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Pubbl. Lun, 23 Nov 2015

Jobs Act: incostituzionalità per il settore appalti?

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Giuseppe Ferlisi
AvvocatoUniversità degli Studi di Salerno


Analisi della possibile incostituzionalità dell´ultima riforma del diritto del lavoro in tema di appalti.


Continuiamo la nostra analisi sul Jobs Act, soffermandoci ancora una volta sugli aspetti critici della riforma in esame.
Questa volta la nostra attenzione attiene ad un particolare “faccia” della riforma, ossia quella dei licenziamenti illegittimi, soprattutto per quanto riguarda l’applicazione afferente al settore appalti (pulizie, logistica, mense, ecc.), dove sulla conservazione del posto di lavoro incide anche il continuo avvicendarsi di diverse imprese nella gestione dei servizi appaltati.

Entrando nel merito, il nuovo contratto a tutele (de)crescenti introdotto dal governo in carica prevede per i lavoratori assunti dopo la sua entrata in vigore del 7 marzo 2015 e licenziati illegittimamente, l´applicazione di una semplice tutela indennitaria, peraltro risibile con soli due mesi di indennizzo per ogni anno di servizio, lasciando la tutela reintegratoria ad ipotesi assolutamente marginali, ossia quelli dei licenziamenti ritenuti più gravi.

Con specifico riferimento ai licenziamenti nell’ambito di appalti, il governo ha dedicato solo poche righe, tenendo conto dell’anzianità maturata dal lavoratore coinvolto nel cambio di appalto, ma  solo ai fini del calcolo dell’indennizzo dovuto in caso di dichiarata illegittimità del licenziamento, così disponendo: “l’anzianità di servizio del lavoratore che passa alle dipendenze dell’impresa subentrante nell’appalto si computa tenendosi conto di tutto il periodo durante il quale il lavoratore è stato impiegato nell’attività appaltata” (art 7 DLGS 2015) (1).
In altri termini un “vecchio” assunto, una volta passato alla nuova società a seguito di cambio di appalto, secondo le intenzioni del governo, andrebbe equiparato ad un “nuovo” assunto, nel senso che dovrebbe perdere in ogni caso il diritto alla tutela reintegratoria ed avere soltanto quello ad una tutela indennitaria, come previsto dalla nuova disciplina per gli assunti dopo il 7 marzo 2015 (come evidenziato precedentemente).

La differenza tra i vecchi assunti, per cui vale l’art. 18 del famigerato Statuto dei Lavoratori (2), e i nuovi assunti, sembrerebbe dunque destinata ad essere rapidamente superata nel settore degli appalti, ove l’avvicendamento di imprese nella gestione del contratto e dei rapporti di lavoro che da questo dipendono è una cosa molto frequente.
Ma così non è, sia per il ruolo che riveste la contrattazione collettiva nell’ambito della disciplina normativa degli appalti, sia in forza della normativa specifica di settore, comunque sopravissuta al Jobs Act.

Ad esempio, per quanto riguarda la contrattazione delle parti sociali, dopo l’entrata in vigore del contratto a tutele crescenti, vi sono importanti settori in cui la concertazione ha portato alla stipulazione di accordi che, in occasione del cambio di appalto, hanno espressamente previsto, per i lavoratori coinvolti, il mantenimento delle tutele "più reali" prevista dall´art. 18 dello Statuto dei lavoratori, smentendo forse di fatto tutta quella ideologia “di parte” che ha visto nell’art. 18 il nemico giurato dell’occupazione italiana.

Sul piano legislativo invece, l´art. 7 comma 4bis L. 31/2008 ha individuato testualmente la duplice finalità perseguita dal legislatore nel “favorire la piena occupazione” e nel garantire “l’invarianza del trattamento economico complessivo dei lavoratori”, con l’applicazione ai lavoratori riassunti dello stesso trattamento economico normativo previsto dai contratti collettivi di settore. (3)
Il Tribunale Catania, sez. Lavoro, con sent. 2151 del 12.07.2013 (allegata al presente articolo) ha giustamente evidenziato come “il fine cui tende la norma e che assurge a presupposto stesso della sua applicazione è infatti appresentato congiuntamente dalla piena occupazione “e” dall’invarianza del trattamento economico complessivo dei lavoratori. Questi due requisiti devono essere presenti entrambi per giustificare l’esclusione della procedura di licenziamento collettivo; mancando anche uno solo di essi, la procedura è inevitabile”.

Ebbene, se questi sono i principi di portata generale applicabili nel settore dei servizi gestiti in appalto, non è difficile comprendere come il contratto a tutele crescenti sia in aperto contrasto con gli stessi, dato che non viene assicurata alcuna valida tutela contro i licenziamenti ingiustificati di carattere economico/disciplinare oppure un analogo e adeguato regime di stabilità del rapporto rispetto a quello garantito dall’art. 18.
Inoltre, nei lavori preparatori della legge 31/2008, il legislatore aveva ben chiarito che “la norma in esame consente una procedura più snella, un più rapido riassorbimento del personale, un’invarianza del trattamento economico e normativo, e dunque maggiori tutele, con conseguente garanzia di maggiore trasparenza negli appalti a vantaggio delle imprese corrette”.

Atteso ciò, quindi, questa disciplina normativa potrebbe e dovrebbe essere invocata dai lavoratori, e/o sul piano collettivo dalle organizzazioni sindacali, nel caso di passaggi di appalto nei quali non siano garantiti piena occupazione e/o invarianza del trattamento economico/normativo, così da essere reintegrati alle dipendenze del precedente datore di lavoro.
A questo si aggiunga che mentre il governo, con l’introduzione del contratto a tutele crescenti, aveva come obiettivo dichiarato quello “di rafforzare le possibilità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione” (art. 1, comma 7, legge 183/2014) (4), il settore degli appalti, disciplinato da una normativa specifica come suddetto, ha invece l’obiettivo dichiarato di garantire occupazione e stabilità nel rapporto di lavoro a chi un’occupazione già ce l’ha e deve per legge o contratto conservarla.

Emergerebbe quindi, un probabile eccesso di delega da parte del governo nella estensione della disciplina del contratto a tutele crescenti anche al settore degli appalti, di cui si spera un superamento da parte dello stesso legislatore, senza dover attendere un pronunciamento della Corte Costituzionale, di cui pronostico un interpello al primo caso utile.

Occorre qui fermarci sulla definizione di eccesso di delega, che è stata più volte causa di incostituzionalità di molte censure da parte della Corte rispetto ai decreti delegati.
Tale concetto ha come riferimento l'art. 76 della Costituzione, il quale recita: "L'esercizio della funzione legislativa non può essere delegato [cfr. art. 72 c. 4] al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti."

Il boom della delegazione legislativa c'è stato a partire dalla XI legislatura portando ad una profonda trasformazione dell’istituto (specialmente a partire dal 1996 con il consolidamento dell’assetto maggioritario del sistema politico), tale da farne oggi lo "strumento privilegiato" per l’attuazione del programma di Governo. 

Tale tecnica dà infatti al Governo l’opportunità, da un lato, di "incassare il dividendo" politico derivante dall’approvazione parlamentare della legge di delega e, dall'altro, di riservare ad una fase governativa successiva l’adozione della relativa disciplina di dettaglio.
Senza contare poi, nella prassi, il massiccio ricorso a decreti integrativi e correttivi, così da tornare ad incidere sulla disciplina adottata, re melius perpensa.

Tutto questo ha chiaramente capovolto il modello di cui all’articolo 76 della Costituzione, soprattutto a causa dell' ampiezza dell’oggetto, la genericità dei principi e dei criteri direttivi e la "flessibilizzazione" del termine.

E sarebbe proprio in virtù di questo nuovo atteggiamento governativo, che forse dovrebbe ricevere applicazione più stringente il succitato art. 76 Cost., data la sua natura di "limite al legislatore delegante" e di "garanzia dal rischio di una abdicazione del legislativo a favore dell'esecutivo".

Tornano di estrema attualità le parole con cui la Corte costituzionale, nel lontano 1957, riconobbe la propria competenza a sindacare il rispetto dell'articolo 76 Cost.: per evitare la "usurpazione del potere legislativo da parte del Governo" e la violazione del principio per cui "soltanto il Parlamento può fare le leggi", scrisse la Corte, la funzione legislativa deve essere esercitata dal Governo solo attraverso "modalità legislativamente stabilite".
La Corte, si badi bene, non intese l'eccezionalità della legislazione delegata né in termini quantitativi né in termini qualitativi ma, in un'accezione strettamente giuridico – costituzionale, ne sottolineò il necessario esercizio attraverso modalità legislativamente stabilite.

Nonostante questo, l'atteggiamento della Corte continua infatti a caratterizzarsi per un'estrema cautela per quanto riguarda il sindacato sulle violazioni dell'art. 76 Cost. da parte delle leggi di delega.

Il risultato è la presenza di alcuni «varchi» nel sistema delle fonti che consentono al Governo di eludere agevolmente i limiti di cui all'art. 76 Cost., con grave pregiudizio agli equilibri della forma di governo consacrati nella Carta costituzionale.

Si è quindi giunti all'esito paradossale, di una attuazione «per antifrasi» della delega legislativa in occasione del turn – over della maggioranza e della rarità assoluta di una legge nata come parlamentare e poi approvata effettivamente.

Concludendo, la doppia e diversa tutela tra “vecchi” e “nuovi assunti” introdotti dalla nuova disciplina contro i licenziamenti illegittimi nell’ambito dei contratti a tutele crescenti, vive anche nel settore degli appalti ed è destinato a durare poiché alcune organizzazioni sindacali hanno, come già affermato, ottenuto il mantenimento dell’art. 18 a favore dei lavoratori coinvolti nel cambio appalto. 

 

Note e riferimenti bibliografici

(1) Vedi art. 7 D.Lgs. 7 marzo 2015
(2) Vedi art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
(3) Vedi art. 7 comma 4 bis decreto legge 247/2008, convertito il L. n. 31/2008.
(4) Vedi art. 1 comma 7 L. 183/2014