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Pubbl. Mer, 21 Dic 2022

Contrattazione collettiva e deroghe al CCNL

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autori Gabriele Pacifici Nucci ,



Con la pronuncia Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 11/10/2022) 02/11/2022, n. 32294, la Suprema Corte ha statuito che la contrattazione aziendale può derogare in peggio le previsioni del CCNL


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Collective bargaining and derogations from the CCNL

With the pronunciation Cass. civ. Section work, Ord., (audit 11/10/2022) 02/11/2022, n. 32294, the Supreme Court ruled that company bargaining can derogate from the provisions of the CCNL for the worse

Sommario: 1. Premessa 2. Sindacato di legittimità sui CCNL 3. Limiti all'autonomia negoziale nella contrattazione sindacale 4. Conclusioni

1. Premessa

Con Ordinanza 02 novembre 2022, n. 32294, la Suprema Corte è tornata su un’annosa e contesa tematica. I limiti della potestà sindacale, in tema di contrattazione collettiva, infatti, resta Tale pronuncia  – In virtù del principio dell’autonomia negoziale stabilito dall’art. 1322 c.c., i contratti territoriali possono estendere nel tempo l’efficacia dei contratti nazionali e derogarli, anche in via peggiorativa, senza porsi in contrasto con il disposto dell’art. 2077 c.c., con l’unico limite del rispetto dei diritti già definitivamente acquisiti nel patrimonio dei lavoratori, non suscettibili di un trattamento deteriore in ragione della successiva normativa di eguale o diverso livello.

Il tema della limitazione alla contrattazione nazionale è forte e il suo limite ed i suoi confini vanno ricercati certamente in un difficile bilanciamento di interessi tra libertà privata e tutela del lavoratore, soprattutto del più debole.

Come si può quindi immaginare, infatti, le questioni sulle quali soffermarsi sarebbero molteplici e tutte di grande interesse, dalle misure di politica attiva a quelle di sostegno del reddito, a partire dagli ammortizzatori sociali. Tuttavia si è deciso di concentrare ora l’attenzione su un tema classico, anzi storico, quale la normativa, che è diventato, in particolare relativamente al diritto ad una retribuzione adeguata (ma non solo), ancor più centrale e drammatico in questa precisa fase storica, dove le fioche economie rischiano di travolgere i diritti del lavoratore. Certamente il mercato del lavoro è cambiato in termini soprattutto in termini qualitativi e la diffusione dello smart working rischia di accentuare distorsioni difficilmente gestibili dalla vigente normativa. Specie nel settore terziario, in lavori più discontinui, maggiormente spezzettati in fasce orarie ridotte, con aumento del part-time, quindi, con una maggiore precarietà ed una complessiva riduzione delle ore lavorate.

Emerge certamente una netta distinzione nel mercato del lavoro fra lavoratori qualificati ed anche altamente qualificati, per i quali i minimi dei contratti collettivi sono sovente del tutto irrilevanti, e lavoratori che svolgono mansioni semplici e ripetitive, specie in settori “ancora imperniati su logiche di massa industriali e massive” che “affidano al contratto collettivo la tutela solidaristica della loro debolezza”.

In questo contesto, la contrattazione può costituire un limite per il lavoratore che possa fruire di condizioni lavorative migliori (in taluni casi) sia pur formalmente peggiorative rispetto al CCNL, altri casi, dove la contrattazione nazionale funga ancora da baluardo dei diritti minimi della forza lavoro.

Si pensi alla questione della libertà di scelta del CCNL di riferimento rispetto ad uno specifico contratto di lavoro.

Non si vuole certo aprire un problema nel problema vista l’ampiezza che questa tematica specifica meriterebbe, ma è evidente che anche tale argomento rientri nella più ampia diatriba di bilanciamento di interessi appena richiamata.

Prendendo in considerazione tale esempio, al rapporto di lavoro potrebbe essere applicato, per scelta del datore di lavoro (1), un contratto collettivo “del tutto innaturale rispetto alle oggettive caratteristiche dell’impresa”, ma secondo la Suprema Corte questa eventualità “non ne comporterebbe ipso facto la lesione di diritti fondamentali del lavoratore. Più precisamente, la mancata applicazione del contratto “innaturale” non può comportare di diritto la violazione del precetto inderogabile dell’art. 36 Cost., che sancisce il diritto del lavoratore ad una retribuzione proporzionata alla quantità ed alla qualità della prestazione lavorativa, dovendosi valutare di volta in volta se il contratto applicato sia effettivamente riduttivo rispetto ai diritti del lavoratore.

In sostanza, l’applicazione del contratto “naturale” farebbe nascere una mera presunzione di adeguatezza rispetto ai diritti del lavoratore che, tuttavia, non verrebbe automaticamente meno nel caso di utilizzo di un CCNL diverso, con la conseguenza che, al fine di valutare l’adeguatezza della retribuzione e delle altre condizioni, il giudice può fare riferimento al contratto collettivo corrispondente all’attività effettivamente svolta, tenendo conto anche delle clausole che, pur non riguardando la retribuzione in senso stretto, siano “indirettamente necessarie” per assicurare detto “adeguamento”.

Ed ecco, dunque, che la giurisprudenza apre una crepa nella blindatura costituita dal CCNL non certo per ridurre le garanzie del lavoratore ma, al contrario, per consentirgli di poter usufruire di condizioni migliorative rispetto ai nuovi modelli di lavoro.

2. Sindacato del giudice sui contratti collettivi

La sentenza in esame, prima di entrare nel vivo dell’argomento di diritto posto alla sua attenzione, fa una dovuta premessa sulla possibilità e sui limiti che l’organo giudicante, chiamato a verificare la legittimità di una fattispecie specifica, abbia rispetto ad una valutazione di merito sulla norma regolamentatrice all’interno della contrattazione collettiva, al fine di valutare se la stessa possa costituire una disciplina conforme alla normativa superiore e/o al CCNL.

Per fare questo passaggio bisogna partire da un tema base nella materia giuslavoristica ovvero le fondi del diritto del lavoro, onde poter capire successivamente ruolo e potere del giudice.

Il diritto del lavoro è composto da una serie di norme che regolano il rapporto di lavoro ed il suo concreto svolgimento.

L’oggetto specifico della materia, nel suo base, è la regolamentazione delle relazioni negoziali e fattuali tra datore di lavoro e lavoratore, che trovano la propria fonte in un negozio giuridico - il contratto di lavoro - il cui contenuto è però vincolato alla disponibilità delle parti e sottoposto alle fonti normative ad esso sovraordinate (sovente inderogabili). Tali fonti, infatti, sono disposte in una specie di piramide per ordine di “gerarchico”.

Anche il diritto del lavoro, infatti, segue la cosiddetta gerarchia delle fonti del diritto secondo cui una norma contenuta in una fonte di grado inferiore non può contrastare una norma contenuta in una fonte di grado superiore. Tant’è vero che, qualora si verifichi un contrasto del genere, si dichiara l’invalidità della fonte inferiore a seguito di un accertamento giudiziario.

La scala regolamentare potrebbe così essere gerarchicamente disegnata mettendo al primo posto la Costituzione della Repubblica Italiana, le leggi costituzionali e di revisione costituzionale, con tutti gli articoli in materia di lavoro e diritti del lavoratore, seguita dalla legge nazionale, le leggi regionali, le fonti collettive (ad esempio la Contrattazione Collettiva e i contratti integrativi aziendali), le fonti individuali (contratto di lavoro) ed, infine, le consuetudini, ossia le prassi aziendali.

È necessario specificare però, che la scala appena descritta attiene alle fonti nazionali e non a quelle internazionali/comunitarie che però, per le loro particolari caratteristiche, meriterebbe un discorso a parte che, peraltro, per quello che attiene la nostra riflessione, poca rilevano in questa sede.

E mentre la disciplina gerarchica delle fonti è chiara rispetto alla normativa “ordinaria” diventa più nebbiosa, per l’interprete, quando si parla di contrattazione collettiva, aziendale o individuale.

In questo caso, infatti, l’ermeneuta è chiamato non solo a verificare la gerarchia, ma anche l’interesse del lavoratore e, quindi, il caso di specie.

Potremmo parlare di una “gerarchia plasmabile”, dove il modellatore è c.d. l’interesse del lavoratore.

Se è indubbio che la contrattazione collettiva costituisca uno dei parametri cui il giudice deve fare riferimento per attribuire contenuto alla clausola generale dell’art. 2119 c.c., la giurisprudenza ha costantemente concesso potestà all’organo giudicante di integrare e/o sostituire, in modo autonomo e discrezionale, le nozioni legali di contenute nella contrattazione collettiva, concedendogli chiaramente la facoltà di “riscrittura”, pur nell’ambito della scala valoriale restituita dalla contrattazione collettiva. Rimane salvo il caso in cui la contrattazione collettiva preveda esplicitamente un favor per il dipendente, nel qual caso il Giudice non ha facoltà di trascurare la fonte negoziale in quanto più favorevole al lavoratore. Pensiamo all’ipotesi di una disposizione contrattuale che preveda, in caso di illecito disciplinare una mera sanzione conservativa a carico del dipendente.

In tale ipotesi, la Suprema Corte con una recente pronuncia (2) ha inteso riaffermare la coerenza del riformato articolo 18 con l’orientamento tradizionale e ribadire la sussistenza di un limite alla discrezionalità del giudice. Infatti, ove la contrattazione collettiva stabilisca che ad un determinato comportamento consegua solamente una sanzione conservativa, il giudice deve considerarsi vincolato alla fonte negoziale, in quanto previsione di maggior favore per il lavoratore fatta salva dal legislatore. Tuttavia, la Corte ha affermato che solo ove il fatto contestato al dipendente e dimostrato sia espressamente contemplato nella contrattazione collettiva di riferimento come condotta punibile con una sanzione conservativa il licenziamento irrogato è illegittimo e meritevole di sanzione reintegratoria di cui all’art. 18, comma 4 L. 300/1970.

Bisogna, dunque, valorizzare l’attività interpretativa delle previsioni delle fonti negoziali collettive in merito alle specifiche clausole negoziali contenute in accordi collettivi (tra cui quelle che contengono sanzioni conservative) che, costituendo un’eccezione al principio generale, devono essere lette in modo restrittivo, secondo parametri di ragionevolezza, valutando la possibilità di estendere l’esemplificazione nell’accordo collettivo a ipotesi non espressamente sancite ma ragionevolmente attribuibili alla volontà delle parti.

Ed è così che la giurisprudenza di legittimità ha sempre precisato che i contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro, denunciati di violazione o falsa applicazione ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. (come modificato dall’art. 2 del d.lgs. n. 40/2006), devono essere oggetto "di diretta interpretazione per la loro parificazione sul piano processuale a quella delle norme di diritto", in base alle norme codicistiche di ermeneutica negoziale ex artt. 1362 e segg. cod. civ. (Cass. 19 marzo 2014, n. 6335; Cass. 9 settembre 2014, n. 18946; Cass. 28 maggio 2018, n. 13265; Cass. 18 novembre 2019, n. 29893; Cass. 12 aprile 2021, n. 9583)” (3).

Il giudice, nella fase di ermeneutica contrattuale non può arrestarsi ad una considerazione “atomistica” delle singole clausole, neppure quando la loro interpretazione possa essere compiuta, senza incertezze, sulla base del “senso letterale delle parole”, poiché anche questo va necessariamente riferito all’intero testo della dichiarazione negoziale, onde le varie espressioni che in essa figurano vanno coordinate fra loro e ricondotte ad armonica unità e concordanza, con l’unica finalità di tutela del lavoratore.

In buona sostanza, l’interpretazione del contratto in equilibrio con le attività di autonomia privata, tra cui sono compresi i contratti aziendali (o individuali), costituisce un baluardo al potere del giudice di merito, censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione; ai fini della censura di violazione dei parametri interpretativi, non è peraltro sufficiente il generico riferimento alle regole di interpretazione, ma è necessaria la specificazione di una lettura del modo e delle considerazioni attraverso cui il magistrato si si voluto allontanare dagli stessi.

Ed allora la pronuncia in esame torna proprio a seguire tali valori e tali principi.

Già qualche anno prima la Suprema Corte aveva chiarito che le statuizioni dei contratti collettivi entrano a far parte del contenuto dei contratti individuali, ma operano dall’esterno come fonte regolamentare, concorrente con la fonte individuale, sicché nell’ipotesi di successione tra contratti collettivi, le precedenti disposizioni possono essere modificate da quelle successive anche in senso sfavorevole al lavoratore.

Unico limite sarebbe i diritti quesiti, intendendosi per tali solo le situazioni che siano entrate a far parte del patrimonio del lavoratore subordinato e non anche quelle situazioni future o in via di consolidamento che sono autonome e suscettibili come tali di essere differentemente regolate in caso di successione di contratti collettivi.

Ed è su questa scia che la Cassazione ribadisce proprio questo concetto e lo fa proprio.

In questo contesto anche il giudice di legittimità ha un ruolo (4).

Così la Cassazione in esame ricorda che l'ermeneutica contrattuale degli atti di autonomia privata, tra cui sono compresi i contratti aziendali, costituisce un’attività riservata al giudice di merito, censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione; ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici, non è peraltro sufficiente l’astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, "ma necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso cui il giudice si sia discostato dagli stessi" (Cass. n. 4178 del 2007; Cass. n. 1754 del 2006); la censura di violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale, al pari di quella per vizio di motivazione, non può risolversi in una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione: non dovendo, peraltro, l’interpretazione data dal giudice al contratto, per essere insindacabile in sede di legittimità sotto entrambi i profili, essere l’unica possibile, o la migliore in astratto, ma soltanto una delle interpretazioni plausibili; sicché, quando di una clausola contrattuale siano possibili due o più interpretazioni (plausibili), non è consentito alla parte, che abbia proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, censurare in sede di legittimità il fatto che sia stata privilegiata l’altra” (5).

3. Limiti all'autonomia negoziale nella contrattazione sindacale

Il nesso ed i rapporti tra negozio collettivo e contratto individuale si basa sul principio della derogabilità in melius e dell’inderogabilità in peius del contratto collettivo da parte del contratto individuale.

Questa sembra la regola (inderogabile) generale.

Secondo dottrina e giurisprudenza tale rapporto è sancito dall’art. 39 Cost. allorché la potestà sindacale è maggiore di quella del singolo lavoratore, dove più facilmente la libertà negoziale può essere coartata, indirizzata o, quanto meno, condizionata.

Le clausole difformi dei contratti individuali, preesistenti o successivi al contratto collettivo, sono sostituite da quelle del contratto collettivo, salvo prevedano condizioni più favorevoli ai lavoratori.

E dunque tale rapporto è previsto dall’art. 2113 c.c. in quanto non sono valide le rinunzie e le transazioni che hanno ad oggetto diritti dei lavoratori derivanti da norme inderogabili di legge o dei contratti collettivi.

Più in generale, le clausole del contratto collettivo disciplinano direttamente il rapporto di lavoro senza essere inserite fisicamente nel contratto individuale, comunque, entrandone a far parte, ove necessario.

La comparazione, pertanto, tra disciplina del contratto collettivo e quella del contratto individuale avviene per singoli istituti.

Il rapporto tra contratto collettivo e la legge Il rapporto tra contratto collettivo e la legge si basa sul principio della derogabilità in melius e della derogabilità in peius della legge da parte del contratto collettivo.

Ma esiste nel nostro sistema una eccezione alla regola, rappresentata dal modello deregolativo (6).

Il modello deregolativo, concedendo al contratto collettivo di derogare in peius sue disposizioni

L’art. 8 della L. 14/2011 ha elaborato un nuovo tipo di connessione tra contratto collettivo e legge; tale normativa dispone sulla contrattazione collettiva di prossimità che attribuisce ai contratti collettivi c.d. aziendali, siglati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, territoriale o dalle loro RSA, il potere di realizzare specifiche intese con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati.

Questi accordi aziendali o territoriali possono derogare in peius le disposizioni di legge e le clausole dei contratti collettivi nazionali di lavoro che disciplinano le materie previste dalla norma; in questo modo il contratto collettivo aziendale avrebbe la possibilità di disciplinare direttamente il rapporto di lavoro modificandone la parte normativa.

Appare evidente la ratio della norma. La tutela sindacale più vicina al lavoratore e ai suoi specifici interessi può meglio cogliere le opportunità per il soggetto tutelato rispetto a previsioni generiche. Ovviamente non lasciando al lavoratore (spesso privo o quasi di libertà negoziale) ma al sindacato di valutare caso per caso singole fattispecie, magari anche solo temporanee, finalizzate ad interessi superiori del lavoratore stesso (quale la salvaguardia dell’occupazione, per fare un esempio).

Si pone, dunque, un tema di rapporto tra contratti collettivi di diverso rango (7).

Il rango dei contratti collettivi dipende da quello delle organizzazioni sindacali cui si riferisca; ci occupiamo, in particolare, del rapporto tra contratto collettivo nazionale e contratto collettivo aziendale.

Il problema principale è quello della derogabilità in peius del CCNL da parte del contratto collettivo aziendale.

La dottrina e la giurisprudenza non sono riuscite ad individuare un’unica soluzione: infatti il contratto collettivo aziendale può derogare in peius il contratto collettivo nazionale per il criterio di specialità, per il criterio di posteriorità nel tempo, per la teoria del mandato ascendente in cui le associazioni di livello inferiore sono gerarchicamente sovraordinate a quelle di livello superiore (8).

Il contratto collettivo aziendale non può invece andare oltre in peius rispetto al contratto collettivo nazionale per il criterio del favor del lavoratore; ex art. 2077 c.c. in quanto il contratto collettivo d’impresa è costituito da una serie di regole tra datore di lavoro e singoli lavoratori.

Si può anche far riferimento all’Accordo Interconfederale sottoscritto da CGIL, CISL, UIL e Confindustria nel 2011, dove si ribadisce il ruolo del contratto collettivo nazionale prevedendo che i contratti collettivi aziendali possono realizzare specifiche intese modificative entro certi limiti del contratto collettivo nazionale.

Si arriva così all’entrata in vigore della L. 148/2011 che all’art. 8 prevede che le intese aziendali o territoriali possono derogare in peius le clausole dei contratti collettivi nazionali; in questo modo il contratto collettivo aziendale non si occupa più delle materie delegate dal contratto collettivo nazionale, ma dell’intera disciplina del rapporto di lavoro.

4. Conclusioni

Ed è proprio collegandosi a questi temi che la sentenza in esame individua un principio di diritto assolutamente inequivocabile, in virtù del quale l’autonomia negoziale stabilito dall’art. 1322 c.c., può prorogare o derogare, attraverso i contratti territoriali l’efficacia dei contratti nazionali, anche in pejus senza che osti il disposto dell’art. 2077 c.c., fatta salva solamente la salvaguardia dei diritti già definitivamente acquisiti nel patrimonio dei lavoratori, non suscettibili di un trattamento deteriore in ragione della posteriore normativa di eguale o diverso livello; così che, la scelta negoziale delle parti sociali deve essere desunta attraverso il collegamento delle diverse disposizioni delle fonti collettive, aventi tutte pari dignità e forza obbligante, con la conseguenza che i relativi fatti costitutivi rispondono a ciascuna disciplina ed a regole proprie in ragione dei diversi agenti contrattuali e del loro diverso ambito territoriale o aziendale.


Note e riferimenti bibliografici

(1) PROIA G., "Il contratto collettivo tra libertà di scelta e standard minimi di trattamento", 2018, Giappichelli;

(2) Cass. 28 maggio 2019, n.14500;

(3) Cass.1 giugno 2022, n.17939;

(4) Cass. 18 novembre 2019, n. 29893;

(5) Cass. 12 aprile 2021, n. 9583;

(6) Zoppoli L., "Partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’azienda", in Enc. dir., Annali IV, Giuffré, Milano, 2011;

(7) Voza R., "Effettività e competenze della contrattazione decentrata nel lavoro privato alla luce degli accordi del 2009", in Dir. lav. rel. Ind., 2010, 373-4;

(8) Maio V., Contratto collettivo e norme di diritto, Jovene, Napoli, 2008