Pubbl. Lun, 24 Lug 2023
Nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza: luci ed ombre della procedura arbitrale
Modifica pagina
Emanuele Pasquale Scigliano
Il presente studio si occupa delle relazioni intercorrenti tra arbitrato e la liquidazione giudiziale, due fenomeni diametralmente opposti, il primo fondato sull’autonomia privata, l’altro di chiara indole pubblicistica. La finalità è quella di fornire un quadro aggiornato e quanto più completo di siffatti rapporti. Si partirà dalla Legge Fallimentare e dal notevole dibattito sorto in dottrina e giurisprudenza su diverse questioni riguardanti entrambi gli istituti e, in particolar modo, sulla loro conciliabilità, sino a giungere al varo del nuovo Codice. Quest’ultimo ben avrebbe potuto rappresentare un’occasione utile al fine di creare una disciplina univoca e chiara; eppure, nonostante le innumerevoli novità introdotte, la regolamentazione non risulta risolutiva delle molteplici criticità
New Code of business crisis and insolvency: lights and shadows of the arbitration procedure
This study deals with the relationship between arbitration and judicial liquidation, two diametrically opposed phenomena, the first based on private autonomy, the other of a clear public nature. The purpose is to provide an updated and as complete picture of such reports. We will start from the Bankruptcy Law and from the considerable debate that has arisen in doctrine and jurisprudence on various issues concerning both institutions and, in particular, on their compatibility, up to the launch of the new Code. The latter could well have represented a useful opportunity to create a univocal and clear discipline; yet, despite the innumerable innovations introduced, the regulation does not resolve the many existing critical issues.Sommario: 1. Il nuovo Codice di Crisi d’Impresa e d’Insolvenza: la legge delega 19 ottobre 2017 n. 155 2. Il rapporto tra arbitrato e fallimento: dalla legge fallimentare 3. Al nuovo Codice della crisi di impresa: nuove prospettive? 4. Segue. Il ruolo centrale del Curatore tra antecedente e nuova normativa 5. Segue. L’improcedibilità delle liti ex art. 192 c.c.i.i. 5.1 Segue. L’applicazione dell’art. 143 c.c.i.i. 6. Il rapporto tra lodo, fallimento e liquidazione giudiziale 7. La liquidazione controllata e la figura del liquidatore 8. Spunti conclusivi.
1. Il nuovo Codice di Crisi d’Impresa e d’Insolvenza: la legge delega 19 ottobre 2017 n. 155
In Italia, l’istituto del fallimento ha, fin da subito, assunto un’accezione negativa, in quanto, la fattispecie regolata era considerata un’offesa all’economia e le procedure concorsuali rappresentavano l’unico rimedio per soddisfare i creditori e punire così i soggetti insolventi.
Il Regio Decreto n. 267 del 16 marzo 1942[1], che ha regolato per molti decenni il fallimento, è stato introdotto in un contesto in cui l’attività terriera e l’occupazione agricola rappresentavano le principali occupazioni mentre scarseggiavano le imprese commerciali.
L’evoluzione, nei decenni successivi, del sistema economico produttivo nazionale ha reso evidenti i punti deboli della disciplina fallimentare la quale era orientata ad una finalità essenzialmente liquidatoria dell’impresa insolvente e alla tutela accentuata dei creditori, comportando lo spossessamento del patrimonio del debitore e la sua incapacità.
Diverse sono state le riforme che hanno interessato questo sistema, apportando vari rimedi di natura economica e giuridica, prevedendo il superamento per l’impresa di situazioni patologiche che potevano evolversi, qualora il grado di difficoltà lo consentisse, in accordi intercorrenti con la massa dei creditori[2].
Queste recenti modifiche, sicuramente innovative, hanno consentito di lasciare spazio all’autonomia delle parti per la risoluzione della crisi che, generalmente, è azionata da una combinazione di fattori.
Il passaggio dalla Legge Fallimentare al nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza ha valorizzato, sicuramente, il ruolo dell’autonomia privata in virtù di una riduzione al ricorso dell’autorità giudiziaria per la risoluzione di possibili conflitti.
Lo scopo è stato quello da un lato, di uniformarsi ai principi della proposta di direttiva in tema di ristrutturazione preventiva nella direzione del Parlamento europeo[3], così da dotare l’ordinamento giuridico italiano di un testo normativo moderno e sistematico[4]; dall’altro lato, l’ambizioso obiettivo del legislatore di rendere più celere e rapida la crisi d’impresa e, soprattutto, più efficace, anticipando significativamente l’intervento concorsuale e il trattamento prioritario delle proposte così da garantire il proseguimento dell’ attività d’impresa, sia con finalità di ristrutturazione sia propriamente liquidatorie[5]. L’elaborazione di questo progetto di riforma organica delle diverse procedure concorsuali presenti nel nostro ordinamento giuridico fu affidata, con decreto 28 gennaio 2015, ad una Commissione presieduta dal dottor Renato Rordorf[6].
La prima “innovazione” prevista dal nuovo codice segue l’indirizzo già presente nei principali ordinamenti europei di civil law[7], e riguarda il profilo terminologico. In particolare, è stata eliminata l’espressione “fallimento”, sostituendola con il termine “liquidazione giudiziale”, così da evitare quell’aurea di negatività non necessariamente giustificata dal mero fatto che un’attività d’impresa, cui sempre inerisce un corrispondente rischio, abbia avuto un esito sfortunato. Su questa scia, vengono introdotte alcune nozioni fondamentali: come lo stato di “crisi”[8] e di “insolvenza”[9]; oltre ad inserire l’istituzione di un albo “dei gestori della crisi e insolvenza delle imprese[10]”.
La novità, per eccellenza, è rappresentata dall’introduzione di una procedura unitaria alla regolazione della crisi, sostitutiva del fallimento ossia la liquidazione giudiziale la quale presenta caratteristiche diverse ed è volta a rendere più celere la procedura[11].
In questa direzione, la legge ha disposto una fase preventiva di “allerta”, finalizzata all’emersione precoce della crisi di impresa e della sua risoluzione assistita[12].
La previsione, anche, di giudici specializzati rientrerebbe in tale ratio in quanto l’organico e la geografia giudiziaria risultavano, forse, inadeguati.
Difatti, il cambiamento ha interessato, anche, la gestione dei Tribunali: si è optato per una mediana là dove le procedure di maggiori dimensioni si svolgono presso i tribunali dell’imprese; mentre rimangono di competenza dei tribunali esistenti quelle riguardanti i soggetti interessati dalle sole procedure di sovraindebitamento, la cui normativa è stata oggetto di revisione[13].
L’obiettivo che si intende raggiungere con le modifiche introdotte è quello di prevedere che «[...] i quadri di ristrutturazione preventiva dovrebbero innanzitutto permettere ai debitori di ristrutturarsi efficacemente in una fase precoce e prevenire l’insolvenza e quindi evitare la liquidazione di imprese sane [...]»[14].
Il progetto di riforma del nuovo Codice di crisi di impresa e di insolvenza è stato caratterizzato da un iter piuttosto travagliato per la sua entrata in vigore. Ed infatti, approvato con il d.lgs. n. 14/2019[15], in attuazione dei principi direttivi contenuti nella l. n. 155/2017, l’articolato è stato profondamente modificato prima ancora della sua entrata in vigore con il c.d. correttivo di cui al d.lgs. n. 147/2020[16].
L’articolo 5, comma 1, del d. l. n. 23/2020 (c.d. decreto Liquidità) - convertito, con modificazioni, dalla l. n. 40/2020[17], emanato nel pieno della c.d. “prima ondata” causa dello stato di emergenza sanitaria da Covid-19 che ha colpito il nostro Paese - aveva poi rinviato l’entrata in vigore del CCII al 1 settembre 2021 di guisa che l’art. 1 del già̀ citato d. l. n. 118/2021[18] ha posticipato l’entrata in vigore del nuovo Codice al 16 maggio 2022 e rinviato alla fine del 2023 quella dell’intero Titolo II[19]. Al contempo, il decreto PNRR 2 ha nuovamente posticipato di circa due mesi (dal 16 maggio al 15 luglio 2022) l’entrata in vigore del nuovo Codice.
2.Il rapporto tra arbitrato e fallimento: dalla legge fallimentare …
Il varo del nuovo Codice della crisi e dell’impresa poteva rappresentare quell’opportunità volta al superamento delle discrepanze e disomogeneità che hanno caratterizzato negli anni il dibattito riguardante il rapporto tra arbitrato e procedure concorsuali.
In realtà, sembrerebbe che quest’ultimo sia finito per tradursi, ad eccezione di minime e poco incisive innovazioni, in una pedissequa ripetizione dei medesimi contenuti normativi, accompagnati da una differente numerazione, perdendo in tal modo l’occasione di poter finalmente avere una disciplina organica e risolutiva della materia in esame.
Al fine di agevolare la comprensione delle, già anticipate, conclusioni si analizzerà dapprima il rapporto tra arbitrato e fallimento, per poi arrivare alla normativa dettata dal nuovo Codice cercando di carpirne i principali aspetti innovativi e non.
Pertanto, i due istituti verranno analizzati focalizzando l’attenzione sulla loro natura così da evidenziare le differenze che intercorrono tra gli stessi e lasciando, al contempo, emergere la natura volontaristica/negoziale del primo e quella pubblicistica/coattiva del secondo.
L’arbitrato rientra tra le cd. cd. “Alternative Dispute Resolution” (ADR), ossia tecniche di risoluzione delle controversie alternative alla giustizia ordinaria che, con le loro caratteristiche si vedono sempre più al centro del dibattito sia nell’ambito dell’ordinamento italiano sia in chiave comparatistica.[20] Quando si parla di ADR o, più correttamente, di strumenti non giurisdizionali di risoluzione delle controversie, si intende riferirsi a tutti quegli istituti mediante i quali si può raggiungere un risultato analogo a quello del processo di cognizione e, quindi, si può produrre un effetto simile a quello di una sentenza[21].
Nello specifico, l’arbitrato è una forma di giustizia privata o, per meglio dire, è lo stesso tipo di attività che si svolge di fronte ad un giudice dello Stato, con la differenza che in tale ipotesi il giudice non è investito del potere di decidere la controversia su richiesta di una sola delle parti, bensì dal consenso di entrambe[22]. Come chiarito in dottrina, in quest’ottica, il processo e le decisioni arbitrali non possono ritenersi esercizio di attività giurisdizionale, se non altro per il dato decisivo consistente nel fatto che il giudice può decidere prescindendo dal consenso delle parti in quanto esercita un potere autoritativo-pubblicistico, a differenza dell’arbitro che è un soggetto privato il cui potere di decidere è conferito dalla volontà di tutti i soggetti destinatari degli effetti della decisione arbitrale[23].
La componente volontaristica dell’arbitrato si esprime, come noto, nella c.d. convenzione arbitrale, l’accordo con il quale le parti decidono di devolvere una o più controversie alla cognizione del giudice privato[24]. Quest’ultima può assumere la forma del compromesso o della clausola compromissoria. Il primo si pone su una controversia già insorta tra le parti, pertanto, il diritto oggetto della pattuizione compromissoria è già individuato, dato che sorge prima del contrasto solo, successivamente, è stipulato il patto con il quale essa è deferita all’arbitro. La seconda, invece, ha ad oggetto dispute future, non ancora sorte allorquando la convenzione arbitrale è stipulata: si pattuisce, dunque, la via arbitrale per la futura eventualità che fra le parti possa nascere una controversia[25].
Sono entrambe, dunque, manifestazioni dell’autonomia privata che consentono ai soggetti di disporre del diritto di azione e di stabilire che le questioni relative ad una situazione sostanziale disponibile siano sottratte alla cognizione del giudice per essere devolute ad un privato[26].
Con particolare riferimento all’altro istituto, invece, possiamo definire il Fallimento come quel processo esecutivo volto alla realizzazione coattiva dei creditori. Quest’ultimo può essere aperto su ricorso: del debitore, di uno o più creditori o del P.M.; è volto all’accertamento, alla ricostruzione e ad una ipotetica liquidazione del patrimonio del fallito nonché alla ripartizione del ricavato ai creditori. Una volta dichiarato fallimento, tra i principali effetti prodotti si rinviene il cd. spossessamento del debitore, il quale mantiene la proprietà dei beni, ma ne perde la loro amministrazione. Questa sarà, infatti, affidata al curatore e fatto divieto ai creditori di proseguire o promuovere azioni autonome per il soddisfacimento dei loro crediti, nel rispetto della par condicio creditorum[27].
Il delicato e discusso equilibrio tra la procedura fallimentare e le controversie arbitrali deriva da due presupposti: da una parte, l’esigenza pubblicistica di garantire la par condicio creditorum il filo conduttore di tutto l’iter fallimentare; dall’altra, l’autonomia privata, di cui l’arbitrato rappresenta una delle manifestazioni più evidenti[28].
Le differenze sostanziali tra i due fenomeni hanno lasciato emergere problemi di compatibilità tra i due istituti sì da escludere dall’area dell’arbitrabilità talune controversie segnate dall’apertura della procedura concorsuale[29].
Storicamente, infatti, la giurisprudenza in numerose pronunce[30] ha negato la compromettibilità in arbitri per le controversie fallimentari, determinando così la caducazione della convenzione arbitrale stipulata dal debitore in bonis e l’improcedibilità dell’arbitrato pendente.
Alla base di tali considerazioni risiedeva la convinzione che l’effetto attributivo della cognizione agli arbitri doveva ritenersi, in ogni caso, paralizzato dal prevalente effetto della avocazione dei giudizi prodotto dal fallimento[31].
La giurisprudenza di merito, in particolare, riteneva che la convenzione arbitrale, stipulata dal fallito, non potesse operare nei confronti del curatore neppure qualora riguardasse una controversia avente per oggetto rapporti giuridici patrimoniali disponibili o per i quali non fosse prevista una competenza funzionale del tribunale fallimentare[32].
Ed ancora si affermava che il patto arbitrale non potesse vincolare il curatore in quanto soggetto terzo rispetto alle parti che l’avevano stipulato[33] e veniva così sottolineata la natura personale della convenzione[34].
L’apertura della procedura concorsuale, in altri termini, determinava l’automatica caducazione della clausola compromissoria sottoscritta dal contraente fallito[35].
Il punto focale a sostegno della tesi dell’incompatibilità[36], però, era da rinvenire nella natura pubblicistica del fallimento che escludeva la possibilità di utilizzo di uno strumento privatistico per la risoluzione delle controversie.
In tale direzione, l’ufficio fallimentare non poteva ricorrere a giudizi privati, derivanti dal compromesso o dalla clausola compromissoria stipulati dal fallito[37]. Inoltre, anche l’esigenza di concentrazione delle controversie dinnanzi ad un unico giudicante (c.d. vis attractiva del tribunale fallimentare) rafforzava il divieto di devoluzione della controversia ad arbitri[38].
Il giudice fallimentare, infatti, era considerato il giudice naturale delle cause che derivano dal fallimento[39] e, pertanto, anche di tutte quelle che coinvolgevano pretese di diritti ricompresi nel fallimento stesso.
In virtù di quanto sopra evidenziato e considerata, inoltre, l’assenza di una disciplina organica dell’arbitrato nel testo originario della Legge fallimentare è affiorata la tesi sull’incompatibilità tra i due istituti, prendendo le mosse proprio dalle differenti caratteristiche dei due istituti.
In realtà, esistono una serie di elementi che rendono plausibile il riconoscimento di una compatibilità tra i due istituti. Essi sono contrassegnati da uno scopo comune: entrambi sono volti alla gestione del conflitto; entrambi operano nell’ottica di una collaborazione volta al superamento della controversia (o della crisi), seppur in ottica opposta, da un lato volontaria (arbitrato) e dall’altra coattiva (fallimento).
La definitiva compatibilità tra gli istituti è consacrata dal legislatore con la riforma del 2006 e tra le principali novità sancite da questa troviamo la modifica operata all’art. 72 L. Fall., che abbandona la sua vecchia denominazione “contratto di vendita”, per essere intitolato, più genericamente, “rapporti pendenti”.
La norma fissa una regola generale, secondo la quale, i contratti non ancora eseguiti all’apertura del fallimento rimangono sospesi finché il curatore non sceglie se voler subentrare nel rapporto oppure estinguerlo. Si distingue, dunque, a seconda che il contratto pendente sia stato: compiutamente eseguito, parzialmente eseguito o del tutto non eseguito. Questa possibilità è riconosciuta in capo al curatore, così da poter scegliere, in base ad una valutazione di opportunità, potendo subentrare solo nel contratto sostanziale e non anche nel patto compromissorio connesso. Infine, prevede la possibilità del contraente di mettere in mora il curatore, fissando quindi un termine secondo il quale il contratto si intende sciolto[40].
Tale disposizione sancisce la piena opponibilità al curatore dell’azione di risoluzione del contratto, promossa nei confronti della parte inadempiente, prima che quest’ultima sia dichiarata fallita[41]. Pertanto, il legislatore riconosce in capo al curatore un vero e proprio diritto potestativo in ordine alla scelta sulla opportunità o meno di subentrare o sciogliere il rapporto pendente. La norma va intesa in senso ampio tant’è che quando si parla di esecuzione del contratto ci si riferisce, genericamente, alla realizzazione dello scopo dello stesso.
Il patto compromissorio è un contratto processuale, per tale motivo produrrà solo effetti processuali non facendo sorgere alcun rapporto obbligatorio tra le parti.
Alla luce delle suddette considerazioni, appare arduo considerare il patto compromissorio come oggetto di un’autonoma valutazione del curatore ai fini del suo subentro o meno. Infatti, in assenza di un appiglio normativo che dia al curatore la possibilità di scelta o si trova una norma che sancisce, a seguito della dichiarazione di fallimento, l’inefficacia del patto compromissorio oppure valgono i principi dettati dall’art. 1372 cod. civ.[42].
Un’altra novità fondamentale operata dalla riforma del 2006 è l’introduzione dell’art 83-bis L. Fall[43]. Trattando l’esegesi della norma sarà possibile chiedersi se dalla stessa sia possibile ricavare qualche indicazione generale sui rapporti tra patto compromissorio e sopravvenuto fallimento. E, inoltre, se sia possibile distinguere i destini del procedimento arbitrale, a seconda che sia in corso o meno, al momento della dichiarazione di fallimento[44].
Tuttavia, l’introduzione della norma non è stata risolutiva né è stata volta a sanare i pregressi contrasti interpretativi in materia[45].
Difatti, essa disciplina in maniera esplicita il solo processo arbitrale pendente al momento dell’apertura della procedura fallimentare, risultando così esclusa quella dell’accordo compromissorio stipulato ante fallimento[46]. Pertanto, la sua introduzione non inverte la tendenza, in quanto si limita a disciplinare un’ipotesi specifica: l’improcedibilità del giudizio arbitrale, il cui oggetto sia costituito da un contratto non ancora integralmente eseguito alla dichiarazione di fallimento di uno dei paciscenti e dal quale il curatore, per scelta o per legge, sia sciolto[47].
L’articolo in commento, però, non pone un orientamento definitivo, anzi, è soggetto a molteplici interpretazioni. Nel momento in cui prevede lo scioglimento del contratto base, esso sancisce la regola in senso negativo; da ciò è possibile ricavare due principi: il primo, espressamente sancito, sull’improcedibilità del giudizio arbitrale ed il secondo, implicito, concernente l’inefficacia sopravvenuta dell’accordo compromissorio relativo a quel negozio[48]. In particolare, lo scioglimento del contratto da parte del curatore porterebbe, anche, alla sopravvenuta inefficacia della clausola compromissoria[49].
In dottrina, è dibattuto se l’art. 83-bis L. Fall. sia espressione di un principio di accessorietà della convenzione di arbitrato[50] rispetto al negozio sostanziale a cui accede oppure possa considerarsi l’autonomia della clausola compromissoria[51].
Nella prima ipotesi, la quale si discosta dalla tesi dicotomica[52], ritenendo l’accordo compromissorio accessorio al contratto, allo scioglimento del negozio consegue il venir meno della convenzione arbitrale: di conseguenza, quando il curatore subentra in un rapporto giuridico pendente è vincolato alla clausola compromissoria o al compromesso, così come avevano concluso le parti. Di converso, l’art. 808 cod. proc. civ. esplica il principio generale[53] dell’autonomia della clausola compromissoria ma ciò non è riscontrabile all’interno della Legge Fallimentare.
Rilevante, ai fini che qui interessano, è cogliere la ragione per cui il procedimento sospeso in itinere dal fallimento potrebbe proseguire mentre verrebbe travolto l’accordo compromissorio cui non fosse seguito il giudizio arbitrale. Tale interpretazione muove dall’art. 5 cod. proc. civ. (principio della perpetuatio jurisdictionis et competentiae[54]), in virtù del quale il giudizio arbitrale, già instaurato, è insensibile alla sopraggiunta sottoposizione di uno dei paciscenti alla procedura concorsuale[55], in realtà non convince. Tuttavia, dalla interpretazione dell’articolo in commento, è possibile ricavare una disposizione positiva a contrario in quanto emerge che l’arbitrato prosegue se il curatore non si scioglie dal contratto e potendone dedurre, quindi, l’insensibilità dell’arbitrato al fallimento di una delle parti[56].
L’art. 83-bis L. Fall. presenta un’incongruenza di fondo in quanto pur essendo rubricato “Clausola arbitrale” non ne contiene al suo interno alcuna traccia[57], riconducendo l'esplicazione della norma, esclusivamente, alla clausola compromissoria e lasciando pertanto un vuoto. Questo ha dato luogo ad un ampio dibattito circa la possibilità di applicazione di tale normativa, in via analogica, anche al compromesso ed alla convenzione di arbitrato in materia non contrattuale[58].
In sintesi, la disciplina che regola la clausola compromissoria è facilmente estendibile anche al compromesso in quanto entrambi, fin dalla loro stipulazione, hanno l’identico effetto di sottrarre la controversia all’autorità giudiziaria, individuando nell’arbitrato un diverso strumento per la sua risoluzione. Pertanto, in caso di fallimento, per entrambe le ipotesi è prevista la medesima soluzione[59], mentre la stessa estendibilità non è, invece, possibile in presenza di una convenzione di arbitrato che abbia un oggetto non contrattuale, in quanto il curatore dovrebbe subentrare in un rapporto extracontrattuale: tale tipo di convenzione, in ambito fallimentare, potrebbe, addirittura, essere intesa come un contratto autonomo in pendenza[60].
3. …al nuovo Codice della crisi di impresa: nuove prospettive?
Il Capo I del titolo V alla sezione V del nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza ha ad oggetto gli effetti dell’apertura della liquidazione giudiziale dei rapporti giuridici pendenti[61].
Il punto di partenza è da rinvenire proprio nell’impatto che le procedure concorsuali hanno sull’arbitrato: in particolare, nella sua declinazione oggettiva, se l’apertura di una procedura di composizione o di gestione della crisi modifichi il perimetro delle controversie che possono essere devolute in arbitrato e soggettiva, effetti delle clausole arbitrali rituali già stipulate ma non attivate e la possibilità per il debitore di stipularne di nuove[62].
Difatti, secondo quanto statuito dall’art. 32 comma 1 c.c.i.i., in continuità con l’ex articolo 24 L. Fall.[63], il tribunale che ha aperto la procedura di liquidazione è competente a conoscere di tutte le azioni che da questa derivino[64], qualunque ne sia il valore e non pone, di per sé, alcun limite all’arbitrabilità delle liti attratte alla competenza di tale foro[65]. Pertanto, sul fronte dell’arbitrabilità, si conferma così la regola che prevede l’inderogabilità del tribunale della liquidazione giudiziale, in riferimento alle azioni de quibus[66] decise secondo la tutela dichiarativa[67].
In questa direzione l’art. 172 c.c.i.i., in continuità con l’art. 72 L. Fall.[68], disciplina i contratti non ancora eseguiti o non compiutamente eseguiti da entrambe le parti, nel momento in cui è aperta la procedura di liquidazione giudiziale[69].
La regola generale emergente dalla lettura della predetta disposizione prevede la sospensione dell’esecuzione del contratto fin quando il curatore non dichiari di subentrare nel negozio al posto del debitore; quando ciò si verifica il contratto prosegue ex lege e la clausola compromissoria mantiene piena efficacia.
Lo stesso codice definisce i “contratti pendenti” come quei «contratti ancora ineseguiti o non compiutamente eseguiti» da entrambe le parti al momento in cui è aperta la procedura concorsuale, specificando che a non essere integralmente eseguite devono essere “le prestazioni principali” del contratto e non quelle accessorie[70].
Su questa scia, l’art. 172 c.c.i.i. prosegue delineando le conseguenze dell’inerzia decisoria del curatore che può essere messo in mora mentre il giudice delegato può assegnare un termine non superiore a sessanta giorni per prendere una decisione, decorso il quale il contratto si intende sciolto retroattivamente al momento dell’apertura della liquidazione giudiziale[71]. In caso di scioglimento del contratto l’art. 172 c.c.i.i., sempre in linea con l’art. 72 L. Fall., prevede il diritto per il contraente di «far valere nel passivo della liquidazione giudiziale il credito conseguente al mancato adempimento, senza che sia dovuto risarcimento del danno».
La principale novità del Codice della Crisi è, però, contenuta nel comma 3 dell’art. 172 c.c.i.i., il quale, ponendo fine al precedente dibattito emerso sul piano giurisprudenziale nonché su quello ermeneutico, stabilisce definitivamente che «in caso di prosecuzione del contratto, sono prededucibili soltanto i crediti maturati nel corso della procedura».
Come si evince, dunque, il rapporto emergente tra arbitrato e liquidazione giudiziale risulta essere molto simile al precedente tra arbitrato e fallimento sì che si può, forse, ragionevolmente ritenere che le novità introdotte dal Codice della crisi d’ impresa e dell’insolvenza non siano a tal punto forti da modificare la precedente impostazione.
4. Segue. Il ruolo centrale del Curatore tra antecedente e nuova normativa
Il ruolo del curatore, la posizione ricoperta dallo stesso è elemento essenziale per comprendere se esista o meno compatibilità tra i due istituti.
Difatti, sul piano dell’arbitrabilità, al subentro del curatore[72] in un contratto nel quale sia contenuta una clausola compromissoria: il curatore risulta vincolato al patto compromissorio[73], a meno che questi non decida di sciogliersi[74]. Sciogliersi dal contratto[75] non comporta la terzietà del curatore rispetto alla clausola compromissoria ma il venir meno del vincolo negoziale e delle obbligazioni da questo nascenti, ancora ineseguite[76]. Da tale configurazione si ricava la possibilità per il curatore di stipulare accordi compromissori in merito alle controversie attinenti a rapporti pregressi ossia instaurati dal debitore in bonis[77].
Pertanto, rilevante è il subentro del curatore in rapporti preesistenti alla dichiarazione di apertura della procedura, nel caso di specie gli artt. 151, 152 e 200 ss. c.c.i.i.[78] che pongono in essere il principio dell’accertamento del passivo[79].
Partendo dall’art. 151 c.c.i.i. dispone che «salvo diversa disposizione di legge, dal giorno della dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale nessuna azione individuale esecutiva o cautelare, anche per crediti maturati durante la liquidazione giudiziale, può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nella procedura», individuando così il principio di cristallizzazione del passivo, per il quale il concorso formale è circoscritto ai crediti sorti prima dell’apertura della stessa procedura liquidatoria[80].
L’art. 152 c.c.i.i., invece, stabilisce che «la liquidazione giudiziale apre il concorso dei creditori sul patrimonio del debitore e che ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione o prededucibile, nonché ogni diritto reale o personale, mobiliare o immobiliare, deve essere accertato secondo le norme stabilite dal Capo III del medesimo titolo (salvo diverse disposizioni di legge)»[81].
Alla luce di tali disposizioni, la via processuale è delineata dagli artt. 200[82] ss. c.c.i.i. ai fini dell’accertamento del passivo e dei diritti dei terzi sui beni compresi nella liquidazione giudiziale.
Guardando adesso al processo, questo ha natura camerale e, infatti, non è prevista la presenza del debitore: i provvedimenti emessi all’esito dello stesso producono effetti soltanto ai fini del concorso, ex art. 96 L. Fall. Tale regola è stata confermata ma limitatamente ai crediti accertati ed al diritto di partecipare al riparto quando il debitore ha concesso ipoteca a garanzia di debiti altrui[83]. La ratio, prevalente su ogni altra, è l’esigenza pubblicistica ossia l’esigenza che la determinazione del passivo del debitore avvenga nel concorso di tutti i creditori «per assicurare che tutte le domande nei confronti del fallimento vengano proposte e trattate dal medesimo giudice congiuntamente, onde assicurare la parità di trattamento»[84].
Come visto in precedenza al sopravvenire della liquidazione giudiziale, il destino della clausola compromissoria è legato al contratto al quale accede. Ma non solo, vi sono altri due casi che potrebbero vedere il curatore rapportarsi ad una clausola compromissoria: il contratto non più pendente e il contratto venuto meno per cause diverse dall’esecuzione integrale.
Nel primo caso, l’effetto successorio, proprio della liquidazione, determinerà l’imputazione alla massa delle posizioni giuridiche attive e passive ancora esistenti che, ex artt. 200 ss. e 272 ss. c.c.i.i., saranno attratte dalla procedura di accertamento del passivo. Nel secondo caso, invece, il patto arbitrale, il cui oggetto è esteso anche alle liti relative allo scioglimento del rapporto, potrà essere opposto alla procedura: in quanto, il curatore subentrando nella posizione giuridica del debitore non ha la facoltà di sciogliersi dai soli contratti ancora in corso[85].
In sintesi, si evince come il curatore svolga una funzione fondamentale sull’esito e la scelta di alcune possibili pendenze all’interno della procedura.
5. Segue L’improcedibilità delle liti ex art. 192 c.c.i.i.
Da quanto esposto fin ora, si può ritenere che non sussista una vera e propria incompatibilità tra quella che era la procedura fallimentare e la devoluzione della controversia in arbitri. Infatti, il giudice di legittimità ha ribadito che né il compromesso né la clausola compromissoria si sciolgono a seguito della dichiarazione di fallimento. Nell’interesse del legislatore, la Riforma del 2006 che ha introdotto l’art. 83-bis L. Fall.[86] [oggi, art. 192 c.c.i.i.] avrebbe dovuto essere risolutore nella prospettiva del procedimento arbitrale, in corso o meno, al momento della dichiarazione di fallimento.
In passato, infatti, il legislatore ha trattato la decisione del curatore di porre fine ad un contratto di diritto sostanziale in corso come un tutt’uno, inscindibile, dalla scelta di svolgere in forma privata i giudizi ad esso relativi[87]. Tale impostazione, nonostante il copioso dibattito in dottrina e in giurisprudenza, pare non sia stata presa in debita considerazione, in quanto è rimasto tutto invariato alla luce del nuovo Codice della Crisi d’Impresa e d’Insolvenza. Difatti, il legislatore, ancora una volta, non ha offerto una regolamentazione completa dell’arbitrato all’interno del procedimento di liquidazione giudiziale. L’art. 192 c.c.i.i., quindi, non determina l’estinzione della clausola compromissoria ma impedisce che il procedimento avviato possa giungere al lodo[88]. Nel silenzio della legge, il curatore può subentrare in un contratto di diritto sostanziale ma, al contempo, rimanere estraneo al patto compromissorio; pare che le due figure vengano trattate come negozi autonomi tra loro[89]. Il problema di tale svista normativa sorge nel momento in cui si hanno liti in corso. Gli effetti dell’improcedibilità fanno, infatti, emergere un obbligo per il curatore, interessato a proseguire il giudizio arbitrale, di iniziare una procedura arbitrale ex novo in caso di scioglimento[90].
Un possibile rimedio è ravvisabile nella traslatio iudicii, già prevista dall’art. 819-ter cod. proc. civ.[91], che consentirebbe al curatore la riassunzione del giudizio innanzi al giudice competente.
Un problema si pone, poi, sulle spese dell’arbitrato dichiarato improcedibile. Il sopravvenire della liquidazione non è considerato motivo di soccombenza, non potendo addossare a nessuno i costi della procedura svolta fino a quel momento è lasciata agli arbitri la discrezionalità[92].
Prima, l’art. 83-bis L. Fall., e dopo l’art. 192 c.c.i.i., sono da sempre considerati come chiave di lettura al sistema. Tuttavia, tale impostazione è criticata e ridimensionata da una parte della dottrina. Si afferma, infatti, che l’art. 192 c.c.i.i. non sia il fulcro in materia di arbitrato in riferimento alle procedure concorsuali[93]ma una disposizione speciale non interpretabile in via analogica. Pertanto, posta la sua eccezionalità e posto che disciplini soltanto l’arbitrato pendente, non emerge, dunque, alcuna possibile soluzione al problema della sorte delle clausole compromissorie arbitrali non ancora attivate al momento della liquidazione giudiziale[94].
5.1 Segue. L’applicazione dell’art. 143 c.c.i.i.
Con particolare riferimento all’arbitrato rituale pendente, la nuova formulazione dell’art. 143 c.c.i.i. ed in particolare i primi due commi restano invariati rispetto alla precedente dell’ex art. 43 L. Fall.[95]. Il nuovo terzo comma, invece, pone problemi di compatibilità con l’arbitrato. Nello specifico, dalla lettura del succitato terzo comma[96] emerge come la stessa faccia esplicito riferimento “al processo”. Parte della dottrina ritiene che tale termine si riferisca al solo giudizio di fronte ai magistrati pubblici, in quanto il nuovo Codice si avvale di questa espressione, esclusivamente, in quattro occasioni ed in tutte e quattro le volte riferendosi al giudizio statale, in chiara contraddizione con quello arbitrale. Altro argomento a sostegno di tale tesi è che l’interruzione sia dichiarata dal giudice e, vista l’attualità del nuovo Codice, non si ritiene possibile un simile errore da parte del legislatore. Una replica a tali assunti risiede nella specialità dell’art. 143 c.c.i.i. che deroga all’art. 816-sexies, di converso, una possibile controreplica potrebbe vertere sul divieto di applicazione analogica delle norme speciali. Ciò detto, porterebbe all’impossibilità di includere il giudizio arbitrale nel termine “processo” e, al contempo, l’arbitro nel termine “giudice”[97].
Da ultimo, occorre sottolineare, per volgere alle conclusioni di questa disamina, il diverso impatto che la liquidazione ha sull’arbitrato rispetto al processo. Difatti, nel processo statale la comunicazione dell’evento interruttivo consente la valida prosecuzione del giudizio, rendendo la sentenza opponibile anche al terzo. Di converso, la perdita di legittimazione del debitore inficia, fin da subito, il contraddittorio (sostanziale) in arbitrato, rendendo così impugnabile il lodo agli interventori legittimati.
Alla luce di tali specificazioni, sembra naturale protendere per l’applicazione analogica del comma 3 dell’art. 143 c.c.i.i. al giudizio arbitrale. Infine, con la sentenza che dichiara aperta la liquidazione, il debitore viene privato della legittimazione processuale nei giudizi in corso; quelli civili si interrompono automaticamente al fine di prevenire il rischio che la mancata comunicazione dell’evento faccia progredire il giudizio o maturare preclusioni a discapito della procedura. Mentre, per quelli arbitrali rituali, invece, è rimessa agli arbitri l’adozione di adeguate contromisure che possono, anche, spingersi fino alla conclusione del procedimento, per assicurare il rispetto del principio del contraddittorio nei confronti della procedura, che “sta in giudizio” nella persona del curatore al posto del debitore.
6. Il rapporto tra lodo, fallimento e liquidazione giudiziale
Per completezza sembra opportuno passare in rassegna il rapporto fra lodo, fallimento e liquidazione giudiziale. Per prima cosa, è necessario distinguere tra lodo definitivo e non definitivo. Difatti, se il primo è “passato in giudicato” per mancato esperimento di impugnazione per nullità ed è destinato a produrre pienamente i suoi effetti nei confronti della massa fallimentare[98], alla stessa stregua di una sentenza emessa dal giudice; nel caso, invece, di lodo non definitivo, questo sarà efficace nei limiti dell’art. 96 co.3 L. Fall., nonostante il procedimento arbitrale non sia ancora concluso. [99]
L’opponibilità del patto compromissorio all’amministrazione fallimentare, pur non ponendo una distinzione tra arbitrato rituale e irrituale, opera, comunque, con riguardo al lodo. Infatti, in riferimento a quello rituale trova applicazione l’art. 96 co. 3 L. Fall., il quale prevede che sono ammessi, seppur con riserva, «i crediti accertati con sentenza del giudice ordinario o speciale non passata in giudicato, pronunciata prima della dichiarazione di fallimento», salva la possibilità per il curatore di impugnare o di proseguire l’impugnazione del lodo, ove questa fosse già pendente[100]. Diversamente, nonostante la presenza di una dottrina minoritaria che tende ad unificare le discipline[101], lo stesso articolo non risulta applicabile al lodo irrituale in quanto questo non assume efficacia di sentenza bensì di contratto sottoponibile a mezzi di impugnazione ordinari[102].
Altro tema discusso in dottrina[103] e giurisprudenza[104] risulta essere l’opponibilità del lodo al fallimento allorquando gli arbitri non siano a conoscenza del fallimento di una delle parti. In senso affermativo, conformemente alla succitata dottrina e giurisprudenza, si esprima l’art. 299 cod. proc. civ., in riferimento alla compatibilità del procedimento arbitrale, tanto all’istituto della contumacia[105] tanto a quello dell’interruzione. Ripartendo da quest’ultimo, la fattispecie è molto simile a quella che si verifica in un processo che si svolge di fronte al giudice togato, quando la morte o la perdita di capacità della parte intervengono tra la notificazione dell’atto di citazione e la costituzione in giudizio: l’interruzione opera automaticamente e non possono essere compiuti atti nel procedimento art. 298 cod. proc. civ.[106]. In virtù dei principi dettati in materia di limiti soggettivi[107], tale lodo sarà valevole anche nei confronti dell’amministrazione fallimentare: che essa sia favorevole o meno; con un unico problema evidente che, non essendo l’amministrazione fallimentare subentrata in giudizio, il lodo è stato emesso in chiara violazione del contraddittorio[108].
Con riferimento all’istituto dell’interruzione, posto a presidio del contraddittorio, si potrebbe, forse, affermare che lo stesso non ha funzionato nel concreto; al contempo, però, la sentenza è stata pronunciata in un momento in cui il processo doveva considerarsi quiescente[109]. In questo caso il provvedimento emesso non sarà inesistente ma nullo, pertanto, impugnabile. Lo stesso principio, mutatis mutandi, può essere applicato nel caso di sopravvenuto fallimento di una parte, ogni volta che la decisione del giudice togato (o degli arbitri) sia stata, comunque, pronunciata in violazione dell’automatica interruzione del processo, ex art. 43 L. Fall.
Quando sopraggiunge il fallimento la successione del curatore è una successione forzata che consegue ad una sopravvenuta incapacità processuale del sostituto[110].
Ai fini dell’applicazione del lodo, il momento determinante risulta essere la data di apposizione della firma, fino a quel momento, difatti, il procedimento è ancora pendente. Solo dopo ciò, il lodo rituale, produce i suoi effetti, similmente alla sentenza civile. Tuttavia, tale lodo non è emesso dal giudice statale, pertanto, la firma non conferisce data certa e, ex art. 145 c.c.i.i., non ha effetto rispetto i creditori se non accertato. Ove il lodo contenga una pronuncia di condanna verso il debitore, spetterà al creditore di insinuarsi al passivo per farla valere. Il credito potrà essere ammesso con riserva qualora il lodo sia ancora impugnabile (art. 204 c.c.i.i.) ovvero senza riserva negli altri casi o quando il curatore dichiari di accettare il dictum arbitrale.
Il curatore, può o sostituirsi al debitore subentrando nella sua posizione oppure come rappresentante dell’interesse della massa, in posizione di terzietà. Nel primo caso, il curatore può esercitare gli stessi rimedi spettanti al debitore; nel secondo, invece, può agire ai fini della conservazione o dell’incremento dell’attivo, ex art. 831 cod. proc. civ., distinguendo quando la procedura liquidatoria risulta essere titolare di un diritto autonomo non compatibile con quello deciso dal lodo oppure quando invece agisce come destinatario degli effetti della pronuncia. Pertanto, se prima dell’apertura della liquidazione, è stato pronunciato un lodo parziale o non definitivo, il curatore avrà due strade: o impugnare il lodo o sciogliersi dal contratto che contiene la clausola compromissoria. Nel caso in cui, invece, il lodo contenga disposizioni favorevoli alla procedura, se il curatore non si scioglie, dovrà difendersi da un’eventuale impugnazione[111]. Una parte della dottrina ritiene che il lodo rituale potrebbe essere utilizzato dalla parte vittoriosa contro l’imprenditore (poi ammesso alla procedura liquidatoria) ai fini dell’insinuazione al passivo; ferma restando l’opponibilità prevista dall’art. 145 c.c.i.i.[112].
Infine, per completezza, nell’ipotesi di un lodo irrituale, essendo questo definito come un contratto, apre molteplici strade. Se non è stato ancora adempiuto è soggetto agli artt. 172 c.c.i.i. (in caso di liquidazione giudiziale) e 270 c.c.i.i. (in caso di liquidazione controllata)[113], diversamente, non essendo equiparabile a sentenza, sarà soggetto all’art. 204 c.c.i.i. .
7. La liquidazione controllata e la figura del liquidatore
Il nuovo Codice della crisi d’impresa e d’insolvenza tra le soluzioni innovative e di portata, anche, sistematica fa rientrare la codificazione della procedura di liquidazione controllata, già introdotta con L. n. 3/2012[114].
La liquidazione controllata rientra tra le procedure di composizione della crisi, unitamente al piano di ristrutturazione dei debiti del consumatore ed al concordato minore. Si tratta di un procedimento equiparabile alla liquidazione giudiziale, finalizzato a liquidare il patrimonio del consumatore, del professionista, dell’imprenditore agricolo, dell’imprenditore minore, delle start-up innovative e di ogni altro debitore non assoggettabile alla liquidazione giudiziale che si trovi in stato di crisi o insolvenza[115].
Oggetto della liquidazione in commento risulta un patrimonio di modesta entità, quindi la procedura è semplificata rispetto a quella prevista per la liquidazione giudiziale.
La liquidazione controllata del debitore è regolata dagli artt. 268-277 c.c.i.i. che presentano alcune novità in materia concernente le procedure familiari[116].
Il procedimento di liquidazione controllata si svolge dinanzi al Tribunale nel cui circondario il debitore ha il centro degli interessi principali (interessi personali e non d’impresa)[117].
La domanda deve essere proposta da un Organismo di composizione della crisi (OCC), il cui intervento è obbligatorio; di converso, il debitore può domandare al tribunale competente la liquidazione controllata dei propri beni[118].
I soggetti legittimati alla richiesta, oltre al debitore, sono: il creditore, solo in pendenza di procedure esecutive, per conversione nei casi di revoca del piano di ristrutturazione e del concordato minore; il pubblico ministero, quando, invece, l’insolvenza riguarda l’imprenditore e per conversione[119].
L’estensione dei legittimati alla richiesta è una novità del nuovo Codice, dato che in precedenza, legittimato risultava il solo debitore. Il tribunale, previa verifica, dichiara con sentenza l’apertura della procedura.
Per quanto attiene, poi, la figura del liquidatore, a questi sono attributi specifici incarichi.
Il liquidatore esercita o, se pendente prosegue, ogni azione finalizzata a conseguire la disponibilità dei beni compresi nel patrimonio del debitore ed il recupero dei crediti; nonché esercita le azioni dirette a far dichiarare inefficaci gli atti compiuti[120]. Nell’esercizio delle sue funzioni deve essere autorizzato dal giudice delegato.
Tra i compiti del liquidatore, ai fini del nostro studio, spicca l’amministrazione dei beni che compongono il patrimonio. Pertanto, tale prerogativa lo assimila al curatore e, dunque, tutta la disciplina prevista in materia di arbitrato e rapporti pendenti, prima dalla Legge Fallimentare e poi dal Codice della Crisi d’Impresa e d’Insolvenza, risulta ad esso applicabile.
8. Spunti conclusivi
Alla luce delle superiori argomentazioni, possono trarsi alcune prime considerazioni.
In primo luogo, emerge, in modo immediato, la piena compatibilità tra l’istituto dell’arbitrato e l’istituto del fallimento. Nello specifico, il riferimento va ad alcuni elementi comuni dei procedimenti: entrambi sono volti alla gestione del conflitto che operano nella visione di una collaborazione volta al superamento della controversia, seppur in ottica opposta (volontaria e coattiva). Difatti, arbitrato e fallimento possono essere collegati sia sotto il profilo di diritto sostanziale che processuale sì che sarebbe una scelta errata quella di optare per il solo profilo sostanziale o il solo profilo processuale. Sarà compito dell’interprete valutare l’applicazione dell’uno o dell’altro.
La compatibilità ha, tuttavia, evidenziato limiti e discussioni, facendo emergere, fra tutti, l’applicazione dell’art.72 L. Fall. alle convenzioni di arbitrato stipulate prima del fallimento con la conseguente controversia: ossia, se davvero possano essere considerate “contratti pendenti” quelle premesse ad un procedimento arbitrale non iniziato[121].
Il legislatore, comunque, non è rimasto inerte introducendo, come si è visto, tra i vari interventi legislativi che hanno interessato la materia, l’art. 83-bis L. Fall., mediante il quale ha manifestato, indirettamente, un certo favor nei riguardi dell’arbitrato; tuttavia, ciò non ha prodotto i risultati sperati, non dimostrandosi appunto risolutore. Oggi, sono diverse le questioni irrisolte che, alle volte, trovano la propria risoluzione come singoli quesiti ma che nel complesso non garantiscono un quadro di armonia tra i due istituti, continuando a suscitare perplessità al riguardo[122].
Successivamente, si è passati alla figura del curatore, con particolare riferimento al suo ruolo (di sostituto processuale) e all’improcedibilità derivante dallo scioglimento del contratto a cui la lite arbitrale si riferisce. È emerso che il procedimento in sé può proseguire ed il lodo, una volta pronunciato, risulterà essere opponibile al fallimento ma, l’incarico degli arbitri, trovando origine in un rapporto contrattuale ancora pendente, resta soggetto alla disciplina generale di cui all’art. 72 L. Fall[123].
Prescindendo dagli aspetti che, ancora, non hanno trovato una risoluzione definitiva nella disciplina, si ritiene l’istituto dell’arbitrato una valida alternativa[124] con cui le parti possono, seppur in ipotesi di procedura concorsuale aperta, ritrovarsi a risolvere con la sua attuazione diverse problematiche. Nel panorama europeo, è, ormai da tempo, consolidata la volontà di considerare le procedure concorsuali, finalizzate alla conservazione dei mezzi organizzativi dell’impresa, come uno strumento volto al risanamento e alla conservazione dell’impresa stessa[125]. Allo scopo di uniformarsi a tali ordinamenti esteri, il nostro legislatore ha introdotto il nuovo Codice della crisi dell’impresa e dell’insolvenza che segna un passaggio epocale e va nella direzione ormai sancita tra i vari ordinamenti.
Da quanto si è potuto osservare, le norme del nuovo Codice già entrate in vigore presentano diversi aspetti innovativi che stanno producendo buoni effetti. Sicuramente, la materia arbitrale poteva essere oggetto di interventi molto più significativi come quelli riguardanti l’iter prodotto sull’introduzione delle nuove procedure di allerta e di composizione della crisi assistita. Invece si è preferito mantenere inalterato il quadro normativo di regole vigenti limitandosi al solo cambio di numero di alcuni articoli. Una novità, tra le più rilevanti, fa riferimento alla stipulazione di “patti compromissori” nel tempo occorrente al passaggio in giudicato della sentenza di revoca della liquidazione giudiziale (art. 53 comma 2 c.c.i.i.). Ad oggi, la riforma poteva rappresentare un’opportunità, proponendo nuove prospettive di intersezione tra arbitrato e procedure concorsuali e garantendo, finalmente, un processo di armonizzazione tra i due istituti. Il legislatore, sulla base di una matrice culturale sempre meno diffidente verso le forme di risoluzione delle controversie alternative alla giustizia ordinaria, avrebbe potuto cogliere l’occasione di riformare e modernizzare la disciplina dell’istituto arbitrale nelle procedure concorsuali, superando così la tradizionale e radicata idea che vede l’utilizzo dell’arbitrato come “abdicazione” alla tutela dei diritti. Non solo, sulla base di quanto discusso in dottrina, un ulteriore elemento di rinnovamento poteva essere il riconoscimento dell’autonomia della clausola compromissoria, scardinando in questo modo quel rigido sistema in cui il mancato subentro del curatore produrrebbe lo scioglimento del contratto, con un conseguente spreco di costi e di risorse.
Un’altra occasione mancata è costituita dalla trasfusione dell’art.83-bis L. Fall. nell’art. 192 c.c.i.i., non solo perché entrambi erroneamente rubricati “clausola arbitrale” in luogo della locuzione maggiormente corrispondente “procedimento arbitrale”, ma anche per l’impossibilità di ricusazione dell’arbitro da parte del curatore[126]. Non meno importante risulta l’impatto dell’art. 204 c.c.i.i. in cui la mancata equiparazione del lodo alla sentenza del giudice ordinario, rischia di far cadere in errore; per tale motivo dovrebbero essere marcate le peculiarità del procedimento arbitrale rispetto al giudizio ordinario.
In conclusione, si può, forse, ritenere che il legislatore, pur avendo, spesso, operato diverse modifiche non sia riuscito ad ottenere, contrariamente alle aspettative, i risultati annunciati e ed invero sperati.
[1] Pubblicato in G. U. n.81 del 6 aprile 1942, in www.normattiva.it.
[2] Nel corso del tempo, infatti, sono intervenute, anche, alcune complesse Leggi speciali tese a disciplinare la crisi della grande impresa con le connesse esigenze di salvaguardia del patrimonio produttivo mediante la prosecuzione delle relative attività imprenditoriali. In particolare, tra i diversi interventi si fa riferimento alla legge 3 aprile 1979, n. 95 (c.d. “Legge Prodi”) che ha introdotto l’istituto dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi accanto alle procedure concorsuali tradizionali, per evitare il fallimento di imprese di rilevante interesse pubblico. Scopo della procedura, evitare soluzioni liquidatorie che non tenessero conto dei rilevanti interessi, privati e pubblici, alla conservazione e al risanamento dell’impresa, infatti, prevedeva l’invio di uno o più commissari, sotto la vigilanza dell’allora Ministero dell’industria evitando così il fallimento dell’impresa. Successivamente, la Legge Prodi fu sostituita dal d.lgs. 8 luglio 1999, n. 280 (la cd. “Prodi-bis”) finalizzato a consentire una forte riduzione della durata della procedura, ed orientarla alla celere individuazione di un nuovo assetto imprenditoriale così da potenziare gli strumenti di tutela dei creditori. Ed ancora, su tale disciplina si inserisce la procedura speciale di ammissione immediata (c.d. accesso diretto) all’amministrazione straordinaria introdotta dalla d.l. 23 dicembre 2003, n. 347, convertito in legge 18 febbraio 2004 (la cd. “Legge Marzano”) e, da ultimo, il d.l. 23 aprile 2008, n. 80, convertito in Legge 23 giugno 2008, n. 111 (il cd. decreto Alitalia). Queste le principali modifiche introdotte negli anni all’interno dell’ordinamento italiano per salvaguardare il fenomeno economico del gruppo di imprese (modello organizzativo abituale di tutte le grandi imprese, nazionali e multinazionali) che aveva avuto crescente diffusione nel nostro Paese. Oltre che si guardava allo scenario europeo, in particolare l’evolversi forse nella direzione di uniformarsi, anche, al Regolamento UE 2015/848, sull’insolvenza transfrontaliera. Per approfondimenti sul punto si v. ex multis, L. M. QUATTROCCHIO, L'insolvenza dei gruppi, in Riv. Diritto ed Economia dell'Impresa, in www.dirittoeconomiaimpresa.it. S. PACCHI, L’allerta tra la reticenza dell’imprenditore e l’opportunismo del creditore. Dal codice della crisi alla composizione negoziata, in Ristrutturazioni aziendali, in www.ilcaso.it.
[3] In tal senso, si veda la Direttiva (UE) 2019/1023 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019: riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l'esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l'efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione, e che modifica la direttiva (UE) 2017/1132 (direttiva sulla ristrutturazione e sull'insolvenza, in Gazzetta ufficiale dell'Unione europea, L. 172/18 del 26 giugno 2019.
[4] Seguendo anche il quadro delle legislazioni estere, ove è ormai da tempo consolidata la volontà di considerare le procedure concorsuali, finalizzate alla conservazione dei mezzi organizzativi dell’impresa, come uno strumento volto al risanamento e alla conservazione dell’impresa stessa. Si v. G. CHERUBINI, Crisi di impresa e insolvenza, dal fallimento alla liquidazione giudiziale, Santarcangelo di Romagna, 2019, 27.
[5]R. MARCIANESI, La liquidazione giudiziale. Commissione procedure concorsuali, in i quaderni n. 81, Milano, 7-12.
[6] Costituzione Commissione per elaborare proposte di interventi di riforma, ricognizione e riordino della disciplina delle procedure concorsuali. Si v. Relazione Commissione Rordorf, in www.giustizia.it. Per un quadro di sintesi si v. M. IRRERA, Lineamenti generali della riforma Rordorf, in Riv. trim. Diritto ed Economia dell'Impresa, in www.dirittoeconomiaimpresa.it.
[7] tra cui Francia, Germania e Spagna, poiché un nuovo «approccio lessicale può meglio esprimere una nuova cultura del superamento dell’insolvenza, vista come evenienza fisiologica nel ciclo vitale di un’impresa, da prevenire ed eventualmente regolare al meglio, ma non da esorcizzare» estratto dalla relazione Commissione Rordorf, in www.giustizia.it.
[8] «lo stato di squilibrio economico - finanziario che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate». Definizione data dal correttivo contenuto nell’art. 2 del d.lgs. n. 14/2019, il precedente testo identificava la crisi in uno “stato di difficoltà economica-finanziaria dell’impresa”. L'indicatore della situazione di squilibrio è rappresentata dalla non sostenibilità dei debiti per i 6 mesi successivi e l'assenza di prospettiva di continuità come specificato dall'art. 13 del d.lgs. n. 14/2019.
[9] Per stato di insolvenza suolo intendersi, secondo quanto statuito dal Codice della crisi e dell’insolvenza, Titolo I disposizioni generali, Capo I, Ambito di applicazione e definizioni, art. 2, Definizioni, in www.giustizia.it. «lo stato del debitore che non è più̀ in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, e che si manifesta con inadempimenti o altri fatti esteriori».
[10] Tale albo, istituito presso il Ministero della giustizia e disciplinato dall’articolo 18 delle disposizioni di attuazione del Codice, è dei soggetti che su incarico del giudice svolgono, anche in forma associata o societaria, funzioni di gestione, supervisione, controllo o custodia nell’ambito delle procedure concorsuali previste dal presente Codice [Codice della crisi e dell’insolvenza, titolo I disposizioni generali, Capo I, Ambito di applicazione e definizioni, art. 2, Definizioni, in www.giustizia.it.]Tra le altre novità fondamentali spiccano: i) l’eliminazione della dichiarazione di fallimento d’ufficio; ii) la previsione di un unico modello processuale per l’accertamento dello stato di crisi o di insolvenza del debitore con caratteristiche di particolare celerità, anche in fase di reclamo; iii) assoggettamento al procedimento di accertamento dello stato di crisi o di insolvenza di ogni categoria di debitore, sia esso persona fisica o giuridica, con l’esclusione dei soli enti pubblici; iv) priorità di trattazione alle proposte che comportino il superamento della crisi assicurando la continuità aziendale, anche tramite un diverso imprenditore, riservando la liquidazione giudiziale ai casi nei quali non sia proposta un’idonea soluzione alternativa; v) riduzione della durata e dei costi delle procedure concorsuali, anche attraverso misure di responsabilizzazione degli organi di gestione e di contenimento dell’ipotesi di prededuzione, con riguardo altresì ai compensi dei professionisti, al fine di evitare che il pagamento dei crediti prededucibili assorba in misura rilevante l’attivo delle procedure oltre all’introduzione di alcune modifiche al codice civile (artt. 375-384). Per approfondimenti si v. G. CHERUBINI, op. cit., 29.
[11] V. LENOCI, Il procedimento concorsuale liquidatorio, in Questione giustizia, in www.questionegiustizia.it. A. CARRATTA, Il procedimento di apertura delle procedure concorsuali, in il diritto Fallimentare e delle Società commerciali, 2019, in www.dirittofallimentaresocietà.it.
[12] Tuttavia, tale disposizione, attraverso il decreto correttivo del 2019, in particolare all’art. 15 ha subito alcune modifiche relative alle soglie che impongono all’Agenzia delle Entrate di effettuare la segnalazione, inoltre, la novella ha altresì fissato in 60 giorni dalla comunicazione di irregolarità ex art. 54 bis del D.P.R. n. 633/1972, il termine tassativo entro il quale l'Agenzia delle Entrate deve trasmettere l'avviso al debitore. Altro aspetto innovativo risiede negli artt. 268 ss. del c.c.i.i., i quali introducono la procedura della «liquidazione controllata del sovraindebitato» già presente nella Legge n. 3/2012, con la riforma viene arricchita e resa più simile alla liquidazione giudiziale.
[13]F. MADIA, Liquidazione controllata del sovraindebitato, in Il Fallimento e le altre procedure concorsuali, 2023, fasc. 4, 553 – 560.
[14] In tal senso, Direttiva (UE) 2019/1023 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l'esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l'efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione, e che modifica la direttiva (UE) 2017/1132 (direttiva sulla ristrutturazione e sull'insolvenza) (Testo rilevante ai fini del SEE.) in Gazzetta ufficiale dell'Unione europea L. 172/18 del 26.6.2019.
[15] Pubblicato sulla G.U. n. 6 del 14 febbraio 2019. Alcune disposizioni come il co. 1 dell’art. 27, art. 350, art. 356, art. 357, art. 363, art. 364, art. 366, art. 375, art. 377, art. 378, art. 379, art. 385, art. 386, art. 387 e art. 388 sono entrate in vigore il 16 marzo 2019.
[16] Pubblicato in G.U. n. 276 del 5 novembre 2020.
[17] Il testo coordinato con le modifiche è consultabile sulla G.U. n. 143 del 6 giugno 2020.
[18] Pubblicato in G.U. n. 202 del 24 agosto 2021.
[19] In particolare, dedicato all’allerta ed alla composizione assistita davanti agli OCRI – Organismi di composizione della crisi.
[20] Si v. ex multis, M. MARINARO, Il PNRR e il piano straordinario per la giustizia, 2021, in Costozero.it; C. CASTELLI, Giustizia: andare oltre il PNRR, in Questione Giustizia, 2021, in www.questionegiustizia.it;M. BENEDETTELLI, A. BRIGUGLIO, A. CARLEVARIS, A. CAROSI, E. MARINUCCI, A. PANZAROLA, L. SALVANESCHI, B. SASSANI,
L’arbitrato nella legge-delega, Commento ai principi in materia di arbitrato della legge di delega n. 206 del 21 novembre 2021, art. 1, c. 15. 2022, in www.judicium.it.
[21] Si veda P. LUISO, Diritto processuale civile, La risoluzione non giurisdizionale delle controversie, Giuffrè, Milano, 2019, 1-79.
[22] Per una ricostruzione più approfondita, si v. G. CORRADINI, L’arbitrato – fondamenti e tipologie, in Diritto Giustizia e Costituzione, 2023, in www.dirittogiustiziaecostituzione.it.
[23] In tal senso, ex multis, M. NITROLA, Arbitrato e fallimento, in I Contratti, 2012, fasc. 8-9, 756 – 759; P. RUGGIERI, Arbitrato e procedure concorsuali, in Diritto e Formazione, 2003, fasc. 5. 683 – 688.
[24] La natura della convenzione arbitrale, da sempre oggetto di numerosi dibattiti dottrinali, è tacitamente ritenuta di tipo contrattuale, anche se non si può non fare riferimento alla tesi di Carnelutti (F. CARNELUTTI, Sistema del diritto processuale civile, Padova, 1936, I, 154 ss. e 178 ss.; II, 113 ss., Id., Arbitrati e arbitri, in Riv. dir. proc. civ., 1924, I, 129), secondo cui, il patto compromissorio, come “equivalente giurisdizionale”, rientra tra le convenzioni di tipo processuale. Secondo i fautori della teoria contrattualistica, che ha come esponente Chiovenda (G. CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1935, 70.), l’arbitrato è sprovvisto di contenuto giurisdizionale: gli arbitri pongono in essere un giudizio logico, che il giudice trasforma in sentenza attraverso il decreto di exequatur (Cass. 9 maggio 1956, n. 1505). Di converso, i sostenitori della teoria processualistica, portata avanti da Mortara (L. MORTARA, Commentario del codice e delle leggi di procedure, III, Milano, 1923, 34.), vedono gli arbitri svolgere un’attività giurisdizionale che trae origine dalla legge (App. Roma 18 febbraio 1969; G. CASSANO- M. NISATI, La riforma dell’arbitrato, monografia ragionata sulla riforma del processo arbitrale, Dott. A. Giuffrè editore, Milano, 2006, 7-8.). Tra queste due teorie contrapposte vede la luce un orientamento intermedio, secondo il quale la sentenza arbitrale è un atto complesso ineguale alla cui formazione concorrono: gli arbitri, i quali deliberano il lodo e il giudice, che emette il decreto di exequatur (F. CARNELUTTI, Arbitrato estero, in Riv. dir. comm., I, 1961, 3741).
[25] Per la distinzione si v. ancora una volta F. P. LUISO, op. cit., 92.
[26] F. CARPI, Le riforme del diritto italiano, Arbitrato titolo VIII libro IV codice di procedura civile - artt. 806-840, commentario, Bologna, 2000, 40-49.
[27] Alla luce di quanto affermato, risulta evidente la natura coattiva del fallimento in quanto investe, in maniera vincolate, tutti i soggetti della procedura. A tal proposito, per sottolineare l’evidenza di tale natura, possiamo riportare l’esempio della vendita competitiva (all’interno della vendita fallimentare). Difatti, secondo una tesi prevalente in dottrina ci troveremmo di fronte ad una vendita avente natura coattiva, in ragione di una pluralità di indici che depongono in tale senso, quali: l’identità della funzione liquidatoria, il particolare regime di alienazione dell’alienante (id est la mancanza del consenso del fallito alla vendita), l’attuazione dell’interesse (di natura pubblicistica), di soddisfacimento dei creditori, il particolare regime di scelta e selezione dell’acquirente (Sul tema si v. L. PICCOLO, Alienazioni immobiliari nella procedura concorsuale al di fuori delle ordinarie modalità competitive: transazioni e subentro nel contratto preliminare, 2019, 1 ss.). Altra parte della dottrina ha, poi, sostenuto la natura coattiva della vendita competitiva anche diversi studi del Consiglio Nazionale del Notariato S. FAZZARI, Studio 16-2011/E, L’atto notarile di trasferimento a seguito di vendita fallimentare, 2014, in www.notariato.it; E. GASBARRINI, studio 1- 2011/E, Vendita forzata e nuova normativa in materia di conformità dei dati catastali, 2014, in www.notariato.it. In particolare, in un precedente studio del CNN (S. FAZZARI, op.cit.,1 ss.), si è osservato, sotto il profilo strutturale e procedurale, che la vendita fallimentare è un atto ricompreso in uno specifico iter procedimentale, dipendente perciò dal corretto espletamento di una procedura cronologicamente e logicamente presupposta, e sul quale si basano ulteriori atti consequenziali; il trasferimento del bene, sia che avvenga all’esito di atto negoziale, sia che consegua ad un atto giudiziario, si colloca necessariamente ad un determinato punto di un iter procedimentale. La fase della vendita, infatti, non vive di vita propria, ma è funzionalmente dipendente dal corretto espletamento della procedura fallimentare ed ha le sue conseguenze sulla successiva fase di ripartizione dell’attivo. Sempre in riferimento alla natura del Fallimento si v. G. NARDO, Effetti della dichiarazione di fallimento sul giudizio arbitrale, fasc. 3, 2018, in www.giustiziacivile.com.
[28] A tal riguardo, L. BACCAGLINI, Fallimento e arbitrato rituale. Profili di interrelazione e autonomia tra i due procedimenti, Facoltà degli studi di Trento, Trento, 2018, 1.
[29] P. PERLINGIERI, La sfera di operatività della giustizia arbitrale, in Rassegna di diritto civile, 2015, fasc. 2, 583 – 610.
[30]La giurisprudenza al riguardo è ampia: Cass., 17 novembre 1926; Cass., 12 gennaio 1956, n. 30; Cass., 18 maggio 1959, n. 1474; Cass., 11 giugno 1969, n. 2064; Cass., 14 marzo 1985, n. 1977; Cass., 18 agosto 1998, n. 8145; Cass., 4 settembre 2004, n. 17891; Cass., sez. un., 6 giugno 2003, n. 9070; Cass., 17 aprile 2003, n. 6165; App. Torino 2 luglio 2010. Tutte estratte da www.dejure.it
[31]Cass., 11 giugno 1969, n. 2064, in www.dejure.it
[32] Trib. Milano, 18 settembre 1980, in fall., 1981, 714.
[33]S. VINCRE, Arbitrato rituale e fallimento, Padova, 1996, 71.
[34]U. AZZOLINA, Il fallimento, Torino, II, 1961, 1291.
[35] F. TEDIOLI, Appunti sul rapporto tra arbitrato rituale e sopravvenuto fallimento di una delle parti, in Studium iuris, 2006, fasc. 5, 526 – 532; F. CASSESE, Clausola compromissoria e fallimento, in Rivista dei dottori commercialisti, 2003, fasc. 2, 356 – 360.
[36] In tal senso, A. LIPPONI, Ancora su arbitrato e fallimento, in Rivista dell'arbitrato, 2004, fasc. 4, 705 – 712; F. RAVIDÀ, Il procedimento arbitrale e la procedura fallimentare: la difficile ricerca degli strumenti di coordinamento, in Temi romana, 2000, fasc. 2, 699 – 708.
[37] P. G. DE SEMO, Diritto fallimentare, Padova, 1967, 150; E. ZUCCONI GALLI FONSECA, Clausola compromissoria statutaria e fallimento del socio, in Le Società, 2016, fasc. 1, 89 – 97.
[38]Cass., 4 agosto 1958, n. 2866.; G. NARDO, Questioni in tema di arbitrato libero e fallimento, in Il Diritto fallimentare e delle società commerciali, 1999, fasc.6, 1215 – 1232.
[39]L. GROPPOLI, Sulla potestas iudicandi degli arbitri in materia fallimentare, in Il Fallimento e le altre procedure concorsuali, 2009, fasc. 2, 134 – 145; U. APICE – S. MANCINELLI, Diritto fallimentare: normativa e adempimenti, Torino, 2008, 58.
[40] M. BOVE, op. cit., 9 ss; G. SANTAGADA, Sulle impugnazioni esperibili dal curatore fallimentare avverso un lodo rituale pronunciato anteriormente alla dichiarazione di fallimento e sulle possibili ripercussioni derivanti dal nuovo comma 5 dell'art. 72 legge fall., in Rivista dell'arbitrato, 2006, fasc. 4, 712 – 726.
[41] Ed infatti, il comma 5 stabilisce che «se il contraente intende ottenere con la pronuncia di risoluzione la restituzione di una somma o di un bene, ovvero il risarcimento del danno, deve proporre la domanda secondo le disposizioni di cui al Capo V», ovvero formulare istanza di insinuazione al passivo. In questo senso si v. ex multis, L. BACCAGLINI, op. cit., 22; M. MACCHIA, Opponibilità della clausola compromissoria al fallimento del contraente, in Il Fallimento e le altre procedure concorsuali, 2006, fasc. 7, 818 – 823; S. VINCRE, Opponibilità ed efficacia nei confronti del curatore della clausola compromissoria, in Il Fallimento e le altre procedure concorsuali, 2004, fasc. 5, 525 – 531. L’articolo in commento fissa così il principio generale per cui «se un contratto non è ancora eseguito o non compiutamente eseguito da entrambe le parti quando, nei confronti di una di esse, è dichiarato il fallimento l’esecuzione del contratto rimane sospesa fino a quando il curatore, con l’autorizzazione del comitato dei creditori dichiari di subentrare nel contratto in luogo del fallito, assumendo tutti i relativi obblighi, ovvero di sciogliersi dal medesimo». In particolare, si v. M. BOVE, op. cit., 7-8.
[42] M. BOVE, op. cit., 12-13.
[43] Tale articolo è specificamente dedicato all’arbitrato, infatti, questo recita testualmente «se il contratto in cui è contenuta una clausola compromissoria è sciolto a norma delle disposizioni della presente sezione, il procedimento arbitrale non può essere proseguito».
[44] I. DELLA VEDOVA, Le sorti di un procedimento arbitrale in corso in seguito al sopravvenuto fallimento di una delle parti, in La Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 2005, fasc. 6, 868 – 872.
[45] Sul punto, infatti, prima dell’introduzione dell’art.83-bis L. Fall., si è interrogata la dottrina e la giurisprudenza in merito al quesito circa gli effetti dell’accordo compromissorio stipulato dal fallito per curatela. Nello specifico, una prima tesi sosteneva che in mancanza di nomina dell’arbitro l’accordo compromissorio non potendosi considerare perfezionato era da considerarsi irrilevante per il sopravvenuto fallimento. L. MORTARA, Commentario del codice, III, Milano, 1923, 70; E. ALVINO, Clausola compromissoria e fallimento, in Dir. Fall., 1965, II, 15 ss.; Cass. 12 gennaio 1956, n.30, in Giust. Civ., 1956, I, 208. La ratio su cui si basa questa tesi era, secondo alcuni, che l’opponibilità del procedimento arbitrale al fallimento dipendesse dal fatto che lo stesso fosse già pendente e che si fosse già verificata l’accettazione dell’arbitro. Al contrario, dopo l’accettazione dell’arbitro, si riteneva che la pendenza del procedimento fosse rilevante sul fallimento e che la competenza arbitrale rimanesse ferma in forza dell’art. 5 cod. proc. civ. In questo senso si v. E. REDENTI, voce Compromesso, inNuovo Dig. It., II, Torino, 1959, 498 ss.; U. AZZOLINA, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Torino, 1953, II, 1112. Altri, invece, erano convinti che essendo il compromesso di carattere strettamente personale questo non potesse mai essere trasferito in capo alla curatela. In questo senso si v. G. BONELLI, Del fallimento, III ed., I, Milano, 1938, 627; Ancora, altri propendevano per un’incompatibilità assoluta tra i due sistemi: arbitrato e della procedura fallimentare, infatti, si riteneva che glie effetti di quest’ultima rendesse indisponibilità tutti i diritti. In essa venivano ricompresi, perciò anche compromesso e clausola compromissoria stipulati prima dell’apertura del fallimento. R. PROVINCIALI, Trattato di diritto fallimentare, II, Milano, 1974, 1322; Cass. 11 giugno 1969, 2064, in Dir. fall., 1970, 2, 59. M. BOVE, op.cit.,219.
[46] S. VINCRE, Il curatore di fronte all’accordo compromissorio del fallito, in AA. VV., Procedure concorsuali e arbitrato, Milano, 2020, 2.
[47] A. CARRATTA, La sorte dell'arbitrato e del lodo dopo la dichiarazione di fallimento, in Il Diritto fallimentare e delle società commerciali, 2019, fasc. 1, 83 – 113.
[48] F. CORSINI, Sull'opponibilità al curatore della clausola compromissoria sottoscritta dalla società fallita, quando era "in bonis", in Giurisprudenza italiana, 2017, fasc. 4, 929 – 933.; F. DE SANTIS, Sull’opponibilità al curatore fallimentare della convenzione d’arbitrato stipulata dal fallito alla luce delle riforme della legge concorsuali, in F. AULETTA, G.P. CALFANO, G. DELLA PIETRA, N. RASCIO (a cura di), Sull’arbitrato. Studi offerti a Giovanni Verde, Jovene, 2010, 363;
[49] L. BACCAGLINI, op.cit.,112 ss.
[50] M. BOVE, Arbitrato e fallimento, in www.judicium.it; diversamente E. ZUCCONI GALLI FONSECA, in Arbitrato societario, (a cura di) F. CARPI, Bologna, 2016.
[51] In questo senso si veda ex multis, F. FRADEANI, Eccezione d'arbitrato e fallimento, tra vecchi e nuovi problemi interpretativi, in Giurisprudenza italiana, 2012, fasc. 2, 385 – 388; R. PANETTA, Gli effetti della dichiarazione di fallimento sulla clausola arbitrale, in La Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 2011, fasc. 10, 978 – 983; M. MONTANARI, Fallimento e giudizio arbitrale su crediti nella prospettiva della concezione negoziale dell'arbitrato rituale, in il Corriere giuridico, 2004, fasc. 3, 322 – 331.
[52] «per quasi mezzo secolo, e fino agli anni sessanta, è prevalsa tra gli interpreti la convinzione che solo il giudizio arbitrale già pendente alla data di apertura di fallimento avesse effetto verso il curatore. Poiché a quel tempo la litispendenza arbitrale era segnata dall’accettazione da parte degli arbitri del relativo incarico, si riteneva che l’accordo compromissorio vincolasse l’amministrazione fallimentare solo se il collegio arbitrale fosse già costituito. Da qui, l’aggettivo “dicotomica” attribuito a questa esegesi, a indicare l’opposta sorte dell’arbitrato, secondo che fosse già stata data attuazione al patto arbitrale, al momento della dichiarazione di fallimento. […] la tesi dicotomica si basava su un equivoco di fondo, infatti muoveva dal presupposto secondo cui compromesso e clausola compromissoria sarebbero diventati efficaci dopo che vi fosse stata accettazione da parte degli arbitri nominati; momento a partire dal quale l’arbitrato si reputava pendente». L. BACCAGLINI, op. cit., 90-91.
[53] F. UNGARETTI DELL'IMMAGINE, Arbitrato societario, fallimento e disponibilità dei diritti, in Rivista dell'arbitrato, 2020, fasc. 1, 72 – 83.
[54] R. ORIANI, “La «perpetuatio Iurisdictionis» (Art. 5 cod. proc. civ.).” in Il Foro Italiano, vol. 112, 1989, 35-90.
[55] Cass., 12 gennaio 1956, n. 30; Cass., 10 maggio 1959, n. 1474; entrambe estratte in www.dejure.it.
[56] VONA, L’art. 83-bis: effetti del fallimento sul giudizio arbitrabili, in Dir. fall., 2014, 282.
[57] “sedes materiae erronea”.
[58] S. VINCRE, Il curatore di fronte all’accordo compromissorio del fallito in AA. VV., op.cit., 14-16.
[59] G. CHIOVENDA, Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1980, 107.
[60]S. VINCRE, op. cit., 14 ss.; G. GIANNELLI, Clausola arbitrale e fallimento di società nella giurisprudenza della cassazione. spunti di riflessione sulle posizioni soggettive dei soci, in Banca borsa e titoli di credito, 2021, fasc. 3, 332 – 345.
[61] Racchiuse dagli artt. 172-192 c.c.i.i.
[62] S. A. CERRATO, Il mosaico dell’arbitrato al tempo del Codice della crisi: nouvelle vague o antiche aporie? in Giurisprudenza Commerciale, fasc. 1, 2020, 66, in www.dejure.it.
[63] L’esistenza di una competenza inderogabile in capo al tribunale fallimentare, ex art. 24 L. Fall. Tale articolo recita testualmente: «il tribunale che ha dichiarato il fallimento è competente a conoscere di tutte le azioni che ne derivano, qualunque ne sia il valore». [La norma è stata oggetto di molteplici riforme, infatti, venne introdotta nel nostro ordinamento con R.D. 167/42, per poi essere modificata con il d. lgs. 5/2006.] La norma ha natura prettamente processuale, ponendo un criterio di competenza giurisdizionale in senso proprio, in quanto specifica l’ambito delle controversie fallimentari attribuitegli. [M. FERRO, La legge fallimentare, Commentario teorico-pratico, III ediz., 2014, 365.] L’articolo in commento, come ogni regola sulla competenza, è finalizzato a disciplinare il riparto delle controversie tra i diversi uffici giudiziari. Di converso, l’istituto dell’arbitrato, sottraendo la competenza decisoria al giudice ordinario, inibisce l’operatività delle regole di competenza. D’altra parte, è stato messo in rilievo che «mentre i conflitti tra giudici pongono sempre un problema di “distribuzione” di un potere omogeneo e diffuso, i conflitti tra giudici ed arbitri pongono sempre un problema di “spettanza” del potere decisorio ai secondi cui corrisponde una “sottrazione” del medesimo ai giudici. In un solo caso i due diversi tipi di conflitto sono quasi coincidenti ed è quando si discute delle situazioni “non compromettibili”, perché in questa ipotesi si può anche dire che la legge, nel limitare il potere decisorio degli arbitri, ha risolto il problema “distribuzione” prima e più ancora che un potere di “spettanza”». In conclusione, quindi, la cognizione arbitrale non è esclusa dalla competenza del tribunale fallimentare, né pone ostacoli di compatibilità. La competenza, quindi, non fa nascere l’incompatibilità tra arbitrato e fallimento ma a tale regola esiste una deroga: l’oggetto del giudizio arbitrale che incide sulla competenza funzionale ed inderogabile del tribunale fallimentare ex art. 24 L. Fall. Sul punto dell’art. 24 L. Fall., in dottrina secondo alcuni, avrebbe posto un ostacolo all’operatività della clausola, non solo in relazione alle cause effettivamente derivanti dal fallimento, ma a tutte quelle che coinvolgono pretese o diritti ricompresi nel fallimento stesso. In questo senso si v. [G. SCHIZZEROTTO, Dell’arbitrato, II ed., Milano, 1988, 149.]
[64] Da ultimo, sulla delimitazione del sintagma «azioni che derivano dal fallimento», Cass., 20 marzo 2018, n. 6910, in Banca dati Pluris: «controversie che, anche se relative a rapporti preesistenti alla dichiarazione di fallimento, subiscono, per effetto di quest'ultima, una deviazione dal loro schema legale tipico, nel senso che il rapporto viene ad essere concretamente modificato, nel suo sviluppo fisiologico, dal fallimento stesso, il quale determina, anche sul piano del diritto sostanziale, una situazione particolare, in cui la competenza del tribunale fallimentare si inserisce quale elemento integrativo». Per una aggiornata sintesi della questione, che nel tempo ha registrato molte oscillazioni, v. F. DE SANTIS, Le azioni che derivano dal fallimento, in Aa.Vv., Le riforme della legge fallimentare, (a cura di) DIDONE, vol. 1, Torino, 2009, 478 ss.; P. GENOVIVA, II tribunale fallimentare, in Aa. Vv., Crisi d'impresa e procedure concorsuali, (diretto da) O. CAGNASSO - L. PANZANI, Torino, 2016, 669 ss.
[65] E. ZUCCONI GALLI FONSECA, op.cit., 4.
[66] Ossia azioni ordinarie relative a diritti disponibili.
[67] F. CAMPIONE, Liquidazione giudiziale e controversie arbitrabili, fasc. 2/2020, 199, in www.judicium.it.
[68] Una recente giurisprudenza di Cassazione, n. 3953 del 29 febbraio 2021, afferma che questo debba essere interpretato nel senso che «le domande principali (prodromiche) di simulazione e risoluzione contrattuale, trascritte anteriormente alla dichiarazione di fallimento della parte convenuta in giudizio, proseguono legittimamente con il rito ordinario attesa l’opponibilità della relativa sentenza alla massa dei creditori in ragione dell’effetto prenotativo della trascrizione».
L’art. 72 L. Fall., faceva emergere che la sorte della clausola compromissoria e del compromesso fosse legata alla sorte del contratto, in quanto queste, in via analogica, venivano trattate come un contratto pendente, imponendo così al curatore la scelta di subentrare o meno nell'accordo compromissorio. In attesa della scelta dell’amministrazione fallimentare, l’efficacia della convenzione veniva sospesa, salva la possibilità dell’altro contraente di mettere in mora il curatore per effettuare la scelta. Tali assunti hanno portato alla tesi secondo la quale la clausola compromissoria sopravvive se sopravvive il contratto sostanziale a cui il curatore decide di subentrare. I sostenitori di questa tesi potevano dividersi in due correnti: chi ricollegava la permanenza dell’efficacia della clausola compromissoria alla sua valenza di elemento accessorio del contratto; chi, invece, sosteneva l’autonomia della clausola compromissoria come contratto processuale, connesso, ma distinto dal contratto sostanziale di riferimento. M. BOVE, Arbitrato e fallimento,2012, 7, in www.judicium.it.
Il quadro fin qui esposto ha portato, quindi, alla conclusione, ribadita anche dalla Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 6165/2003, che l’apertura della procedura concorsuale non determinasse l’inefficacia automatica del procedimento arbitrale ed il fallimento non fosse incompatibile con la cognizione arbitrale. F. DEL VECCHIO, Clausola compromissoria, compromesso e lodo di fronte al successivo fallimento di una delle parti, in Il diritto fallimentare e delle società commerciali, 2-3/1986, 1, 300; E. CAPACCIOLI, L’amministrazione fallimentare di fronte all’arbitrato, in Riv. dir. proc., 1959, 555; in giurisprudenza, anche Cass. Civ., 18 agosto 1998, n. 8145, cit., in tema di arbitrato irrituale. In particolare, per completezza sull’arbitrato irrituale si v. F. SUDIERO, Arbitrato irrituale, estinzione della società e fallimento, in Giurisprudenza commerciale, 2015, fasc. 3, 637 – 642.
L’idea era quella che il curatore fosse libero di scegliere se tenere fermo il vincolo della convenzione arbitrale già stipulato o sciogliersene, in quanto non sembrava ammissibile che il curatore potesse subentrare nel contratto e non nella clausola compromissoria mentre rimaneva il dubbio se il curatore fosse vincolato al procedimento arbitrale già iniziato; diversa, invece, era la situazione in cui l’oggetto del processo arbitrale diveniva incompromettibile per via della dichiarazione di fallimento. [F. CARPI, Arbitrato: titolo VIII libro IV codice di procedura civile - artt. 806-840, II ediz., Bologna, 2008, 113-115.] Tale pluralità di orientamenti ha suscitato una molteplicità di controversie ma soprattutto ha indotto il legislatore, come vedremo, ad operare un tentativo di apertura verso la disciplina in esame modificando il codice di procedura civile in tema di arbitrato con il d. lgs. 40/2006 che ha introdotto, tra l’altro, il nuovo art. 83-bis L. Fall. ed ha modificato l’art. 72 L. Fall.
La definitiva compatibilità tra gli istituti viene consacrata dal legislatore attraverso la riforma del 2006. Tra le principali novità sancite dalla riforma del 2006 troviamo la modifica operata all’art. 72 L. Fall., che abbandona la sua vecchia denominazione “contratto di vendita”, per essere intitolato, più genericamente, “rapporti pendenti”.
La norma fissa il principio generale secondo il quale i contratti non ancora eseguiti all’epoca del fallimento rimangono sospesi finché il curatore non sceglie se subentrare nel rapporto o estinguerlo. Distingue, poi, a seconda che il contratto pendente sia stato compiutamente eseguito, parzialmente eseguito o del tutto non eseguito, in quanto si dà al curatore la possibilità di scegliere in base ad una valutazione di opportunità, potendo subentrare solo nel contratto sostanziale e non anche nel patto compromissorio connesso. Infine, prevede la possibilità del contraente di mettere in mora il curatore, fissando quindi un termine secondo il quale il contratto si intende sciolto. [M. BOVE, op.cit., 2].
La disposizione sancisce la piena opponibilità al curatore dell’azione di risoluzione del contratto, promossa nei confronti della parte inadempiente, prima che quest’ultima sia dichiarata fallita; infatti, il comma 5 stabilisce che «se il contraente intende ottenere con la pronuncia di risoluzione la restituzione di una somma o di un bene, ovvero il risarcimento del danno, deve proporre la domanda secondo le disposizioni di cui al Capo V», ovvero formulare istanza di insinuazione al passivo. [L. BACCAGLINI, op. cit., 22]. L’articolo in commento fissa il principio generale per cui «se un contratto non è ancora eseguito o non compiutamente eseguito da entrambe le parti quando, nei confronti di una di esse, è dichiarato il fallimento l’esecuzione del contratto rimane sospesa fino a quando il curatore, con l’autorizzazione del comitato dei creditori dichiari di subentrare nel contratto in luogo del fallito, assumendo tutti i relativi obblighi, ovvero di sciogliersi dal medesimo». Il legislatore, quindi, dà al curatore un potere di scelta basato su valutazioni di opportunità; scelta non semplice per mancanza di univocità dei dati normativi. La norma va intesa in senso ampio tant’è che quando si parla di esecuzione del contratto ci si riferisce, genericamente, alla realizzazione dello scopo dello stesso. Il patto compromissorio è un contratto processuale, per tale motivo produrrà solo effetti processuali («fondando esso, in negativo, l’eccezione di patto compromissorio di cui all’art. 819-ter cod. proc. civ., che porta alla pronuncia di una sentenza di rigetto in rito nell’ambito del processo statale instaurato inavvedutamente nonostante la scelta della via arbitrale, ed in positivo l’efficacia vincolante della (futura) sentenza privata» non facendo sorgere alcun rapporto obbligatorio tra le parti. Alla luce di queste considerazioni appare arduo considerare il patto compromissorio come oggetto di un’autonoma valutazione del curatore ai fini del suo subentro o meno; infatti, in assenza di un appiglio normativo che dia al curatore la possibilità di scelta o si trova una norma che sancisce, a seguito della dichiarazione di fallimento, l’inefficacia del patto compromissorio o valgono i principi dettati dall’art. 1372 cod. civ. [M. BOVE, op. cit.,7-13].
[69] R. MARCIANESI, Effetti della liquidazione giudiziale sui rapporti giuridici pendenti (Artt. 172-192 CII) in La liquidazione giudiziale, 2020, 83.
[70] D. U. SANTOSUOSSO, Contratti pendenti nel diritto della crisi di impresa e dell’insolvenza: riflessioni sulla clausola arbitrale, in Il Diritto fallimentare e delle società commerciali, 2023, fasc. 1, 3 – 15.
[71] Il Codice della Crisi d’Impresa e d’Insolvenza rende quindi applicabile la soluzione già delineata all’art. 72 L. Fall. Sul punto si v. G. CANALE, L'arbitrato del curatore, in Giurisprudenza commerciale, 2019, fasc. 1, 17 – 31.
[72] La dottrina, prima della riforma, si è curata di ricostruire la posizione che il curatore ricopre rispetto alla pretesa di cui è titolare il fallito, in modo da chiarire a che titolo il primo faccia valere il diritto del secondo e far luce, di conseguenza, sulla efficacia della convenzione arbitrale. Secondo gli interpreti, in altri termini, nelle liti cd. attive, occorre chiarire se l’amministrazione fallimentare deduca in giudizio lo stesso diritto ovvero un diritto diverso da quello che il fallito vanta nei confronti della controparte. Si rende in altri termini necessario comprendere quale sia la sua posizione processuale, potendosi configurare a riguardo diverse prospettazioni. Se si ritiene che il curatore, quando esercita un’azione rinvenuta nel patrimonio fallimentare, non deduca contro il terzo lo stesso diritto di cui è titolare il fallito, allora si deve negare anche che la procedura sia vincolata a favore dell’arbitrato per una scelta compiuta precedentemente; conseguentemente, la clausola compromissoria non potrà essere opposta al curatore né questi sarà costretto ad assumere il ruolo di parte né, infine, potrà vedersi opporre il lodo che gli arbitri in sua assenza abbiano pronunciato. Potrebbe in alternativa comportarsi come un rappresentante del fallito, o come un suo avente, oppure ancora come un sostituto processuale ed in tal caso la clausola potrebbe vincolare la curatela.
Il problema relativo alla posizione del curatore non si pone in tutti quei casi in cui egli, in forza dell’art. 72 L. Fall., opti per il subentro in un contratto i cui effetti non siano ancora esauriti al momento della dichiarazione di fallimento. Lo si ricava da una lettura a contrario dell’articolo 83-bis L. Fall. a norma del quale “se il contratto in cui è contenuta una clausola compromissoria è sciolto a norma delle disposizioni della presente sezione, il procedimento arbitrale pendente non può essere proseguito”. Invero, quando il curatore sceglie di subentrare nel contratto pendente, subentra anche nella convenzione arbitrale che a quel contratto accede, dunque, non si pone un problema di vincolatività del patto compromissorio. [L. BACCAGLINI, op. cit., 69].
In questa prospettiva ai fini della costituzione del tribunale arbitrale, il giudice delegato su proposta del curatore dovrebbe provvedere all’investitura degli arbitri, se non ancora nominati. [BOVE, op. cit., 6.] Occorre dare atto, tuttavia, di una tesi contraria, secondo la quale la clausola compromissoria andrebbe assimilata ad un contratto pendente ed in quanto tale non sarebbe opponibile al curatore, dovendo egli scegliere se subentrare o meno nel patto compromissorio. Per tutti si v. [L. GUGLIELMUCCI, Effetti del fallimento sui rapporti giuridici preesistenti, in Comm. SCIAJOLA-BRANCA, Bologna, 1986, 455.] Il problema si pone, dunque, nelle ipotesi residuali contemplate dall’art. 83-bis L. Fall., ovvero nei casi in cui il curatore si sia sciolto dal contratto che conteneva la clausola compromissoria e nei casi in cui il contratto sia stato interamente eseguito. Quanto al primo caso, si può pensare a un contratto di compravendita, in forza del quale il bene sia stato consegnato alla controparte del fallito, ma il cui corrispettivo sia stato solo parzialmente pagato; quanto alla seconda ipotesi, si immagini un contratto di leasing dal quale il curatore della società fallita si sia sciolto ma del quale si vogliono recuperare i canoni non corrisposti dall’utilizzatore; e ancora, un contratto di appalto, nel quale il curatore non si sia sciolto ma del quale non sia stato ancora integralmente pagato il corrispettivo all’appaltatore fallito. Gli esempi sono richiamati da [L. BACCAGLINI, op. cit.,70.] È in ipotesi come queste, pertanto, che occorre chiedersi quale sia la posizione assunta dal curatore per chiarire le sorti del patto compromissorio stipulato dal debitore ancora in bonis.
[73] E. ZUCCONI GALLI FONSECA, Ancora su arbitrato rituale e fallimento, in Riv. arb., 2014, 9.
[74] La dottrina e la giurisprudenza per escludere o limitare il vincolo del curatore all’accordo compromissorio concluso dal fallito quando in bonis, richiamano il principio della perpetuatio jurisdictionis et competentiae, ex art. 5 cod. proc. civ., che rende il giudizio arbitrale già instaurato insensibile alla sopraggiunta declaratoria di fallimento. Si tratta della c.d. tesi dicotomica la quale indicava l’opposta sorte dell’arbitrato, a seconda che fosse già stata data attuazione al patto arbitrale, al momento della dichiarazione di fallimento della parte. [A. BONSIGNORI, Procedimento arbitrale e fallimento, in Dir. fall., 1993, II, 605 ss.] Per dare vigore alla teoria, i fautori della tesi dicotomica esaltavano la portata dell’art. 24 L. Fall., sottolineando l’inefficacia dell’accordo compromissorio concluso dal fallito quando in bonis, in ragione della competenza inderogabile attribuita al tribunale fallimentare di conoscere di tutte le liti derivanti dal fallimento. [A quanto consta, questa tesi è stata inaugurata in giurisprudenza da ex multis: Cass., 20 dicembre 1934, n. 3643, in www.Foro.it., 1935, 1, 263; Cass., 12 gennaio 1956, n. 30, in Giust. civ., 1956, 1, 208 e in Dir. fall., 1956, 2, 57], ove si afferma espressamente che «la dichiarazione di fallimento di una parte, intervenuta prima della costituzione del rapporto arbitrale e del conseguente inizio del giudizio relativo, ne impedisce il valido sorgere; mentre nessuno spostamento di competenza si produce, invece, qualora il giudizio arbitrale sia già in corso al momento della dichiarazione di fallimento»; in senso analogo si v. anche [Cass., 4 agosto 1958, n. 2866, in Giust. civ., 1959, 1, 130; Trib. Genova, 24 novembre 1959, in Dir. fall., 1960, 2, 718 ss.; Cass., 18 maggio 1959, n. 1474, in Giust. civ., 1959, 1, 1751; Cass., 23 gennaio 1964, n. 162, in Dir. fall., 1964, 2, 36.] Questa tesi risale a [L. MORTARA, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, III, Milano, 1923, 70 ss.] ed è stata accolta da [E. REDENTI, voce Compromesso, in Nuovo Dig.it., 2, Torino, 1959, 498-499.] Tale interpretazione, però, non convince gli interpreti in quanto l’apertura di una procedura concorsuale a carico di una parte non può parificarsi a una legge che, entrata in vigore dopo la litispendenza arbitrale, esclude la compromettibilità di quella lite, né ad un fatto estintivo del patto compromissorio, sopraggiunto a procedimento già instaurato. [M. BOVE, Convenzione arbitrale e fallimento, in Riv. arb., 2016, 220]. Inoltre, vi è un equivoco di fondo alla base della tesi dicotomica, in quanto muove dal presupposto secondo cui compromesso e clausola compromissoria sarebbero diventati efficaci dopo che vi fosse stata accettazione da parte degli arbitri nominati; momento a partire dal quale l’arbitrato si reputava pendente. [Osservava L. MORTARA, op. cit., 72: «poiché il compromesso, e con il compromesso il mandato agli arbitri, esistono nella loro giuridica perfezione solo quando costoro abbiano accettato l’incarico, così può accogliersi limitatamente la opinione che cessi di pieno diritto la obbligazione di compromettere e con essa l’efficacia della nomina degli arbitri se l’accettazione di tale nomina non sia ancora avvenuta nel dì della dichiarazione di fallimento». Negli stessi termini, [E. REDENTI, op. cit.,487-488; U. AZZOLINA, op. cit., 1112]. A tal riguardo, giova peraltro rammentare che – nella vigenza del cod. proc. civ. 1865, epoca in cui L. MORTARA scriveva – l’accordo arbitrale poteva considerarsi perfezionato solo con l’accettazione dell’incarico da parte degli arbitri nominati. Secondo l’A., infatti, se gli arbitri non avessero accettato l’incarico e le parti non si fossero accordate sulla nuova designazione dei componenti del collegio, non avrebbe potuto parlarsi di instaurazione del giudizio arbitrale e perciò di realizzazione della deroga di giurisdizione. L. MORTARA, infatti, non riteneva applicabile anche al compromesso, la previsione contenuta nell’art. 12 cod. proc. civ. 1865 che introduceva un meccanismo di surrogazione dell’autorità giudiziaria quanto alla nomina degli arbitri, qualora l’opzione a favore dell’arbitrato fosse contenuta in una clausola compromissoria. È soltanto con l’introduzione dell’art. 810 cod. proc. civ. 1942, che il legislatore ha stabilito il principio secondo cui la mancata nomina dell’arbitro di parte può essere compiuta, previa richiesta in tal senso dall’altro compromittente, dal Presidente del Tribunale. Quanto al momento di pendenza della lite in arbitrato, va ricordato che la legge 5 gennaio 1994, n. 25 ha inserito l’art. 669-octies, ultimo comma, cod. proc. civ., che ha identificato la litispendenza arbitrale con il momento di notificazione della domanda di arbitrato. Sul punto si v. [R. MURONI, La pendenza del giudizio arbitrale, Torino, 2008, 60 ss]. Pertanto, la tesi dicotomica aveva, quindi, dei limiti non essendo in grado di spiegare perché un accordo arbitrale concluso prima della dichiarazione di fallimento di uno dei paciscenti sarebbe stato inopponibile alla curatela. Nonostante tale ricostruzione sia stata abbandonata, ricorre in giurisprudenza la tendenza a sovrapporre il ruolo svolto dal patto compromissorio a quello attribuito all’accordo concluso tra i paciscienti e il collegio arbitrale, confondendo, così, i due negozi che, invece, mantengono distinte funzioni. L. BACCAGLINI, op. cit.,94 ss. G. VONA, La stipula del patto compromissorio e la nomina degli arbitri nelle procedure concorsuali, in Il Diritto fallimentare e delle società commerciali, 2013, fasc. 3-4, 421 – 439.
[75] L’art. 83-bis L. Fall. sancisce l’improcedibilità del procedimento arbitrale in seguito allo scioglimento del contratto contenente una clausola compromissoria. Dall’interpretazione letterale della norma scaturisce la tesi maggioritaria secondo cui l’amministrazione fallimentare non ha potere di scelta in merito al proseguimento o meno del procedimento, essendone previsto l’automatico scioglimento. Ciò che la norma espressamente dice, quindi, è solo che se il contratto principale si scioglie, ipso iure per effetto del fallimento o per volontà del curatore, anche la convenzione di arbitrato è destinata a venire meno. [A. CAROSI, La morte, l'estinzione e la perdita di capacità della parte: effetti sulla pendenza del giudizio arbitrale tra prosecuzione del processo ed osservanza del principio del contraddittorio, in Rivista dell'Arbitrato, fasc.1, 2019, 199]. Anche se l'articolo in commento cita solo il caso della clausola compromissoria, è ovvio che, disciplinando esso la sorte di un giudizio che abbia «perso» il suo oggetto, la stessa sorte spetti al giudizio arbitrale fondato su un compromesso. Il curatore, una volta subentrato nella posizione del fallito, ha solamente la possibilità di scegliere se instaurare un nuovo procedimento arbitrale o un nuovo giudizio statale. Tale impostazione fa sorgere due ordini di problemi: da un lato, quelli contrastanti con il principio di economia processuale, dall’altro la diversa condizione del contraente in bonis a seconda che sia parte di un processo statale o di un procedimento arbitrale. Nel primo caso, le perplessità sono evidenti in quanto si tratta di instaurare, ex novo, un procedimento che comporta dei costi diversi rispetto alla prosecuzione di un procedimento già avviato e la conseguente impossibilità di pieno utilizzo delle risultanze istruttorie già raccolte davanti agli arbitri. Nel secondo caso, invece, si andrebbe a creare una discrepanza di trattamento nei confronti del contraente in bonis che, nel processo statale, avrebbe la possibilità di riassunzione della lite nei confronti del curatore e, di converso, nel procedimento arbitrale, dovrebbe accollarsi un nuovo processo, davanti ad un giudice togato, ove il curatore riproponga la stessa domanda già proposta del fallito.Alla luce delle problematiche scaturite dall’interpretazione letterale dell’art. 83-bis L. Fall. viste nel precedente paragrafo, ossia ragioni di economia processuale, da un lato, e la necessità di omologazione degli effetti del lodo e della sentenza del giudice statale, dall’altro. [L. BACCAGLINI, op. cit., 117-124]. Una parte della dottrina, propone un’interpretazione restrittiva dell’articolo in commento, prevendendo l’improcedibilità dei soli giudizi arbitrali in cui sia stata proposta una domanda avente per oggetto la validità del contratto. In particolare, qualora vi fosse un cumulo di domande concernente la condanna all’adempimento di quel contratto, una volta ottenuta (tramite restituzione della prestazione già eseguita e/o risarcimento del danno), il procedimento arbitrale dovrebbe proseguire, in tutto o in parte, portando alla decisione arbitrale. [«Gli arbitri decideranno della sola domanda giudiziale, qualora quella dipendente fosse stata proposta dalla controparte del fallito, in forza del principio del concorso formale; viceversa, qualora la domanda con petitum di condanna fosse stata proposta dal fallito, il giudizio arbitrale potrà proseguire sull’intero oggetto originario, nel contraddittorio con il curatore. In questa seconda ipotesi, la situazione che si crea non è dissimile a quella che si presenta quando la clausola arbitrale sia contenuta in un contratto già eseguito ex uno latere; del resto, è pur sempre il negozio giuridico dal quale il curatore si sia sciolto a costituire la causa petendi della pretesa che l’amministrazione fallimentare intende far valere». Oltre alle succitate ragioni, vi sono però ulteriori elementi da prendere in considerazione, primo tra tutti il ricorrere di alcune condizioni ai fini dell’applicazione dell’art. 83-bis L. Fall., quali: - l’esistenza di un rapporto giuridico che non abbia ancora avuto completa attuazione alla data di apertura della procedura fallimentare; - la pendenza di un giudizio arbitrale, avente per oggetto pretese derivanti da quel negozio; - il mancato subentro dell’amministrazione fallimentare in quel contratto. Per tali motivi la norma sembra avere portata sistematica controversa, prendendo anche come riferimento la Relazione Illustrativa che ha accompagnato il d. lgs. 5/2006, in cui la ratio dell’improcedibilità del giudizio arbitrale è riconducibile al sopravvenuto disinteresse verso quel rapporto giuridico da parte della procedura. [«la norma sarebbe stata voluta «al [solo] fine di evitare che il giudizio arbitrale sopravviva al regolamento di interessi convenzionali travolto dal fallimento e che era destinato a risolvere». Tuttavia, tale spiegazione non risolve tutti gli interrogativi, in quanto, come già esplicato nel primo capitolo, è controverso sia l’oggetto del procedimento arbitrale, ex art. 83-bis L. Fall., che la rubrica della norma. Parte della dottrina, quindi, dà alla norma un significato circoscritto, ritenendo che la stessa operi solamente quando gli arbitri, seppur nominati, non abbiano accettato l’incarico. [«Il ragionamento sotteso a questa lettura può riassumersi nei termini che seguono: l’art. 83-bis L. Fall. condiziona l’improcedibilità dell’arbitrato alla circostanza che il contratto, che ne costituisce l’oggetto e al quale si riferiscono il compromesso o la clausola compromissoria, si sciolga a norma delle disposizioni della sezione IV Legge Fall.»]. Inoltre, il rinvio normativo alle disposizioni della IV sezione della L. Fall. non deve essere inteso solo in relazione all’art. 72 L. Fall. ma anche alle previsioni sui singoli contratti, ex art. 78 L. Fall. [«relativo al mandato, per il quale è previsto lo scioglimento solo in caso di fallimento del mandatario e non del mandante», per approfondimenti v. L. BACCAGLINI, op. cit., p. 109-110]. Tale tesi è di difficile applicazione in quanto tradisce la ratio, emergente dai lavori preparatori, dell’art. 83-bis L. Fall. Per giungere alla giustificazione dell’improcedibilità sancita dall’articolo in commento e per come interpretata dalla dottrina minoritaria, non si può, nuovamente, non prendere in considerazione la Relazione Illustrativa che ha fatto riferimento ad un disinteresse rispetto ad un procedimento che attiene ad un regolamento di interessi travolti dal fallimento. A tal proposito si parla di sopravvenuta carenza dell’oggetto del procedimento. In sintesi, e alla luce di tali ragioni, secondo questa impostazione, il destino del procedimento arbitrale, in cui sia dedotto un rapporto giuridico pendente e nel quale il curatore sia subentrato, dipende dai petitia delle domande proposte. L’improcedibilità sarebbe intesa come una cessazione della materia del contendere in quanto l’arbitrato diverrebbe improcedibile solo se l’oggetto delle domande in giudizio riguardasse l’accertamento o il modo di essere di quel contratto, non le singole relazioni giuridiche dallo stesso emergenti, facendo venire meno l’oggetto decisorio. Al di fuori di tali specifiche ipotesi, questa parte della dottrina ritiene che, qualora i giudizi arbitrali abbiano domande con causa petendi il contratto dal quale il curatore si sia sciolto, lo stesso giudizio potrebbe proseguire fino al lodo di merito, nel contraddittorio con il curatore. [«Per la precisione, ciò accadrà là dove in sede arbitrale: a) il fallito, quando ancora in bonis, avesse proposto domanda di condanna all’adempimento della controparte; b) fossero state domandate, in via cumulata, la risoluzione del contratto (dal quale il curatore si sia poi sciolto) insieme alla condanna al risarcimento dei danni. In quest’ultima eventualità, se il cumulo di domande sia stato proposto dal fallito, l’intero giudizio potrebbe proseguire. Viceversa, ove fosse stato introdotto dalla parte in bonis, si assisterebbe alla separazione delle cause per effetto dell’art. 72, comma quinto, Legge Fall., salvo poi prevederne il coordinamento decisorio per il tramite dell’art. 295 cod. proc. civ. o dell’art. 96, comma secondo, n. 1 Legge Fall.: così, la domanda pregiudiziale verrà decisa dagli arbitri mentre quella dipendente di condanna sarà conosciuta in sede di verifica del passivo». L. BACCAGLINI, op. cit., 117-134.
[76] di converso un’autorevole dottrina sostiene che il mancato subentro del curatore renda lo stesso terzo e quindi estraneo rispetto alla clausola compromissoria, la quale non potrebbe essergli in alcun modo opposta, difettando in sostanza la successione del contratto.
[77] M. BOVE, Convenzione arbitrale e fallimento, in Riv. arb., 2016, 218.
[78] Riscontrabili, rispettivamente, negli artt. 51,52 e 92 ss. L. Fall.
[79] G. BOZZA, L’accertamento del passivo nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Fall., 2019, 1203 ss.
[80] S. MENCHINI- A. MOTTO, L’accertamento del passivo e dei diritti reali personali dei terzi sui beni, in Trattato di diritto fallimentare e delle altre procedure concorsuali, (diretto da) F. GABRIELLI, P. LUISO, E. VASSALLI, II, Torino, 2014, 420;
L. GROPPOLI, "Indisponibilità" dell'accertamento del passivo: riflessi sull'arbitrato, in Il Fallimento e le altre procedure concorsuali, 2016, fasc. 3, 318 – 321.
[81] F. CAMPIONE, op.cit.,201.
[82] «Il curatore comunica senza indugio a coloro che, sulla base della documentazione in suo possesso o delle informazioni raccolte, risultano creditori o titolari di diritti reali o personali su beni mobili e immobili di proprietà o in possesso del debitore compresi nella liquidazione giudiziale, per mezzo della posta elettronica certificata, se l'indirizzo del destinatario risulta dal registro delle imprese ovvero dall'Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti e, in ogni altro caso, mediante lettera raccomandata indirizzata alla sede, alla residenza o al domicilio del destinatario: a) che possono partecipare al concorso trasmettendo la domanda con le modalità indicate nell'articolo 201, anche senza l'assistenza di un difensore; b) la data, l'ora e il luogo fissati per l'esame dello stato passivo e il termine entro cui vanno presentate le domande; c) ogni utile informazione per agevolare la presentazione della domanda e con l'avvertimento delle conseguenze di cui all'articolo 10, comma 3, nonché' della sussistenza dell'onere previsto dall'articolo 201, comma 3, lettera e); d) il domicilio digitale assegnato alla procedura. Se il creditore ha sede o risiede all'estero, la comunicazione può essere effettuata al suo rappresentante in Italia, se esistente.».
[83] Art. 204 comma 5 c.c.i.i.: «Il decreto che rende esecutivo lo stato passivo e le decisioni assunte dal tribunale all'esito dei giudizi di cui all'articolo 206, limitatamente ai crediti accertati ed al diritto di partecipare al riparto quando il debitore ha concesso ipoteca a garanzia di debiti altrui, producono effetti soltanto ai fini del concorso».
[84] Cass. Sez. Un. n. 15200 del 21 luglio 2015, in www.dejure.it.
[85] S. A. CERRATO, op. cit.,13.
[86] Novità fondamentale operata dalla riforma del 2006 è l’introduzione dell’art 83-bis che è specificamente dedicato all’arbitrato, questo recita testualmente «se il contratto in cui è contenuta una clausola compromissoria è sciolto a norma delle disposizioni della presente sezione, il procedimento arbitrale non può essere proseguito».
Trattando l’esegesi della norma sarà possibile chiedersi se dalla stessa sia possibile ricavare qualche indicazione generale sui rapporti tra patto compromissorio e sopravvenuto fallimento e se sia possibile distinguere i destini del procedimento arbitrale, a seconda che sia in corso o meno, al momento della dichiarazione di fallimento. [L. BACCAGLINI, op. cit., 90.]
Tuttavia, l’introduzione della norma non è stata risolutiva, né è stata volta a sanare i pregressi contrasti interpretativi in materia. [M. BOVE, op.cit., 219.]
Essa, infatti, disciplina in maniera esplicita il solo processo arbitrale pendente al momento dell’apertura della procedura fallimentare e non quella dell’accordo compromissorio stipulato ante fallimento. [S. VINCRE, Il curatore di fronte all’accordo compromissorio del fallito, in AA. VV., Procedure concorsuali e arbitrato, Milano, 2020, 2ss]. La sua introduzione non inverte la tendenza, in quanto si limita a disciplinare un’ipotesi specifica: l’improcedibilità del giudizio arbitrale, il cui oggetto sia costituito da un contratto non ancora integralmente eseguito alla dichiarazione di fallimento di uno dei paciscenti e dal quale il curatore, per scelta o per legge, sia sciolto. L’articolo in commento però non pone un orientamento definitivo, anzi è soggetto a molteplici interpretazioni. Nel momento in cui prevede lo scioglimento del contratto base, esso sancisce la regola in senso negativo; da ciò è possibile ricavare due principi: il primo, espressamente sancito, sull’improcedibilità del giudizio arbitrale ed il secondo, implicito, concernente l’inefficacia sopravvenuta dell’accordo compromissorio relativo a quel negozio. [F. DE SANTIS, Sull’opponibilità al curatore fallimentare della convenzione d’arbitrato stipulata dal fallito alla luce delle riforme della legge concorsuali, (a cura di) F. AULETTA, G.P. CALFANO, G. DELLA PIETRA, N. RASCIO, Sull’arbitrato. Studi offerti a Giovanni Verde, Torino, 2010, 363]. In particolare, lo scioglimento del contratto da parte del curatore porterebbe anche alla sopravvenuta inefficacia della clausola compromissoria. In dottrina è dibattuto se l’art. 83-bisL. Fall. sia espressione di un principio di accessorietà della convenzione di arbitrato. [M. BOVE, Arbitrato e fallimento, in www.judicium.it; a contrario E. ZUCCONI GALLI FONSECA, L’Arbitrato, (a cura di) F. CARPI, Bologna, III ed., 108 ss.], rispetto al negozio sostanziale a cui accede, oppure possa considerarsi l’autonomia della clausola compromissoria. Nella prima ipotesi, che si discosta dalla tesi dicotomica, [«per quasi mezzo secolo, e fino agli anni sessanta, è prevalsa tra gli interpreti la convinzione che solo il giudizio arbitrale già pendente alla data di apertura di fallimento avesse effetto verso il curatore. Poiché a quel tempo la litispendenza arbitrale era segnata dall’accettazione da parte degli arbitri del relativo incarico, si riteneva che l’accordo compromissorio vincolasse l’amministrazione fallimentare solo se il collegio arbitrale fosse già costituito. Da qui, l’aggettivo “dicotomica” attribuito a questa esegesi, a indicare l’opposta sorte dell’arbitrato, secondo che fosse già stata data attuazione al patto arbitrale, al momento della dichiarazione di fallimento. […] la tesi dicotomica si basava su un equivoco di fondo, infatti muoveva dal presupposto secondo cui compromesso e clausola compromissoria sarebbero diventati efficaci dopo che vi fosse stata accettazione da parte degli arbitri nominati; momento a partire dal quale l’arbitrato si reputava pendente». Ritenendo l’accordo compromissorio accessorio al contratto, allo scioglimento del negozio consegue il venir meno della convenzione arbitrale: di conseguenza, quando il curatore subentra in un rapporto giuridico pendente è vincolato alla clausola compromissoria o al compromesso così come avevano concluso le parti; di converso, l’art. 808 cod. proc. civ. esplica il principio generale dell’autonomia della clausola compromissoria ma tale autonomia non è riscontrabile all’interno della Legge Fallimentare. [L. BACCAGLINI, op.cit.,110-114: l’opponibilità al curatore degli accordi arbitrali conclusi dal fallito].
Ciò che interessa, ai fini del nostro studio, è cogliere la ragione per cui il procedimento sospeso in itinere dal fallimento potrebbe proseguire mentre verrebbe travolto l’accordo compromissorio cui non fosse seguito il giudizio arbitrale. Tale interpretazione, che muove dall’art. 5 cod. proc. civ. (principio della perpetuatio jurisdictionis et competentiae), in virtù del quale il giudizio arbitrale già instaurato è insensibile alla sopraggiunta sottoposizione ad uno dei paciscenti alla procedura concorsuale. Si v. [Cass., 12 gennaio 1956, n.30; Cass., 10 maggio 1959, n. 1474; estratte da www.dejure.it]. In realtà non convince. Tuttavia, dalla interpretazione dell’articolo in commento, è possibile ricavare una disposizione positiva a contrario in quanto emerge che l’arbitrato prosegue se il curatore non si scioglie dal contratto e potendone dedurre, quindi, l’insensibilità dell’arbitrato al fallimento di una delle parti. In questo senso si v. [VONA, L’art. 83-bis: effetti del fallimento sul giudizio arbitrabili, in Dir. fall., 2014, 282.] L’art. 83-bis L. Fall. presenta un’incongruenza di fondo in quanto pur essendo rubricato “Clausola arbitrale” non ne contiene al suo interno alcuna traccia “sedes materiae erronea”, riconducendo l'esplicazione della norma, esclusivamente, alla clausola compromissoria e lasciando pertanto un vuoto; ciò ha dato luogo ad un ampio dibattito circa la possibilità di applicazione di tale normativa, in via analogica, anche al compromesso ed alla convenzione di arbitrato in materia non contrattuale. La disciplina che regola la clausola compromissoria è facilmente estendibile anche al compromesso in quanto entrambi, fin dalla loro stipulazione, hanno l’identico effetto di sottrarre la controversia all’autorità giudiziaria, individuando nell’arbitrato un diverso strumento per la sua risoluzione. Pertanto, in caso di fallimento, per entrambe le ipotesi è prevista la medesima soluzione. G. CHIOVENDA,op.cit.,107.
La stessa estendibilità, invece, non è possibile in presenza di una convenzione di arbitrato che abbia un oggetto non contrattuale, in quanto il curatore dovrebbe subentrare in un rapporto extracontrattuale: tale tipo di convenzione, in ambito fallimentare, potrebbe addirittura essere intesa come un contratto autonomo in pendenza. S. VINCRE, op.cit.,14 ss.
[87] L. DI COLA, Arbitrato irrituale pendente e successivo fallimento o liquidazione giudiziale, in AA. VV., op.cit.,133.
[88] E. ZUCCONI GALLI FONSECA, op.cit., 6.
[89] L. DI COLA, op.cit., 133.
[90] Nelle liti attive, diverse da quelle sopra descritte, l’arbitrato può proseguire. Da una lettura a contrario dell’art. 83-bis L. Fall. si ricava che si tratta delle controversie relative a rapporti giuridici già eseguiti alla data di apertura del fallimento, nonché di quelle relative a contratti nei quali il curatore abbia scelto di subentrare. Si pone dunque il problema di capire con quali modalità viene ripristinato il contraddittorio nei confronti del curatore e di quali poteri processuali egli disponga.
[91] Si v. ex multis: R. FRASCA’, Arbitrato e translatio iudicii, in Libro dell'anno del Diritto 2015; F. G. ROSSO, Note in tema di translatio iudicii tra arbitrato e processo, in Riv. Il giusto processo civile 2/2014; L. BIANCHI, Translatio iudicii tra giudice statuale ed arbitri?, 2013, in www.judicium.it.
[92] S. A. CERRATO, op.cit., 21.
[93] Cass. Sez. Un., 25 maggio 2015, n. 10800., in www.dejure.it.
[94] S. A. CERRATO, op.cit.,10.
[95] Nel processo ordinario trova applicazione l’art. 43, terzo comma, L. Fall. che sancisce l’automatica interruzione del giudizio dalla data di apertura del fallimento, con conseguente estinzione se le parti entro tre mesi dal momento di avvenuta conoscenza legale dell’evento interruttivo non riassumano. Ebbene si discute se tali modalità possano trovare applicazione anche all’arbitrato, mancando una norma che disciplini espressamente le sorti del procedimento in caso di sopravvenuto fallimento di una parte. Prima della riforma dell’arbitrato del 2006, in caso di sopravvenuto fallimento di una delle parti, era prevista la proroga del termine di ulteriori trenta giorni per il deposito del lodo, interpretando estensivamente l’art. 820 co.3 cod. proc. civ., al fine di consentire il subentro al fallito del curatore. [A. CARRATTA, Arbitrato rituale pendente lodo e successivo fallimento, in AA.VV., op.cit., 55-63]; in giurisprudenza, nello stesso senso, [Cass. 9 settembre 2004, n.18191, in Giust. civ., 2004, I, 2916 ss.]. Se il curatore non subentrava al fallito, il meccanismo processuale non si sarebbe attivato, conseguentemente il lodo non avrebbe prodotto effetti e il curatore avrebbe potuto far valere la sua inefficacia o in via di azione autonoma o in via di eccezione. A seguito della riforma del 2006, al fine di riordinare tale incompleto sistema normativo, è stato introdotto l’art 816-sexies cod. proc. civ. che recita testualmente: «se la parte viene meno per morte o altra causa, ovvero perde la capacità legale, gli arbitri assumono le misure idonee a garantire il contraddittorio ai fini della prosecuzione del giudizio. Essi possono sospendere il procedimento. Se nessuna delle parti ottempera alle disposizioni degli arbitri per la prosecuzione del giudizio, gli arbitri possono rinunciare all’incarico». Lo scopo della norma è quello di garantire l'effettività del contraddittorio (non predeterminato nelle forme) affidato alla discrezionalità degli arbitri qualora si verifichino eventi che limitano o impediscono l'esercizio dei poteri processuali delle parti. [M. BOVE, La giustizia privata, V ed., Padova, 03/2021, 135 ss.] Una Parte della dottrina [G. F. RICCI, sub art. 816-sexies, II ed., in Arbitrato (a cura di) F. CARPI, Bologna 2001, 460 ss.]. invoca pertanto l’applicabilità della norma in caso di sopravvenuto fallimento della parte, assegnando al fallimento il rango di sopravvenuta causa di incapacità della parte, al pari della morte ed escludendo che possa venire in gioco l’art. 43, L. Fall. Gli autori sostengono infatti che l’art. 816-sexies cod. proc. civ. si impone come lex specialis anche per il fallimento. Il ricorso al suddetto articolo, con conseguente esclusione dell’art. 43 L. Fall., è motivato con un duplice argomento: - l’interruzione del giudizio è vicenda rimasta estranea alla disciplina dell’arbitrato; - l’esclusione è dovuta alla necessità di evitare quegli automatismi che rallenterebbero il normale svolgimento del giudizio. [L. BACCAGLINI, op. cit., 140]. Va considerato, poi, come l’art. 816-sexies cod. proc. civ. lasci una maggiore discrezionalità al collegio nella scelta delle modalità con cui informare il curatore della pendenza dell’arbitrato. Secondo alcuni autori gli arbitri potrebbero provvedere a tale incombente oppure invitare le parti ad operare in tal senso, entro un certo termine. Secondo altri il collegio potrebbe addirittura sospendere il giudizio assegnando ai litiganti un termine per il deposito di un’istanza di prosecuzione. Altri ancora ritengono che in caso di inerzia delle parti, gli arbitri dovranno dichiarare l’estinzione dello stesso per impossibilità di pronunciare nel merito, ovvero rinunciare al mandato. In quest’ultima ipotesi, però, il procedimento non potrebbe ritenersi concluso: esso risulterebbe pendente fra le parti che potrebbero chiedere la nomina di nuovi arbitri in sostituzione di quelli venuti meno. [A. PAOLETTI, Sub. art. 816-sexies, in codice di procedura civile commentato, III, Milano, 1760]. Infine, se nonostante la comunicazione, il curatore non dovesse costituirsi in giudizio, l'eventuale lodo pronunciato sarà opponibile alla massa. [G. VERDE, Lineamenti di diritto dell’arbitrato, VI ed., Bologna, 2021, 77]. Nel caso in cui, invece, una delle parti fallisce e gli arbitri non sono edotti della situazione, il giudizio arbitrale continua senza che venga applicato l’art. 816-sexies cod. proc. civ., giungendo alla pronuncia del lodo. M. BOVE, op. cit., p. 14. Controversa è, invece, l’applicazione, anche all’arbitrato, dell’art. 43 L. Fall., il quale prevede che la dichiarazione di fallimento determina l’interruzione del processo. [M. GRADI, Art. 816-sexies – Morte, estinzione o perdita di capacità della parte, in Riv. Arb., 2014, 465].
L’interruzione contemplata dall’art. 43 L. Fall. opera automaticamente, senza bisogno, cioè, di una dichiarazione di udienza dell’evento interruttivo, giustificandosi nell’esigenza di natura pubblicistica della procedura concorsuale. Per approfondimenti si v., [A. CASTAGNOLA, op. cit.,174]. Dal complesso dell'art. 43 L. Fall. sembra possa pacificamente ricavarsi che la sentenza dichiarativa di fallimento comporti la perdita della capacità processuale dell'imprenditore insolvente, la quale viene trasferita in capo al curatore. [A. CAROSI, op. cit., 10].
Alla luce di tale norma, gli arbitri, a fronte del fallimento di una delle parti, non sono liberi di scegliere la misura più idonea ai fini del ripristino del contraddittorio. Gli arbitri, venuti a conoscenza del fallimento di una delle parti, disporranno, in via formale, l’interruzione del procedimento, in attesa di riassunzione (nel termine massimo di tre mesi) da e nei confronti del curatore. In caso di inerzia di una delle parti, gli arbitri disporranno l’estinzione del giudizio, con conseguente perdita degli effetti della domanda giudiziale che era stata proposta in precedenza dal fallito. La tesi dell’interruzione automatica, emergente dall’art. 43 L. Fall., non consente al processo di rimanere quiescente sine die [Così come accade nell’interruzione ex art. 816-sexies cod. proc. civ.; lo nota [L. SALVANESCHI, Sub art. 816-sexies, in La nuova disciplina dell'arbitrato, (a cura di) S. MENCHINI, Padova, 2010, 545; per un’analoga osservazione, di recente, A. PAOLETTI, Sub art. 816-sexies cod. proc. civ., (diretto da) M. BENEDETTELLI, C. CONSOLO, L. RIDICATI DI BRONZOLO, Commentario breve al diritto dell’arbitrato nazionale ed internazionale, 292] e prevede un termine corto nella durata, nella decorrenza del dies a quo e ragionevolmente breve, per pronunciare il lodo di estinzione del giudizio. Tuttavia, larga parte della dottrina non ritiene applicabile l’istituto dell’interruzione al procedimento arbitrale; vista la presenza di una norma apposita: l’art. 816-sexies cod. proc. civ. [M. NITROLA, Arbitrato e fallimento, in I contratti 8-9/2012, 757]. Infine, qualora il curatore non si costituisse in giudizio in sostituzione al fallito, gli arbitri potrebbero proseguire la lite e pronunciare un lodo opponibile alla massa. G. VERDE, op. cit., 77; M. NITROLA, op. cit., 756; E. ZUCCONI GALLI FONSECA, Ancora su arbitrato rituale e fallimento, in Rivista dell'arbitrato, 2014, n. 1, 16.
[96] Recita testualmente «l’apertura della liquidazione giudiziale determina l’interruzione del processo il termine per la riassunzione del processo interrotto decorre da quando l’interruzione viene dichiarata dal giudice».
[97] S. A. CERRATO, op.cit., 16.
[98] Fatta salva la possibilità di porre in essere opposizione di terzo revocatoria.
[99] se però il lodo non ancora passato in giudicato contiene una condanna del fallito per l’adempimento di un credito concorsuale, è consentita l’ammissione al passivo con riserva del credito. R. TISCINI, Effetti del fallimento sul procedimento arbitrale pendente, in Il Fallimento e le altre procedure concorsuali, 2005, fasc. 6, 625 – 629.
[100] G. BONGIORNO, op.cit., 55-63.
[101] N. SOTGIU, Rapporti tra arbitrato e procedure concorsuali, in C. PUNZI, Disegno sistematico dell’arbitrato2, III, Padova, 2012, 496 ss; U. APICE, Arbitrato e procedure concorsuali, in Il Diritto fallimentare e delle società commerciali, 2013, fasc. 2, 263 – 276.
[102] G. BONGIORNO, op.cit., 55-63.
[103] G. VERDE, La convenzione di arbitrato, in Diritto dell’Arbitrato rituale, in AA.VV., Torino 2000, 55; S. LA CHINA, L’arbitrato. Il sistema e l’esperienza, Milano 1999, 25; a contrario, A. VILLA, Arbitrato e contumacia, in Riv. Arb., 2003, 375 ss.
[104] Cass. Civ., 29 gennaio 1999, n. 787; Cass. Civ., 2 luglio 1998, n. 8697; Cass. Civ., 11 luglio 1992, n. 8469, Cass. Civ., 19 gennaio 1984, n. 465: tutte estratte da www.dejure.it e la più risalente Cass. Civ., 2 febbraio 1978, n. 459, in Giur. it., 1978, I, 1, 1008.
[105] L’art. 299 cod. proc. civ. fa riferimento alla costituzione della parte in cancelleria o all’udienza davanti al giudice istruttore.
[106] L. BACCAGLINI, op. cit.,145.
[107] M. BOVE, op. cit., 15.
[108] Per tale motivo, il lodo sarà impugnabile dal curatore.
[109] A. CASTAGNOLA, Procedimento arbitrale, lodo e fallimento, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 2016, fasc. 3, 821 – 833.
[110] L. BACCAGLINI, op. cit., 146.
[111] S. A. CERRATO op. cit., 24.
[112] L. SALVANESCHI, in Commentario di procedura civile, (a cura di) S. CHIARLONI, Bologna, 2014, 851-852.
[113] I. VONA op. cit., 284.
[114] Il nuovo Codice, pertanto, attua i principi e i criteri direttivi in materia di esdebitazione, contenuti negli artt. 8 e 9 della Legge delega n. 155/2017, realizzando una revisione della disciplina della crisi da sovraindebitamento al fine precipuo di armonizzare e coordinare il fenomeno della crisi delle imprese minori e dell’insolvente civile con i principi generali che regolano l’insolvenza e la crisi d’impresa, semplificando la regolazione del sovraindebitamento e ampliando l’oggetto della materia nell’auspicio che la normativa di nuovo conio possa raggiungere i risultati delle omologhe leggi presenti negli ordinamenti di altri Paesi europei. Si v. L. SCIPIONE, La liquidazione controllata del sovraindebitato nel Codice della crisi. Aspetti procedimentali e profili applicativi, 2023, in www.innovazionediritto.it.
[115] In tal senso v. M. BIANCHI e A. MICCIO, Una novità significativa del Codice della Crisi: l’istanza dei creditori per la liquidazione del patrimonio dei debitori “non fallibili”, in www.dirittodellacrisi.it; F. CESARE, La liquidazione controllata, 2023, in www.ildirittodellacrisi.it.
[116] Tuttavia, molte di queste novità erano già state anticipate attraverso il D.L. n. 137/2020 (c.d. “Ristori”) e la successiva Legge di conversione 18 dicembre 2020, n. 176. Per approfondimenti in materia si v. ex multis, C. TRENTINI, Le procedure da sovraindebitamento. L. 3/2012 e Codice della crisi d’impresa, Milano, 2021; E. PELLECCHIA, La riforma del sovraindebitamento nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, (a cura di) E. PELLECCHIA – L. MODICA, Pisa, 2020, 15 e ss.; R. BOCCHINI, S. DE MATTEIS, Sovraindebitamento: profili civilistici nella legge delega di riforma della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Corr. giur., 2018, 649 ss.; F. PASQUARIELLO, Le procedure di sovraindebitamento alla vigilia di una riforma, in NLCC, 2018, 731 e ss.
[117] G. FAUCEGLIA, Il nuovo diritto della crisi e dell'insolvenza, III ed., Milano, 2022.
[118] G. D’ATTORRE, Manuale di diritto della crisi e dell’insolvenza, Torino, 2022, p. 389; S. PACCHI, Procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento, (a cura di) S. PACCHI – S. AMBROSINI, in Diritto della crisi e dell’insolvenza, Bologna, 2022, 124.
[119] M. PETA, Ristrutturazione dei debiti del consumatore ammissibilità dei debiti dell’imprenditore cessato: relazione di “esclusività”, 2023, in www.dirittodellacrisi.it.
[120] M. GIORGETTI, La liquidazione controllata nel sovraindebitamento, 2019, 7, in Ilfallimentarista.it.
[121] L. BACCAGLINI, Restano arbitrabili i diritti pregiudiziali alle pretese soggette all'accertamento fallimentare, in Giurisprudenza italiana, 2019, fasc. 11, 2492 – 2496.
[122] M. BOVE, Ancora sui rapporti tra clausola compromissoria e fallimento, in Il Fallimento e le altre procedure concorsuali, 2016, fasc. 7, 858 – 863.
[123] In base al tenore della norma, una delle parti (il curatore) ha il potere di scegliere se subentrare nel rapporto con gli arbitri (già nominati) oppure sciogliersi dallo stesso e ottenere la loro sostituzione. Quindi al fine di poter garantire il corretto svolgimento del procedimento arbitrale, si potrebbe intervenire rilasciando una deroga sulla disciplina sostanziale dei rapporti pendenti. F. VESSIA, Gli effetti del fallimento sulle clausole arbitrali e sui giudizi arbitrali pendenti, in Il Diritto fallimentare e delle società commerciali, 2008, fasc. 6, 773 – 805.
[124] Istituto messo sempre più al centro come risulta anche dalla recente riforma Cartabia che ha modificato gli istituti ADR
[125] Va richiamata l’attenzione sul diffuso utilizzo dell’arbitrato nelle liti transfrontaliere che, utilizzando discipline differenziate tra loro, hanno fatto insorgere, non poche, problematiche. Per ovviare a ciò, il legislatore europeo ha varato il Regolamento n. 848/2015 sulle procedure di insolvenza, entrato in vigore il 26 giugno 2017, individuando la legge applicabile alle singole problematiche che potrebbero nascere dall’interazione dell’arbitrato con una procedura di insolvenza. In dottrina si vedano ex multis, S. BARIATTI, Il regolamento europeo sull'insolvenza e l'arbitrato, in Rivista dell'arbitrato, 2016, fasc. 2, 267 – 281; D. BENINCASA, D. CORAPI, Considerazioni comparatistiche sui limiti dell'arbitrabilità nel fallimento, in Rivista dell'arbitrato, 2016, fasc. 2, 249 – 266. C. ASPRELLA, Arbitrato estero, regolamento di giurisdizione e fallimento di una delle parti, in Giurisprudenza italiana, 2016, fasc. 5, 1198 – 1205; G. GARGIULO, Gli effetti del concorso su un arbitrato estero per risoluzione contrattuale (e conseguente credito), in Giurisprudenza italiana, 2015, fasc. 11, 2448 – 2457; A. BRAGGION, Sulla possibilità di concedere la provvisoria esecuzione al lodo arbitrale straniero in pendenza di giudizio di opposizione fallimento, in Diritto del commercio internazionale, 2008, fasc. 3-4, 686 – 693; L. LIBERTI, Arbitrato internazionale e fallimento: in Francia e in Italia, in Rivista dell'arbitrato, 1999, fasc. 4, 774 – 79; P. FABRIS, Lodi arbitrali stranieri e fallimento, in Il Foro padano, 1999, fasc. 1, 11 – 15.
[126] D. CORAPI, L'art. 83-bis l. fall. e gli effetti del fallimento sul patto compromissorio e sull'arbitrabilità della lite, in Il Diritto fallimentare e delle società commerciali, 2018, fasc. 2, 307 – 317.