• . - Liv.
ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Mer, 4 Gen 2023
Sottoposto a PEER REVIEW

La Montagna incantata: tra passione e responsabilità civile

Modifica pagina

Andrei Mihai Pop
Laurea in GiurisprudenzaUniversità degli Studi di Trento



Il presente elaborato vuole analizzare una inedita sentenza del Tribunale di Trento, sezione civile, sentenza 6 aprile 2020 (dep. 9 aprile 2020), grazie alla quale si coglie l´occasione per fare il punto sulla responsabilità civile in materia sciistica. Si osserverà, in primis, l´evoluzione storica della tematica; in secundis, la natura giuridica del contratto tra gestore dell´impianto e il cliente (sciatore) ed i doveri delle parti; in secundis, si entrerà nel ”vivo” della responsabilità civile sciistica cercando di capire le condizioni per la sua sussistenza. Infine, si tratterà il delicato tema della c.d. perdita di chance ed il rispettivo problematico profilo probatorio.


ENG

The enchanted Mountain: between passion and civic responsibility

This paper aims to analyze an unpublished judgment of the Court of Trento, civil section, judgment April 6, 2020 (dep. April 9, 2020), thanks to which the opportunity is taken to take stock of civil liability in skiing. We will observe, first, the historical evolution of the subject; second, the legal nature of the contract between the operator of the facility and the customer (skier) and the duties of the parties; then, we will get into the ”heart” of civil liability skiing trying to understand the conditions for its existence. Finally, the delicate topic of the so-called loss of chance and the respective problematic evidentiary profile will be discussed.

Sommario: 1. Introduzione; 2. Lo sci e la sua evoluzione nella storia: da “pochi ma buoni” a “sport di massa”; 3. Natura giuridica dello skipass: tra diritti e doveri delle parti; 3.1. (segue): le misure di protezione passive; 4. Scontro tra sciatori e responsabilità civile (sciistica); 5. La perdita di chance ed il suo profilo probatorio; 6. Conclusioni.

1. Introduzione

La sentenza in commento offre la possibilità di svolgere determinate considerazioni su di un tema che, stagione dopo stagione, riscuote sempre maggiore attenzione e successo. Imprescindibile un primo sguardo da un punto di vista economico. Il fatturato del “mondo neve”, di cui l’attività sciatoria è parte fondamentale (ma vi rientrano anche il mondo alberghiero, della ristorazione, quello delle varie scuole di sci, etc.), rappresenta circa l’11% del fatturato complessivo del settore del turismo in Italia, generando un fatturato di circa sette miliardi di euro all’anno.

Tuttavia, questa grande “utilità economica”, si scontra con il suo “costo sociale”, ovvero i vari incidenti che si verificano sulle piste da sci. Le statistiche del sistema SIMON (il sistema di sorveglianza degli incidenti in montagna che è attivo presso l’ISS dal 2003) ci rivelano che ogni anno si verificano circa 35 mila incidenti in Italia, e tanti di questi necessitano di cure ospedaliere. Ma non ha sempre avuto un simile impatto il mondo dello sci. In passato, percorrere ad alta velocità le montagne innevate era una attività per pochi appassionati, mentre oggi è diventato un fenomeno di massa. Specialmente negli ultimi trent’anni, abbiamo assistito ad un continuo moltiplicarsi di impianti, strutture, e luoghi per praticare questo sport.[1]

Questo ha consentito alle comunità montane di svilupparsi e di sopravvivere alle sfide socio-economiche del XXI secolo.[2] Il continuo aumento dei numeri degli appassionati ha però sollevato molti dubbi e problemi, questo specialmente nel mondo del diritto. 

Classico esempio è quello di Tizio che, in una domenica soleggiata, decide di andare a sciare presso l’impianto sciistico di Sempronio. Tuttavia, all’improvviso, mentre percorreva la pista, viene urtato violentemente da Caio subendo gravi danni psicofisici. Tizio si rivolge al giudice per chiedere tutela. Questo semplice esempio solleva già (in potenza) alcune questioni giuridiche: Tizio ha il diritto di domandare il risarcimento del danno a Caio? Se sì, per danno si intende quello patrimoniale, non patrimoniale, oppure entrambi? 

Ed ancora, Sempronio può essere chiamato a rispondere dell’evento dannoso? E laddove il responso sia positivo, a titolo di responsabilità contrattuale o extracontrattuale? Già molte domande alle quali si cercherà di dare risposta nei prossimi paragrafi del lavoro. 

Tuttavia, va detto fin da queste note introduttive che lo Stato, almeno parlando della esperienza italiana, ha deciso di dare un forte segnale introducendo una delle poche normative ad hoc per la c.d. responsabilità sciistica – se paragonata alle altre realtà dei paesi di civil law.[3] Ci si riferisce alla Legge n. 363 del 2003 “Norme in materia di sicurezza nella pratica degli sport invernali da discesa e da fondo”, la quale cerca di imporre un certo livello di sicurezza e di responsabilità ai gestori degli impianti ed ai loro utenti.[4] La ragione della sua introduzione, almeno nelle intenzioni del Legislatore, era quella di rispondere al continuo aumento del numero di incidenti e di correlate controversie nelle aule dei tribunali. Un desiderio di dare “certezza al diritto” in questa materia, sottraendola, dunque, alle interpretazioni (secondo alcuni troppo libere) della giurisprudenza.

Tentativo, però, riuscito solo in parte, in quanto l’attività ermeneutica dei giudici è fattore imprescindibile di un ordinamento giuridico e, come insegna la storia, sostenere che tutto lo ius possa essere ricondotto ad una lex conduce ad una fallacia.[5] Osservando il tema da un altro angolo visuale, si può affermare che questa normativa ha ingabbiato, almeno secondo alcuni (e seppur solo parzialmente), il brivido ed il piacere di sciare in libertà – viste le tante norme e le altrettante “responsabilità”. 

Per tal ragione, emerge da almeno un ventennio una spinta-desiderio divergente rispetto a quella dello sciare “in pista”, ovvero vi è sempre più richiesta di sci “fuori pista”.[6]

Il commento cercherà di analizzare le principali questioni della materia, non trascurando un iniziale, seppur celere, approccio storico, in quanto utile per comprendere l’evoluzione della disciplina. Successivamente si tratterà l’argomento della responsabilità sciistica da più prospettive, con l’obiettivo ultimo di entrare in dialogo con la sentenza oggetto del lavoro. Inizialmente si inquadreranno da un punto di vista dogmatico-teorico le questioni e gli istituti giuridici, per poi vedere come essi si siano manifestati-applicati nel caso concreto. 

In primis, si affronterà il tema del rapporto giuridico che si instaura tra lo sciatore ed il gestore dell’impianto una volta che il primo ha acquistato il c.d. skipass, il quale diviene fonte di obblighi e diritti per entrambe le parti. In secundis, ci si concentrerà sulla responsabilità civile che scaturisce dallo scontro tra due sciatori – chi risponde del danno e in che misura. Successivamente vi sarà anche un approfondimento sulle misure di protezione passive negli impianti sciistici. Infine, sul tema del danno da perdita di chance, si approfondirà il profilo dell’onere probatorio, in quanto uno degli aspetti più rilevanti e dibattuti in dottrina e giurisprudenza. 

2. Lo sci e la sua evoluzione nella storia: da “pochi ma buoni” a “sport di massa” 

Lo sci praticato come attività ludica è nato tra la borghesia in alcuni paesi alpini europei. Non esistevano impianti di risalita o strutture specifiche, ma solo la pura passione di risalire la montagna con pelli di foca per poi lasciarsi scivolare a valle – ognuno alla velocità che riteneva adeguata e col percorso liberamente scelto.[7] Ci si prendeva la piena responsabilità per eventuali infortuni subiti, senza potersi lamentare con i gestori degli impianti – inizialmente assenti.[8]

Ovviamente, dove c’è opportunità di profitto, i veri imprenditori entrano in scena, invero iniziarono a sfruttare la téchne, ossia strutture, impianti di salita e discesa, alberghi etc., al fine di ottenere profitto, ed in cambio (come “controprestazione”) si impegnavano a far salire – e scendere – lo sciatore sulla “vetta della montagna”.[9] L’aumento dell’afflusso di utenti sulle montagne attirò l’attenzione di molti, e si tentò di introdurre una legislazione a livello nazionale, ma in un primo momento senza successo.[10]

Vista l’assenza di una normativa ad hoc, si iniziarono a rispettare norme non vincolanti, ossia il c.d. Decalogo dello sciatore, il quale, con le sue dieci regole di condotta, dava le coordinate generali del comportamento da tenere sulle piste da sci.[11]

La stessa giurisprudenza iniziò ad utilizzare questa fonte ai fini di valutare se il comportamento dello sciatore fosse o meno conforme alla minima diligenza richiesta. Le norme del Decalogo, nonostante siano fonti non legislative, hanno una valenza transazionale, riuscendo a conservare effetti ed applicabilità in tutti quegli stati che non si sono ancora dotati di una normativa specifica in tema di responsabilità sciistica e in Italia trovavano sicura applicazione prima dell’entrata in vigore della Legge n. 363 del 2003.[12]

Purtuttavia, in base all’articolo 117 della Costituzione, la materia iniziò ad essere disciplinata a livello regionale e la giurisprudenza, per dare soluzione alle sempre più frequenti controversie, inquadrò il tema all’interno delle classiche categorie civilistiche. Due però furono le principali correnti di pensiero: una prima dottrina, più dogmatica, considerava lo sciatore come un soggetto che ha liberamente accettato il rischio di praticare una attività che intrinsecamente (per sua stessa natura) espone ad infortuni, quindi, in base al principio volenti non fit iniuria, sarà lui a dover dimostrare la colpa del danneggiante (ovvero del gestore dell’impianto) in base agli schemi dell’articolo 2043 c.c., respingendo le argomentazioni legate ad una applicabilità della responsabilità oggettiva o senza colpa; l’altra dottrina prestava, invece, molta attenzione all’analisi economica del diritto, affermando che il gestore dell’impianto potesse prevedere il rischio, quindi anche i danni correlati. Molto utile, per la comprensione delle conseguenze dell’entrata del fattore economico nel mondo del diritto (o viceversa), l’opera di Steven Shavell.[13] L’Autore pone a confronto la responsabilità oggettiva con la responsabilità per colpa – due dottrine che si scontrarono, dalla seconda metà del XX secolo, anche in ambito sciistico. Si parte da una constatazione: qualsiasi regime di responsabilità è da preferire rispetto ad una sua assenza.

Tuttavia, tra i due principali regimi di r.c. (oggettiva e per colpa) vi dovrebbe essere una preferenza per il regime oggettivo in caso di attività altamente pericolose, mentre per quelle a basso rischio si dovrebbe preferire il regime per colpa. Visto che il gestore traeva vantaggio dalle utilità di tale attività, pareva opportuno addossare a lui il rischio, anche per porre una certa pressione economica, con l’obiettivo di indurlo a studiare e adottare nuove tecniche e misure utili nel prevenire incidenti.[14]

I sostenitori di questa teoria tendono a voler introdurre una responsabilità oggettiva, riconducendo la disciplina, con varie argomentazioni, agli artt. 1681, 2050, e 2054 c.c. 

Resta da capire se l’attività sciistica rientri tra le attività pericolose o meno, poiché nel primo caso avrebbe “ragione” la seconda impostazione, mentre nel secondo caso prevarrebbe la prima teoria.[15]

Dopo molti anni, e sulla scia dei comportamenti che ormai divennero consuetudine (in primis, il “Decalogo dello sciatore”), venne approvata una normativa ad hoc che regolasse questa attività, ossia la Legge n. 363 del 2003 – “Norme in materia di sicurezza nella pratica degli sport invernali da discesa e da fondo”. 

3. Natura giuridica dello skipass: tra diritti e doveri delle parti

Il contratto di skipass è una (se non La) figura giuridica tra le più importanti del diritto dello sci, invero è il contratto che più viene concluso dagli sciatori che vogliono accedere alle piste, eppure – e sorprendentemente – non esiste una norma ad hoc nel Codice civile, e la stessa dottrina ha dedicato poche monografie sull’argomento, e ciò impoverisce notevolmente il dialogo ed il confronto.[16]

In dottrina vi era grande divisione, ovvero da un lato vi erano i sostenitori della teoria secondo cui il contratto di skipass sarebbe inquadrabile tra quelli di trasporto (ex. 1618 c.c.), mentre dall’altro lato, invece, vi era chi sosteneva che esso sarebbe riconducibile alla disciplina dei contratti di somministrazione di servizi. In base alla prima impostazione, il vettore si obbliga, dietro pagamento di una certa somma di denaro (acquistare l’abbonamento), a garantire il trasporto da un punto X ad uno Y, in sicurezza e con puntualità – si tratterebbe di una obbligazione di risultato e non di mezzi. 

La responsabilità del gestore affiorerebbe laddove l’utente non raggiungesse la destinazione, o la raggiungesse in ritardo, oppure in caso di lesioni (anche mortali) del passeggero durante le operazioni di trasporto (qualsiasi sia il mezzo prescelto: sciovia, tapis roulant, seggiovia, funivia, etc.).[17]  

Ma questa posizione dottrinale risulta senz’altro esposta a critiche decisive da parte della giurisprudenza, anche in base alle attuali norme del diritto positivo. Su quest’ultimo aspetto, in particolare, da segnalare l’articolo 3, comma 1, della Legge n. 363/2003, il quale prevede che i gestori delle aree sciabili debbano assicurare le condizioni di sicurezza delle piste, ovvero devono rimuovere ostacoli pericolosi lungo le piste, o in alternativa segnalarli e “proteggerli” – cosa non fatta nel caso oggetto della nota a sentenza.[18]

Oltre alle prestazioni sopra citate dalla “prima dottrina”, e tenendo in considerazione la legge del 2003, ve ne sono altre definibili come ugualmente “essenziali”, ossia garantire la sicurezza-manutenzione della pista da sci (predisponendo anche luoghi di primo soccorso in caso di incidenti) e l’accesso facilitato e organizzato all’impianto stesso (aree di riposo, parcheggi).

Dunque, gli obblighi a carico del gestore delle piste sarebbero ben più rispetto a quelli prospettati dai sostenitori della prima tesi.[19] La seconda prospettiva sembra, infatti, prevalere in questi anni, quindi il contratto di skipass sarebbe inquadrabile tra quelli di somministrazione.[20]

La giurisprudenza, specialmente di legittimità, evita tendenzialmente di affrontare il tema in termini di “incasellamento” in una categoria o in un’altra, bensì cerca di offrire una visione concreta e pragmatica, la quale, dopotutto, diviene “diritto vivente”.[21]

Secondo un orientamento consolidato, il contratto di skipass è l’accordo con il quale lo sciatore, dietro pagamento di un corrispettivo, ottiene l’accesso all’impianto sciistico al fine di utilizzarlo in piena libertà (ma sempre nel rispetto delle norme vigenti), mentre il gestore dell’impianto si obbliga a garantire il funzionamento degli impianti e la manutenzione-sicurezza delle piste.[22]

Da questi ulteriori doveri deriva la potenziale responsabilità del gestore laddove questi non assicuri il buono stato dell’impianto sciistico.[23]

Fatta una analisi dell’istituto, seppur breve, e data una inquadratura del rapporto giuridico nascente in forza del contratto di skipass, risulta possibile, almeno in prima facie, entrare in dialogo con la sentenza oggetto dell’elaborato. La sentenza del Tribunale di Trento è conforme all’indirizzo maggioritario della giurisprudenza, ossia considera il rapporto nascente dallo skipass riconducibile all'interno dei contratti di somministrazione, e dunque il gestore dell’impianto sarà responsabile delle lesioni riportate dallo sciatore in base al canone dell'art. 1218 c.c.

Invero, il giudice condanna il gestore per non aver garantito le idonee misure di sicurezza nell’impianto sciistico, ovvero, nella specie, la copertura del pilone dell’impianto sciistico contro il quale la vittima ha poi urtato. Il gestore ha tutta una serie di obblighi nei confronti dei fruitori delle piste da sci, e laddove venga meno agli stessi, potrà essere chiamato a rispondere in base ai canoni della responsabilità contrattuale. L’unico modo per liberarsi dalla r.c. sarebbe stato, nel caso specifico, quello di dare la prova che l’imbottitura di protezione non fosse al suo regolare posto per caso fortuito, forza maggiore, oppure per una evenienza imprevedibile. Tutte prove mai date dal gestore dell’impianto sciistico.[24]

Al contempo, merita attenzione la condotta dello sciatore danneggiante che ha perso la presa dello skilift. Proprio questa mancata diligenza e perizia nelle operazioni di salita vanno ad infrangere le normative in materia, ovvero, a parere di chi scrive, lo sciatore colpevole ha infranto la prima regola del c.d. Decalogo dello sciatore (oltre ad altre norme come il 2043 c.c.), ossia che “Ogni sciatore deve comportarsi in modo da non mettere in pericolo la persona altrui o provocare danno”.[25]

Proprio il comportamento di tale utente ha menomato la salute della vittima. Da qui, ma solo su questo punto, l’esclusione della responsabilità del gestore, ossia egli non risponde dei comportamenti negligenti degli sciatori sulle piste – ecco il limite massimo per quanto concerne gli obblighi del gestore che scaturiscono in base al contratto di skipass.[26]

3.1. (segue): le misure di protezione passive

Fonte di polemiche e di controversie nelle aule dei tribunali è sicuramente quella legata alle misure di protezione da adottare per piloni, barriere, ed altre fonti di pericolo in pista o nelle sue immediate vicinanze: la vittima di un incidente lamenta il loro cattivo posizionamento chiedendo il risarcimento del danno, mentre il gestore si giustifica affermando che egli avesse adottato tutte le misure di sicurezza opportune, e che eventuali spostamenti delle protezioni siano da ricondurre, per esempio, a “fattori climatici”, non potendo lui sorvegliare in ogni momento l’impianto.

Pacifico in giurisprudenza che il gestore ricopra una posizione di garanzia e di controllo sulle fonti di pericolo all’interno dell’impianto sciistico, ovvero egli dovrà prevenire-neutralizzare quelle situazioni rischiose rientranti nella sua signoria.[27] Ovviamente più alta sarà la possibilità di incidente, provocato da un certo oggetto naturale o artificiale, e più l’obbligo si farà stringente: dalla semplice segnalazione con appositi cartelli nelle situazioni meno rischiose, alla eliminazione di quella fonte di pericolo.

I giudici di legittimità e di merito, chiamati a verificare la sussistenza (o meno) della responsabilità dei gestori in caso di incidenti, devono accertare se l’evento sia avvenuto esclusivamente a causa del comportamento scorretto degli utenti della pista, oppure se vi sia stata una “mancanza” – un comportamento omissivo – del gestore nel disporre le varie misure preventive di sicurezza. Giurisprudenza consolidata ritiene che l’obbligo di garanzia si estenda fino alle immediate vicinanze della pista, e rispetto ai pericoli atipici presenti nell’impianto: l’attività sciatoria ha un certo grado di pericolo connaturato, e non può essere imposto al gestore di garantire una sicurezza assoluta.[28]

Cercando di enucleare concretamente gli obblighi del gestore, si può affermare che egli debba garantire la costante battitura e manutenzione della pista affinché mantenga le caratteristiche tecniche in base alle quali sia stata rilasciata la concessione per la gestione dell’impianto sciistico – dunque non devono esserci insidie e trabocchetti sulla pista. Ma come già sostenuto, la sicurezza non può essere una assoluta, in quanto il “contesto” in cui si scia (tra boschi, alberi, ripidi pendii) presenta naturalmente pericoli tipici, i quali non possono “sorprendere” l’utente. Ovviamente, laddove vi sia un’alta probabilità di fuori uscita dalla pista con rischio di urtare alberi, rocce etc., il gestore dovrà adottare misure di protezione come, per esempio, barriere.[29]

Nello specifico, vanno rimosse quelle fonti di pericolo che uno sciatore non si aspetta di incontrare durante il suo tragitto. In altri termini, sul gestore grava l’obbligo di neutralizzare o segnalare quei pericoli atipici o difficilmente affrontabili, quali curve pericolose, pendii importanti, ostacoli in mezzo alla pista etc., mentre lo sciatore è tenuto a farsi carico dei pericoli insiti nell’attività sciistica – ossia quelli tipici.[30]

Dunque, insidie artificiali come piloni dell’impianto di risalita, cannoni sparaneve etc., vanno segnalati e protetti, e in caso contrario il gestore risponderà per non aver posto in essere la condotta preventiva, salvo che non provi che ciò sia dovuto ad un caso fortuito o ad una causa a lui non imputabile.[31]

4. Scontro tra sciatori e responsabilità civile (sciistica)

La grande passione verso questo sport, e quindi il grande numero di utenti che ogni anno frequentano le piste, comporta una certa percentuale di rischio di incidenti tra sciatori: condotte irresponsabili e negligenti aumentano la probabilità di sinistri, mentre il rispetto delle regole (e del buon senso) riducono l’incidenza degli eventi lesivi. Pur sostenendo la tesi secondo la quale l’attività sciistica non è una “intrinsecamente e necessariamente pericolosa”, va ammesso che questa cela sempre un grado di rischio – probabilmente nessuna attività umana è a “rischio zero” –, il quale aumenta esponenzialmente in caso di condotte “non consone” da parte degli utenti delle piste. 

Invero, il tema della sicurezza sulle piste da sci ha attirato l’attenzione del Legislatore nel 2003 con la Legge n. 363 “Norme in materia di sicurezza nella pratica degli sport invernali da discesa e da fondo”. Tuttavia, rispetto alle altre esperienze dei paesi confinanti, la legislazione italiana si discosta in certi punti dalle regole del c.d. Decalogo dello sciatore – che ancora oggi trova diffusa applicazione –, impedendo così d’avere una normativa uniforme europea.[32]Tradizionalmente, in caso di sinistri, la responsabilità aquiliana, con il principio generale neminem laedere (ex. 2043 c.c.), è apparsa la più idonea a risolvere le controversie. L’onere probatorio graverà sull’attore che pretende di essere risarcito dei danni subiti, ovvero dovrà provare: a) di aver subito un danno (ingiusto); b) che a causarlo sia stata la condotta del convenuto; c) e che tra danno e condotta vi sia il nesso di causalità. 

Ciononostante, una parte degli esperti del diritto nutre perplessità in merito a tale ripartizione della prova, ossia l’attività sciatoria non consente una agevole ricostruzione delle dinamiche degli incidenti: i vari consulenti tecnici si ritrovano ad analizzare dinamiche incerte con alto tasso di errore – per esempio, devono ricostruire i movimenti del corpo umano –, e le prove testimoniali spesso non sono attendibili. Per tale ragione, si sono avanzate teorie diverse, ovvero aggravare la responsabilità sciistica ricorrendo principalmente a due possibili soluzioni: il regime del 2050 c.c. e quello del 2054 c.c.[33]

La tesi che vorrebbe applicare il 2050 c.c. ritiene che vi sarebbe un’alta probabilità di verificazione di sinistri sulle piste da sci, dunque finendo per considerare tale aspetto come un criterio decisivo per ritenere pericolosa l’attività sciatoria. 

Purtuttavia, la maggioranza della dottrina e giurisprudenza concordano nel non ritenere tale criterio idoneo per qualificare una attività come pericolosa: oltre ad espresse previsioni di legge, sono pericolose quelle attività che per la loro natura, o per i mezzi utilizzati, rendono probabile un evento dannoso.[34] Partendo da questo principio, si osserva che l’attività dello sci amatoriale non presenta, di per sé, un grande rischio, bensì lo diventa in base ai comportamenti – contrari alle norme – degli utenti.[35]

La tesi che invece propende per l’applicazione dell’articolo 2054 c.c. va ad accostare l’attività sciistica con quella della circolazione dei veicoli. Tuttavia, un simile accostamento risulta suscettibile di una prima forte critica: è possibile applicare una normativa – come quella del Codice della Strada –, nata per disciplinare la circolazione dei veicoli su strada, alla attività ricreativo-sportiva dello sci? Si deve propendere per una soluzione negativa, in quanto non si rinvengono gli elementi necessari per sostenere un’applicazione analogica della nozione di “veicolo” agli sci.[36]

Inoltre, è possibile considerare le piste da sci come assimilabili alla nozione di “strade” sulle quali circolano “veicoli”? Anche a tale domanda, a parere di chi scrive, occorre dare una risposta negativa.[37]

Alla luce della disamina delle possibili alternative proposte dalla dottrina, risulta preferibile inquadrare la responsabilità civile nascente da incidenti tra sciatori nei canoni dell’articolo 2043 c.c., e dunque nel principio generale neminem laedere. Appare irragionevole garantire una tutela maggiore al danneggiato sulle piste da sci rispetto a quella garantita agli altri danneggiati nell’ordinamento.[38]

Una volta date le coordinate teoriche sul tema, risulta opportuno dare applicazione, al nostro caso, a tutte le considerazioni appena svolte. Proviamo ad immaginare l’applicazione dell’articolo 2050 c.c. con tutte le sue implicazioni.

Se non ragiono male, nella fattispecie, non sarebbe cambiata la decisione del giudice anche laddove si fosse applicato un regime di responsabilità aggravata. Ammettendo che lo sciare sia una attività pericolosa, il convenuto avrebbe dovuto provare d’aver adoperato le misure idonee ad evitare il danno, prova che risulta improbabile nel caso specifico – il pilone non aveva le misure protettive nella parte inferiore. Dunque, il danneggiante sarebbe stato condannato ugualmente, ma in forza del 2050 c.c. 

Ma è ragionevole applicare come regola generale di responsabilità quella ex. 2050 c.c.? A parere di chi scrive no, in quanto per gli “easy cases”, ovvero controversie in cui la soluzione è facilmente individuabile, è più che sufficiente il canone della responsabilità aquiliana, mentre per i c.d. “hard cases o penumbral cases”, ossia situazioni in cui la soluzione della controversia non è univoca o facilmente raggiungibile, ci si affiderà ancora ai canoni del 2043 c.c., e all’apprezzamento del giudice, risultando iniqua l’applicazione di un regime aggravato. In altri termini, lo sciatore che ha perso la presa dello skilift nella fase di risalita, il quale poi ha dato avvio alla sequenza di eventi che hanno portato alle gravi lesioni della vittima, risponderà ai sensi del 2043 c.c., e questo lo ha affermato lo stesso giudice. Il rimprovero al danneggiante è quello di non essere stato diligente durante la fase di risalita, e a nulla rileva che, una volta persa la presa dello skilift, lui si sia trovato su di un tratto ghiacciato della pista – la condotta negligente è antecedente e distinta.[39]

La vittima ha indubbiamente assorto i suoi doveri probatori: ha dato prova dei danni subiti; ha dimostrato che vi è stata una condotta illegittima da parte del convenuto; ed infine, ha provato l’esistenza del nesso causale tra danno e condotta. In conclusione, il giudice ha condannato il convenuto (sciatore) al risarcimento dei danni. 

5. La perdita di chance ed il suo profilo probatorio

La chance non è sempre stata accolta con favore dagli operatori del diritto, invero, ed in tempi risalenti, autorevole dottrina si è espressa molto criticamente, ovvero riteneva la chance un’aspettativa di mero fatto “priva del collegamento materiale tra condotta ed evento richiesto dall’articolo 1223 c.c., pertanto alla luce di ciò non è possibile risarcire il danno derivante da perdite di possibilità”.[40] Tuttavia, tale prospettiva e “rigidità” è venuta meno a seguito dell’apertura dell’ordinamento giuridico a molte e varie situazioni meritevoli di tutela. 

Ad oggi, la chance viene definita dalla giurisprudenza (e anche dalla migliore dottrina[41]) come una concreta ed effettiva situazione vantaggiosa dalla quale ottenere un determinato beneficio. Dunque, ribaltando il discorso, “la perdita” indica proprio il non conseguimento di tale “vantaggio-beneficio”.[42] La chance è un bene patrimoniale, perciò è suscettibile di risarcimento laddove se ne dia la prova.

Tuttavia, è proprio sull’onus probandi che si sono verificate la maggior parte delle controversie, ovvero si è giunti a riconoscere in astratto la risarcibilità del danno, ma nel concreto vi è la necessità di produrre una prova di tale danno – e in assenza di quest’ultima la domanda di risarcimento verrà rigettata.

Tale prova non è una “rigorosa”, ossia non occorre dare una prova “certa” del vantaggio mancato a causa dell’evento illecito – in caso contrario, la stessa configurabilità di tale istituto verrebbe meno visto che risulterebbe essere una probatio diabolica –, bensì una legata al principio del “più probabile che non”: in altri termini, legata ad un calcolo di probabilità.[43]Pretendere una prova che dia “certezza” del vantaggio futuro perso risulterebbe quasi impossibile

Tuttavia, il grado di probabilità deve essere elevato, ovvero si deve poter ritenere che la chance (del vantaggio) abbia avuto un ruolo incisivo nella programmazione (e nelle speranze) della vita di chi ne lamenta la perdita.[44] Non di minore importanza, ai fini del riconoscimento del risarcimento del danno, è la dimostrazione del nesso di causalità tra il danno (la condotta illecita) e la perdita della chance.[45]

Ma più concretamente, cosa deve provare il danneggiato? Egli dovrà dimostrare, anche solo tramite presunzioni, che vi fossero i presupposti necessari (concrete possibilità-probabilità) per il raggiungimento di quel risultato sperato. Tale prova può essere data tramite presunzioni semplici, o calcoli di probabilità, ma anche tramite prove testimoniali.[46]

Ovviamente il giudice si esprimerà tramite un giudizio prognostico ex ante sulle possibilità che si avevano di conseguire quel “vantaggio”. Va fatta una osservazione sul punto. Ritenere probabile l’esistenza di una chance significa, de facto, ritenere esistente una possibilità di secondo grado – in altri termini, “la chance di una chance”. Ma non per questo tale istituto va eliminato. È compito del giudice valutare-apprezzare simili situazioni e nessuno afferma che sia un compito agevole. Tuttavia, più il ragionamento del giudicante sarà attento, e più il rischio di errore diminuirà.

Nel caso oggetto della nota a sentenza, l’attrice chiede il risarcimento del danno da perdita di chance, ma il giudice – dopo una attenta valutazione – rigetta questa domanda, in quanto non è stata prodotta la prova necessaria al soddisfacimento dell’onus probandi. Infatti, non vi è alcun elemento che indichi la perdita di una concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato vantaggio – nel caso specifico, quelli connessi ad un nuovo posto di lavoro. 

Ribaltando in senso positivo le conclusioni del giudice, per vedersi riconosciuto il risarcimento, l’attrice avrebbe dovuto presentare elementi in forza dei quali desumere le utilità economiche che sarebbero derivate dall’assunzione presso l’azienda P. S.p.A., invece ciò non è stato fatto. In prima approssimazione, si potrebbe sostenere che l’attrice avrebbe dovuto presentare eventuali preaccordi, o i compensi dei soggetti che ricoprivano la medesima posizione a cui aspirava, oppure qualche testimonianza che riferisse che la sua mancata assunzione fosse proprio legata alle sue condizioni psicofisiche post-incidente.

Tutti elementi che però mancano, e di conseguenza il giudice non poteva che rigettare questa domanda.[47] La perdita di chance non è una mera aspettativa, ma un’entità a sé stante, la quale necessita di una prova (anche per presunzioni) per essere riconosciuta dal giudice. Dunque, proprio perché non è “mera aspettativa”, non basta millantare (future) perdite, ma occorre darne prova (nei limiti anzidetti).

6. Conclusioni

Questa nota a sentenza ha consentito di analizzare tre questioni degne di attenzione, per giunta immerse in una tematica, come quella dell’attività sciistica, che ha una sempre maggiore risonanza nelle aule dei tribunali. Senza voler escludere possibili mutamenti di indirizzo giurisprudenziali, allo stato dell’arte attuale, questa sentenza riflette l’orientamento maggioritario dei giudici e della dottrina, in quanto risultato di un lungo contemperamento degli interessi in gioco – almeno dagli anni ’80 ad oggi. Ritengo che non vi sia alcun rimprovero, o critica, da muovere al giudice, ovvero il suo ragionamento logico-giuridico non risulta errato o corrotto in nessun punto. 

La responsabilità dello sciatore-danneggiante risulta pacifica, come quella del gestore dell’impianto. In merito al rigetto della domanda di risarcimento da perdita di chance, va segnalato che il giudice non ha negato, lato sensu, l’esistenza di tale danno, tuttavia, in assenza di una prova di quanto lamentato dall’attrice, la responsabilità civile non può offrire tutela. L’avvocato dell’attrice doveva allegare più solide informazioni su questo punto, ed in tal caso avrebbe avuto maggiori “possibilità” (o con un gioco di parole, chance) di ottenere tale risarcimento.[48]

In conclusione, non sorprendono le affermazioni di chi inizia a considerare “rischioso” l’andare a sciare sulle piste italiane. Invero, anche una piccola disattenzione può comportare conseguenze nefaste con sofferenze psicofisiche, ma anche con perdite ingenti dal punto di vista economico. La responsabilità civile ha sicuramente reso “adulta” l’attività sciistica amatoriale, strappandola da quella “innocenza” della prima metà del XX secolo. 


Note e riferimenti bibliografici

[1] Invero, si può affermare che da “attività stravagante” per pochi, siamo giunti a poter considerare lo sci come uno sport (di massa). Infatti, sono sempre più numerose le scuole in cui tutti (potenzialmente) possono imparare, oppure il pubblico e i “tifosi”, nelle varie manifestazioni sportive  – come i Mondiali, le Olimpiadi etc. –, sono in costante aumento.

[2] Per una analisi che prenda in considerazione l’impatto economico degli sport invernali sulle comunità montane, vedi U. Izzo, Safety and Liability in the practice of Skiing: How Law and Cognitive Sciences shape the driving factor of Winter Tourism, in The Entertainment and Sports Law Journal (2014) 12, 3.

[3] Per una prospettiva comparatistica sul tema della legislazione in ambito sciistico, anche dell’area di common law, vedi La responsabilità sciistica – Analisi giurisprudenziale e prospettive della comparazione, a cura di U. Izzo e G. Pascuzzi (Giappichelli, Torino, 2006).

[4] Non che in precedenza non vi fossero regole, tuttavia pareva che il loro rispetto fosse legato più alla “coscienza sociale”, invero ben conosciuto era il c.d. Decalogo dello sciatore della FIS (1967, e successive modifiche), il quale, pur non essendo diritto positivo, veniva generalmente rispettato – in altre parole, risultava come una consuetudine ben radicata. Dall’altra parte, in caso di incidenti in pista, pur non essendoci una legislazione ad hoc, la giurisprudenza, sebbene con diversi ed altalenanti indirizzi, applicava le regole generali del Codice civile e quindi della responsabilità civile. Per una analisi di questa normativa e del suo impatto, vedi U. Izzo, Safety and Liability in the practice of Skiing: How Law and Cognitive Sciences shape the driving factor of Winter Tourism, in The Entertainment and Sports Law Journal (2014) 12, 3.

[5] Nel caso della L. n. 363/2003 innegabile un certo “contributo” alla stabilizzazione della materia, ma i pilastri su cui si fondano le soluzioni giuridiche sono ben altri. 

[6] Questo aspetto non rientrerà nel presente lavoro, tuttavia si rimanda sul tema a U. Izzo, I confini dell’area sciabile fra legge e affidamento: fuoripista e responsabilità civile, in Rivista di diritto sportivo (2018), pp. 162-193.

[7] Una descrizione proveniente dal mondo letterario ce la offre E. Hemingway, in A Moveable Feast (Random UK, 2000). L’autore, scrivendo di qualche inverno passato sulle nevi delle montagne austriache, ci racconta della sua esperienza con gli sci, e di come questa sia cambiata nel corso dei decenni del XX secolo: “There were no skilifts […] and no funiculars, but there were logging trails and cattle trails that led up different mountain valleys to the high mountain country. You climbed on foot carrying your skis and higher up, where the snow was too deep, you climbed on sealskins that you attached to the bottoms of the skis.“ Questa era l’esperienza dell’attività sciatoria in origine.

[8] Per una prospettiva storico-giuridica, vedi M. Pradi, in Lo sviluppo del diritto sciistico e le regole F.I.S. quali norme di diritto positivo, in Rivista di diritto dello sport (1988), p. 205 e ss. 

[9] I principali mezzi di risalita costruiti nella seconda metà del XX secolo furono la sciovia, la funivia monofune, e la funivia bifune. Tuttavia, al fine di rendere più efficiente il trasporto – risparmiando tempo, quindi incrementando il profitto – furono ideati nuovi mezzi, infatti ad oggi abbiamo una più ampia varietà: tapis roulant, sciovia (anche chiamata con l’inglesismo skilift), seggiovia, cabinovia, e l’intramontabile funivia.

[10] Mi riferisco a due proposte di legge. La prima degli onorevoli Monti e Angeloni il 14 marzo 1969 n. 6, mentre la seconda proposta fu della onorevole Craveri, il 15 maggio 1993 n. 2778, denominata “Disciplina degli impianti a fune, delle piste da sci e delle relative infrastrutture”. 

[11] Il Decalogo è disponibile sul sito internet della Federazione italiana sport invernali (FISI).

[12] Tuttavia, anche successivamente alla emanazione della legge, vi sono stati casi di “richiamo” al suddetto Decalogo, vedi Trib. Rovereto, 9 agosto 2012, giud. Dies, voce Responsabilità civile, in Leggi d’Italia (nella specie, uno sciatore proveniente da monte, dopo aver urtato un altro sciatore a valle, venne investito da un soggetto rimasto ignoto. Il primo venne condannato per l’intero al risarcimento del danno, e questo in forza del principio in base al quale, laddove vi sia responsabilità solidale, la ripartizione delle colpe tra i corresponsabili si applica solo nelle azioni di regresso). In dottrina, vedi M. Pittalis, La responsabilità in ambito sciistico, in Rivista di diritto sportivo (2015) vol. 2, pp. 373-447, 376.

[13] S. Shavell, Analisi economica del diritto (Giappichelli, 2007), edizione italiana a cura di A. Baccini e A. Fineschi, pp. 35-55. Questa è la conclusione dell’analisi gius-economica, però resta nuovamente da comprendere in quale categoria di “pericolo” si possa inquadrare l’attività sciistica – vedi il capitolo terzo del presente commento per un tentativo di offrire una soluzione.

[14] Questa ricostruzione ci viene offerta nell’opera di M. Pradi, in Lo sviluppo del diritto sciistico e le regole F.I.S. quali norme di diritto positivo, in Rivista di diritto dello sport (1988), paragrafo I, “Evoluzione storico-sociologica”. 

[15] L’indirizzo prevalente della Suprema corte appare orientato nel considerare l’attività sciistica “intrinsecamente innocua”, ovvero che anche laddove si accertasse effettivamente la pericolosità dello specifico impianto sciistico, spetterà all’attore dimostrare il nesso eziologico tra l’attività (lo sciare) e l’evento dannoso. Gli Ermellini affermano testualmente che “l'attività sciistica non può, di per sé, considerarsi pericolosa, dovendosi invece ritenere intrinsecamente innocua; il fatto che, in concreto, essa possa svolgersi in modo da determinare pericolo per i terzi non può fondare il suo inquadramento nella fattispecie dell'art. 2050 cod. civ., ma, semmai, può diventare fonte di responsabilità ai sensi dell'art. 2043 cod. civ.” Vedi Cass. civ., sez. III, sentenza 24 luglio 2012, n. 12914, voce Responsabilità civile, in Leggi d’Italia. Conforme anche Cass. civ., sez. III, 15 luglio 2008, n. 19449, in Foro it., Rep. 2008, voce Responsabilità civile, n. 408. Contraria a questa impostazione, M. Pittalis, La responsabilità in ambito sciistico in Rivista di diritto sportivo (2015) vol. 2, pp. 378-381. Invero, osserva l’autrice che sulle piste da sci vi sono innumerevoli infortuni, e spesso di gravità rilevante. Cita a sostegno di questa prospettiva una decisione della Suprema corte, ovvero Cass. civ., 19 febbraio 2013, n. 4018, in Rassegna di diritto ed economia dello sport, 2014, p. 165 ss., con nota di G. B. De Marinis: nella specie, uno sciatore, che procedeva ad una velocità eccessiva, dopo essere caduto aveva urtato contro la staccionata in legno ai bordi della pista, in una zona con buona visibilità, e priva di curve o di altre situazioni pericolose, quindi, in assenza di quelle condizioni particolari che impongono di adottare misure protettive al gestore dell’impianto. Avrebbe definito, la Suprema corte, l’attività sciistica come “intrinsecamente pericolosa”. Questa impostazione, de facto, renderebbe applicabile l’articolo 2050 c.c., ovvero il 2054 c.c. Questa pronuncia, tuttavia, appare alquanto isolata nel panorama giurisprudenziale, dovendosi preferire, a parere di chi scrive, la soluzione opposta. 

[16] In base alle statistiche fornite dall’ufficio stampa della Dolomiti Superski, nella stagione 2013-2014, sono stati venduti circa dieci milioni di giornate di skipass, e questo solamente nell’area che va dall’Alta Pusteria alla Val di Fassa, e da Plan de Corones a San Martino di Castrozza. Questi numeri riescono già a dare una iniziale idea della diffusione di tale contratto.

[17] In tempi meno recenti, questa pareva l’idea più vicina all’orientamento della giurisprudenza, vedi Cass. civ., sez. III, sentenza 23 maggio 1997, n. 4607, in Foro it., anno 1997, parte I, col. 2470 (nella specie, si afferma che il contratto di risalita in seggiovia – non si parlava ancora espressamente di skipass – è da inquadrare nella categoria del contratto di trasporto di persone). Conforme anche Cass. civ., sez. III, sentenza 13 gennaio 1993, n. 356, Foro it., anno 1993, parte I, col. 1107. Anche la giurisprudenza di merito era conforme, ovvero considerava che il servizio di seggiovia rientrava nella fattispecie del contratto di trasporto, vedi Trib. Bolzano, 22 maggio 1987, in Foro it., Rep. 1988, voce Trasporto (contratto di), n. 12. In dottrina, per un autore allineato a questo indirizzo, vedi G. Chiné, Trasporto tramite seggiovia e responsabilità del gestore, in Riv. dir. sport., 1993, p. 744. Vedi anche M. Pradi, voce Sci alpino, in Dig. disc. priv., Sezione civile, XVIII (Torino, 1998), p. 165. Oppure per un’opera più recente, vedi R. Campione, La responsabilità dei gestori delle aree sciabili a cura di M. Sesta e L. Valle, La responsabilità sciistica (Bolzano, 2014), pp. 16-26. Quest’ultimo autore innova questa impostazione, ma solo in certi aspetti, condividendone invece le fondamenta teoriche. 

[18] Riporto, per comodità, il primo comma dell’art. 3: “I gestori  delle  aree  individuate  ai  sensi  dell'articolo  2 assicurano   agli  utenti  la  pratica  delle  attività  sportive  e ricreative  in  condizioni  di  sicurezza,  provvedendo alla messa in sicurezza  delle  piste  secondo  quanto  stabilito  dalle regioni. I gestori hanno l'obbligo di proteggere gli utenti da ostacoli presenti lungo  le  piste  mediante  l'utilizzo  di  adeguate protezioni degli stessi e segnalazioni della situazione di pericolo.

[19] Le riflessioni sulle due teorie riportate prendono spunto da I. Arroyo, Il contratto di skipass europeo, in 3° forum giuridico europeo della neve, Dai diritti della neve al diritto della neve, (Bormio-Valtellina, 23-25 novembre 2007). Sull’evoluzione delle posizioni riguardanti la responsabilità del gestore degli impianti, vedi anche quanto ripercorso da U. Izzo, in La montagna (Giappichelli, 2013), vol. I, p. 34 e ss.

[20] In dottrina, su questa impostazione, in Italia abbiamo D. Di Sabato, Il contratto di skipass, in I contratti di somministrazione di servizi, a cura di R. Bocchini (Giappichelli, Torino, 2006), pp. 812-827. Per una prospettiva spagnola, ma concorde, vedi anche R. A. Soto, El contrato de suministro, Curso de Derecho Mercantil, vol. II (2001) pp. 214 e ss. Cito questo autore in quanto interessante il suo tentativo di dare un impulso ad una regolamentazione del contratto di skipass a livello europeo. Anche la giurisprudenza pare conforme, vedi Cass. civ., sez. III, 06 febbraio 2007, n. 2563, in Foro it., Rep. 2007, voce Contratto in genere, n. 358.

[21] Il primo espresso riconoscimento della natura autonoma e peculiare del contratto di skipass lo abbiamo avuto in Cass. civ., sez. III, 06 febbraio 2007, n. 2563, in Foro it., Rep. 2007, voce Contratto in genere, n. 358. Tale sentenza della Suprema corte, richiama e conferma un principio espresso dal Trib. di Pinerolo, sentenza 18 ottobre 2000, n. 507; giud. Battiglia, ovvero si afferma che “[…] il contratto di skipass, avendo per oggetto non solo il trasporto per la risalita ma anche l'utilizzazione della pista, rende il gestore responsabile dei vizi di queste piste, della cui manutenzione in sicurezza il predetto gestore assume la responsabilità.” 

Per un simile indirizzo in ambito penale, in cui si accoglie questa interpretazione del contratto di skipass, vedi Cass. pen., sez. IV, sentenza 11 luglio 2007, n. 39619, in De Jure. Conforme a questo indirizzo anche Trib. Aosta, sentenza 12 aprile 2012, n. 178; giud. Colazingari (nella specie, uno sciatore, mentre discendeva la pista, impattava contro un cannone sparaneve non segnalato e posizionato in una zona non consona – visto che ostruiva parzialmente il tracciato. Inoltre, il materassino protettivo plastificato, che sarebbe dovuto essere posizionato a protezione dello “sparaneve”, si trovava invece a terra – nessuna spiegazione del fatto è stata data. Dunque, dopo aver urtato il mezzo, la vittima cadeva sul materassino, il quale la fece scivolare verso valle per decine di metri. Il giudice afferma che il gestore dovrà rispondere ex. 1218 c.c., in quanto ha creato una situazione di pericolo – posizionando in malo modo e senza segnalazione il cannone sparaneve –, ed ha omesso di garantire una adeguata manutenzione della pista, ovvero il corretto posizionamento della protezione).

[22] Conforme Cass. civ., sez. VI, 07 ottobre 2019, n. 24954, in Foro it.; oppure Cass. civ., sez. III, ord. 19 luglio 2004, n. 13334, in Foro it., Rep. 2004, voce Contratto in genere, n. 336. Nella giurisprudenza di merito, vedi Trib. Belluno, 14 febbraio 2020, n. 34, giud. Sandini; oppure Trib. Catania, sez. IV, 03 febbraio 2015, giud. Marino. Tuttavia, interessante una sentenza del Trib. Trento, 15 maggio 2018, n. 473, giud. Fermanelli, voce Responsabilità civile, in Leggi d’Italia, la quale prende una netta posizione sul tema. Il giudice prende in considerazione l’ipotesi in cui vi sia un doppio regime di responsabilità a carico del gestore dell’impianto, ovvero in base agli artt. 1618 e 1218 c.c.: responsabilità del vettore per il contratto di trasporto e responsabilità ordinaria per tutte le altre prestazioni. Il giudice, seguendo la sua argomentazione, afferma che delle due l’una, tertium non datur, in quanto una simile situazione sarebbe inaccettabile ed irragionevole. Dunque, e in ossequio alla c.d. teoria dell’assorbimento, laddove vi sia un contratto misto, non si dovrebbero applicare le singole discipline delle varie tipologie contrattuali che lo compongono, bensì si dovrebbe individuare quella prevalente andandola poi ad applicare in modo esclusivo. Tale ragionamento si applica perfettamente anche al contratto di skipass, in quanto risulterebbe strumentale e secondario il contratto di trasporto, rispetto al regime dell’articolo 1218 c.c. (nella specie, l’attore chiedeva il risarcimento del danno al gestore dell’impianto, in quanto avrebbe subito danni alla persona a causa del piattello dello skilift che lo avrebbe colpito alla testa al momento del rilascio dello stesso. Il giudice rigetta la domanda in quanto accerta una grave condotta imprudente e negligente dell’attore nella procedura di “sganciamento”, e non ravvisa alcun difetto di manutenzione nell’impianto di skilift). 

[23] Saremmo in presenza di una violazione contrattuale (ex. 1218 c.c.), la quale obbligherebbe il gestore al risarcimento del danno, salvo che non provi che l’evento dannoso sia avvenuto a causa di un evento fortuito. 

[24] Vedi capitolo 2.1. del presente commento per un ulteriore approfondimento in tema di obblighi di sicurezza.

[25] Si potrebbe affermare che anche la seconda regola del Decalogo sia stata violata: “Ogni sciatore deve tenere una velocità e un comportamento adeguati alle proprie capacità nonché alle condizioni generali e del tempo”. In base ad una interpretazione estensiva, per “comportamento” si potrebbe intendere anche quello durante la fase di salita dell’impianto con lo skilift

[26] Vedi Cass. civ., sez. III, sentenza 22 novembre 2014, n. 22344, in Foro it., anno 2015, parte I, col. 1699; oppure Cass. pen., sez. IV, 13 dicembre 2018, n. 8110. In dottrina, rimando a R. Campione, La responsabilità dei gestori delle aree sciabili a cura di M. Sesta e L. Valle, La responsabilità sciistica (Bolzano, 2014), e a M. Pittalis, La responsabilità in ambito sciistico in Rivista di diritto sportivo (2015) vol. 2, pp. 373-447, paragrafo IV. 

[27] In altre parole, l’obbligo di garantire le condizioni di sicurezza, che grava sul gestore della pista, ha carattere preventivo, ossia egli deve rendere sicura la pista da sci, in modo che non vi siano pericoli (non prevedibili o atipici) per i soggetti che con essa vengono in contatto. Nella giurisprudenza di legittimità si afferma che il gestore ricopra una posizione di garanzia, vedi Cass. pen., sez. IV, 13 dicembre 2018 – dep. 25 febbraio 2019, n. 8110, oppure vedi Cass. pen., sez. feriale, 27 agosto 2020 – dep. 7 ottobre 2020, n. 27923. Conforme anche Cass. pen., sez. IV, 18 gennaio 2019, n. 18333.

In dottrina, vedi L. Gizzi, in La sicurezza dello sci tra obblighi del gestore e norme di circolazione (2007) pp. 1-11.

[28] Conforme anche U. Izzo, in La “precauzione mancata” nella responsabilità civile: il gestore e lo scontro fra utenti delle aree sciabilicommento a CASSAZIONE CIVILE, sez. III, 22 ottobre 2014, n. 22344, in Danno e responsabilità, (fascicolo 4, 2015), pp. 357-374. Afferma l’Autore che “Sta di fatto che essere civilmente responsabili della gestione sicura e regolare di un luogo o di un oggetto è cosa assai diversa dall’essere civilmente responsabili della sicurezza o della regolarità che deve connotare un luogo o un oggetto tout-court.”

[29] L. Gizzi, in La sicurezza dello sci tra obblighi del gestore e norme di circolazione (2007) pp. 1-11. Conforme in giurisprudenza, Cass. pen., sez. IV, 21 giugno 2004, n. 27861, in Leggi d’Italia (nella specie, la pista battuta fino all’orlo rendeva probabile, laddove non vi fossero reti e/o barriere di protezione, la caduta per il pendio in caso di scivolamento dello sciatore). In dottrina, vedi U. Izzo, I confini dell’area sciabile fra legge e affidamento: fuoripista e responsabilità civile, in Rivista di diritto sportivo (2018), pp. 162-193.

[30] In tal senso, vedi Cass. pen., Sez. III, 13 giugno 2006, n. 20214, in Leggi d’Italia

[31] Variazioni delle condizioni climatiche non rientrano tra le scriminanti concesse al gestore. Vedi Cass. pen., Sez. IV, 27 ottobre 2005, n. 39366. Vedi anche Trib. Trento, sez. Cavalese, 17 gennaio 2000 n. 5. Nel caso oggetto della nota a sentenza, è stato accertato dai vari periti che molto probabilmente siano state le condizioni climatiche dei giorni precedenti a causare il parziale spostamento delle misure di protezione del pilone sul quale ha urtato poi la vittima. Tuttavia, i cambiamenti atmosferici non rientrano tra i casi fortuiti o, e più in generale, tra le scriminanti.

[32] Vedi S. Vernizzi, Scontro tra sciatori – profili di responsabilità civile a cura di M. Sesta e L. Valle, La responsabilità sciistica (Bolzano, 2014), pp. 88-90.

[33] Per una analisi della responsabilità che scaturisce in forza del 2050 c.c., ossia se questa abbia una natura fondata sulla colpa (aggravata), o se sia una r.c. di natura oggettiva, vedi P. Trimarchi, in La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno (Giuffré, 2019), pp. 407-411. Oppure, per una ricostruzione più estesa e per certi versi più innovativa, vedi U. Izzo, in Una lettura alternativa al dilemma colpa/responsabilità oggettiva, con riferimento all’art. 2050 c.c. e al 2054 c.c.. Cito un passaggio emblematico di questo scritto, ossia nell’analizzare la natura del 2050 c.c., l’autore afferma che “La verità è che l’art. 2050 c.c. è ossessionato dalla precauzione, incarna fino in fondo questa paranoia della società del rischio contemporanea […]”.

[34] Ancora le considerazioni di U. Izzo, in Una lettura alternativa al dilemma colpa/responsabilità oggettiva, con riferimento all’art. 2050 c.c. e al 2054 c.c., disponibile nella Community online del corso di Diritto civile, anno 2020/2021, in cui si afferma che il 2043 c.c. sarebbe ascrivibile alle c.d. “attività rischiose”, mentre il 2050 c.c. alle “attività pericolose”. Ebbene, appare ragionevole inquadrare lo sci tra le pratiche rischiose, in cui tanto più elevato è il rischio di eventi dannosi quanto è alto il grado di imprudenza e negligenza dei vari utenti: in altri termini, il rischio è direttamente proporzionale alle condotte negligenti degli sciatori. Fondamentale anche l’analisi di M. Barcellona, La responsabilità civile, in Tratt. dir. Priv., a cura di S. Mazzamuto, Torino, 2021, capitolo IV. Afferma l’autore che “la pericolosità [dell’attività] deve essere misurata sulla base della tollerabilità del rischio: è pericolosa ogni attività che introduce in società un rischio talmente intollerabile da rendere superfluo l’accertamento delle circostanze concrete in cui esso si attiva. Ma poiché così una tal intollerabilità dipende dalla gravità del rischio è sulla base di tale gravità che la pericolosità va apprezzata: è, dunque, pericolosa quell’attività che crea un rischio che deve ritenersi grave per l’entità delle sue conseguenze e/o per la frequenza con la quale può attuarsi, cioè esitare in un processo dannoso”. Alla luce di questa interpretazione del significato di “attività pericolosa”, si può sostenere nuovamente che lo sciare non risulta riconducibile a questa definizione. L’accertamento delle circostanze concrete che hanno portato all’incidente non è superficiale, anzi è cruciale. Dunque, non si vede la ragione per inquadrare la materia con i canoni dell’articolo 2050 c.c.

[35] Tra le tante sentenze in questo senso, vedi Cass. civ., sez. III, 28 febbraio 2000, n. 2220, in Foro it., 2000, parte I, col. 1828. Grande attenzione va data alla differenza ontologica tra “attività pericolosa” e “condotta pericolosa”: è l’attività stessa rischiosa, o il rischio nasce dal comportamento individuale durante lo svolgimento dell’attività stessa? Propendo più per la seconda ipotesi. Sul punto vedi P. Ziviz, Le attività pericolose, in Nuova giur. civ. comm. (1988), parte II, p. 179, oppure S. Vernizzi, Scontro tra sciatori – profili di responsabilità civile a cura di M. Sesta e L. Valle, La responsabilità sciistica (Bolzano, 2014), pp. 91-92. In senso contrario, e quindi favorevole all’applicazione dell’articolo 2050 c.c., vedi M. Pittalis, La responsabilità in ambito sciistico in Rivista di diritto sportivo (2015) vol. 2, pp. 373-447, paragrafo II. Cita l’autrice una sentenza, ossia Cass. civ., 19 febbraio 2013, n. 4018, in Rassegna di diritto ed economia dello sport, 2014, p. 165 ss., con nota di G. Berti De Marinis. In sintesi, l’autrice – commentando la sentenza –  sostiene che l’attività sciistica sia una “intrinsecamente pericolosa”. Tuttavia, tale pronuncia, allo stato dell’arte attuale, appare isolata e non sostenuta da un indirizzo condiviso in giurisprudenza. Contraria a questa ricostruzione, tra le tante, Cass. civile, sez. III, 24 luglio 2012, n. 12914 (la presunzione di colpa ex art. 2050 c.c. a carico del danneggiante presuppone sempre che il danneggiato possa provare il nesso eziologico tra l’attività e l’evento dannoso. Dunque, l’attività sciistica non è una intrinsecamente pericolosa). 

[36] Non si può prescindere da quanto previsto dal Codice della Strada all’articolo 46, invero gli sci non risultano inquadrabili nella nozione di “veicolo”. 

[37] In tal senso, vedi Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 2016, n. 21254in Foro it., Rep. 2017, voce Circolazione stradale, n. 183 (nella specie, uno sciatore si è scontrato contro un veicolo privato che transitava sulla pista da sci. Gli eredi del guidatore danneggiante chiedevano l’applicazione del 2054 c.c. al fine di ottenere la negazione della loro esclusiva responsabilità per l’incidente: sostenevano che lo sciatore non avesse rispettato la regola della “precedenza a destra” applicabile sulle strade. Gli Ermellini, in primo luogo, escludevano di poter annoverare gli sci tra i “veicoli” disciplinati dal Codice della Strada, ed in secundis, negavano la possibilità di poter considerare le piste da sci alla stregua di “strade” sulle quali, di conseguenza, sarebbe possibile il transito di “veicoli”. Le piste da sci sono pubbliche, ma adibite allo sport, dunque non percorribili da mezzi meccanici – salvo quelli relativi alla manutenzione-gestione dell’impianto, o in caso di emergenza). Tale decisione è conforme, nella definizione dell’articolo 2054 c.c., alla sentenza della Cass. civ., sez. un., 29 aprile 2015, n. 8620, in Foro it., Rep. 2015, voce Assicurazione (contratto), n. 97. In dottrina, vedi S. Vernizzi, Scontro tra sciatori – profili di responsabilità civile a cura di M. Sesta e L. Valle, La responsabilità sciistica (Bolzano, 2014), pp. 91-93. Per una prospettiva che vorrebbe invece l’applicazione del 2054 c.c., vedi M. Pittalis, La responsabilità in ambito sciistico in Rivista di diritto sportivo(2015) vol. 2, p. 382. Ovviamente questa prospettiva è strettamente connessa all’idea che l’attività sciatoria sia una pericolosa (vedi quanto scritto nella nota n. 36), invero conclude la Pittalis che “L’affermata natura pericolosa dello sci amatoriale, dunque, dovrebbe a rigore portare alla applicazione dell’art. 2050 c.c. ovvero dell’art. 2054 c.c., e ciò, a ben precisare, non perché gli sci siano da qualificarsi come veicoli, bensì facendo unicamente leva sul comune dato della pericolosità della circolazione, su strada così come in pista”.

[38] S. Vernizzi, in Scontro tra sciatori – profili di responsabilità civile a cura di M. Sesta e L. Valle, La responsabilità sciistica (Bolzano, 2014), p. 93. Conforme anche M. Bona, A. Castelnuovo, P.G. Monateri, in La responsabilità civile nello sport (Milano, 2002), p. 163. Questi autori giudicano fortemente contraddittorio, nell’ambito della responsabilità sciistica, attribuire al convenuto un onere probatorio più gravoso di quello posto in capo alla vittima. A parere di chi scrive, si potrebbe addirittura prospettare una irragionevole differenziazione contraria all’articolo 3 della Costituzione: non vi sarebbero quei caratteri di “diversità” che possano giustificare un “trattamento diverso”.

[39] Vedi Trib. Potenza, 5 luglio 2007, giud. Magarelli. In questa sentenza si afferma che il gestore dell’impianto risponderà dei danni subiti dallo sciatore che perda la presa dallo skilift a causa della cattiva manutenzione della pista. Tuttavia, applicando tale insegnamento al caso oggetto della nota a sentenza, il convenuto non ha dato prova che la perdita della presa dello skilift sia conseguenza di un cattivo stato della pista, dunque non può a sua volta agire contro il gestore. 

[40] Vedi F.D. Busnelli, in Diritto e Obbligazioni (Torino, 1989) p. 719. 

[41] “[…] una perdita di chance è configurabile ogni volta che l’illecito (o l’inadempimento) abbia cagionato una nuova situazione, che faccia venir meno la probabilità di conseguire utilità successive”. Definizione data da P. Trimarchi, in La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno (Giuffré, 2019), p. 592. 

[42] Per una panoramica dell’evoluzione giurisprudenziale su questo tema, vedi Cass. civ., sez. III, sentenza 9 marzo 2018, n. 5641, voce Danni civili, in Foro it. anno 2018, parte I, col. 1579; conforme Cass. civ., sez. III, 4 marzo 2004, n. 4400, voce Danni civili, in Foro it. anno 2004, parte I, col. 1403. In quest’ultima sentenza, la Suprema corte afferma che “il danno da perdita di chance, non è uno meramente ipotetico, ma uno attuale e concreto, che va commisurato alla possibilità-probabilità di conseguirlo (il danno) e non alla perdita del risultato (sperato)” – le parentesi sono aggiunte.

[43] Provare un evento futuro, che ontologicamente rimane incerto, è molto complesso e difficile. Ad ogni modo, e tornando alla prova che la giurisprudenza richiede per il riconoscimento del risarcimento, vedi Cass. civ., sez. II, 18 marzo 2003, n. 3999, in Foro it., Rep. 2003, voce Danni civili, n. 268. Afferma in modo netto la corte, in tema di onere probatorio, che “La parte […] qualora voglia ottenere […] anche i danni derivanti dalla perdita di chance, ha l'onere di provare, pur se solo in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità, la realizzazione in concreto almeno di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato e impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta”. Conforme anche la giurisprudenza di merito, Corte d’appello di Perugia, sez. lavoro, 02 ottobre 2018, n. 120. Richiamando il principio del “più probabile che non”, si afferma che, laddove si richieda il risarcimento del danno per perdita di chance, si dovrà provare che, anche solo in base a presunzioni o ad un calcolo di probabilità, la possibilità concreta di realizzare un certo risultato sperato sia stato impedito dalla condotta illegittima. 

[44] Vedi P. Trimarchi, in La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno (Giuffré, 2019), p. 597. Alcune sentenze si sono espresse nel senso che il grado di probabilità necessario per vedersi riconosciuta la chance – e quindi il risarcimento del danno – debba essere superiore al 50%. Vedi Cass. civ., sez. lavoro, sentenza 19 dicembre 1985, n. 6506, in Foro it.; TAR Calabria Reggio C., 19 maggio 2004, n. 412, in Foro amm. TAR, 2004, 1567. 

[45] Vedi in tal senso, Cass. civ., sez. II, sentenza 13 dicembre 2001, n. 15759, in Foro it., anno 2002, parte I, col. 1804. In questa sentenza riportata, il danno da perdita di chance è legato all’inadempimento contrattuale del convenuto – vi è un danno, un inadempimento contrattuale, e tra questi due si riscontra il nesso di causalità. Il giudice si immaginerà la situazione del danneggiato prima dell’evento lesivo e dovrà valutare se vi fossero le reali e concrete condizioni per il raggiungimento di quel vantaggio – poi mancato a causa della condotta del convenuto. 

[46] Su quest’ultima alternativa, vedi Cass. civ., sez. III, 11 maggio 2007, n. 10840, in Foro it., Rep. 2007, voce Danni civili, n. 187 (nella specie, il danno da perdita di chance era legato alla mancata promozione a causa di un sinistro stradale e dei danni psicofisici subiti dalla vittima che le hanno imposto una lunga assenza dal luogo di lavoro. La Suprema corte riconosce il danno da perdita di chance – lavorativa – per gli anni di carriera che vanno dal 1993 al 1999: l’invalidità a seguito dell’incidente ha impedito alla danneggiata di essere promossa da impiegata a funzionario bancario. La prova di questa “aspettativa-possibilità” di vantaggio – la promozione – è stata prodotta tramite la testimonianza del capo del personale, il quale ha dichiarato che proprio la sua menomazione le ha impedito la promozione e i correlati “benefici” patrimoniali). 

[47] Nella motivazione, afferma il giudice che proprio a causa dell’assenza di qualsiasi elemento di prova […] la liquidazione equitativa sarebbe arbitraria, da un lato, e suppletiva degli oneri di allegazione e prova gravanti sulla parte, dall'altro”.

[48] In prima approssimazione, per una trattazione della responsabilità dell’avvocato, vedi R. Pucella, Inadempimento «qualificato», prova del nesso di causa e favor creditoris, in rivista Responsabilità Civile e Previdenza, vol. 79, fasc. 4, 2014, pp. 1087-1096. Ad ogni modo, ritengo non presenti i presupposti per una responsabilità del difensore, in quanto non si può dare certezza del successo della causa. Inoltre, non sono emersi gravi profili di colpa “professionale”.