dell'insegnamento, in virtù del principio del pluralismo scolastico, affermando che «Ove l'ordinamento imponesse ad una siffatta università di avvalersi e di continuare ad avvalersi dell'opera di docenti non ispirati dallo stesso credo, tale disciplina si risolverebbe nella violazione della fondamentale libertà di religione di quanti hanno dato vita o concorrano alla vita della scuola confessionale». Come fatto notare da una parte della dottrina, non si vede come ciò che è statale possa essere anche confessionale, data la necessità di rispettare il principio di laicità[25].   

Prendendo in considerazione la libera espressione di una pratica culturale e religiosa in uno spazio pubblico come la scuola, citiamo la sentenza n. 24048 del 2017 del Tribunale di Mantova. Questo è stato chiamato a giudicare sull’illeceità o meno della condotta di un giovane indiano sikh che, in ossequio ai precetti della sua religione, ha portato fuori dalla propria abitazione un coltello ritenuto idoneo ad offendere. Il soggetto, nell’istanza presentata in Tribunale, ha chiesto che gli venisse riconosciuta l’applicazione dell’art. 19 della Costituzione poiché quel coltello (chiamato kirpan, secondo la tradizione sikh) è un simbolo che manifesta l’appartenenza al suo credo, così come il turbante, e portarlo con sé significa adempiere ad un dovere religioso. Il ragionamento dei giudici ha premiato la difesa dell’ordine pubblico, non accettando l’applicazione delle cosiddette scriminanti culturali. Leggiamo, nelle motivazioni della sentenza, che per garantire la convivenza tra soggetti di diversa etnia è necessario identificare un nucleo di valori in cui immigrati e società di accoglienza devono riconoscersi. Inoltre, il pluralismo sociale sostenuto e protetto dall’art. 2 della Costituzione italiana comporta l’obbligo per lo straniero di verificare preventivamente la compatibilità delle proprie condotte con i principi e i valori che le ispirano. Non è casuale, a tal proposito, che i giudici, richiamando l’art. 19 della Costituzione, abbiano sottolineato la presenza di un limite fondamentale, ovvero l’ordine pubblico che si traduce, in questo contesto, in una pacifica e sicura convivenza tra coloro che appartengono e vivono nel medesimo tessuto sociale.

L’ultimo punto che traiamo da questa analisi giuridica, invece, inerisce a due pratiche rituali e religiose che, seppur caratterizzanti uno specifico gruppo etnico-culturale, non possono essere accolti o accettati dentro il territorio italiano perché in contrasto con i valori e i principi fondamentali del Paese.

Nello specifico, con la sentenza n. 30538 del 2021, la Corte di Cassazione ha condannato il padre di una giovane donna che, senza il consenso di quest’ultima, ha promesso e dato in matrimonio ad un uomo la propria figlia in cambio di una somma di denaro. La particolarità di questo giudizio, a fronte dell’imputazione del reato di riduzione in schiavitù, si lega al fatto che il giudice di primo grado ha riconosciuto l’attenuante generica della particolare condizione subculturale in cui versava il reo, nonostante la sua lunga permanenza temporale in Italia.

La difesa del padre si è basata sull’ossequio di una tradizione culturale della comunità Rom alla quale il reo appartiene. In particolare, la cessione in sposa di una figlia non rappresenta una semplice osservanza di una mera tradizione, bensì un comportamento conforme ad un vero e proprio ordinamento giuridico vigente nella comunità Rom. Secondo tale istituto, la cessione in matrimonio di una figlia avviene tramite il pagamento di una somma di denaro che corrisponderebbe ad una specie di risarcimento del danno per la perdita di un membro della famiglia e non una mera compravendita del soggetto.

I giudici della Corte di Cassazione hanno rigettato le argomentazioni della difesa, condannando il processo di reificazione che ha riguardato il soggetto interessato dalla pratica sociale e giuridica rom. Tale reificazione viene vista come conseguenza della signoria esercitata sulla giovane donna, giudicata pervasiva.

Sulla parte relativa alla negazione della scriminante culturale, la Corte di Cassazione ha confermato il proprio orientamento secondo il quale l’esercizio di una pratica culturale o religiosa da parte di un soggetto viene meno in tutti quei casi nei quali si assiste ad una negazione dei beni e dei diritti fondamentali della persona.

La seconda sentenza in esame, invece, la n. 37422 del 2021, ha visto la Corte di Cassazione pronunciarsi su un caso di mutilazione genitale femminile, in violazione dell’art. 583 bis del codice penale.

La vertenza si basava sul ricorso presentato contro la sentenza emanata dalla Corte di Appello di Torino da parte di una cittadina egiziana condannata (sia penalmente che in sede civile) per il reato, commesso in Egitto, di mutilazione genitale femminile nei confronti delle proprie figlie, ancora minorenni all’epoca dei fatti.

La difesa della ricorrente, sia in appello che in ultimo grado di giudizio, si è basata sulla sua ignoranza in materia penale italiana (favorita dalla brevità della permanenza nel Paese ospitante) e sulla notevole diffusione di questa pratica in Egitto, alla quale la stessa ricorrente si è sottoposta in giovane età. Similmente a quanto visto per il precedente caso, anche qui i giudici hanno affermato la non praticabilità della scriminante culturale. Infatti, la circostanza per la quale un soggetto sia portatore di concezioni diverse perché di cultura differente rispetto a quella del Paese nel quale vive non è rilevante quando a venir meno è la tutela di valori che sono espressione di un bene fondamentale dell’individuo. Questo ha dimostrato come il diritto penale sia caratterizzato da una non neutralità culturale; infatti, quest'ultimo presenta la peculiarità di essere un ordinamento pregno di cultura[26].

Nelle sentenze citate, sia la Corte di Cassazione che la succitata Corte di Appello di Torino hanno proceduto con la finalità di garantire il rispetto di quelle due clausole richiamate in precedenza, ovvero l’ordine pubblico e il buon costume. La tutela di questi due principi risulta molto particolare e complessa per la loro evoluzione nel tempo. Il primo, dopo un periodo di incertezza ermeneutica, ha visto un’interpretazione prevalente verso una prospettiva prettamente “materiale”. Tale prospettiva proviene dall’accoglimento di una forma di governo democratica, la salvaguardia dei principi di questa forma di governo e i limiti costituzionali imposti dall’ordine pubblico sono accettati nella misura in cui serve difendere valori di rango costituzionale. Il secondo, invece, si caratterizza per una definizione più labile in quanto legata ai cambiamenti della società.

Proprio in riferimento al buon costume e alla sua natura mutevole rispetto ai cambiamenti della società, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 9 del 1965, ha affermato che il buon costume non può esser fatto coincidere con la morale o la coscienza etica perché in questo modo non può formare oggetto di un regolamento. Pertanto, la Corte costituzionale ha affermato che questo principio è l’insieme di precetti che impongono un determinato comportamento nella vita sociale di relazione per evitare che ci sia la prevalenza di regole e di comportamenti contrari e opposti. Successivamente, sempre la Corte costituzionale, attraverso la sentenza n. 368 del 1992, ha dato un indirizzo più preciso sul buon costume, affermando che questo principio non è tanto rivolto ad un’esigenza di mera convivenza fra le libertà di più soggetti, quanto piuttosto alla collettività in generale e a valori che, in un determinato periodo storico, consentono una convivenza sociale conforme ai principi costituzionali inviolabili della tutela della dignità umana e del rispetto reciproco tra le persone.  

3.2 Francia

Il secondo Paese in esame è la Francia che rappresenta l’esempio più importante di assimilazione in Europa grazie alla consacrazione del principio della laicità e del rispetto dei valori della Repubblica.

Il concetto di laïcité, nato storicamente grazie alla legge francese del 1881 sulla libertà di stampa e a quella del 1905 in materia di separazione tra Chiese e Stato, si presenta come un ideale con doppio scopo: il primo, garantire la libertà di coscienza attraverso la promozione di uno spazio laico neutrale; il secondo, invece, impedire il legame tra religione e Chiesa. Ciò che emerge è uno Stato che non si schiera a favore di nessuna concezione morale della società, ma agisce affinché nessuno possa imporre la propria agli altri[27].  

Le basi legislative e costituzionali transalpine in tema di diritti umani, invece, affondano le proprie radici nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 che, attraverso il preambolo e i suoi 17 articoli, definisce come diritti naturali e imprescrittibili la libertà, la proprietà, la sicurezza e l'uguaglianza davanti alla legge e alla giustizia. La Costituzione francese contiene nel suo Preambolo il riferimento all'attaccmento del popolo francese ai diritti dell'uomo della Dichiarazione del 1789. Inoltre, il rispetto dei diritti dell'uomo può portare, ex art. 53-1, alla conclusione di accordi da parte della Francia con Paesi europei che condividono il medesimo nucleo di valori. 

I medesimi criteri scelti nella selezione delle sentenze italiane verranno applicati per la Francia.

In nome di tale laicità dobbiamo leggere alcune importanti sentenze che hanno segnato la Francia in termini di gestione della diversità religiosa-culturale e accettazione delle pratiche religiose delle minoranze. Il primo, da un punto di vista cronologico, è il celebre caso Traoré del 1983 che ha segnato una svolta nella storia giudiziaria francese. Infatti, in seguito a questa vertenza, l’escissione è stata considerata un reato di competenza della Corte di Assise (chiamata a giudicare dei crimes) e non del Tribunale correzionale[28]. Il giudizio, relativo ad omessa assistenza a persona in pericolo che ha portato alla morte una bambina di tre anni a seguito di mutilazione genitale, ha visto per la prima volta l’interpretazione di questo atto come un attacco all’integrità psicologica e fisica di una persona, davanti alla quale non si può considerare la scusante della diversità culturale.   

Un’altra importante vertenza che ha segnato la giurisprudenza francese in materia ha riguardato il caso Gréou del 1999, anche questo derivante da una denuncia successiva ad un atto di circoncisione femminile. A questa vicenda giudiziaria sono seguiti molti altri ricorsi presentati presso la Corte di Assise di Parigi dove molte vittime di mutilazioni hanno denunciato i loro genitori, accusati di esser stati complici in atti di violenza intenzionale su minori con età inferiore a quindici anni. Sulla scorta di queste ulteriori cause, è nato un importante e sentito dibattito sociale sul riconoscimento di una minoranza e delle sue tradizioni culturali. A tal proposito, una parte dell’opinione pubblica francese ha sostenuto che il rito dell’escissione fosse avvenuto nella totale inconsapevolezza dell’illeceità dell’atto da parte dei genitori che collegano quest’ultimo ad una pratica culturale che anche le madri hanno ricevuto in giovane età[29] perché parte ordinaria della loro educazione; un’altra, invece, ha dichiarato inammissibile affermare la liceità culturale dato che si tratta di una pratica che intacca la salute o la vita delle persone.

Quest’ultima posizione è quella che ha orientato i giudici nel decretare la condanna dei genitori.

La giurisprudenza francese recente ha confermato questo orientamento, come risulta da una sentenza dell’aprile 2022. Una donna africana è stata giudicata colpevole dalla Corte di Assise della Sarthe per complicità in violenze ai danni di un minore di età inferiore ai 15 anni, seguite da mutilazione o infermità permanente. Nel caso specifico, la donna ha fatto circoncidere le tre figlie maggiori, nel 2007 e nel 2013, durante i soggiorni in Gibuti. Ciò che, similmente a quanto visto nelle sentenze italiane, risalta all’attenzione è la posizione dell’imputata che, non solo, ha incentrato la sua difesa sulla necessità religiosa dell’atto, ma ha anche affermato, al servizio di supporto psicologico del tribunale, di aver capito che in Francia tale pratica è vietata, ma non ha compreso il perché dato che lei stessa da giovane si è sottoposta a tale rito.     

Relativamente al diritto di manifestare in pubblico la propria fede indossando oggetti o simboli religiosi, la linea politica e giuridica francese, in nome della già citata laicità, si è sempre prodigata nel tentativo di salvaguardare la neutralità di un posto di lavoro e di luoghi di cultura come le scuole.

Una prima importante tappa di questo percorso legislativo è da ritrovare nel caso del collegio di Creil del 1989 dove il preside ha escluso dall’istituto tre studentesse perché indossavano il velo islamico. Questo avvenimento ha alimentato un intenso dibattito sociale nazionale che in sede giudiziaria, presso il Consiglio di Stato, ha visto l’affermazione della possibilità di esprimere una convinzione religiosa purché questo comportamento non costituisca un atto di pressione, proselitismo o propaganda. Secondo il ragionamento dei giudici, questo sarebbe proprio l'effetto dell'applicazione della laicità: libertà di espressione e rispetto delle individualità[30]. Inoltre, è stata data ai docenti l’ultima parola sul fatto di permettere o meno l’ingresso agli studenti con tali simboli. 

In seguito a questa vicenda, la Francia ha adottato, in un primo momento, la legge n. 228 del 2004 che ha visto l’applicazione del principio della laicità nelle scuole pubbliche. Nello specifico, l’art. 1 sanciva il divieto di indossare in pubblico qualsiasi indumento o accessorio che celasse il volto della persona. In seguito, con l’adozione della “Première charte de la laïcité à l'école” del 2013 si è sottolineato come la Francia sia una Repubblica laica che si adopera per separare le religioni e lo Stato (art. 1 e 2); inoltre, la laicità è in grado di assicurare agli studenti l’accesso ad una cultura condivisa per consentire libertà di espressione e il pluralismo delle convinzioni (art. 7 e 8). Oltre alla comunità studentesca, questi obblighi interessano anche il personale scolastico che, a sua volta, è vincolato al dovere di rigorosa neutralità in materia politica e religiosa.

Anche in Francia i due principi analizzati in precedenza hanno subito un’evoluzione nel tempo. Inizialmente, la tradizione giuridica transalpina è stata caratterizzata dalle espressioni “diritto pubblico” e “legge pubblica”. La scelta di “ordine pubblico” nel codice civile ha premiato una visione più autoritaria (portata avanti da Portalis) per la tutela dei valori fondamentali che costituiscono la base di una comunità politica[31]. Nella sua relazione annuale del 2013, la Cour de Cassation ha definito il concetto di ordine pubblico come indeterminato, sfuggente e cangiante. Al di là dei cambiamenti sociali, giuridici e politici che hanno attraversato la società francese negli anni, il parere della Corte è che non ci si possa allontanare dal mantenere un ordine repubblicano che sembra indispensabile per preservare un’idea di convivenza, quale valore supremo per società e Stato.

Relativamente ai buoni costumi (o detta alla francese bonnes mouers), le prime tracce legali di una definizione risalgono al 1946, quando la violazione di questi è associata a cattive condotte o ad atteggiamenti scandalosi che possono anche compromettere la candidabilità degli individui agli impieghi pubblici. Si afferma, intorno agli anni Ottanta, una giurisprudenza consolidata che conferma questo orientamento perché le violazioni di cui sopra possono mettere seriamente in discussione la personalità di un soggetto[32].  Successivamente, la Corte di Cassazione francese, negli anni Novanta, ha dato una definizione di buoni costumi che si è identificata con quella di dignità umana. Nonostante i valori della società siano modificabili con facilità e rapidamente, la dottrina francese ha visto nel ruolo della giurisprudenza nazionale una posizione importante per fissare le caratteristiche e i limiti del concetto di dignità umana e renderle conoscibili a tutti i consociati[33].

4. Gli interventi della Corte di giustizia in materia di libertà di pratiche culturali e religiose

Prima di analizzare le sentenze della Corte di giustizia, vediamo la base giuridico-legislativa in materia di diritti fondamentali per l'Unione europea. In particolare, il Consiglio europeo di Colonia, nel giugno 1999, ha convenuto che fosse opportuno riunire in una Carta i diritti fondamentali riconosciuti a livello unionale. 

Nello specifico, il Consiglio europeo voleva includere in questa Carta i principi generali sanciti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950 e quelli risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni dei Paesi membri. Inoltre, la Carta doveva includere i diritti fondamentali attribuiti ai cittadini dell'UE, i diritti economici e sociali enunciati nella Carta sociale del Consiglio d’Europa e nella Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori e quelli derivanti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e dalla Corte europea dei diritti dell'uomo.

Tale Carta è stata inizialmente proclamata il 7 dicembre 2000 a Nizza. Poi, a seguito delle modifiche apportate in vista del suo inserimento nel Trattato costituzionale (mai entrato in vigore), è stata proclamata solennemente una seconda volta in occasione della seduta plenaria del Parlamento europeo del 12 dicembre 2007. Infine, nel dicembre 2009, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, è stato conferito alla Carta lo stesso effetto giuridico vincolante dei trattati. A tal proposito, l’art. 6 del TUE stabilisce che l'UE riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea; quest'ultima, a sua volta, ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell'Unione definite nei trattati stessi. Infatti, i diritti, le libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del titolo VII del medesimo documento che disciplinano la sua interpretazione e applicazione e tenendo in considerazione le spiegazioni cui si fa riferimento nella Carta.

Inoltre, il 24 giugno 2013, il Consiglio dell'UE ha adottato gli orientamenti dell'Unione europea sulla promozione e la tutela della libertà di religione o di credo. Tali linee guida rientrano tra le azioni che l'UE ha sviluppato per promuovere i diritti umani nei Paesi terzi, per costruire un quadro generale di protezione e promozione di tali diritti e consentire azioni rapide ed efficaci in caso di violazioni. Tra i principi che ispirano questa azione abbiamo il carattere universale della libertà di religione e di credo, la promozione di quest'ultima come diritto individuale, ma anche esercitabile insieme ad altri e il ruolo primario di difesa da parte degli Stati. Per quanto concerne, invece, i campi di azione istituzionali, l'UE indica la promozione della tolleranza religiosa, la tutela dalla discriminazione diretta e indiretta e la protezione dei diritti a cambiare e manifestare il proprio credo. 

Partendo con l'analisi dei giudicati, non sono stati molti gli interventi, in passato, da parte della Corte di giustizia in materia di libertà religiosa. Le poche tracce dibattimentali si caratterizzano per essere frammentate e decisamente condizionate dalla normativa di riferimento[34], ovvero la direttiva del Consiglio n. 78 del 2000 che stabiliva un quadro generale per la parità di trattamento in riferimento all’occupazione e alle condizioni di lavoro nell’Unione europea.

Ciò che emerge dalle recenti sentenze in materia di libertà religiosa è il fatto che questa è stata esaminata al fine di comprendere se da tale libertà sia possibile o meno avere una discriminazione tra credenti e non credenti o tra credenti di diversi culti, soprattutto in ambito lavorativo. Ed è proprio dalle cause in questi contesti che avviamo la scelta dei casi affrontati dalla Corte di giustizia per apprezzare come questa ha lavorato per mediare alle differenti posizioni culturali dei sogetti coinvolti. 

Considerando i vari aspetti collegati all’art. 18 della Dichiarazione affrontata in questa parte, non si può non prendere in considerazione la sentenza del 22 gennaio 2019 sulla causa C-193/17 (Cresco Investigation GmbH c. Markus Achatzi). In questa controversia, la Corte si è occupata del trattamento ricevuto, in Austria, da alcuni soggetti appartenenti ad alcuni gruppi religiosi. Nello specifico, la posizione del signor Achatzi ineriva al merito di beneficiare di un’indennità complementare alla retribuzione percepita per delle prestazioni svolte nel corso di un venerdì santo. La questione, quindi, si collegava al fatto che riconoscere un giorno festivo in più soltanto a coloro che fanno parte di alcuni gruppi religiosi potesse costituire una discriminazione diretta per gli altri, oppure un trattamento differente riconosciuto dal diritto di libertà religiosa.

Come affermato dalla succitata sentenza, la Corte di giustizia ha operato un bilanciamento tra l’autonomia delle Chiese e delle altre organizzazioni la cui etica si basa sulla religione o sulle convinzioni personali e il diritto dei lavoratori di non essere oggetto di una discriminazione fondata sulla religione. A tal proposito, la Corte di giustizia ha deciso sfruttando il dato normativo proveniente dalla succitata direttiva, interpretata senza tener conto della Carta dei diritti[35].

Nel caso specifico, la Corte di giustizia ha affermato che l’osservanza di un determinato obbligo religioso giustificherebbe la previsione di un giorno festivo “speciale”; al contrario, l’assenza di un tale adempimento, invece, renderebbe l’ulteriore giorno festivo alla pari di quelli che un lavoratore qualunque può usufruire per ragioni di riposo o svago.

Questo ragionamento da parte della Corte avrebbe permesso, laddove fossimo stati in presenza dell’obbligo di osservare un determinato precetto religioso, di favorire il diritto dei membri di un determinato gruppo religioso. La presenza di tale obbligo avrebbe inoltre bilanciato la previsione di ulteriore giorno di riposo. Invece, come nel caso proveniente dalla sentenza in esame, l’assenza di obblighi religiosi ha fatto venire meno la necessità di una previsione speciale che avrebbe discriminato, ingiustamente, tutti coloro che non fanno parte di questo gruppo. Una tale decisione, senza l’opportuno bilanciamento dei diritti coinvolti nella vertenza, considerando l’eco di una decisione della Corte di giustizia, avrebbe negativamente influenzato i rapporti nei gruppi di lavoro di tutte le imprese nazionali dei Paesi membri. C'è, a tal proposito, la consapevolezza da parte della Corte di giustizia che i comportamenti che presuppongono scelte di appartenenza e di fede sono in grado di influenzare i sistemi economico-giuridici[36].

In riferimento alle cause che hanno visto la presenza di persone che indossano oggetti religiosi presso il luogo di lavoro, la Corte di giustizia europea si è sempre adoperata per garantire la salvaguardia della neutralità del luogo di lavoro. La Corte di giustizia ha bilanciato e promosso l’integrità di quest’ultimo rispetto al diritto di indossare e mostrare un oggetto o un capo di abbigliamento che mostra l’appartenenza ad un determinato credo.

Pensiamo, come ulteriore esempio, alla sentenza del luglio 2021 sulle cause riunite C-804/18 e C-341/19 (rispettivamente IX c. WABE e MH Müller Handels GmbH c. MJcon la quale la Corte di giustizia ha risolto due questioni. La prima relativa ad un’insegnante di asilo che è stata sospesa dal lavoro poiché non ha osservato il divieto, più volte ripetuto da un suo superiore, di indossare il velo islamico durante le ore di lezione. Davanti all’accusa di discriminazione mossa contro l’istituto, la Corte di giustizia, dopo aver appurato che il regolamento di quest’ultimo non andasse contro una sola religione, ma che fosse valevole per qualunque simbolo religioso vistoso (a prescindere dal credo di appartenenza), ha bilanciato la neutralità religiosa dell’istituto con il diritto della docente e ha promosso la linea coerente applicata dall’asilo. Infatti, la scheda informativa sull’obbligo di neutralità dell’ente che gestisce l’istituto d’infanzia riporta che non si possono indossare simboli religiosi al fine di non influenzare i bambini.

La seconda, invece, riguarda il ricorso di una donna alla quale è stato, in un primo momento, vietato di indossare il velo islamico perché operante in un ramo di un’azienda che la vedeva interfacciarsi con la clientela e questo avrebbe compromesso la politica di neutralità dell’azienda; poi, in un secondo momento, dopo il cambio di impiego e lo spostamento in un reparto interno nella stessa azienda il divieto del velo è stato mantenuto, nonostante la mancanza di rapporti con la clientela, sempre in difesa della neutralità del luogo di lavoro. Su questa vicenda, l’operazione dei giudici di bilanciamento dei diritti degli individui e quelli degli imprenditori di mantenere neutrale il luogo di lavoro ha favorito la posizione dell’azienda dato che la ricorrente era in rapporto con la clientela; inerentemente alla seconda situazione, la Corte ha chiesto di accertare che indossare un simbolo religioso, come il velo, crei concretamente un danno all’azienda dato che, nel caso di specie, la dipendente, non rapportandosi in nessun modo con i clienti, non avrebbe danneggiato l’immagine della società verso l’esterno.

Il lavoro di accertamento, da parte della Corte di giustizia, di un equo bilanciamento tra i diritti religiosi dei dipendenti e quelli imprenditoriali ha trovato, in una recente sentenza la conferma sul modus operandi della Corte di giustizia stessa. La sentenza emessa nell’ottobre 2022, con riferimento alla causa C-344/20 (L.F. c. S.C.R.L.), ha riguardato la decisione di una società di non assumere la ricorrente perché quest’ultima non si sarebbe tolta il velo islamico durante la prestazione lavorativa in caso di assunzione. Nello specifico, si apprende dalla sentenza che la regola aziendale che vieta ai dipendenti di «manifestare verbalmente, con l'abbigliamento o in qualsiasi altro modo, le loro convinzioni religiose o filosofiche, di qualsiasi tipo, non costituisce, nei confronti dei dipendenti che intendono esercitare la loro libertà di religione e di coscienza indossando visibilmente un segno o un indumento con connotazione religiosa, una discriminazione diretta basata sulla religione o sulle convinzioni personali, purché tale disposizione sia applicata in maniera generale e indiscriminata».

5. Conclusioni

Quanto esaminato attraverso le sentenze nazionali ed europee, ci permette di comprendere come, nonostante l’importanza giuridico-sociale dei diritti insiti nella protezione derivante dall’art. 18 della Dichiarazione, questi non possono essere goduti in maniera indiscriminata.

Ciò che emerge da questa analisi giuridica è che il mancato godimento assoluto di tali diritti è conseguenza di due particolari fattori: il primo, che potremmo definire di natura “giuridico-formale” poiché vede il confronto, in alcuni casi contrasto, tra diritti simili o rilevanti in egual misura perché riguardanti la persona; il secondo, definibile “giuridico-sostanziale”, che mette in risalto il rapporto tra diritti differenti all’interno di contesti specifici nei quali agiscono soggetti portatori di interessi diversi.

Relativamente al primo fattore, ovvero quello giuridico-formale, possiamo notare come le Corti nazionali e la Corte di giustizia abbiano lavorato per bilanciare i diritti confliggenti all’interno delle singole istanze. Nonostante l’importanza dei diritti in seno all’art. 18 della Dichiarazione universale, i giudici hanno dovuto bilanciare la portata e le conseguenze dell’applicazione di quelli relativi alla succitata previsione con quelli che proteggono la persona. Nonostante alcune pratiche religiose e culturali non si limitino ad essere solo e soltanto l’eredità di una storia e di un percorso umano e sociale di un determinato popolo, ma costituiscano dei veri e propri obblighi giuridici in capo ai membri di una specifica comunità, non è possibile ammettere il loro riconoscimento a discapito di altri diritti inviolabili di un individuo. Ed è qui che il bilanciamento delle Corti fa apprezzare l’applicazione dei criteri di proporzionalità e ragionevolezza nel “preferire” i diritti che proteggono l’inviolabilità dell’individuo. A tal proposito, come visto in dottrina, i diritti che garantiscono la libertà di manifestare l'appartenenza ad una religione a lavoro si caratterizzano per una natura contingente in quanto soggetto a restrizioni per sostenere i diritti degli altri[37].

Con riferimento al secondo fattore (quello giuridico-sostanziale), invece, il lavoro della Corte di giustizia si è incentrato per evitare che il rapporto tra differenti culture e diritti non comportasse delle discriminazioni basate su motivi religiosi. Anche in questo caso, però, è stato necessario operare un bilanciamento che, in modo proporzionale e ragionevole, equilibrasse i diritti in gioco tra i diversi soggetti. La difesa della neutralità di un ambiente di lavoro o di quello scolastico è un elemento fondamentale dato che è riflesso di principi nazionali volti a garantire la laicità degli Stati anche nei rapporti tra privati. L’inviolabilità di suddetti ambienti, però, viene monitorata al fine di prevenire un’ingiustificata restrizione del diritto di manifestare con simboli la propria adesione ad un determinato credo, oppure una discriminazione. Comprendiamo, in questo modo, le ragioni per le quali la Corte di giustizia ha sempre preventivamente cercato di capire se il divieto di indossare simboli religiosi ad un dipendente rappresentasse un divieto particolare o una previsione generale che riguardasse chiunque. Tale impostazione deriva dall'idea che il pluralismo (in questo caso etnico-culturale) non è solo un fatto, ma rappresenta un valore[38]. Inoltre, tutelare la neutralità di un ambiente lavorativo non è una difesa assoluta perché deve essere calibrata rispetto ad un danno di immagine che un’azienda deve potenzialmente patire.

I modi decidendi alla base del sindacato nazionale e unionale mostrano la capacità delle due Corti di adattarsi alla eterogenea natura culturale della società europea attuale. Infatti, le operazioni di bilanciamento tra diritti sono la chiave per mediare tra le istanze delle minoranze e la tutela dei principi che rispecchiano i valori della maggioranza. Questa operazione, come visto in precedenza, si caratterizza, inoltre, per essere idonea a mediare tra le diverse componenti della società nazionale e continentale, ma non vuol dire che assecondi le volontà delle maggioranze in quanto rappresentanti principali degli interessi statali. Infatti, affidarsi, in questa sede, al principio di ragionevolezza non significa tanto operare un bilanciamento tra diritti “dati”, bensì stabilire quale sia effettivamente il contenuto del diritto di cui si dibatte, anche in base ai valori ad essi collegati[39]. Come ricorda Zagrebelsky,«Tra principi si può venire a patti in modo tale da evitare conflitti […] Ragionevole è colui che si rende conto della necessità, in vista della coesistenza, di addivenire a composizioni in cui vi sia posto non per una sola, ma per tante ragioni»[40].

In questi casi, il momento della controversia e del dibattimento in tribunale pone una base argomentativa al confronto tra le culture che rappresenta un momento nel quale i giudici devono intervenire non soltanto con la ragionevolezza, ma anche con razionalità nel giudicare la concordanza, la compatibilità e la congruenza della loro decisione con i valori e i principi presenti nel sistema giuridico di un determinato Paese[41].

Ancor più apprezzabile, alla luce del modus operandi descritto in precedenza, il lavoro di bilanciamento della Corte di giustizia. Quest’ultima, operando in difesa dei valori e dei principi presenti nel Trattato di Lisbona, vede nell’affidamento alla ragionevolezza lo strumento giuridico utile a coinvolgere anche valori presenti nelle Costituzioni dei Paesi membri, in una prospettiva di dialogo tra i valori unionali e queli nazionali dei Paesi membri[42]

Considerando che il diritto è società e quest’ultima è formata dall’uomo (sia in quanto individuo che in qualità di consociato), il bilanciamento troverà sempre un limite insuperabile nella dignità umana. La tutela di quest’ultima non è suscettibile di apprezzamento individuale e deve operare a favore, ma anche contro, l’interessato[43]. In un’Europa sempre più multiculturale, la sensibilità giuridica dei giudici, caratterizzata dalla ragionevolezza, diventa la chiave di volta per una corretta e adeguata applicazione e protezione della libertà di espressione religiosa. Un’Europa multiculturale significa, di conseguenza, un continente aperto al fenomeno del pluralismo giuridico, ovvero alla stabilizzazione di spazi pubblici nei quali le diverse etnie portano le fonti del diritto che regolano i loro rapporti e la loro quotidianità sia nella loro sfera privata (in quanto persone) che consociata (in quanto membri di una società). Un’applicazione ragionevole del principio di eguaglianza premette e implica il rispetto della e delle diversità. Il tutto avviene nonostante quest’ultime non possano oltrepassare i limiti imposti da alcuni fondamentali diritti che devono essere garantiti e tutelati per tutti gli individui[44].

Per queste ragioni, è necessario trovare un compromesso, rendendo partecipi di queste scelte valoriali coloro che si interfacciano con l’UE e con gli ordinamenti nazionali europei, dando una predisposizione verso soluzioni miti e che comprendano tutte le ragioni in grado di rivendicare buoni principi[45].


Note e riferimenti bibliografici

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14. M. Fioravanti, Costituzionalismo. Percorsi della storia e tendenze attuali, Roma, Laterza, 2009, p. 150. 

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19. J. Bowers, Accommodating Difference; How is Religious Freedom When It Clashes with Other Rights; Is Reasonable Accommodation the Key to Levelling the Field?, in Oxford Journal of Law and Religion, vol. 10, Issue 2, p. 278.   

20. A. Pace, Dai diritti del cittadino ai diritti fondamentali dell'uomo, in Rivista AIC, n. 4, 2010, p. 10.

21. G. M. Flick, Da Auschwitz alla Costituzione italiana e alla Carta di Nizza. Memoria del passato e progetto futuro, in Rivista AIC, n. 1, 2021, p. 298. 

22. F. Alcino, L'accomodamento ragionevole e l'equità della laicità italiana. L'esposizione del crocifisso alla luce dell'insegnamento che proviene dalla comparazione, in Il Mulino, fascicolo 1, gennaio-marzo 2022, p. 55.

23. N. Colaianni, Trent'anni di laicità (Rileggendo la sentenza n. 203 del 1989 e la successiva giurisprudenza costituzionale), in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, fascicolo 21, 2020, p. 57.

24. F. Alcino, Identità-differenze. La tutela delle minoranze religiose nell'esperienza giuridica italiana, in D. Edigati, A. Tira (cur.), Le minoranze religiose nel diritto italiano ed europeo, Torino, Giappichelli Editore, 2021, pp. 103-132.

25. M. Croce, Dal "caso Cordero" al "caso Vallauri": nozione di scienza e libertà di insegnamento, in Forum di Quaderni Costituzionali, 1b, 2010, p.2. In particolare, con riferimento al valore della laicità nei posti di lavoro, citiamo la sentenza della Corte di Cassazione (n. 31071/2021) con la quale è stata definita discriminatoria la condotta di un istituto religioso che non ha rinnovato il contratto di lavoro ad una docente per via del suo orientamento sessuale.

26. A. Cadoppi, Liberalismo, paternalismo e diritto penale, in G. Fiandaca e G. Francolini (a cura di), Sulla legittimazione del diritto penale. Cultura europeo-continentale e anglo-americana a confronto, Torino, Giappichelli, 2008, p. 83.

27. T. Vissol, Laïcité. Le origini della proposta di legge che spacca in due la Francia, in Confronti, 27 febbraio 2021, p. 3. 

28. M. Villani, Punir et réparer les mutilations sexuelles en France (1978-2008), in Droit et cultures, 79, 2020, p. 100.

29. B. Grosjean, Excision: deux ans ferme pour la mère de Mariatou, in Libération, 17 fevrier 1999, p. 3.

30. S. Poulter, Muslim Headscarves in School: Constrasting Legal Approches in England and in France, in Oxford Journal of Legal Studies, vol. 17, n. 1, 1997, p. 57. Sulla verifica del fatto che, negli ambienti di scuola, ci deve essere un attento controllo sulla libertà di coscienza dei docenti e sul rispetto della neutralità dell'ambiente ricordiamo la sentenza del Consiglio costituzionale del 23 novembre 1977 e sentenza del Tribunale di Versailles del 27 marzo 1987.

31. Convegno della Corte di Cassazione francese "L'ordre public: regards croisés du Conseil d'Etat et de la Cour de cassation", 24 fevrier 2017, p. 6.

32. D. Lochack, Le droit a l'épreuve des bonnes moeurs. Puissance et impuissance de la norme juridique, in Les bonnes moeurs, CURAPP-PUF, 1994, pp. 15-53.

33. F. Charlin, La Cour de cassation, des bonnes moeurs à la dignité humaine? Le juge dans l’histoire: entre création et interprétation du droit, Jun 2014, Ljubljana, France, p. 2. 

34. N. Marchei, La libertà religiosa nella giurisprudenza delle Corti europee, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, fascicolo 33, 2019, p. 71. 

35. N. Marchei, La libertà religiosa nella giurisprudenza delle Corti europee, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, fascicolo 33, 2019, p. 76. 

36. L. Saporito, F. Sorvillo, L. Decimo, Lavoro, discriminazioni religiose e politiche d'integrazione, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, n. 18, 2017, p. 8.

37. L. Vickers, Religion and the Workplace, in The Equal Rights Review, vol. 14, 2015, p. 118.

38. J. Ringelheim, Rights, Religion and the Public Sphere: The European Court of Human Rights in Search of a Theory?, in C. Ungureanu e L. Zucca (eds.), A European Dilemma: Religion and the Public Sphere, Cambridge, Cambridge University Press, 2011, p. 287. 

39. E. Del Prato, Ragionevolezza e bilanciamento, in Rivista di diritto civile, n. 1, gennaio-febbraio, 2010, p. 39.

40. G. Zagrebelsky, Il diritto mite. Legge, diritto e giustizia, Torino, Einaudi, 1992, p. 203.

41. G. Di Chiara, Ragionevolezza e processo penale. Un’indagine attraverso i paradigmi dell’elaborazione della prova in contraddittorio, in Ars interpretandi. Annuario di ermeneutica giuridica, n. 7, 2002, p. 414. 

42. A. Barbera, La Carta dei diritti: per un dialogo fra la Corte italiana e la Corte di giustizia, in Rivista AIC, n. 4, 2017, p. 8.

43. A. Donati, Diritto naturale e globalizzazione, Roma, Aracne Editore, 2007, p.369.

44. F. Alcino, L'accomodamento ragionevole e l'equità della laicità italiana. L'esposizione del crocifisso alla luce dell'insegnamento che proviene dalla comparazione, in Diritto pubblico comparato ed europeo, n.1, 2022, p. 57. 

45. G. Zagrebelsky, Il diritto mite. Legge, diritto e giustizia, Torino, Einaudi, 1992, p. 1685