Pubbl. Ven, 7 Apr 2023
Il Consiglio di Stato sui contratti “Business to Business” (B2B) e presunzione di vessatorietà della clausola contrattuale
Modifica paginaCon il presente articolo verrà commentata la recente sentenza del Consiglio di Stato, n.1597 del 15 febbraio 2023, con cui è stato stabilito che nei contratti del tipo business to business, in particolare in materia di cessione di beni agroalimentari, non vale la presunzione di vessatorietà della clausola inserita in uno schema di contratto. Sarà quindi discussa la disciplina delle clausole vessatorie alla luce degli approdi giurisprudenziali e delle innovazioni proposte in dottrina sulla nozione di consumatore.
Sommario: 1. Considerazioni preliminari: la disciplina delle relazioni commerciali in materia di cessione di prodotti agricoli e agroalimentari; 2. I fatti alla base della pronuncia; 3. La sentenza del Consiglio di Stato n. 1597 del 2023; 4. Le clausole vessatorie tra legge, giurisprudenza e dottrina; 5. Conclusioni.
1. Considerazioni preliminari: la disciplina delle relazioni commerciali in materia di cessione di prodotti agricoli e agroalimentari
La pronuncia in commento[1] ha ad oggetto la riforma di una sentenza del TAR Lazio con cui è stato annullato un provvedimento sanzionatorio inflitto da parte dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (in seguito “AGCM” o “l’Autorità) ad una società della grande distribuzione organizzata. Secondo il provvedimento annullato in primo grado, detta società avrebbe violato le regole in materia di contratti di cessione di prodotti agricoli e agroalimentari. In particolare, la violazione sarebbe incorsa tramite le clausole imposte nei contratti conclusi con i propri fornitori di pane fresco che prevedevano il ritiro e lo smaltimento a proprie spese dei prodotti rimasti invenduti e il riaccredito alla società del prezzo da questa corrisposto corrisposta per la merce ritirata.
Pertanto, prima di affrontare la decisione in oggetto è necessario accennare alla disciplina che regola le relazioni commerciali nel settore agroalimentare[2]. Le radici di tale normativa affondano nelle politiche comuni dell’Unione Europea e risalgono fin dai tempi del Trattato di Roma. Per un lungo periodo, principale attenzione delle politiche europee è stato quello di tutelare gli operatori agricoli tramite la fissazione di prezzi, così da assicurare una remunerazione per l’attività da essi svolta e stabilizzare l’offerta in questo cruciale settore di mercato[3]. Abbandonata la politica di fissazione dei prezzi, l’attenzione è stata spostata verso le relazioni contrattuali tra produttori del settore agroalimentare e le altre imprese presenti lungo la filiera di lavorazione e distribuzione[4].
Proprio in questo secondo filone deve essere inquadrata la normativa italiana sulle relazioni commerciali nei contratti di cessione di prodotti agroalimentari, vigente all’epoca dei fatti alla base del provvedimento dell’AGCM. Il decreto-legge n. 1 del 2012[5], c.d. “Decreto cresci-Italia”, con il fine di «favorire la crescita economica e la competitività del Paese», comprende anche alcune misure per il settore agroalimentare.
In particolare, l’articolo 62 del decreto-legge disciplinava i contratti di cessione di prodotti agricoli e agroalimentari. Esso imponeva innanzitutto la forma scritta e l’indicazione di alcuni elementi quali la durata, il prezzo, le modalità di consegna e pagamento. Inoltre, stabiliva che «i contratti devono essere informati a principi di trasparenza, correttezza, proporzionalità e reciproca corrispettività delle prestazioni». Il comma secondo del citato articolo invece elencava alcuni precisi divieti rispetto alle pratiche commerciali tra operatori economici, tra cui il divieto di «imporre direttamente o indirettamente […] condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose» e quello di «adottare ogni ulteriore condotta commerciale sleale che risulti tale anche tenendo conto del complesso delle relazioni commerciali che caratterizzano le condizioni di approvvigionamento». Proprio i due divieti da ultimo citati rappresentano la base giuridica per il provvedimento sanzionatorio a fondamento del giudizio in commento.
L’articolo 62 è stato abrogato dal successivo decreto legislativo n. 198 del 2021[6], che ha sostituito la previgente disciplina, tra l’altro, con il divieto di pratiche commerciali sleali contenuto all’articolo 4. Il decreto legislativo in questione si pone in attuazione della Direttiva n. 633 del 2019[7] che, a conferma della ricostruzione storica della normativa sopracitata, mirava proprio a colpire gli «squilibri nel potere contrattuale», i quali possono condurre a «pratiche commerciali sleali nel momento in cui partner commerciali più grandi e potenti cerchino di imporre determinate pratiche o accordi contrattuali a proprio vantaggio»[8].
2. I fatti alla base della pronuncia
Come la pronuncia stessa chiaramente espone, l’AGCM ha avviato un’indagine nei confronti di alcuni operatori della grande distribuzione organizzata per verificare la sussistenza di violazioni della normativa sulle relazioni commerciali nella cessione di prodotti agroalimentari.
L’authority ha concluso il procedimento adottando un provvedimento sanzionatorio con cui ha ritenuto accertata la violazione dei divieti di pratiche commerciali tra imprese nel settore agroalimentare, di cui al d.l. 1/2012 sopra citate. Come accennato in precedenza le pratiche commerciali censurate si sostanziavano nell’imporre, da parte del grande distributore, il ritiro e lo smaltimento dei prodotti invenduti a carico dei produttori di pane da cui si riforniva e il riaccredito, da parte di questi ultimi, del prezzo corrisposto per il quantitativo di beni non venduto.
La società sanzionata ha impugnato il provvedimento al TAR Lazio, chiedendo l’annullamento dello stesso. Con il primo motivo addotto a propria difesa la società ha contestato l’eccessiva durata della fase preistruttoria e il mancato rispetto della garanzia ad una immediata contestazione delle violazioni agli autori, prevista all’articolo 14 della legge 689/1981[9]. Con il secondo motivo la società ha lamentato la violazione del principio della parità delle armi, a causa del mancato accesso ad alcuni dei documenti istruttori detenuti dall’Autorità. È contestata anche l’istruttoria alla base della ricostruzione della pratica commerciale asseritamente illecita: in particolare, viene criticata la modalità di acquisizione delle prove da parte dell’Autorità – ovverosia tramite questionari rivolti ai fornitori di pane – e l’assenza di prove circa l’imposizione della clausola del reso ai suoi fornitori. Infine, gli ulteriori motivi riguardano l’illogicità della motivazione e l’errata quantificazione della sanzione.
Il TAR Lazio ha accolto il ricorso e annullato il provvedimento in ragione del difetto di istruttoria, accogliendo le doglianze di parte in merito alla mancata prova dell’imposizione ai propri fornitori di una clausola di reso del prodotto invenduto.
L’AGCM, in sede di appello, contesta un error in iudicando da parte del giudice di prime cure per una falsa applicazione dell’articolo 34, comma 5 del Codice del consumo. Quest’ultima norma riguarda le modalità di accertamento del carattere di vessatorietà delle clausole nei contratti del consumatore. La norma addossa in capo al professionista l’onere della prova della specifica trattativa con il consumatore delle clausole asseritamente vessatorie. Deduce, inoltre, il difetto di motivazione della sentenza impugnata in merito alla non idoneità dell’istruttoria condotta in sede procedimentale.
3. La sentenza del Consiglio di Stato n. 1597 del 2023
Con la pronuncia oggetto del presente articolo, il Consiglio di Stato ha respinto l’appello ritenendolo non idoneo a superare le valutazioni del giudice di primo grado.
Il primo motivo di gravame riguarda la tesi, avanzata dall’Autorità, per cui l’inversione dell’onere della prova prevista all’articolo 34, comma 5 del Codice del consumo[10] sarebbe applicabile anche ai rapporti “business to business”, in quanto la disciplina dell’art. 62 del d.l. n. 1/2012 sarebbe stata introdotta proprio per proteggere il contraente debole in un rapporto contrattuale caratterizzato da uno squilibrio contrattuale a favore della grande distribuzione. Il Consiglio di Stato, al riguardo, ha rammentato la costante giurisprudenza secondo cui nei contratti di tipo business to business non vale la presunzione di vessatorietà della clausola contrattuale e, pertanto, la regola secondo cui il professionista ha l’onere di dimostrare la specifica trattativa della clausola contrattuale riguarda solo le ipotesi in cui controparte sia un consumatore.
Inoltre, ha affermato il principio di diritto secondo cui «tale regola eccezionale può estendersi in via analogica al campo delle relazioni asimmetriche tra imprese […] a cui inerisce la disciplina di cui all’art. 62 d.l. n. 1 del 2012. Quest’ultima previsione disegna, del resto, una disciplina specifica che è autosufficiente, non bisognevole di eterointegrazione e che non reca alcuna analoga specifica previsione in tema di onere della prova». Dunque, la normativa consumeristica è stata ritenuta non suscettibile di estensione analogica verso i contratti business to business.
Per quanto riguarda il secondo motivo dedotto dall’Autorità, ovverosia l’inidoneità dell’istruttoria svolta, il Consiglio di Stato ha riconosciuto che «l’onere della prova del fatto costituente l’illecito grava […] a carico dell’Autorità garante procedente ma, in difetto di specifiche preclusioni di legge, può da questa essere assolto anche a mezzo di presunzioni semplici purché dotate dei crismi della gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729 c.c.». Tuttavia, è stato osservato che il risultato dei questionari proposti ai fornitori di pane – utilizzati dall’Autorità durante l’istruttoria procedimentale – e la considerazione che la clausola di reso sarebbe ictu oculi sfavorevole ai contraenti deboli non rispettano gli stretti requisiti dell’articolo 2729 c.c. in tema di presunzioni semplici[11]. Di conseguenza, difettando di un idoneo ragionamento presuntivo, il provvedimento sanzionatorio risulta viziato da un difetto di istruttoria.
4. Le clausole vessatorie tra legge, giurisprudenza e dottrina
Il Consiglio di Stato ha quindi richiamato la distinzione tra contratti con consumatori e professionisti per escludere l’applicabilità della tutela consumeristica anche ai professionisti.
Il codice del consumo, in verità, prevede un’ipotesi di apertura della propria disciplina verso i professionisti. Infatti, le microimprese sono ricomprese, secondo il disposto dell’articolo 19, nei soggetti destinatari di tutela contro le pratiche commerciali scorrette, ad esclusione dei profili riguardanti la pubblicità. L’articolo 18 contiene anche una definizione di microimpresa, basata su un requisito dimensionale (entità che occupano meno di dieci persone) e un requisito di fatturato annuo (che deve essere inferiore ai due milioni di euro). Tuttavia, tale ampliamento della platea dei soggetti destinatari di tutela rappresenta un caso unico all’interno del Codice. Anche per un motivo di ordine sistematico appare corretto ritenere distinte le due discipline: la disciplina delle clausole vessatorie riguarda i contratti con il consumatore, inserita nella Parte III del Codice del consumo, mentre la disciplina sulle pratiche commerciali scorrette si trova nella Parte II.
Nel caso di specie, tra l’altro, nemmeno sarebbe risultato adatto un richiamo alla disciplina sulle clausole vessatorie del Codice civile, prevista all’articolo 1341. Infatti, l’elenco delle clausole vessatorie al comma secondo di tale norma è stato ritenuto tassativo da parte della Cassazione[12] e non risulta comprendere fattispecie a cui è assimilabile la clausola di reso oggetto del provvedimento sanzionatorio.
Si segnala che in dottrina, partendo dalla definizione normativa di consumatore[13], è stato elaborato un criterio per ampliare l’ambito di applicazione della tutela consumeristica, in specie nei casi di uso promiscuo del bene oggetto di contratto[14]. Tale criterio si basa sulla distinzione tra “atti della professione” e “atti relativi alla professione”: nella prima categoria si trovano gli atti che costituiscono esercizio della professione di un soggetto, mentre nella seconda gli atti che non fanno parte della professione, ma sono solo strumentali ad essa. All’interno di questa seconda categoria di atti si possono ulteriormente distinguere quelli che sono abitualmente compiuti dal professionista – rispetto ai quali si può quindi affermare esistere un legame con la professione – e quelli compiuti solo occasionalmente. Ebbene, per questo secondo gruppo di atti, dato il carattere occasionale, si può supporre che il soggetto agisca come “contraente profano” e, dunque, la posizione del professionista sarebbe assimilabile a quella del consumatore. Il vantaggio di questa ricostruzione è rappresentato dal non porre come oggetto dell’indagine la destinazione del bene o servizio acquistato, bensì il contratto ed il contesto in cui questo è formato[15].
Tuttavia, si segnala che il criterio applicato maggiormente in giurisprudenza è basato sulla c.d. “teoria dello scopo dell’atto”. Essa esclude che si possa applicare la normativa a tutela dei consumatori ad un soggetto che agisca per scopi connessi con l’attività professionale, a meno che, in caso di uso promiscuo, lo scopo professionale risulti irrilevante in rapporto all’utilizzo privato[16]. In tal senso, una recente ordinanza della Cassazione[17] con cui si è fatta applicazione di tale ultimo criterio ha affermato il principio per cui «non può essere considerato consumatore chi acquista un bene destinato alla propria attività professionale, anche in ipotesi di utilizzo non esclusivo, a meno che l’uso professionale sia da considerarsi del tutto marginale».
5. Conclusioni
La ricostruzione compiuta dal Consiglio di Stato appare condivisibile. Infatti, la diversa ratio della disciplina consumeristica e della disciplina delle pratiche commerciali nei contratti di cessione di prodotti agroalimentari è evidente. Mentre la prima è indirizzata a proteggere il soggetto debole di un rapporto caratterizzato da asimmetria informativa[18], la seconda riguarda situazioni in cui l’asimmetria si sposta dal piano dell’informazione a quello economico e dimensionale.
Inoltre, non ci troviamo in presenza di una lacuna normativa: come ben evidenziato dal Consiglio di Stato la normativa sulla cessione di prodotti agroalimentari è «una disciplina specifica che è autosufficiente, non bisognevole di eterointegrazione».
Alla luce della sentenza commentata e dalla ulteriore giurisprudenza richiamata, per ora non appaiono visibili spiragli per un’applicazione analogica della normativa sulle clausole vessatorie anche per i contratti di tipo business to business. Tuttavia, si può segnalare un caso in cui il legislatore accosta la protezione fornita a consumatore e microimpresa anche al di fuori del Codice del consumo: si tratta della previsione dell’articolo 118, comma 2-bis, del Testo Unico Bancario[19], introdotto già nel 2011. Si può quindi ipotizzare che, a seguito di sempre maggiori interventi normativi in tal senso, sempre più tutele per ora riservate ai contratti con i consumatori possano essere estese ai contratti tra imprese.
[1] Consiglio di Stato, sez. VI, 15 febbraio 2023, n. 1597, in seguito anche “la sentenza”.
[2] Per approfondimenti, cfr. A. JANNARELLI, La nuova disciplina delle pratiche commerciali sleali nella filiera agro-alimentare: criticità e prospettive, in Rivista di diritto alimentare, 2022, 2, p. 18 e ss.
[3] Ivi, p. 19.
[4] Ibidem.
[5] Decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività, in G.U. del 24 gennaio 2012 n. 19.
[6] Decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 198, Attuazione della direttiva (UE) 2019/633 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 aprile 2019, in materia di pratiche commerciali sleali nei rapporti tra imprese nella filiera agricola e alimentare nonché dell’articolo 7 della legge 22 aprile 2021, n. 53, in materia di commercializzazione dei prodotti agricoli e alimentari, in G.U. del 30 novembre 2021 n. 285.
[7] Direttiva (UE) 2019/633 del Parlamento europeo e del Consiglio del 17 aprile 2019 in materia di pratiche commerciali sleali nei rapporti tra imprese nella filiera agricola e alimentare, in GU L 111 del 25 aprile 2019.
[8] Cfr. direttiva 2019/633, cit., considerando n. 1.
[9] Legge 24 novembre 1981, n. 689, Modifiche al sistema penale, in G.U. del 30 novembre 1981 n. 329, nota anche come “Legge di depenalizzazione”.
[10] Decreto legislativo 6 settembre 2015 n. 206, Codice del consumo a norma dell’articolo 7 della legge 29 luglio 2003 n. 229, in G.U. 8 ottobre 2015 n. 235, di seguito anche “il Codice”.
[11] Infatti, il Consiglio di Stato ha osservato che il ragionamento presuntivo difetti, in primo luogo, del carattere di gravità, poiché in base alle risposte dei panificatori ai questionari «l’istruttoria svolta in sede procedimentale dall’Autorità restituisce […] un quadro non univoco in cui la clausola di reso non ha trovato applicazione omogenea». Anche il requisito della concordanza risulta carente, data «la presenza di emergenze documentali di segno opposto e, quindi, dissonanti rispetto al risultato del ragionamento presuntivo (tra tutti le risposte rese da alcuni panificatori da cui emerge lo svolgimento di trattative individuali)».
[12] Cass. civ., sez. III, 26 ottobre 2004, n. 20744.
[13] L’articolo 3, comma 1, lettera a, d. lgs. 206/2015 definisce il consumatore come la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta.
[14] A. BARENGHI, Diritto dei consumatori, Wolters Kluwer, Milano, 2020, p. 35 e ss.
[15] Ibid., p. 46.
[16] Ibid., p. 41.
[17] Cass. civ., sez. VI, ord., 17 febbraio 2023, n. 5097.
[18] A. BARENGHI, Diritto dei consumatori, op. cit., p. 2.
[19] Decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385, Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, in G.U. 30 settembre 1993, n. 230.