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Pubbl. Mer, 25 Ott 2023
Sottoposto a PEER REVIEW

Healing Justice. Uno sguardo riparativo per le “vittime” della giustizia penale

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Giulia Fadda



Il presente lavoro prende le mosse dalla constatazione per cui, nel procedimento penale, l’errore giudiziario che scaturisca da una decisione ingiusta, tanto perché derivante dal mancato rispetto di regole procedurali, quanto perché la ricostruzione del merito non corrisponde alla realtà dei fatti, assume un peso di particolare rilevanza.


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Healing Justice. Uno sguardo riparativo per le “vittime” della giustizia penale

The following work has its origins in the realization that, in criminal proceedings, miscarriages of justice caused by wrongful convictions – either because procedural rules were not respected, or because facts were not correctly pieced together by the authorities – have a very significant effect.

Sommario: 1. Alle radici dell’errore nel processo penale; 1.1 La ricostruzione giudiziale del fatto e l’illusione della “conoscenza giudiziaria oggettiva”; 1.2 Verità giudiziale e giustizia della decisione. Cenni; 1.3 Illusioni cognitive e trappole mentali nel ragionamento giudiziario. Dal giudicare al “ben giudicare”; 2. Errore giudiziario e ingiusta detenzione: le ingiustizie della giustizia penale; 2.1 La “vittima” del procedimento penale: un “nuovo” processo di vittimizzazione; 2.2 Errore giudiziario e ingiusta detenzione. I costi dell’”ingiustizia”; 3. Restoring “injustice”. Percorsi riparativi per le “vittime” della giustizia penale; 3.1 Capire, conoscere, riparare. Il “nuovo” volto umano della giustizia; 3.2 “Healing Justice: addressing the harm caused by wrongful convictions”; 3.3 Giustizia riparativa ed errori giudiziari in Italia: spunti comparatistici; 4. Conclusioni.

1.  Alle radici dell’errore nel processo penale

1.1 La ricostruzione giudiziale del fatto e l’illusione della “conoscenza giudiziaria oggettiva”

Un principio, apparentemente banale, ma ricco di implicazioni problematiche è che il fatto non entra nel processo nella sua materialità empirica, in quanto esso si verifica prima e al di fuori del processo stesso, ma vi entra sotto forma di enunciati che lo descrivono, ossia sotto forma di narrazioni[1].

Un aspetto che viene spesso sottovalutato è che il contesto del processo non comprende una sola narrazione omogenea; d’altronde, «il contesto processuale ha la struttura di una controversia e gli avvocati presentano schemi di organizzazione dei fatti alternativi e contrari»[2]. Pericoli di errori, di incompletezza, di manipolazioni e di ricostruzioni scorrette dei fatti sono particolarmente frequenti e seri e possono portare ad equivoci drammatici e ad errori sostanziali nella decisione finale della controversia.

Il giudice, nel formulare il ragionamento che si conclude con la decisione e per giustificare la decisione stessa, impiega le forme e i materiali più disparati: linguaggi tecnici e linguaggio comune, schemi e modelli argomentativi, forme inferenziali, giudizi di valore, strumenti di persuasione retorica, conoscenze di varia natura e altre cose ancora. Si tratta, dunque, di un ragionamento strutturalmente complesso ed eterogeneo, nel quale si incontrano e si intrecciano diverse dimensioni logiche, linguistiche, conoscitive ed argomentative[3].

Orbene, alla ricostruzione del fatto si perviene inevitabilmente tramite un’attività conforme a quanto prescrivono le regole, specialmente probatorie, presenti in ogni ordinamento[4].

Senza indugiare sulle varie definizioni relative alla prova (diretta ed indiretta, critica e rappresentativa, in senso stretto e in senso lato)[5] e sulle singole fasi in cui si suddivide il cosiddetto “procedimento probatorio”, pare opportuno segnalare che ciò che risulta essenziale ai fini della valutazione probatoria complessiva è che il giudice, tenendo conto di tutti i dati ottenuti, svolga un ragionamento convincentemente argomentato e formuli una decisione coerente con le prove acquisite, secondo i caratteri peculiari di ogni corretta ricostruzione fattuale. In particolare, tale ricostruzione deve essere conforme ai “criteri di verità” sulla cui base è possibile «asserire l’enunciato costitutivo della descrizione ricostruttiva del fatto compiuta al termine del processo»[6].

Di conseguenza, nel processo, dove è «imprescindibile la ricerca della verità»[7], non si può andare oltre l’accertamento «della verità di una proposizione»[8]

1.2 Verità giudiziale e giustizia della decisione. Cenni

Taruffo individua almeno due ordini di ragioni per cui il concetto di verità dei fatti nel processo è altamente problematico e produce rilevanti complicazioni sul piano della definizione del ruolo della prova nel processo[9].

Il primo, e più importante, riguarda la distinzione tra verità “formale” (o “giudiziale”), che viene stabilita nel processo per mezzo delle prove e dei procedimenti probatori, e verità “materiale” (o “storica”), che riguarderebbe il mondo dei fenomeni reali e che sarebbe conseguita con strumenti conoscitivi diversi dalle prove giudiziarie[10].

Tale distinzione è, secondo l’autore, inattendibile, in quanto è «insostenibile l’idea di una verità giudiziaria che sia completamente diversa e autonoma per il solo fatto che viene accertata nel processo per mezzo delle prove; l’esistenza di regole giuridiche e di limiti di varia natura serve al più per escludere la possibilità di conseguire verità assolute, ma non basta a differenziare totalmente la verità che si stabilisce nel processo da quella di cui si parla al di fuori di esso»[11].

Se è vero che il processo si realizza (anche) attraverso narrazioni, è altrettanto vero che si tratta di un metodo che si occupa anche, e soprattutto, di ciò che si è o non si è verificato nel mondo dei fatti reali che rappresentano l’origine effettiva della controversia[12].

Da un altro punto di vista, egli sottolinea che nel contesto concreto del processo non si può giungere a “verità assolute”. Nulla di strano o di negativo in ciò[13]. Anche la scienza è intrinsecamente fallibile e quindi si occupa di verità relative (alle conoscenze e alle informazioni disponibili).

Ciò non esclude, peraltro, la possibilità di condividere una concezione aletica della verità, come corrispondenza non relativa dell’enunciato alla realtà che ne costituisce l’oggetto[14].

Peraltro, anche ove verità assolute fossero in astratto possibili, non sarebbero necessarie nel processo. Lo stesso Ferrajoli riconosce come la verità assoluta sia da considerarsi un «ideale limite irraggiungibile, ma non per questo non approssimabile»[15]. Ciò che rileva nel processo è, dunque, l’individuazione delle tecniche per realizzare la «migliore verità relativa»[16], ossia la migliore approssimazione dell’accertamento alla realtà.

Il giudizio di verità emerge, in ambito processuale, quale «fondamento indefettibile per l’emanazione di una decisione giusta»[17]. Pertanto, è possibile affermare che il principio di verità dei fatti non individua una specifica ideologia del processo, ma rappresenta, piuttosto, un dato costante di tutte le ideologie che configurano qualche tipo di decisione giusta come scopo del processo[18].

1.3 Illusioni cognitive e trappole mentali nel ragionamento giudiziario. Dal giudicare al “ben giudicare”

Il legame tra l’intimo convincimento, il fondamento delle pronunce penale al di là di ogni ragionevole dubbio e l’obbligo di motivazione è ricondotto, nel dibattito penalistico moderno, all’ambito delle garanzie contro il rischio di un esercizio arbitrario del potere giudiziale.

Ciò premesso, è necessaria una precisazione. L’errore giudiziario non deve essere confuso con l’errore del giudice, non essendo i due fenomeni tra loro necessariamente connessi[19].

L’errore del giudice manca, ad esempio, in presenza di una condotta dolosa, benché nulla escluda che sia proprio il comportamento doloso dell’organo giudicante ad avere un’efficacia causale diretta, anche se non esclusiva, sulla pronuncia di una condanna ingiusta[20]. Né, all’opposto, è possibile escludere l’erroneità del risultato del processo quando la mancata corrispondenza tra la decisione resa e quella che sarebbe stata la decisione “giusta” sia dipesa da elementi estranei al giudice[21].

Nel corso degli anni, è evidente il contributo che le scienze psicologiche hanno fornito (e possono ancora fornire) al diritto per individuare bias ed euristiche, in quanto potenziali distorsioni dei processi cognitivi. Gli studiosi, in particolare psicologi, che si sono occupati di ragionamento giuridico hanno identificato e catalogato queste “trappole mentali”, partendo dall’assunto che i giudici, come tutti gli esseri umani, «si affidano (più o meno consciamente) a euristiche e scorciatoie di ragionamento che possono portarli a trarre conclusioni sbagliate e a prendere decisioni irrazionali»[22].

Negli anni sono aumentate le ricerche volte a definire delle raccomandazioni per mitigare queste “trappole cognitive” e tutte convergono nel ritenere che solo attraverso un atteggiamento di critica integrale si potrebbe giungere a un qualcosa di cui non si ha dubbio[23]. Nel processo giurisdizionale, è il contraddittorio che svolge precipuamente questa funzione: il giudice si trova di fronte ad una tesi e una antitesi, dove quest’ultima rappresenta proprio la considerazione dell’opposto.

Un altro strumento che merita la massima attenzione è il cosiddetto debiasing, ossia l’analisi e la progettazione di procedure e tecniche in grado di contrastare l’influenza delle illusioni cognitive e ridurne l’impatto negativo[24]. Queste tecniche promuovono il passaggio da una modalità di pensiero automatica ed euristica ad una controllata e regolata da un processo cognitivo strutturato[25].

L’immagine del giudice che emerge da tali ricerche è piuttosto lontana da quella ideale che il “pubblico” si aspetta, anzi pretende. In altri termini, questi risultati possono sollevare legittime preoccupazioni sul corretto funzionamento dei nostri sistemi legali. Senza considerare che le illusioni cognitive costituiscono solo una delle possibili fonti di errore in ambito giudiziario.

Il “ben giudicare” impone la previa comprensione del conflitto potenziale tra le norme che implicitamente governano il processo e la regola di giustizia, «il contrasto tra ciò che è giusto e ciò che è legale»[26]. La via migliore per procedere in tal senso, allora, non è negare gli inevitabili determinismi che incombono sull’atto del giudicare, bensì prenderne coscienza.

Il “ben giudicare” impone, quindi, non solo di procedere verso una decisione, quanto di regredire verso quel “pre-giudizio”[27]. E il segreto per riuscirci è «introvertire il potere che è assegnato (al magistrato), ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza»[28].

La sfida si sposta, a ben vedere, sul terreno della concreta efficacia del modello processuale, mentre va stagliandosi all’orizzonte una nuova figura professionale di magistrato: «un uomo di cultura a tutto tondo, non solo giuridica ma anche umanistica e scientifica, un responsabile ed efficace valutatore del fatto e interprete del diritto, un buon ragionatore e decisore di qualità, esperto nelle tecniche logico-inferenziali e nella verifica degli schemi statistico-probabilistici. E, però, libero da vincoli e condizionamenti che non siano la legge, la ragione e l’etica del dubbio»[29].

2. Errore giudiziario e ingiusta detenzione: le ingiustizie della giustizia penale

2.1 La “vittima” del procedimento penale: un “nuovo” processo di vittimizzazione

Secondo una definizione generale, per “vittima” si intende «chi subisce le conseguenze dannose di calamità, incidenti, vizi, difetti, azioni ingiuste e/o violente, errori»[30]. Più sinteticamente, ma in maniera altrettanto efficace, la vittima è principalmente «una persona che è stata mortificata nella sua dignità umana, frutto di identità fisica, ma anche psicologica»[31].

Nei vari passaggi che concorrono a caratterizzare tutte le esperienze vittimizzanti, la costante è rappresentata dal fatto che l’evento dannoso va ad intaccare significativamente la dimensione della fiducia propria di un individuo, espropriandolo di «quella fondamentale aspettativa avente valenza positiva che, in condizioni di incertezza, è capace di rassicurarlo rispetto alle azioni ed alle comunicazioni che intrattiene con il contesto nel quale vive e opera»[32].

In questa prospettiva più generale, quindi, è possibile attribuire la qualità di vittima al soggetto che sopporta un’ingiuria o una sofferenza, che, per i comuni valori della collettività, non solo giuridici, sono sentite come ingiuste. Ampliato così il perimetro delle vittime a quelle da azioni neutre o lecite, nulla osta a ricomprendervi situazioni quali l’innocente condannato e che solo dopo anni, magari di detenzione, vede riconosciuta la sua estraneità al fatto, oppure, ricorrendo particolari condizioni e circostanze, il destinatario dell’azione penale.

Per “vittima del processo” intendiamo, dunque, colui che viene, a vario titolo, riconosciuto estraneo alla vicenda processuale.

Con un avvertimento, però. Tale riferimento non vuole affrontare la questione della responsabilità del giudice, sotto le sue diverse declinazioni, ma la possibilità che l’ordinamento risarcisca, indennizzi, ripari, e soprattutto tuteli l’indagato e/o l’imputato che risultino aver subito un pregiudizio ingiusto dal processo, per effetto di una attività processuale condotta nel rispetto delle regole[33].

2.2 Errore giudiziario e ingiusta detenzione. I costi dell’”ingiustizia”

Orbene, se è vero che non ogni errore assurge, per l’ordinamento, al rango di “errore giudiziario”, almeno nella sua accezione costituzionale[34], ciò però non deve indurre nell’equivoco di restringere l’errore giuridicamente rilevante al solo caso di erroneo giudicato di condanna.

In quest’ottica, pare più opportuno ritenere errore giudiziario quello che determina l’ingiusta lesione della libertà e della presunzione di non colpevolezza, nella sua duplice portata di regola di giudizio e regola di trattamento dell’imputato[35]. Non a caso, il diritto alla libertà personale (art. 13 Cost.) e gli altri diritti di libertà che la Costituzione qualifica inviolabili (art. 14 e 15 Cost.) sono quelli che più pericolosamente possono venire posti in gioco durante lo svolgimento del procedimento penale, e, non a caso, tale loro qualificazione si correla, a livello costituzionale, con la solenne proclamazione di inviolabilità del diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento (art. 24 comma 2 Cost.), che pure assume il suo più tipico risalto in rapporto all'imputato.

In merito, un interessante studio condotto dalla associazione “Errorigiudiziari.com”[36] consente di farsi un’idea circa l’ammontare degli errori giudiziari in Italia – da intendersi come ingiusta detenzione ed errore giudiziario in senso stretto – e dell’ammontare delle persone vittima di ingiusta detenzione.

Dal 1991 al 21 dicembre 2021, i casi totali di errori giudiziari in Italia sono stati 30.231, per una spesa complessiva in indennizzi e risarcimenti di circa 900 milioni di euro.

Per quanto riguarda i casi di ingiusta detenzione, dal 1991 (anno da cui parte la contabilità ufficiale delle riparazioni per ingiusta detenzione nei registri conservati presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze) al 31 dicembre 2021, si sono registrati 30.017 casi: in media, poco più di 1000 innocenti in custodia cautelare ogni giorno.

Nel solo anno 2019 i casi di ingiusta detenzione sono stati 1000, per una spesa complessiva in indennizzi di cui è stata disposta la liquidazione pari a 44.894.510,30 euro. Nel 2020, invece, i casi di ingiusta detenzione sono stati “solo” 750, anche se è molto probabile che il calo sia dipeso dal diffondersi della pandemia da COVID-19, che ha rallentato pesantemente l’attività giudiziaria a tutti i livelli.

Per quanto riguarda le statistiche sugli errori giudiziari veri e propri, dal 1991 al 31 dicembre 2021, il totale è di 214, per un totale di 76.255.214 euro in risarcimenti (pari a una media che sfiora 2 milioni e 500 mila euro l’anno).

Senza considerare i cosiddetti “innocenti invisibili”, ossia coloro che sfuggono alle statistiche in quanto si sono visti rigettare la domanda di riparazione. In merito, il Ministero della Giustizia ha reso conto che nel 2020 le istanze di riparazione per ingiusta detenzione respinte sono state l’equivalente del 77% rispetto al totale di quelle presentate.

3. Restoring “injustice”. Percorsi riparativi per le “vittime” della giustizia penale

3.1 Capire, conoscere, riparare. Il “nuovo” volto umano della giustizia

Scriveva Ulpiano: «La giustizia consiste nella costante e perpetua volontà di attribuire a ciascuno il suo diritto»[37].

Nel suo significato più immediato, tale formula esprime il principio secondo cui ciascuno, nessuno escluso, ha sempre qualcosa di propriamente ed esclusivamente suo, ossia è titolare di un qualcosa che ciascun altro ha il dovere incondizionato di riconoscergli.

Da questo punto di vista, il contesto di realizzazione della giustizia è il rapporto, ossia la coesistenza intersoggettiva, nell’ambito della quale essa si estrinseca dapprima in un atto di riconoscimento delle spettanze altrui e, solo in seguito, nella restituzione di tali spettanze all’individuo (iustitia est ad alterum)[38].

La percezione di tale idea di giustizia da parte dell’uomo avviene come un fatto della ragione, ossia è innata, come l’idea di verità, di bene e di bellezza. In realtà, però, la giustizia, come del resto la verità, «non è a portata di mano: è una conquista complicata, aspra, faticosa, qualcosa che si deve fare di giorno in giorno, senza rivelazioni e senza miracoli»[39].

Come afferma Zagrebelsky, «la giustizia è un’esigenza che postula un’esperienza personale: l’esperienza, per l’appunto, [...] dell’ingiustizia e del dolore che ne deriva»[40].

Il fatto stesso che si producano discorsi circa il tema della giustizia, nelle sue molteplici forme, testimonia la pervasività che l’ingiustizia ha raggiunto nell’esperienza umana[41].

Da questo punto di vista, dunque, “ristabilire la giustizia” significa ritessere le relazioni dell’umano all’interno delle quali ciascuno è «ospite, ospitando e ospitato secondo una processualità corresponsabile che concreta la presa in carico, la valorizzazione e la promozione dell’umano»[42].

Dire “giustizia” significa dire “relazione”[43]. In questo modo, la relazione, che si determina come un «coinvolgimento in atto», si farebbe vettore efficace della realizzazione di una «convivenza assiologicamente arricchita», cioè della «costruzione di una situazione di valore tra soggetti che si impegnano a far prevalere la logica del riconoscimento reciproco, nell’attribuzione di diritti e di doveri, su quella del dominio e dell’antagonismo»[44].

È necessario rompere gli schemi, correre dei rischi, aprirsi ad una visione più complessiva, ascoltare «il grido della domanda di giustizia»[45]. Così, se «la giustizia penale è il regno della fissità»[46], la giustizia riparativa, con la sua «capacità “umanistica” di uscire rapidamente dai propri quadri mentali», invita a muoversi, ad «andare in-contro»[47].

La flessibilità dei percorsi di giustizia riparativa consente di lavorare senza schemi rigidi, in omaggio alla adattabilità dei programmi ai bisogni delle persone coinvolte. La giustizia riparativa si presenta come “arte” per la cura, anzitutto, del sé e per la ricomposizione delle dinamiche relazionali[48].

Ecco allora che il “fare giustizia” si trasforma in un «processo salvifico, tanto di chi ha subito il torto, quanto di chi lo ha commesso»[49], nel quale, però, è necessario «passare dalla trama intellettuale al versante emotivo, dove incontriamo una coppia di figure: risentimento e approvazione, un impulso aggressivo e uno benevolo»[50]. Questo sentire «ad alta definizione»[51] si pone come precondizione per il riconoscimento dell’altro, componente imprescindibile di tutti i programmi di giustizia riparativa.

Il «sentire profondo che si fa sentire-per-l’altro»[52], l’empatia è il motore della riparazione. Il che non implica necessariamente riconciliazione – non richiesta e non dovuta – ma semplicemente riconoscimento di una realtà più articolata[53]. E, tuttavia, restarvi imprigionato può aver risvolti disastrosi. Stante la necessità di dare la possibilità ai partecipanti di esprimere adeguatamente ed interamente le loro emozioni connesse al conflitto, dopo aver attraverso tali «abissi di significato»[54] è fondamentale andare oltre, passare «dal livello in cui si sentono le proprie emozioni, a quello in cui il sentire è applicato ai valori»[55].

L’obiettivo è, dunque, quello di una «giustizia che cura»”[56], senza l’illusione di guarire. In altri termini, per trasformare i conflitti in qualcosa di utile è necessario «prendersene cura» senza volerli «curare»[57].

Una volta stabilito che una via d’uscita è possibile, bisogna individuarne la direzione, o meglio, le direzioni.

Com’è possibile trovare risposte significative alla domanda di giustizia che nasce da un’ingiustizia patita? Che cosa è possibile fare per alleviare il proprio senso di ingiustizia?

C’è una «sottile linea rossa» che collega tra di loro tutte le esperienze di vittimizzazione ed è quella che Adolfo Ceretti definisce «la perdita del prima». È la perdita del sentimento di fiducia nei confronti di quel «mondo che è capace di donare anche sicurezza, ma che», almeno secondo le vittime, «non ci sarà mai più»[58]. Ed è su questo “mai più” che, chi si occupa di giustizia riparativa, cerca di investire, per tentare di ricomporre i frammenti di un «passato che non passa»[59].

La percezione di un fatto traumatico e la sua elaborazione, in quanto processi individuali, non saranno mai identici per due o più persone che sperimentano lo stesso fatto: dipenderà da fattori personali, sociali, culturali. Ben si comprende, allora, come il dialogo, laddove libero e volontario, sia il mezzo fondamentale per condividere le memorie e contribuire a sciogliere il nodo del conflitto, con sé stessi e con gli altri. Correttezza, sincerità, esaustività e trasparenza hanno un ruolo centrale nella comunicazione, nella fiducia e nella salvaguardia della dignità delle persone[60].

Occorre ascoltare attentamente e attivamente, ponendo attenzione sia a ciò che si ascolta, sia a chi si ascolta, per trasmettere prossimità e comprensione[61]. Senza dimenticare che vi possono essere «parole non dette», quelle che rimangono «chiuse dentro la prigionia della paura della verità e della responsabilità, schiacciate dal senso di colpa o chiuse nel gelido silenzio di un dolore muto e fisso che la giustizia non sa riscaldare»[62].

Elemento essenziale per il funzionamento di questo paradigma è il linguaggio. “Fare” giustizia riparativa significa usare un linguaggio capace di cogliere l’integralità dell’esperienza umana, un linguaggio che viene definito «intrinsecamente empatico o funzionalmente cooperativo»[63], intraducibile nel mero dato normativo o procedurale. La parola costituisce un fattore centrale, divenendo quest’ultima lo strumento mediante il quale si tenta di gestire il conflitto e di ricomporre la frattura[64]. «Le parole del diritto e quelle della storia», in particolar modo nel caso di errori giudiziari, «hanno un terreno di incontro (rectius: di scontro) quanto mai doloroso e foriero di possibili effetti nefasti»[65].

Il volto dell’Altro chiama alla responsabilità – da respondeo – che non è solo la capacità giuridica di rispondere delle proprie azioni, ma anche la capacità morale di rispondere a chi mi interpella, mi reclama, ha bisogno di me[66]. La forza del paradigma riparativo è proprio questa: “so-stare” reciprocamente l’uno accanto all’altro con attenzione, rispettandosi e accompagnandosi nel cammino, nell’ottica di una prospettiva relazionale umanizzante.

Nell’abbandonarsi, però, ciascuno corre il rischio che il legame non sia reciproco. E anche se il legame è reciproco, la qualità e la quantità del coinvolgimento emotivo può essere diversa. «L’eteronomia creata dall’investimento delle emozioni», tuttavia, «è avvertita come qualcosa di intrinsecamente buono, anziché come una disgrazia»[67].

Si tratta, dunque, di ristabilire un clima di fiducia, anche per il tramite di un trattamento sensibile e professionale, che muova dalla possibilità di comprendere ed essere compresi. Laddove il processo penale ostenta la dimensione fisica dell’alterità[68], «la restorative justice vuole ad ogni passo mostrare la dimensione», talora difficile da sopportare, «della comunanza»[69].

Nell’ambito della giustizia riparativa, la relazionalità è fondamentale punto di partenza e prospettiva dalla quale guardare al conflitto, partendo dalla constatazione che «i conflitti inascoltati o delegati mantengono aperte ferite e aumentano distanze»[70]. Tale percorso relazionale, tuttavia, trascende la logica dei ruoli definiti dall’ordinamento giuridico.

Eppure, proprio la simultaneità di presenza in un contesto protetto, libero e volontario, nel quale potersi confrontare su quel che conta (anche soggettivamente e sul piano esistenziale), fuori da schemi imposti dall’esterno «consente di intravedere i risvolti altrimenti meno conoscibili, per le parti stesse della vicenda, il che conduce molto vicino a ciò che potremmo definire la “verità” di quell’episodio»[71].

Ma, quale “verità” è possibile?[72] Quale terreno di “verità” (e, dunque, di giustizia) sarà quello in cui potranno giocarsi risposte riparative all’errore nel processo penale?[73].

La risposta alla domanda di verità viene dall’interno. Ciò significa «oltre-passare» il fatto storico, senza che ciò comporti «l’abbandono della ricerca della verità tout court»[74] e, anzi, al contrario «lasciando emergere quest’ultima nelle sue molteplici componenti (oggettive, soggettive e inter-soggettive, diacroniche) grazie alla complementarità di sguardi e di vissuti dei vari protagonisti»[75].

Ebbene, se (almeno) uno dei fini del processo è l’accertamento della verità, il fine della giustizia riparativa è «la riparazione di ciò che è stato distrutto passando per la verità (o meglio, per le verità narrate e ascoltate), la quale diventa, dunque, un mezzo»[76].

Questo è l’ardito compito di dare parola alle verità: è una verità nel senso di una «limpida franchezza», nel senso della «coincidenza tra ciò che si dice e ciò che si crede intimamente vero»[77]. L’immaginario riparativo condensa in primis su di sé i «messaggi intraducibili»[78].

È soprattutto una verità che ha bisogno di ascolto. Il desiderio di ascolto e di «validation»[79] delle emozioni si colloca nella fascia prossima all’apice dell’ideale «piramide dei bisogni»[80] delle vittime.

Ascoltare i bisogni di queste persone, riconoscere e “accogliere” le emozioni e adottare, di conseguenza, modalità operative adeguate (consulenza, relazionalità, assistenza o supporto) è la nuova sfida della giustizia riparativa.

3.2 “Healing Justice: addressing the harm caused by wrongful convictions”

Ormai più di trent’anni fa, nel 1992, due avvocati di New York, Barry Sheck e Peter Neufeld, hanno dato vita a Innocence Project, un’associazione non-profit istituita presso la Benjamin Cardozo School of Law della Yeshiva University al fine di contrastare il fenomeno delle miscarriages of justice.

Gli obiettivi principali che hanno ispirato, almeno in una prima fase, l’attività dell’associazione sono stati due: consentire la liberazione delle persone erroneamente detenute attraverso il ricorso al test del DNA; riformare la legge e il sistema penale, al fine di evitare il ripetersi di future ingiustizie[81].

Nel corso degli anni, l’attività di Innocence Project si è estesa oltre i confini statunitensi, grazie alla creazione di un network mondiale (The Innocence Network[82]), composto da 69 organizzazioni in tutto il modo: Taiwan, Australia, Nuova Zelanda, Argentina, Sudafrica, Israele, Italia, Irlanda, Francia e Paesi Bassi. In particolare, The European Innocence Network – attualmente presieduto dal Prof. Luca Lupária[83] – si propone come principale obiettivo quello di riunire organizzazioni, personalità accademiche (e non) e progetti operanti in Europa dediti allo studio dei casi di errori giudiziari e all’assistenza delle persone ingiustamente condannate[84].

In tal senso, molta strada è ancora da percorrere per la giustizia riparativa. La storia di Jennifer Thompson, testimone oculare di una verità sbagliata, ne è l’esempio lampante.

Jennifer Thompson era una studentessa di 22 anni quando un uomo fece irruzione in casa sua nella notte e la violentò. Determinata a identificare quello che lei stessa era certa ricordare fosse l’autore di quell’atroce reato, Thompson indicò con assoluta certezza Ronald Cotton, di lì a poco condannato all’ergastolo sulla base della sola testimonianza della ragazza. Fu soltanto nel 1995, dopo dieci anni di carcere, che Cotton fu riconosciuto estraneo ai fatti grazie alle dichiarazioni rilasciate da un altro uomo che sosteneva di aver commesso quella violenza undici anni prima, ma soprattutto grazie ad un nuovo mezzo di prova utilizzato per far luce sul caso: la prova del DNA[85].

«Ero assolutamente sicura – scriveva Thompson sul New York Times – ed ero assolutamente in errore». Fu allora che, nel disperato bisogno di essere perdonata per quella che sentiva essere una sua responsabilità, decise di incontrare quell’uomo.

«What Ron and I did that day was restorative justice in its purest form. And it was so simple. It doesn’t take someone with a PhD, it doesn’t take wealth; it takes two people who are harmed to come together and share their experiences being victimized and being made to feel like a perpetrator. I thought, why can’t we implement that at a deeper and wider level?»[86].

Nel 2014, Jennifer Thompson, con l’aiuto di David Onek, al tempo executive director del Northern California Innocence Project, e di Sujatha Baliga, practicioner di giustizia riparativa, decise di organizzare un ritiro di tre giorni presso il Conference Center a nord di San Francisco, per dare la possibilità ad “esonerati”[87] e vittime di reato di incontrarsi[88].

Il timore e la preoccupazione di raggruppare, fin da subito, persone appartenenti allo stesso caso giudiziario fu avvertito da tutti i partecipanti. «For the crime victims, there was a need to seek forgiveness after articulating their mistaken beliefs and the harm they caused, however unwittingly. And there was a need to describe their own pain, not just as a crime victim, but as a stricken bystander, sidelined throughout the exoneration process. The exonerees wanted their voices heard, too, as they described the brutality of what they had been forced to endure. They forgave the victims but felt it was important for them to understand the lasting impact of the wrongful conviction as they struggled to remake their lives»[89].

Ciò che è stato osservato è che anche in questi casi la restorative justice è in grado di orientare al futuro. In tutte le esperienze, è emerso - con grande stupore - che sono coloro che hanno vissuto in prima persona il dramma della condanna ingiusta che hanno sentito l’urgenza di assistere gli altri.

Secondo Lisa Rea, «wrongful convictions create many levels of victims including the innocent individual, his family and friends, but also society since the actual perpetrator is free to commit another crime. Equally important, of course, is the direct effect crime has on the primary crime victim and family since justice is denied. Often crime victims have believed for years that the guilty offender is imprisoned. When faced with new evidence, including DNA, exonerating an incarcerated individual the victim must then grapple with the truth which is hard to accept and traumatic. Restorative justice is needed at this juncture to encourage healing for the crime victim and the innocent person who is exonerated. Real justice must then require a renewed commitment to finding and convicting the actual perpetrator who oftentimes remains at large»[90].

È fondamentale che le persone che sono state aiutate dalla giustizia riparativa, che ne hanno tratto beneficio, continuino ad usare la loro ritrovata conoscenza e il loro ritrovato potere per stimolare il cambiamento, per far sì che casi come i loro diventino pressoché inesistenti. Invero, è l’esemplarità di queste esperienze, ancora allo stato embrionale, che fa «vedere in controluce un’idea nuova, non utopica, di giustizia di cui è possibile perfino immaginare qualche declinazione pratica»[91].

La speranza, nelle parole di Jennifer Thompson, è quella di poter andare oltre, di poter coinvolgere giudici, giurati, polizia giudiziaria, pubblica accusa, difensori. E ciò avviene quando l’ordinamento si sforza di farsi carico di «quel bisogno misterioso e pungente che è pure una speranza, chiamata da sempre giustizia»[92].

Organizzare un dialogo tra le “vittime” di errori giudiziari e i loro “perpetratori” non è cosa semplice. Le istituzioni statali, in particolare, sono in genere riluttanti ad assumersi una “responsabilità”[93], anche quando ci si rende conto che degli errori sono stati commessi.

In questo caso, si ritiene che la comunità e la società civile possano svolgere un ruolo fondamentale nel processo di coinvolgimento e di mobilitazione. Individuare delle leadership locali che siano simbolicamente rappresentative, in grado di fare da «membrana tra gli individui e le istituzioni»[94], attraverso la creazione di nuove pratiche sociali.

Ecco allora che la giustizia riparativa si prospetta, ancora una volta, come una giustizia delle persone e delle relazioni. «[...] L’interlocutore accetta che (gli) si dica la verità, tutta la verità, ancorché dura e sgradevole, con il rischio per entrambi dell’odio e della lacerazione [...] ma capace, proprio per questo, proprio in questo momento, di unire e riconciliare»[95].

Ad oggi, osserva Lara Bazelon, «restorative justice as applied to exoneration cases remains very much a work in progress. There is no clear framework or “right” way to proceed. At this early stage, it is impossible to say what its impact will be...»[96].

«Ma da dove – scrive Agostino – solitamente sorgono la meraviglia e ciò che è la madre di tale imperfezione, se non da un avvenimento insolito, fuori dell’apparente ordine delle cause?»[97].

3.3 Giustizia riparativa ed errori giudiziari in Italia: spunti comparatistici

La restorative justice dona voce alla complessità del sé, lasciando emergere potenzialità nascoste, illuminando zone d’ombra, ma, soprattutto, lasciando emergere l’irruzione dell’alterità. Tuttavia, l’opportunità di parlare dell’«eccedenza»[98] della propria esperienza, raccontare l’ingiustizia subita, dare voce alla propria sofferenza è strettamente dipendente da una politica che prometta di porvi rimedio[99].

Se da un lato, infatti, la “riparazione” in termini economici rappresenta senz’altro «un analgesico dell’insopportabile», dall’altro lato finisce col divenire la «pressoché unica modalità di parlare istituzionalmente non solo di un avvenimento luttuoso, ma anche di un’offesa subita»[100].

Senza contare che non tutte le “vittime” di errori giudiziari e ingiusta detenzione accedono effettivamente alla riparazione pecuniaria. Chi sono questi “innocenti invisibili”?

Vi sono i “disgustati dalla giustizia”, coloro che una volta conclusa la loro vicenda giudiziaria sono talmente stanchi e vinti da non volerne più sapere di aule di giustizia, carte bollate, avvocati. Vi sono poi i “dissanguati dalla malagiustizia”, coloro che, pur facendosi forza e volendo continuare la loro “battaglia”, non hanno le risorse economiche necessarie per sostenere le spese legali per la presentazione della domanda. Ed infine, la categoria più numerosa, o per lo meno quella che è più facilmente calcolabile: coloro che vengono respinti per un “cavillo”, in particolare tutti coloro i quali si sono visti respingere l’istanza di riparazione per ingiusta detenzione perché hanno «contribuito, con colpa grave, all’applicazione della misura custodiale» (art. 314, comma 1, c.p.p.).

La direttrice da percorrere pare, dunque, quella dell’interazione, della connessione, della reciprocità, ove possibile, tra i due “parametri di giustizia”, al fine di costruire un modello che, essendo riparativamente orientato, possa consentire una giustizia più inclusiva, che tenga in considerazione le reali esigenze di tali vittime[101]. Fino al punto che l’incontro dialogico potrebbe bastare, di per sé stesso, a soddisfare le vittime, che potrebbero persino perdere interesse verso la richiesta di una riparazione materiale.

L’ordinamento dovrebbe promuovere l’empowerment e la resilienza, non solo in riferimento alla “vittima” dell’errore giudiziario, ma anche in riferimento alla comunità nel suo complesso, per comprendere quali programmi possano meglio garantire sia a livello pratico, sia a livello culturale, la trasformazione della società civile.

Soprattutto da questo punto di vista si incontrano, ancora oggi, numerosi ostacoli: la disponibilità effettiva di programmi di giustizia riparativa, il carattere inclusivo di detti programmi rispetto alla comunità, la formazione dei soggetti che hanno un primo contatto con le “vittime” e quella dei facilitatori, il dialogo efficace, il dialogo efficace tra giustizia riparativa e sistema penale[102].

Sebbene un tale segnale politico-criminale non sembri essere stato colto, né tantomeno recepito, dal legislatore italiano, molto può essere fatto, anzitutto sul terreno della disseminazione di conoscenza e della sensibilizzazione. In tal senso, emblematica è la proposta volta ad istituire una Giornata nazionale dedicata alle vittime di errori giudiziari, nata nel 2020 da un’idea avanzata dal Partito Radicale, dall’associazione Errorigiudiziari.com, dalla Fondazione internazionale per la giustizia “Enzo Tortora”, dal Comitato radicale per la giustizia Piero Calamandrei e dall’associazione “Il detenuto ignoto”. Per questa ricorrenza è stata scelta la data del 17 giugno, che nel 1983 vide l’arresto di Enzo Tortora, con l’auspicio di sensibilizzare non soltanto gli operatori del diritto, ma anche l’opinione pubblica, affinché si possa costruire una memoria storica funzionale alla riduzione degli errori giudiziari.

L’8 luglio 2020, la Commissione Giustizia del Senato ha dato il mandato di inviare all’Aula tale proposta, seppur senza risultati soddisfacenti. In particolare, durante la seduta conclusiva della Commissione Giustizia, diversi parlamentari hanno sostenuto che «la proposta per una giornata per le vittime di errori giudiziari è pericolosa perché aumenta il rischio di strumentalizzazioni», in quanto «c’è il rischio che tutto ciò si trasformi nella istituzione di una giornata contro il potere dello Stato»[103]. Sennonché, dopo quasi due anni di silenzio, i senatori Andrea Ostellari e Francesco Urraro, sottoscrittori del disegno di legge, già approvato dalla Commissione Giustizia, hanno annunciato che presto (finalmente!) il testo arriverà in Aula. Per il momento, dunque, dovremo accontentarci della “International Wrongful Conviction Day”, istituita nel 2014 su iniziativa dell’Innocence Network e celebrata il 2 ottobre di ogni anno.

Molto, ancora, potrà essere realizzato anche per la formazione degli operatori della giustizia riparativa.

Come sosteneva Ricoeur, «è necessario credere nell’efficacia della riflessione perché la grandezza dell’uomo è nella dialettica del lavoro e della parola; il dire e il fare, il significare e l’agire sono troppo mischiati perché un’opposizione durevole e profonda possa essere istituita tra teoria e prassi». La nostra, pertanto, deve essere una «parola che riflette efficacemente ed agisce pensosamente»[104].Tenendo bene a mente che il perdono e la riconciliazione non sono degli obiettivi, ma delle possibilità. Invero, «ognuno rimane iscritto nel suo passato (immemorabile per l’altro), nella sua lingua, nella sua storia»[105].

L’effetto trasformativo non sempre è raggiunto. Talvolta, però, i percorsi riparativi portano le “vittime” ad una migliore accettazione dell’evento e, perciò̀, a sperimentare la closure[106]. Un “chiudere i conti” con il passato che il sistema penale, ad oggi, non è in grado di offrire.

4. Conclusioni

La giustizia riparativa quale luogo di incontro, di dialogo, di “cura” per i soggetti coinvolti, è una giustizia che rimette al centro l’idea della relazione, al fine di esplorare la profondità della comprensione emotiva di sé e dell’”altro” e offrire uno spazio possibile per dinamiche di veridizione sconosciute (e pour cause) al procedimento penale.

È questo un punto decisivo: ascolto del vissuto emozionale, soddisfazione di aspettative e bisogni, cura delle ferite e dei traumi cagionati dal reato, trasformazione del conflitto. Fare questo significa comporre narrazioni in grado di ricostruire l’identità stessa del soggetto che si esprime.

In quanto giustizia dell’incontro, la giustizia riparativa chiama in causa tutti i soggetti coinvolti – vittime, comunità e istituzioni pubbliche – al fine di promuovere il rispristino di quel sentimento di fiducia “diffusa”, di quel senso di sicurezza che dovrebbe caratterizzare il rapporto tra cittadino e autorità. L’esperienza statunitense di Healing Justice, unica nel suo genere, ha mostrato come l’incontro e il dialogo, prima di ogni altra cosa, abbiano la capacità di innescare processi di guarigione e di riconciliazione.

Molto dovrà essere fatto sul terreno della sensibilizzazione e del coinvolgimento, anzitutto della società civile. Il coinvolgimento di vasti settori della comunità costituisce di certo un elemento di proficua “umanizzazione” del sistema penale. In questo senso, i programmi di restorative justice consentono alla comunità di entrare con diverse modalità nella dimensione riparativa, potendo esercitare un ruolo diretto o indiretto nella risoluzione del conflitto. La sfida più grande sarà quella con le istituzioni, ad oggi pressoché indifferenti di fronte all’aumento esponenziale di errori giudiziari nel nostro Paese: basti pensare che dal 1991 al 2021 i casi sono stati 30.231, per una spesa media superiore ai 28 milioni di euro l’anno.

In questa prospettiva, si ritiene che il rafforzamento e l’estensione delle pratiche riparative potrà contribuire a edificare un sistema che, attraverso l’ascolto, sarà in grado di generare fiducia nel futuro, fiducia nella Giustizia.


Note e riferimenti bibliografici

[1] M. Taruffo, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Roma-Bari, 2009, 32 ss. Come osserva G. Ubertis, Prova, verità e processo, in Arch. pen., 2020, 2, 549, «di un fatto non è mai compiuto un “accertamento” immediato nella sua “datità”». Ubertis parla, in proposito, di «processo come verbalizzazione dell’esperienza».

[2] M. Taruffo, La semplice verità, cit., 43.

[3] M. Taruffo, Sui confini. Scritti sulla giustizia civile, Bologna, 2002, 121 ss. In particolare, cfr. W. Twining, Rethinking Evidence. Exploratory essays, II ed., Cambridge, 2006, 338, il quale ha osservato come le narrazioni processuali si fondino sullo «stock of knowledge» che costituisce il contenuto del senso comune. Nella cultura giuridica europea esiste da tempo la tendenza a concettualizare la nozione di “generalizzazioni di senso comune”, con lo scopo di attribuire ad esse uno status epistemico meno vago. Sul punto, cfr. F. Stein, Das private Wissen des Richsters. Untersuchungen zum Beweisrecht beider Prozesse, Leipzig, 1893, 16 ss. secondo il quale si tratta di «definizioni o giudizi ipotetici di contenuto generale, indipendenti dal caso concreto da decidersi nel processo e dalle sue circostanze singole, guadagnate mediante l’esperienza, ma autonome rispetto ai singoli casi dalla cui osservazione sono tratte, e oltre i quali pretendono valere per altri casi». Cfr. ampiamente F. Stella, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, III ed., Milano, 2003, 350 ss.

[4] Sul punto, G. Ubertis, Profili di epistemologia giudiziaria, Milano, 2015, 73.

[5] Per un’analisi approfondita delle varie definizioni, cfr. G. Ubertis, Sistema di procedura penale, I, Principi generali, IV ed., Milano, 2017, 81 ss.

[6] Così G. Ubertis, Sistema di procedura penale, cit., 67.

[7] G. Ubertis, Profili di epistemologia giudiziaria, cit., 13.

[8] F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale. Parte generale, III, Prato, 1886, 201.

[9] M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, Milano, 2017, 1 ss.

[10] Sulla distinzione tra verità formale e verità materiale, cfr. F. Carnelutti, La prova civile, Roma, 1947, 29 ss.

[11] Così M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, cit., 4.

[12] M. Taruffo, Verso la decisione giusta, Torino, 2020, 115.

[13] Sull’accesso inevitabilmente relativo alla verità che è proprio della condizione umana e, a fortiori, del processo, cfr. M. Taruffo, La semplice verità, cit., 82 ss.

[14] M. Taruffo, Verso la decisione giusta, cit., 192 ss.

[15] L. ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Milano, 1989, 23.

[16] Così M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, cit. 157.

[17] Così G. Ubertis, Sistema di procedura penale, cit., 71, il quale ricorda che «l’accertamento di tale verità non è il fine ultimo del processo, ma il presupposto per poter adeguatamente decidere quale sia la legge applicabile nel caso concreto». In proposito, si è puntualmente osservato che conseguenza della scelta di civiltà giuridica di allocazione sullo Stato del rischio connesso alla fisiologica fallibilità della conoscenza giudiziaria è il «netto sbilanciamento nella determinazione della qualità delle sentenze»: la sentenza che, errando sostanzialmente, assolve un colpevole, evitando di condannare un imputato innocente, è valida e processualmente giusta; quando, al contrario, quel rischio non sia scongiurato, la sentenza, seppur valida e processualmente giusta, è nondimeno «sostanzialmente ingiusta». Così P. Troisi, L’errore giudiziario tra garanzie costituzionali e sistema processuale, Padova, 2011, 93.

[18] Sul punto, v. M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, cit., 42 ss.

[19] P. Troisi, L’errore giudiziario tra garanzie costituzionali e sistema processuale, cit., 1 ss.

[20] È il caso disciplinato dall’art. 630 lett. d) c.p.p. che include, tra i casi di revisione, l’ipotesi in cui sia dimostrato che la condanna è stata pronunciata in conseguenza di falsità in atti.

[21] E. Capalozza, Contributo allo studio dell’errore giudiziario in materia penale, Padova, 1962, 63.

[22] Così G. Canzio, Alle radici dell’errore giudiziario: “Heuristics and biases”, in L’errore giudiziario, a cura di Lupária Donati, Milano, 2021, 81.

[23] In questo senso, cfr. le “Linee guida psicoforensi per un processo sempre più giusto”, elaborate ad opera di magistrati, avvocati, psicologi, psichiatri, neuropsichiatri infantili e criminologi, reperibili sul sito della Fondazione Gulotta (fondazionegulotta.org) a partire dal 24 novembre 2013.

[24] Sul punto, cfr. G. Cevolani, V. Crupi, Come ragionano i giudici: razionalità, euristiche e illusioni cognitive, in disCrimen, 2018, 23; R. Larrick, Debiasing, in Blackwell Handbook of Judgement and Decision Making, a cura di Koehler – Nigel, Oxford-Malden, 2004, 316 ss.

[25] Sul punto, v. ampiamente D. Kahneman, Pensieri lenti e veloci, trad. it., Milano, 2012, 23 ss.

[26] B. Tobagi, Portare una rosa fuori dal ventre della balena: come ho cercato una “giustizia della narrazione”, attraverso e oltre i processi, in Giustizia e letteratura – I, a cura di Forti – Mazzucato – Visconti, Milano, 2012, 497 ss.

[27] In proposito, cfr. G. Gulotta, P. Egnoletti, B. Niccolai, L. Pagani, Tendenze generali e personali ai bias cognitivi e la loro ricaduta in campo forense: fondamenti e rimedi, in Sistema Penale, 2021, 26.

[28] L. Sciascia, Il contesto. Una parodia, IX ed., Milano, 2006, 23.

[29] G. Canzio, Alle radici dell’errore giudiziario, cit., 91.

[30] Così G. Marotta, La vittima del processo penale: un nuovo processo di vittimizzazione, in La vittima del processo. I danni da attività processuale penale, a cura di Spangher, Torino, 2017, 437 ss.

[31] Così R. Bisi, Vittime, vittimologia e società, in Con gli occhi della vittima, a cura di Bisi – Faccioli, Milano, 1996, 104.

[32] S. Vezzadini, La violazione della fiducia nei processi di vittimizzazione: la mediazione è una risposta?, in Cittadinanza responsabile e tutela della vittima, a cura di Balloni, Bologna, 2006, 77.

[33] Sul punto, cfr. anche G. Forti, L’immane concretezza. Metamorfosi del crimine e controllo penale, Milano, 2000, 262 ss., il quale mette in guardia da uno dei «maggiori inconvenienti dell’”uso indiscriminato” del concetto [di vittima] nelle scienze sociali», cosa che ha prodotto «l’effetto di perpetuare il persistente “stereotipo popolare” che vede il reo e la vittima diversi come “il cielo e la notte”».

[34] In giurisprudenza si è osservato come l’ordinamento vigente non contempla alcun indennizzo per imputazione “ingiusta”, cioè per un’imputazione rivelatasi infondata a seguito di sentenza di assoluzione (così Cass. Pen., sez. III, 17 gennaio 2008, in CED n. 239004). Vi è però una significativa prospettiva de iure condendo, recepita dal disegno di legge AS 2153, presentato in data 3.12.2015 ed attualmente in esame in Commissione giustizia, che propone di modificare l’art. 530 c.p.p., introducendo un comma 2-bis, in virtù del quale: «Se il fatto non sussiste, se l’imputato non lo ha commesso, se il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice, nel pronunciare sentenza, condanna lo Stato a rimborsare tutte le spese di giudizio, che sono contestualmente liquidate», con la possibilità di compensare, in tutto o in parte, le spese tra le parti «se ricorrono giusti motivi». Nel caso in cui poi si versi in una situazione «di dolo o di colpa grave da parte del pubblico ministero che ha esercitato l’azione penale, lo Stato può rivalersi per il rimborso delle spese sullo stesso magistrato che ha esercitato l’azione penale». Si tratta, come si legge nella Relazione di accompagnamento al testo, di un’iniziativa legislativa tesa ad introdurre nel codice di rito «un principio di equità e di giustizia reale e concreta», di «una norma di civiltà giuridica» tesa a tutelare i cittadini che subiscano la c.d. “cattiva giustizia”. Occorre piuttosto chiedersi, in un contesto caratterizzato dall’elefantiasi della fase delle indagini preliminari, se anche una conclusione delle stesse con una richiesta di archiviazione per infondatezza della notitia criminis o dell’udienza preliminare con una sentenza di non luogo a procedere (scandita dalle stesse formule prima evidenziate), dopo che la persona sottoposta alle indagini preliminari (o l’imputato) abbia magari dovuto contrastare provvedimenti restrittivi della libertà personale o misure cautelari personali e reali di altro genere, con impegno correlato e proporzionato di risorse difensive, o comunque abbia provveduto ad un’onerosa attività di investigazione difensiva, non debba preludere a un rimborso delle spese sostenute. Prospettiva, questa, solo apparentemente ardita se si guarda al dato reale delle vicende giudiziarie. Sul punto, v. G. Gulotta, La vittima, Milano, 1976, 145 ss.

[35] P. Troisi, L’errore giudiziario tra garanzie costituzionali e sistema processuale, cit., 104.

[36] Consultabile al sito internet https://www.errorigiudiziari.com

[37] «Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi» (D.1.1.10pr).

[38] C. Caltagirone, La dimensione relazionale della giustizia tra ospitalità e corresponsabilità, in Per la filosofia, XXV, 2018, 102, 65 ss.

[39] M. Taruffo, Prefazione. Un’ipotesi di lettura, in La giustizia e le ingiustizie, a cura di Forti, Bologna, 2006, 11 ss.

[40] G. Zagrebelsky, L’idea di giustizia e l’esperienza dell’ingiustizia, in La domanda di giustizia, a cura di Martini – Zagrebelsky, Torino, 2003, 16 ss.

[41] Sul punto, cfr. A. Heller, Oltre la giustizia, trad. it., Bologna, 1990, 170 ss., secondo il quale «il “senso della giustizia” è il senso morale riguardo alle questioni della giustizia e dell’ingiustizia»

[42] Così C. Caltagirone, La dimensione relazionale della giustizia tra ospitalità e corresponsabilità, cit., 73.

[43] Sul punto, cfr. G. Zagrebelsky, L’idea di giustizia e l’esperienza dell’ingiustizia, cit., 31 ss.

[44] F. Totaro, Etica dell’essere persona e nuova cittadinanza, in Le ragioni dell’etica: natura del bene e problema fondativo, a cura di Botturi, Milano, 2005, 54.

[45] C. Mazzucato, Per una risposta democratica alle domande di giustizia: il compito appassionante della mediazione in ambito penale, in Ars interpretandi, 2004, 9, 168.

[46] C. Mazzucato, La giustizia dell’incontro. Il contributo della giustizia riparativa al dialogo tra responsabili e vittime della lotta armata, in Il libro dell’incontro, a cura di Bertagna – Ceretti – Mazzucato, Milano, 2015, 256.

[47] M. Bettini, A che servono i Greci e i Romani, Torino, 2017, 6.

[48] Sul punto, cfr. G. Mannozzi, G.A. Lodigiani, Formare al diritto e alla giustizia: per una autonomia scientifico-didattica della giustizia riparativa in ambito universitario, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2014, 1, 155 ss.

[49] G. Zagrebelsky, L’idea di giustizia e l’esperienza dell’ingiustizia, cit., 37-38.

[50] F. Cordero, Gli osservanti. Fenomenologia delle norme, Milano, 1967, 3.

[51] L. Lenzi, Mediazione e verità: oltre-passare le emozioni, in Dignitas – percorsi di carcere e di giustizia, 2004, 4, 59.

[52] G. Mannozzi, G.A. Lodigiani, La giustizia riparativa, Formanti, parole e metodi, Torino, 2017, 128.

[53] Ivi, 141.

[54] C. Mazzucato, Per una risposta democratica alle domande di giustizia, cit., 168.

[55] L. Lenzi, Mediazione e verità, cit., 59, il quale sottolinea come, in quest’ultimo passaggio, i mediatori/facilitatori giochino un ruolo fondamentale per le persone in conflitto.

[56] In tal senso, D.W. Van Ness, K.H. Strong, Restoring Justice. An introduction to Restorative Justice, V ed., London, 2015.

[57] In questi termini, S. Castelli, La mediazione. Teorie e tecniche, Milano, 1996, come riportato da A. Ceretti, Mediazione penale e giustizia. In-contrare una norma, in Studi in ricordo di Giandomenico Pisapia, III, Milano, 2000, 721.

[58] A. Ceretti, Quella sottile linea rossa che unisce tutte le esperienze delle vittime, Atti del Convegno “Sto imparando a non odiare”, Ristretti Orizzonti, Padova, Anno 10, 4, 2008.

[59] C. Mazzucato, La giustizia dell’incontro, cit., 281.

[60] A. Facchi, La verità come interesse collettivo, in Biblioteca della libertà, 2017, LII, 218, 51 ss.

[61] Sul punto, cfr. G. Mannozzi, G.A. Lodigiani, La giustizia riparativa, cit., 11 ss.

[62] C. Mazzucato, La ‘poesia della verità’ nella ricerca della giustizia. Poesia, parresia, esemplarità, giustizia in Giustizia e letteratura – I, cit., 509.

[63] A. Astrologo, Un’introduzione alla giustizia riparativa, in La giustizia riparativa. Atti dei convegni tenutisi a Lugano il 5 novembre 2018 e il 7 maggio 2019, Rivista ticinese di diritto, 2020, I, 346.

[64] La Raccomandazione Rec(2018)8 riconosce la giustizia riparativa quale «metodo attraverso il quale i bisogni e gli interessi di queste parti possono essere identificati e soddisfatti in maniera equilibrata, equa e concertata».

[65] G. Mannozzi, Crisi del sistema sanzionatorio e prospettive di riforma: un dialogo tra storia, diritto ed arte, in Dir. pen. cont., 2017, 4, 99.

[66] In questi termini Z. Bauman, Una nuova condizione umana, Milano, 2003, 12 ss.

[67] A. Heller, Oltre la giustizia, cit., 414 ss.

[68] In tal senso, cfr. S. Jenkins, Families at war? Relationship between ‘survivors’ of wrongful conviction and ‘survivors’ of serious crime, in Int. Rev. of Vict., 2014, 20, 2, 246 ss.

[69] C. Mazzucato, Appunti per una teoria ‘dignitosa’ del diritto penale a partire dalla restorative justice, in Dignità e diritto, 2010, 106.

[70] P. Patrizi, La giustizia riparativa. Psicologia e diritto per il benessere di persone e comunità, Roma, 2019, 13.

[71] C. Mazzucato, Appunti per una teoria ‘dignitosa’ del diritto penale a partire dalla restorative justice, cit., 107.

[72] Nell’ambito della c.d. Transitional justice, per esempio, circolano almeno quattro idee di verità “transizionale”: per un verso si distingue una verità come “riconoscimento”, che si configura come ufficiale e pubblica, e una verità come conoscenza dei fatti, che sarebbe allora “individuale”; per altro verso si distinguono la verità “fattuale” (o forense), la verità personale (o narrativa), la verità “sociale (o dialogica), e la verità “curativa” e restaurativa. Sul punto, cfr. M. Taruffo, Verso la decisione giusta, cit., 170 ss.; A. Ceretti, Per una convergenza di sguardi, I nostri tragitti e quelli della Commissione per la verità e la riconciliazione sudafricana, in Il libro dell’incontro, cit., 219 ss.

[73] Il tema della verità è di cruciale importanza all’interno dei programmi di giustizia riparativa. Sul punto, cfr. L. Lenzi, Mediazione e verità: oltre-passare le emozioni, cit., 58 ss.; A. Ceretti, Quale perdono è possibile donare? Riflessioni intorno alla Commissione per la Verità e la Riconciliazione sudafricana, in Dignitas – percorsi di carcere e di giustizia, 2004, 6, 32 ss.

[74] L. Lenzi, Mediazione e verità, cit., 58.

[75] C. Mazzucato, Appunti per una teoria ‘dignitosa’ del diritto penale a partire dalla restorative justice, cit., 115.

[76] G. Mannozzi, Sapienza del diritto e saggezza della giustizia: l’attenzione alle emozioni nella normativa sovranazionale in materia di restorative justice, in Criminalia, 2019, 178.

[77] Così C. Mazzucato, La giustizia dell’incontro, cit., 288.

[78] Ivi, 118.

[79] G. Mannozzi, Sapienza del diritto e saggezza della giustizia, cit., 166.

[80] Ibidem.

[81] La fortuna di Innocence Project in tal senso è testimoniata dai numeri: dalla sua nascita al 2019, sono state rimesse in libertà 364 persone ingiustamente condannate, 20 delle quali erano condannate alla pena capitale (https://innocenceproject.org). Sul punto, cfr. S. Arcieri, La lotta agli errori giudiziari. Innocence Project e l’esempio degli Stati Uniti d’America, in DPU, 2019.

[82] https://innocencenetwork.org.

[83] Professore Ordinario di Diritto processuale penale.

[84] In Italia, spiccano tra le altre organizzazioni dedite a questa attività: Innocent Project Italia, Errorigiudiziari.com, Articolo 643 – Associazione Nazionale Vittime Errori Giudiziari, AIVM – Associazione Italiana Vittime di Malagiustizia.

[85] Sul punto, v. ampiamente L. Bazelon, Rectify. The Power of Restorative Justice After Wrongful Conviction, Boston, 2018, 134 ss. Thompson e Cotton, dopo essersi conosciuti nel 1997, hanno stretto un forte rapport di amicizia e hanno collaborato alla scrittura del romanzo “Picking Cotton: Our Memoir of Injustice and Redemption”, pubblicato per la prima volta nel 2009. Nel 2015 sono stati i primi a ricevere il Department of Justice Speciale Courage Award per un caso riguardante un errore giudiziario.

[86] L. Bazelon, Rectify, cit., 136.

[87] Traduzione del termine inglese “exonerees” che indica coloro che siano stati assolti a seguito di condanna definitiva.

[88] L. Bazelon, Rectify, cit., 156 ss.

[89] L. Bazelon, Justice After Injustice. What happens after a wrongfully convicted person is exonerated – and the witness finds put she identified the wrong man (https://slate.com).

[90] Così Lisa Rea, presidentessa e fondatrice di Restorative Justice International (RJI), in un’intervista sull’argomento, disponibile su YouTube.

[91] C. Mazzucato, La ‘poesia della verità’ nella ricerca della giustizia, cit., 509.

[92] C. Mazzucato, Appunti per una teoria ‘dignitosa’ del diritto penale a partire dalla restorative justice, cit., 162.

[93] Il concetto di azione responsabile non si esaurisce unicamente con l’esame accurato delle conseguenze delle azioni proprie o altrui, ma può rinviare al riconoscimento di un’istanza relazionale precedente consistente in un appello proveniente da un’alterità, a cui il soggetto morale decide liberamente di rispondere nella prassi. Così R. Franzini Tibaldeo, Responsabilità, in Lessico di etica pubblica, 2012, 3, 1, 183.

[94] M. Magatti, Il potere istituente della società civile, Bari-Roma, 2005.

[95] Così J.J. Gabagambi, Têtê-à-têtê with Tete: Supporting Exonerees of Wrongful Convictions in Tanzania Through Restorative Justice, in Internet Journal of Restorative Justice, 2020, 8.

[96] L. Bazelon, Justice After Injustice, cit.

[97] De ordine I, 3.8.

[98] C. Mazzucato, Appunti per una teoria ‘dignitosa’ del diritto penale a partire dalla restorative justice, cit., 115.

[99] J. Shklar, I volti dell’ingiustizia. Iniquità o cattiva sorte?, trad. it., Milano, 2000, 133 ss.

[100] A. Ceretti, Mediazione penale e giustizia, cit., 718 ss.

[101] A. Astrologo, Un’introduzione alla giustizia riparativa, cit., 343 ss.

[102] Sul punto, v. J. Braithwaite, Setting standards for restorative justice, in British Journal of Criminology, 2002, 42, 3, 563 ss.

[103] Il resoconto sommario della seduta conclusiva della Commissione Giustizia n. 182 dell’8 luglio 2020 è consultabile al sito https://www.partitoradicale.it

[104] P. Ricoeur, Storia e verità, trad. it., Lungro di Cosenza, 1991, IX.

[105] A. Ceretti, Quale perdono è possibile donare?, cit., 41.

[106] Il termine anglosassone designa il sentimento di una giustizia in qualche modo “conclusa”, “riuscita”, un misto di compimento della domanda di giustizia, di elaborazione del trauma e di possibilità di guardare al futuro con una zavorra un poco più leggera. In questi termini, C. Mazzucato, La giustizia dell’incontro, cit., 258 ss.

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