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Pubbl. Mer, 23 Nov 2022

Lo storno di dipendenti: quando integra un’ipotesi di concorrenza sleale?

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Davide Belloni



L’Autore analizza, alla luce della più recente giurisprudenza, le conseguenze dello storno di dipendenti da parte di un imprenditore nei confronti di un’impresa concorrente. Sul punto, si osserva come ai principi costituzionali della libera circolazione del lavoro e della libertà d´iniziativa economica privata si possano contrapporre i canoni generali di buona fede e correttezza che permeano l’ordinamento e sono trasposti nel codice civile italiano. Sono così illustrati esempi di condotte sleali relative ai rapporti con i lavoratori idonee a cagionare danno all’azienda concorrente, così come i rimedi cui può ricorrere l’azienda danneggiata da tali condotte.


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The solicitation of employees: when does it integrate a hypothesis of unfair competition?

The Author analyzes, in the light of the most recent case law, the consequences of the solicitation of employees by an entrepreneur against a competitor company. On this issue, it is noted that the constitutional principles of free movement of work and freedom of private economic initiative can be contrasted with the general canons of good faith and fairness that permeate the legal system and are transposed into the Italian civil code. Examples of unfair conduct relating to relations with workers capable of causing damage to the competitor company are illustrated as follows, as well as the remedies which the company damaged by such conduct can resort to.

Sommario: 1. Introduzione. I valori costituzionali in gioco; 2. Il bilanciamento operato dalla giurisprudenza: i confini tra l’attività lecita e quella che integra un’ipotesi di concorrenza sleale; 3. I rimedi esperibili dall’impresa danneggiata; 4. Conclusioni.

 

1. Introduzione. I valori costituzionali in gioco

Come noto, per “storno di dipendenti” si intende l’attività mediante la quale un imprenditore tende ad assicurarsi le prestazioni lavorative di uno o più collaboratori un'impresa concorrente[1], sottraendole a quest’ultima. Naturalmente l’interesse di dottrina e giurisprudenza è nato dal fatto che nell’ambito di questa fattispecie, particolarmente delicata laddove l’attività distrattiva riguardi dipendenti dotati di particolari competenze professionali o, per il ruolo che essi rivestivano, comporti il rischio di acquisizione del “know how”[2] da parte dell’azienda rivale, vengono in rilievo diversi diritti costituzionalmente tutelati, che talvolta si pongono in conflitto tra loro: il delicato bilanciamento tra tali valori guida l’interprete nell’individuare il confine tra liceità e illiceità di tale condotta e, del resto, numerosi casi si sono verificati nel corso del tempo impegnando i giuristi nell'analisi della fattispecie. 

Da un lato, infatti, la mera assunzione di personale proveniente da un’impresa concorrente non può essere considerata di per sé illecita in quanto costituisce, evidentemente, espressione sia del principio di libera circolazione del lavoro desumibile dagli artt. 4, 35 e 36 Cost., che riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro, sia della libertà d'iniziativa economica privata, sancita dall’art. 41 Cost.[3]. Dall’altro lato, tuttavia, in un’ottica di tutela dell’azienda a cui vengono sottratte preziose risorse umane, si può evidenziare che tali diritti non possono che trovare un limite nei generali canoni di buona fede e correttezza, che permeano il nostro ordinamento nella sua interezza e costituiscono a loro volta corollario del dovere di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost.

Ebbene, come noto i principi costituzionali anche trovano una conferma nella disciplina codicistica nei libri quarto, quinto e sesto. In primo luogo, dalle norme dettate in materia contrattuale emerge infatti un generale principio di libertà e autonomia contrattuale (quest’ultima è sancita espressamente dall’art. 1322 c.c.), nonché un generale atteggiamento di sfavore dell’ordinamento nei confronti dei rapporti contrattuali perpetui, ricavabile da numerose disposizioni di dettaglio[4]. Così, l’accettazione di un vincolo obbligatorio sine die, a ben vedere, si traduce in una rinuncia preventiva alla libertà contrattuale futura, oltre a essere pregiudizievole per l’interesse generale: i rapporti perpetui, impedendo la possibilità di impiegare più proficuamente le risorse materiali e umane in essi investite, costituiscono un ostacolo allo sviluppo economico[5].

Quanto alla specifica materia che ci occupa, conformemente all'orientamento dell'ordinamento generalmente ostile alla perpetuità dei vincoli e delle obbligazioni, l’art. 2118 c.c. statuisce che i lavoratori possono liberamente recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato e, di conseguenza, scegliere di collaborare con un’altra impresa[6]; d’altra parte, occorre pure tenere a mente che l’art. 2958, n. 3) c.c. prevede, con una formula ampia, che compie “atti di concorrenza sleale chiunque (…) 3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda”.

2. Il bilanciamento operato dalla giurisprudenza: il discrimine tra l’attività lecita e quella che integra un’ipotesi di concorrenza sleale

Attesa, come accennato, l’ampiezza della formula utilizzata dal legislatore, che quindi non disciplina direttamente la fattispecie in esame, l’opera degli interpreti risulta particolarmente utile al fine di determinare in quali casi l’attività di acquisizione di lavoratori possa ritenersi lecita in quanto frutto delle fisiologiche dinamiche del mercato e in quali casi sia invece da considerarsi illecita, e quindi integri un’ipotesi di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2958, n. 3 c.c.

Sul punto, la giurisprudenza è ormai consolidata nel ritenere che “la concorrenza illecita per mancanza di conformità ai principi della correttezza non può mai derivare dalla mera constatazione di un passaggio di collaboratori (…) da un’impresa ad un'altra concorrente, né dalla contrattazione che un imprenditore intrattenga con il collaboratore del concorrente, attività in quanto tali legittime essendo espressione dei principi della libera circolazione del lavoro e della libertà di iniziativa economica"[7]. Non può infatti essere negato il diritto di ogni imprenditore “di organizzare al meglio la propria iniziativa imprenditoriale, in modo efficiente e produttivo, e quindi attingendo alle professionalità che il mercato offre, in regime di libera concorrenza[8], purché, come ribadito recentemente dalla Suprema Corte[9], “ciò avvenga con mezzi leciti, quale ad esempio la promessa di un trattamento retributivo migliore o di una sistemazione professionale più soddisfacente”. È altresì indiscutibile il diritto di ogni lavoratore di cambiare il proprio datore di lavoro “per realizzare le proprie aspirazioni, e migliorare la propria situazione personale e patrimoniale[10], senza che “il bagaglio di conoscenze ed esperienze maturato nell'ambito della precedente esperienza lavorativa (…) si trasformi in un vincolo oppressivo e preclusivo della libera ricerca sul mercato di nuovi sbocchi professionali[11].

Pertanto, secondo i giudici di legittimità, affinché tale attività di per sé legittima possa configurare la fattispecie residuale di illecito per violazione del criterio della correttezza professionale ai sensi dell’art. 2598, n. 3) c.c. è prima di tutto necessario, sotto il profilo oggettivo, che la condotta risulti “inequivocabilmente idonea a cagionare danno all'azienda nei confronti della quale l'atto di concorrenza asseritamente sleale viene rivolto”, determinando un’alterazione delle logiche del mercato.

Orbene, al fine di valutare la sussistenza di tale requisito, devono essere considerati indici specifici: “assumono rilievo innanzitutto le modalità del passaggio dei dipendenti e collaboratori dall'una all'altra impresa, che non può che essere diretto (ancorché eventualmente dissimulato) per potersi configurare un'attività di storno; il verbo ‘stornare’ significa infatti ‘allontanare, indirizzare su strade o direzioni diverse’ e nell'accezione considerata implica quindi la deviazione del collaboratore da un'impresa all'altra; non può mai costituire storno l'assunzione di ex collaboratori di un imprenditore concorrente ormai liberi sul mercato, a meno che tale libertà non sia il frutto di artifici e simulazioni volti appunto a mascherare il passaggio dall'impresa danneggiata all'altra”.

Più in dettaglio, come precisato dalla giurisprudenza di merito[12], le modalità con cui avviene lo storno assumono una connotazione illecita laddove il concorrente sleale si appropri di risorse umane altrui in violazione della disciplina giuslavoristica (ad esempio, quanto ai termini di preavviso) e degli altri diritti assoluti del concorrente (quali la reputazione e i diritti di proprietà immateriale, tra cui le informazioni riservate); laddove esse siano potenzialmente rischiose per la continuità aziendale dell'imprenditore che subisce lo storno nella sua capacità competitiva (al contrario, in casi di crisi aziendale o situazioni di difficoltà, lo smembramento della forza lavoro ed i maggiori flussi in uscita dei dipendenti siano da considerare un effetto fisiologico); ancora, laddove le modalità impiegate non siano prevedibili, e cioè siano di provocare alterazioni non immediatamente riassorbibili, ed aventi un effetto “shock” sull'ordinaria attività di offerta di beni o di servizi dell'impresa che subisce lo storno[13].

Assumono quindi rilievo, come ribadito dalla Suprema Corte[14], diversi indici quali la quantità e la qualità (intesa come competenza professionale) del personale stornato, la posizione dei lavoratori nell'ambito dell’impresa stornante, le difficoltà ricollegabili alla loro sostituzione e i metodi eventualmente adottati per convincere i dipendenti a passare all'impresa concorrente (ad esempio, la denigrazione dell'impresa rivale quale leva per attuare lo storno).

Così la giurisprudenza ha affermato che la configurabilità dell’illecito richiede che i dipendenti stornati siano “particolarmente qualificati ed utili per la gestione dell'impresa concorrente, in relazione all'impiego delle rispettive conoscenze tecniche usate presso l'altra impresa e non possedute dal concorrente stesso[15] o che l’atto illecito dell’impresa stornante sia “direttamente ed immediatamente rivolto ad impedire al concorrente di continuare a competere, attesa l'esclusività di quelle nozioni tecniche e delle relative professionalità che le rendono praticabili, così da saltare il costo dell'investimento in ricerca ed in esperienza, da privare il concorrente della sua ricerca e della sua esperienza, e da alterare significativamente la correttezza della competizione[16].

Come accade per molte altre fattispecie conosciute dal nostro ordinamento, la valutazione va fatta in concreto, sulla base dell'esame complessivo della vicenda come risultante dall'interazione dei vari indici menzionati o altri elementi che vengano in considerazione nello specifico caso.

Come ribadito dalla Suprema Corte nella recente pronuncia in esame, la sussistenza dell’elemento oggettivo non è comunque sufficiente per ritenere integrato l’atto di concorrenza sleale, in quanto occorre altresì verificare, sotto il profilo soggettivo, che la condotta dell’imprenditore sia animata dal c.d. animus nocendi. Più precisamente, non basta “la mera consapevolezza in capo all'impresa concorrente dell'idoneità dell'atto a danneggiare l'altra impresa, ma è necessaria l'intenzione di conseguire tale risultato”, ovvero che “l'imprenditore concorrente si proponga, attraverso l'acquisizione di risorse del competitore, di vanificare lo sforzo di investimento del suo antagonista, creando effetti distorsivi nel mercato[17].

La giurisprudenza di legittimità unitamente a quella di merito ha indicato alcuni "criteri indice" dai quali desumere l'animus nocendi e di conseguenza capaci di connotare quale concorrenza illecita lo storno di dipendenti. Fra gli altri, sono stati ritenuti criteri indice: - l'alto numero dei dipendenti stornati, che determina problematiche in seno all'organizzazione aziendale, ai rapporti con la clientela nonché la riduzione del volume d'affari; - la collocazione in posizioni chiave nell'azienda oggetto dello storno, cioè a dire nella loro essenzialità e nella loro non facile fungibilità o sostituibilità con ricerca sul mercato; - la presenza di accordi stipulati prima delle dimissioni da parte dei dipendenti oggetto di storno finalizzati alla costituzione di una società concorrente; - la brevità temporale entro la quale si è realizzato lo storno in danno della società concorrente; - il fatto che le dimissioni di un alto numero di dipendenti siano state date senza preavviso e attraverso lettere di dimissioni predisposte uniformemente.

Ad ogni modo, poiché la dimostrazione dell’elemento psicologico può rivelarsi particolarmente difficile se non addirittura impossibile, i giudici di legittimità ritengono integrato tale requisito in via oggettiva “ogni volta che lo storno sia stato posto in essere con modalità tali da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell'autore l'intento di recare pregiudizio all'organizzazione ed alla struttura produttiva del concorrente[18]: del resto, lo stesso art. 2600 c.c. prevede che “Accertati gli atti di concorrenza, la colpa si presume”.

Quanto visto nel paragrafo precedente va, in ogni caso, combinato con indicatori oggettivi dell'idoneità lesiva della condotta concorrenziale illecita (il vantaggio competitivo indebito, la capacità distruttiva della altrui continuità aziendale, lo “choc disgregativo”, e così via) elaborati soprattutto nelle numerose pronunce di merito in modo da consentire al giudice di fondare il convincimento in relazione alla fattispecie sottoposta alla sua attenzione non potendo questi sostituirsi alla parte che invochi la lesione dei propri diritti. Se quindi sotto il profilo soggettivo la prova per l’azienda danneggiata risulta facilitata, spetta invece a quest’ultima, dal momento che la fattispecie di cui all’art. 2598, n. 3) c.c. integra pur sempre un’ipotesi di illecito extracontrattuale, fornire la prova degli elementi di natura oggettiva, così come quella del danno subito in ragione della perdita della forza lavoro.

3. I rimedi esperibili dall’impresa danneggiata

Venendo quindi ai rimedi azionabili dall’impresa che abbia subito la sottrazione dei dipendenti, come anticipato nel paragrafo precedente quella di cui all’art. 2598, n. 3) c.c. configura, di fatto, un’ipotesi di illecito aquiliano tipizzato[19].  Un primo strumento a disposizione dell’imprenditore danneggiato è quindi costituito dalla tutela risarcitoria nei confronti dell’impresa stornante[20], sempre che sia assolto l’onere della prova nei termini sopra visti. In questa specifica materia, l’art. 2600 c.c., richiamando il precetto di cui all’art. 2043 c.c., prevede che se gli atti di concorrenza sleale sono compiuti con dolo o con colpa, l’autore è tenuto al risarcimento dei danni ma, come accennato, stabilisce che qualora siano accertati tali atti, la colpa si presume sino a prova contraria. La medesima norma prevede, inoltre, che in tale ipotesi possa essere ordinata la pubblicazione della sentenza, benché di tale ultima ipotesi non possa affermarsi che sia stato fatto largo uso nel tempo dalla giurisprudenza.

La legge non prevede, invece, una tutela di tipo reale una volta verificatosi l’illecito: in generale, pertanto, non sembra possibile che il rapporto di lavoro già instauratosi tra il datore di lavoro concorrente e il collaboratore stornato possa essere risolto o che al primo possa essere impedito di utilizzare le prestazioni del secondo per ordine del giudice: una diversa soluzione comporterebbe la violazione del diritto al lavoro di soggetti estranei al giudizio[21].

Tuttavia, l’imprenditore dispone di un altro importante strumento per agire, laddove possibile, in via preventiva, ovvero l’azione inibitoria di cui all’art. 2599 c.c. Tale norma prevede che “La sentenza che accerta atti di concorrenza sleale ne inibisce la continuazione e dà gli opportuni provvedimenti affinché ne vengano eliminati gli effetti”.

La pronuncia di inibitoria, che prescinde dalla prova dell’elemento soggettivo[22], implica non solo l'ordine di cessare una attività in atto e di rimuoverne gli effetti, ma anche quello di astenersi in futuro dal compiere una certa attività, pur se nel frattempo cessata[23]: il provvedimento inibitorio, i cui effetti possono tra l’altro essere anticipati da un provvedimento cautelare ai sensi dell’art. 700 c.p.c., potrà perciò senz’altro consistere nel divieto al soggetto stornante di compiere ulteriore sottrazione di dipendenti o di assumere dipendenti stornati, con i quali non abbia ancora concluso i relativi contratti, o ancora nell'impedire l'utilizzo ai dipendenti delle informazioni riservate che provengono dal soggetto passivo[24].

A ben vedere, come recentemente affermato in una pronuncia di merito[25], la tutela inibitoria assume un ruolo centrale, se solo si considera che talvolta il danno che deriva dalla condotta illecita di storno del personale non può essere facilmente risarcito, “a causa sia della difficile possibilità di fornire una prova concreta della sua dimensione sia della frequente irreversibilità della perdita delle posizioni commerciali e, soprattutto, della credibilità dell'impresa agli occhi della clientela”.  

4. Conclusioni

In conclusione, per fondare validamente una domanda volta all'accertamento della concorrenza sleale caratterizzata dallo storno di dipendenti è in primo luogo necessario svolgere indagini accurate per accertare comportamenti e circostanze indice dello specifico intento di danneggiare l'azienda concorrente e, dunque, deve risultare che tale attività sia stata messa in atto con modalità tali da non potersi giustificare alla luce dei principi di correttezza professionale, se non supponendo l'intento del soggetto agente, di danneggiare l'organizzazione e la struttura produttiva del proprio concorrente. Allorché lo storno impedisca totalmente al concorrente di continuare a competere in quanto la fuoriuscita di dipendenti sia di entità tale da aver azzerato in concreto la perdita di conoscenze tecniche e di mercato necessarie per la prosecuzione del business l'esito dell'accertamento sarà evidente. Più articolata e, invero, più ardua sarà la prova da fornire in tutti quegli altri casi in cui non vi sia una totale estromissione del concorrente dal mercato di riferimento ma semplicemente si sia verificato un vulnus più circoscritto, analogamente molto rigorosa sarà la prova da dover offrire in punto di ristoro dei danni, del resto, è insito nella normale dinamica di mercato - e fa parte del tipico rischio d'impresa - la circostanza che i fenomeni di libera circolazione dei lavoratori, certamente più frequenti al giorno d'oggi rispetto al passato, comportino un depauperamento dell'azienda di provenienza del lavoratore, con il bagaglio di competenze da questi acquisite, a vantaggio dell'azienda concorrente di destinazione.

 

Note e riferimenti bibliografici

[1] Così, ex plurimis, Trib.Torino, sez. spec. Impresa, n. 354/2021; Vanzetti-Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, 2018, p. 112.

[2]  Il regolamento CE 772/2004 all'art. 1, lett. i) ha fornito per la prima volta una definizione normativa di “know how”: con tale termine si fa riferimento a “un patrimonio di conoscenze pratiche non brevettate, derivanti da esperienze e da prove, patrimonio che è: i) segreto, vale a dire non generalmente noto, né facilmente accessibile; ii) sostanziale, vale a dire significativo e utile per la produzione dei prodotti contrattuali; e iii) individuato, vale a dire descritto in modo sufficientemente esauriente, tale da consentire di verificare se risponde ai criteri di segretezza e di sostanzialità”.

[3] Da ultimo, Cass. Civ., sez. I, n. 3865/2020; Corte app. Brescia, sez. I, n. 658/2020.

[4] Per taluni contratti a esecuzione continuata o periodica, il legislatore considera requisito essenziale del contratto la previsione di un termine di durata (così l’art. 1379 c.c. sul divieto di alienazione e l’art. 2328, n. 13 c.c. per l’atto costitutivo della società di capitali), stabilisce il termine massimo di durata (così l’art. 1573 c.c. in materia di locazione e l’art. 2596 c.c. sul patto di non concorrenza) oppure, pur ammettendo l’instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato, riconosce alle parti (così l’art. 1569 c.c. in materia di somministrazione) o a una delle parti (così l’art. 1671 c.c. in materia di appalto) la possibilità di recedere.

[5] Caringella-Mazzamuto-Morbidelli, Manuale di diritto civile, 2017, p. 1071.

[6] Con riferimento al contratto a tempo determinato, viene in rilievo l’art. 2119 c.c., secondo cui “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto (…)”.

[7] Cass. Civ., sez. I, n. 20228/2013.

[8] Trib. Bologna, sez. spec. Impresa, n. 441/2020.

[9] Cfr. nota n. 3.

[10] Cfr. nota n. 8.

[11] Cfr. nota n. 3.

[12] Trib. Milano, sez. spec. Impresa “A”, 21.05.2018.

[13] Integra senz’altro un’ipotesi di storno illecito il c.d. "cherry picking", che si ha quando lo stornante compie una precisa scelta, consistente nell'assumere solo e soltanto collaboratori della concorrente dotati di una specifica competenza, in quanto provenienti da uno specifico settore e con un ruolo di fatto apicale nel comparto interessato (Trib. Milano, 21.06.2012, richiamata dalla sentenza di cui alla nota n. 12).

[14] Cfr. anche Trib.Torino, sez. spec. Impresa, n. 354/2021.

[15] Trib.Torino, sez. spec. Impresa, n. 354/2021, che a sua volta richiama Cass. Civ, sez. I, n. 13424/2008 e Cass. Civ., sez. I, n. 9386/2012.

[16] Trib. Napoli, sez. II, n. 3617/2020; Cass. Civ., sez. I, n. 1100/2014.

[17] Sul punto, cfr. anche Corte App. Milano, sez. I, n. 3393/2019, in conformità a quanto statuito da Cass. Civ., sez. I, n. 31203/2017, secondo cui lo storno di dipendenti “non costituisce attività di concorrenza sleale, a meno che non sia stato attuato con l'intenzione di danneggiare l'altrui azienda in misura che ecceda il normale pregiudizio che ad ogni imprenditore può derivare dalla perdita di dipendenti in conseguenza della loro scelta di lavorare presso altra impresa”.

[18] Così Cass. Civ., sez. I, n. 31203/2017, richiamata dalla pronuncia più recente, e Cass. Civ., sez. I, n. 20228/2013.

[19] Cfr., ex plurimis, Cass. Civ., sez. lav., n. 2239/2017.

[20] In realtà anche un soggetto terzo non imprenditore può essere chiamato a rispondere di storno, quando si interpone, in ragione di una relazione di interessi che lo collega all'imprenditore in concorrenza, per cui viene a svolgere la attività illecita, con la conseguenza che entrambi ne rispondono in solido (cfr. nota n. 8). 

[21] Si segnala sul punto una recente pronuncia di merito (Trib. Macerata, 24.10.2018) secondo cui, se è vero che è inammissibile un'inibitoria generica concernente ogni mansione dei dipendenti sottratti all'impresa concorrente, poiché sarebbero in tal modo colpiti soggetti estranei all'illecito concorrenziale, il giudice avrebbe invece il potere di impedire, nell’ambito dell’azione inibitoria ex art. 2599 c.c. di cui si dirà a breve, l'impiego delle specifiche prestazioni che i dipendenti svolgevano nella precedente impresa.

[22] Cfr., ex plurimis, Trib. Milano, 28.02.2014 e Trib. Milano, 21.06.2012.

[23] Cass. Civ., sez. I, n. 6226/2013, recentemente richiamata da Trib. Palermo, sez. spec. Impresa, n. 2080/2020.

[24] Così la pronuncia di cui alla nota n. 21.

[25] Su questo tema si vedano anche gli artt. 98 e 99 del codice della proprietà industriale sulla tutela del c.d. “know how”.