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Pubbl. Mer, 28 Ott 2015
Sottoposto a PEER REVIEW

Proprietà collettiva e beni comuni: alla ricerca di un modello proprietario personalista

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Gerardo Scotti


Il sistema proprietario che il codice civile ci offre è davvero conforme ai principi fondamentali della nostra Costituzione? Può esistere un terzo modello proprietario oltre al tradizionale binomio pubblico - privato? A quando questa rivoluzione giuridica?


Indice:  1. Considerazioni introduttive. – 2. Proprietà collettiva e beni comuni. – 3. Percorsi storici della proprietà collettiva. – 4. Il comune che resiste: gli “usi civici”.  - 5. La dicotomia pubblico/comune nella società globalizzata. – 6. La riforma proprietaria nel cassetto: la proposta della Commissione Rodotà. – 7. Conclusioni.

1. CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE

“Bisogna sporgersi dall’altra parte ogni volta che ci si accorge che il suono della moneta che si sta usando è divenuto falso”[1].

L’attuale sistema proprietario, basato sul binomio pubblico e privato, sembra essere divenuto incapace di assicurare il benessere dei cittadini, di garantire l’attuazione piena del principio di solidarietà. Sembra non riuscire ad attuare quei principi costituzionali che ancora oggi rappresentano probabilmente la massima espressione legislativa dell’esperienza repubblicana. Il faro del diritto.

Questo sistema proprietario che, scindendo la condizione dell’avere da quella dell’essere, divide e non unisce, crea disuguaglianza.

È risaputo, inoltre, che l’attuale tassonomia proprietaria pubblica – quella che distingue i beni in demanio (necessario e accidentale) e patrimonio (disponibile e indisponibile) – ha creato non pochi problemi anche alla giurisprudenza, stante la sua configurazione confusionaria e poco chiara, incapace di delineare una funzione economico-sociale del bene preso in considerazione, disancorandosi fortemente dalla dimensione personalista che la Costituzione invece prevede e valorizza.

Nel binomio pubblico/privato, la privatizzazione segna oggi il contesto in cui viviamo, rompendo il filo di continuità con quella speranza affidata da tempo alla nozione di Stato sociale. La politica del “capitale” prevale rispetto alla filosofia keynesiana dell’intervento pubblico. “La privatizzazione ha distrutto Keynes e cambiato il mondo”[2]. Di contro, col declino del modello keynesiano, si instaura comunque tra le pieghe di un capitalismo sfrenato, il dirompente pensiero ecologista che si concretizza, nella scienza economica, nel concetto di “sostenibilità”. Un sistema economico è sostenibile se non consuma più risorse di quante ne possa rigenerare, improntato alla ricerca della sufficienza e non del massimo profitto. A ben guardare, però, anche il concetto di sostenibilità è stato fagocitato dall’ ”estetica dell’etica” che contraddistingue la politica economica e finanziaria mondiale, svilendolo e mortificandolo al punto da risultare una semplice formula di circostanza, capace di far tutti felici e contenti. “Al posto degli uomini abbiamo sostituito i numeri e alla compassione nei confronti delle sofferenze umane abbiamo sostituito l'assillo dei riequilibri contabili” per dirla con le parole di Federico Caffè.

Da qui nasce l’esigenza di contribuire a “personalizzare” (nel senso di rendere conforme ai diritti della persona) il modello proprietario, relegato nella classica suddivisione codicistica improntata al binomio pubblico – privato. Si può, o forse si deve, considerare, invece, un modello proprietario evoluto, ecologico, ecosostenibile, solidale, partecipativo, democratico, personalistico e culturale, incrocio tra pubblico e privato, attuativo del nuovo principio di sussidiarietà orizzontale: questo modello proprietario è ipotizzabile in relazione a una rivitalizzazione della proprietà collettiva, madre di quelli che la dottrina più recente e capeggiata da illustri giuristi (su tutti Rodotà) chiama “beni comuni”.

A scanso di equivoci bisogna altresì operare una doverosa premessa: i “beni comuni” non sono il bene comune, inteso quest’ultimo come una concezione armonica e unitaria della società, dei suoi fini ultimi, dei suoi interessi, della convivenza. I beni comuni, rappresentano, invece, quei beni (materiali e immateriali) attraverso i quali – mediante il raccordo e l’attuazione dei principi costituzionali – si soddisfano i bisogni della persona costituzionalizzata, si garantisce l’esercizio dei suoi diritti fondamentali.

2. PROPRIETA’ COLLETTIVA E BENI COMUNI

Il sistema proprietario, nella visione codicistica tradizionale, tende a svilupparsi in un’accezione binaria: da un lato la proprietà pubblica, dall’altro la proprietà privata. Ciò che invece la dottrina più attenta vuol mettere in evidenza è la possibilità di far ri-emergere tra gli ingombranti monoliti proprietari pubblici e privati, una terza via, quella che Carlo Cattaneo definisce “un nuovo modo di possedere”[3] ossia la proprietà collettiva.

“La proprietà collettiva non è mai solo uno strumento giuridico, né mai solo uno strumento economico; è qualcosa di più, ha bisogno di attingere a un mondo di valori, di radicarsi in un modo di sentire, concepire, attuare la vita associata e il rapporto tra uomo e natura cosmica”[4].

È proprio il giurista Paolo Grossi ad aver posto sapientemente l’attenzione sul tentativo del legislatore statale di rimuovere gli assetti comunitari tradizionali tra cui soprattutto ogni forma collettiva di uso della terra, per renderla appropriabile privatamente o porla sotto il controllo dello Stato. Solo negli ultimi anni, con l’emergenza territoriale di alcune aree boschive e montane, si è riscoperto il ruolo fondamentale che la gestione comunitaria ricopriva per l’equilibrio ambientale. Nell’Italia Meridionale, ad esempio, i commons si traducevano nel “demanio comunale” (simile agli “usi civici”), che assicurava una eccellente gestione ecologica delle risorse naturali. Di conseguenza, la successiva abolizione ha contribuito a determinare un grave dissesto idrogeologico dell’area.

“La riduzione delle terre comuni attivava, dunque, un processo di forte dissipazione e distruzione delle risorse naturali”[5].

È, però, dal 1995 che lo IASCP inizia a rivolgere l’attenzione ai “new commons”: essi fanno riferimento ai commons non facilmente inquadrabili in categorie predefinite.

La nozione di bene comune perciò si amplia e diviene generica. In un bene comune, la risorsa può essere piccola e servire a un gruppo ristretto (il frigorifero di famiglia), può prestarsi all’utilizzo di una comunità (i marciapiedi, i parchi giochi, le biblioteche, ecc) oppure può estendersi a livello internazionale o globale ( i fondali marini, l’atmosfera, Internet e la conoscenza scientifica). I beni comuni possono essere ben delimitati ( un parco pubblico o una scuola), possono attraversare confini e frontiere (il Danubio, gli animali che migrano, Internet) oppure possono essere privi di confini delimitati (la conoscenza, lo strato di ozono)[6].

Il nuovo paradigma di bene comune può far proprie alcune caratteristiche:

  • scetticismo rispetto all’idea che una qualsiasi risorsa sia meglio gestita con rigidi diritti di proprietà e scambi commerciali (basti pensare alla condivisione peer to peer, l’open source ecc.);
  • preoccupazione rispetto alla possibilità di essere “mangiati dal mercato”.

In altri termini, i beni comuni ci parlano oggi dell’inalienabilità di alcune risorse e della necessità di ascoltare e proteggere gli interessi e la volontà delle comunità di riferimento. Essi sono in grado di esprimere sia la volontà di battersi contro le nuove “recinzioni”, sia la necessità di una partecipazione informata ai processi decisionali da parte delle comunità.

I nuovi beni comuni sono l’emblema anche delle nuove battaglie di libertà e di eguaglianza. I beni comuni sono invocati anche per sostenere alcune tesi politiche. Parlare delle frequenze radiotelevisive, di Internet, delle riserve naturali, della letteratura scientifica come di beni comuni significa di fatto sostenere che queste risorse appartengono al popolo di una nazione ( o a distinte comunità d’interesse), e che quindi il popolo dovrebbe avere l’autorità legale per controllare quelle risorse. Parlare dei beni comuni significa dire che i cittadini ( o le comunità di utenti) sono i soggetti primari, al di sopra e prima degli investitori, e che questi interessi di comunità non sono necessariamente in vendita[7].

Ma essi sono una novità giuridica oppure una rievocazione del passato? A ben vedere i beni comuni non sono una mera scoperta giuridica: rappresentano invece una ri-scoperta.  La discussione giuridica e civile è divenuta particolarmente effervescente soprattutto dal referendum sull’acqua pubblica del giugno 2011, tuttavia, come sostiene Rodotà, l’accento sui beni comuni sembra essere più un cambio di paradigma che una scoperta giuridica[8]. La specialità della relazione istituita dai beni comuni risiede, perciò, nell’idoneità dei beni comuni, storicamente accertata attraverso il raccordo con i diritto fondamentali, a soddisfare i bisogni della persona costituzionalizzata. La modernità del concetto di «beni comuni» sta proprio in questo intreccio tra beni comuni e diritti fondamentali, capace di produrre poteri personali e determinare precondizioni necessarie per l’effettiva partecipazione al processo democratico. Il comune riflette la via di mezzo tra Stato ed individuo, tra proprietà pubblica e privata, necessariamente collegabile alla dimensione storica della proprietà collettiva.

3. PERCORSI STORICI DELLA PROPRIETA’ COLLETTIVA

Il discorso sui beni comuni non può prescindere dalla scoperta delle sue radici storiche. E, sintetizzando il problema, non si può parlare di diritti di ogni uomo se non si tiene presente il necessario «vivere in comunità» dell’uomo stesso.

Il concetto di res communes omniun (beni comuni a tutti) era già caro ai giuristi romani. Per Elio Marciano, il fondamento di questa categoria giuridica è dato da una qualificazione negativa e cioè dal non poter impedire ad alcuno l’uso di tali beni (acqua, aria, mare) a differenza, invece, dei beni pubblici (res publicae) che, pur non appartenendo al patrimonio di qualcuno, sono imputabili all’universalità dei cittadini. Diverse ancora erano poi le res nullius, ossia le cose che sebbene non appartenevano a nessuno, potevano ricadere potenzialmente (mediante occupazione ad esempio) nella proprietà di qualcuno.

Fu però con lo sviluppo di Roma che si cominciò ad instaurare il rapporto di appartenenza del territorio al popolo, e cioè di una «proprietà collettiva», che è insita nella «somma dei poteri sovrani» spettanti al popolo[9]. In tale contesto sorge quindi la «comunità politica» nella quale il territorio appartiene al popolo.

Non c’è dubbio quindi, che la prima forma di appartenenza fu la «proprietà collettiva», mentre è sbagliato parlare di «proprietà privata» come proprietà romana. Inoltre, la «proprietà collettiva» implica non il potere di disporre del bene, ma solo la facoltà di un suo «uso» corretto e condiviso in modo pari con tutti gli altri consociati, al fine di «conservare» il bene stesso per la presente e le future generazioni. Al contrario, la «proprietà privata» comporta la sottrazione a tutti di una parte del territorio per cederlo a un singolo con la facoltà di «alienarlo» ad altri o di «goderne» in modo «pieno» (fino alla distruzione della cosa) ed «esclusivo», cioè escludendo da questo godimento tutti gli altri consociati[10]. In questo senso può essere inteso come un diritto lesivo dei diritti collettivi di tutti i consociati alla conservazione del «territorio». Dal precedente storico poco considerato della «proprietà collettiva romana» si può poi passare a quella che è la forma di proprietà collettiva medievale, molto significativa in Europa. La frammentarietà statualistica medievale, unita al particolarismo giuridico delle fonti e all’assenza del principio della territorialità a tutto vantaggio di quello della personalità, creava un diritto prodotto ed applicato per così dire “dal sotto in su”. Fu proprio contro questo pluralismo che si scontrò per secoli la pretesa assolutistica dei nuovi sovrani statuali, interessati a far rivivere un concetto di sovranità politica coincidente con il monopolio dall’alto sulla produzione del diritto. L’asserzione della sovranità politica “dall’alto in basso”, con il relativo monopolio del diritto, fu un processo politico di importanza epocale, caratterizzato sempre – indipendentemente dai suoi esiti – da un’impressionante dose di violenza nei confronti di quanti resistevano per difendere l’ordine antico[11] . Occorre altresì riconoscere, tuttavia, che la resistenza maggiore alla modernizzazione e all’assolutismo statuale fu condotta ( ed ancora oggi si conduce in alcune parti del globo) proprio in difesa di quei beni comuni che nell’ordinamento giuridico medievale costituivano oltre che una base di forte sostentamento di contadini ed artigiani, anche un sistema politico partecipato e legittimo di autogoverno.

Il territorio medievale nel quale si realizzava il sistema proprietario era costituito da un insieme di beni comuni funzionali tanto all’esistenza umana quanto alla sua riproduzione: il bosco, i fiumi, i torrenti, la città che offriva protezione con le cinte murarie, le chiese.

Engels descrive, a tal proposito, l’efficiente struttura agricola comunitaria delle tribù germaniche (la Marca tedesca) in cui il contadino coltiva la terra assegnatagli insieme agli altri assegnatari e ha esclusivo diritto al primo raccolto per la stagione in cui la terra spetta al suo gruppo. Ma chiunque, sempre, dopo la trebbiatura può entrare nel campo a spigolare, proprio come chiunque può accedere al bosco per trarne sostentamento. L’«avere» in comune non era distinguibile dall’«essere» in comune[12]. Il contadino in questo modo instaura un rapporto ecologico con la comunità in cui vive.

“Far rivivere il comune significa quindi rivalutare l’intelletto generale, ucciso dalla modernità e dalla logica dell’accumulo. Una necessità oggi drammatica per la stessa esistenza del nostro pianeta” afferma il giurista Ugo Mattei.

Tuttavia, il benevolo modello di proprietà collettiva è ben presto destinato ad essere fagocitato dal nuovo sistema proprietario che assume come meta moderna il paradigma della proprietà individuale: le esperienze storiche che confermano ciò sono le «enclosures» inglesi e la «conquista» del nuovo mondo.

La più grande opera di recinzione dei beni comuni, in Europa, si svolge in Inghilterra, ossia nel Paese che agli albori della modernità aveva raggiunto  il più alto tasso di centralizzazione statuale in Europa[13]. E, proprio le enclosures inglesi costituiscono l’effetto più forte del binomio anticommons Stato-proprietà privata.

E’ risaputo che la Magna Charta del 1215 costituisce, secondo l’opinione degli studiosi, il primo documento costituzionale dell’Occidente perché di fatto  poneva dei limiti al governo del re e alle prerogative assolutistiche della Corona, positivizzando un primo nucleo di diritti e di garanzie a tutela della libertà dei sudditi. Molto meno famoso è, invece, il documento che la integrò a partire dal 1255, noto come Charter of the forest, che garantiva i beni comuni di quella parte dei sudditi[14] di sua maestà (la stragrande maggioranza) che non godeva di ricchezza e di proprietà privata. La Charter garantiva al popolo l’accesso libero alle foreste e all’uso dei beni comuni in esse contenuti (legname, frutta, selvaggina, acqua ecc.) contro le pretese di chiunque, sovrano incluso, di riservarle a se stesso per la cacciagione e lo svago. Questa precoce testimonianza dell’importanza dei beni comuni, che li collocava sullo stesso piano costituzionale della proprietà privata in uno dei più antichi e prestigiosi documenti fondativi della tradizione giuridica occidentale, non solo è oggi dimenticata, ma la garanzia costituzionale dei commons è stata probabilmente la disposizione di un testo costituzionale più disattesa della storia[15]. Eppure il diritto al godimento in comune da parte degli uomini liberi dei territori rurali, dimostra come già nel Duecento in Inghilterra fosse assolutamente radicata l’idea di una «terza dimensione» proprietaria. Del resto, attribuire valore normativo alla sola Magna Charta, trascurando invece quello della Charter of Forest significa rifiutare la categoria del «comune» all’interno del dibattito costituzionalistico

Dalla disamina storica in questione si può comprendere come i protagonisti della realtà politica pre – recinzioni fossero tre : il sovrano, considerato il proprietario «eminente» di tutto il territorio nazionale; i signori, a tutti gli effetti grandi proprietari privati; i commoners, ossia gli utilizzatori di quelli che erano beni comuni.  Tre modelli di proprietà perfettamente in sintonia: proprietà pubblica, proprietà privata, beni comuni.

Dopo la violenta introduzione delle enclosures, invece, i modelli proprietari rimasero per sempre due, ossia quello dello Stato sovrano e quello della proprietà privata. Per il liberalismo costituzionale lo Stato rappresenta il pubblico, mentre la proprietà, paradigma del privato, è fondativi del “mercato”. Probabilmente, riconoscere il valore costituzionale al diritto dei beni comuni, così come delineato dalla Charter of Forest, risultava difficilmente accettabile dalla dottrina liberale che vedeva nella libertà  e nella proprietà privata individuale le basi della società civile borghese.

“Proprietà privata e sovranità statuale sono cioè figlie di una logica economica che emarginando il comune cancella la logica ecologica e umilia l’intelligenza generale, producendo soltanto pensiero unico: la logica implacabile dell’accumulo del capitale”[16]. Le enclosures diventano l’archeotipo delle privatizzazioni: i contadini venivano cacciati dai campi, le foreste furono chiuse, la spigolatura vietata. La raccolta di legna e di frutti furono punite come furto. La fine del mondo contadino contribuisce così a formare una vasta riserva di manodopera a basso costo, che favorirà la rivoluzione industriale.

La politica coloniale nel Nuovo mondo, la conquista ed il saccheggio delle Americhe, garantirà poi il carburante necessario a tale rivoluzione ed il decollo del capitalismo occidentale, totalmente fondato sulla privatizzazione.

Per Locke e molti altri, gli indiani, non conoscendo la proprietà privata, dimostrano di essere selvaggi ed è perciò nel loro stesso interesse che si compie la conquista. La metafora del comune come luogo del disordine per eccellenza, sottoposto alla brutalità e all’egoismo dell’uomo, diventa la narrativa dominante da Hobbes fino ad Hardin. Il territorio indiano, bene comune degli indigeni, viene così qualificato giuridicamente terra nullius e, in quanto tale, liberamente occupabile secondo il diritto di natura. Lo sterminio ed il saccheggio che seguirono alla mercificazione di beni comuni altrui trovarono nei padri fondatori del liberalismo non solo gli apologeti ma anche gli istigatori, in nome di quella ossessiva produttività economica che ancora oggi assilla il nostro diritto.

4. IL COMUNE CHE RESISTE: “GLI USI CIVICI”

In Italia, quelle che il giurista Giacomo Venezian chiamò le “reliquie della proprietà collettiva” (1887) sono ancora ben presenti, nonostante i ripetuti tentativi di cancellarle. Questi residui storici di proprietà collettiva sono gli usi civici. Da un censimento Istat dell’agricoltura (2010) le sole terre di uso civico date in gestione a enti ad hoc sono oltre un milione di ettari.

Gli usi civici sono diritti perpetui spettanti ai singoli membri di una collettività (comune, associazione) come tali, su beni appartenenti al demanio, o a un comune, o a un privato. Si parla di uso perché il diritto in esame si manifesta in attività relative al godimento del bene, mentre l’aggettivo civico indica che tale godimento spetta ai componenti della collettività di riferimento, in quanto cittadini. La materia è oggi regolata dalla legge n.1766 del 16.6.1927 che indica due tipologie di diritti di uso civico: i diritti di uso e di godimento su terre di proprietà privata e quelli su terre di proprietà collettiva (demanio civico). Mentre i primi sono soggetti a liquidazioni mediante risarcimento in denaro o in terra a favore della comunità, i secondo sono stati fortemente valorizzati e sottoposti alla normativa di tutela dell’ambiente e del paesaggio, prevedendosi oltre all’eventuale diritti di enfiteusi anche la possibilità per i singoli membri della comunità di riscattarle. Il contenuto di questi diritti è assai vario (di qui anche la varietà delle denominazioni): facoltà di pascolo, di alpeggio, di far legna, di raccoglier fronde o erba, di spigolare, perfino di seminare. L’attualità di essi è evidenziata dalle tante tipologie esistenti risultanti dall’indagine empirica: le partecipanze in Emilia, le comunanze agrarie nelle Marche e in Umbria, le consorterie valdostane, le magnifiche comunità quella di Fiemme, le interessanze del Trentino. Proprietà comune, uso condiviso e auto-organizzazione sono caratteristiche abituali di queste comunità, dove la costanza delle consuetudini, spesso tramandatesi oralmente, è più forte di ogni norma scritta[17].

Si tratta di una gestione partecipata da parte di tutti coloro che usufruiscono del bene, che si pone l’esigenza di garantirlo anche alle future generazioni, attivando una capacità di salvaguardia ed estendibilità del bene stesso, senza che sulle terre sottoposte ai vincoli degli usi civici vi sia un controllo pubblico o privato che sia, in definitiva un diverso concetto di proprietà[18].

La forma di proprietà collettiva degli usi civici è fondamentale per comprendere il concetto di beni comuni. Ci permette di mettere in luce come un’altra forma di proprietà possa coesistere e convivere con quelle già esistenti: la proprietà pubblica e la proprietà privata. In un contesto di globalizzazione economica dominata da un liberismo esasperato, parlare di usi civici significa parlare di un nuovo e moderno modello di sviluppo sociale in perfetta coerenza con la tutela dell’ambiente (e non solo) delineata dalla nostra Costituzione.

Non si può infatti non ritenere tali usi civici, sia per la particolare capacità di attuare una gestione ecologica ed ecostostenibile della proprietà in piena attuazione dell’articolo 9 della Costituzione (nella misura in cui tutela il paesaggio), sia per il bagaglio di conoscenze culturali in dotazione delle comunità che le mette in pratica, sia per lo spirito comunitario che innescano in piena attuazione dei principi personalistici e solidaristici della nostra Carta costituzionale, dei veri diritti fondamentali, “vecchi e nuovi, di prima, seconda e terza generazione, a seconda delle prospettive che si adottano e si adattano alla evoluzione degli ordinamenti giuridici, complessivamente intesi”[19].

Come ha scritto Paolo Grossi, se molti usi civici sono ancora “restati intatti fino a noi malgrado l’accanita persecuzione subita dal Settecento in poi, è perché, con altrettanto accanimento, sono stati sempre difesi dalle popolazioni come parte integrante e profonda del loro costume di vita, strettamente legata alla fisionomia della stessa comunità”[20].

La categoria degli usi civici, infatti, così come quella dei beni comuni, non è mai stata di semplice schematizzazione giuridica.

Le difficoltà di far rientrare tale categoria giuridica nel codice civile sono evidenti: in prima approssimazione, infatti, si potrebbe affermare che l’uso civico sia un diritto d’uso su un bene altrui, se non fosse che l’uso è per definizione un diritto temporaneo e quindi non trasferibile, mentre gli usi civici sono perpetui e si trasferiscono di generazione in generazione. Inoltre, mentre il diritto di uso è a contenuto generale, potendo il suo titolare svolgere in ordine alla cosa tutte le attività che reputi più opportune, l’uso civico è a contenuto particolare, in quanto deve risultare sempre compatibile con la destinazione del bene e non ne può snaturare le caratteristiche intrinseche. Infine, è evidente che l’usurario può escludere i soggetti terzi dal godimento del bene, mentre il titolare di un uso civico gode del bene insieme al titolare della proprietà e ad altri soggetti che vantano un medesimo diritto di godimento rispetto al medesimo bene[21]. Insomma, gli usi civici hanno un effetto «perturbante» nell’ordinamento civilistico perché scardinano il principio di tipicità dei diritti reali e perché, soprattutto, mettono in crisi il giurista positivo, affezionato ad una visione binaria del sistema proprietario, incapace di cogliere una terza dimensione collettivistica e comunitaria.

Tuttavia gli usi civici, come apripista per la tutela dei beni comuni, hanno una inevitabile rilevanza costituzionale (sent. Corte Costituzionale n. 67 del 1957). Dalle sentenze della Consulta (circa un’ottantina sul tema) “emerge, in pieno, il legame fondamentale tra storia, Costituzione, usi civici e proprietà collettive nonché le loro peculiarità come diritti puri da custodire-preservare-promuovere e come diritti originari/pre-esistenze, testimoni dell’umanità del diritto e dei diritti. L’uso civico è l’occupatio primaeva di Carl Schmitt, la terra, il suolo, lo spazio, il diritto e i diritti”[22]. Gli usi civici e le proprietà collettive, discostandosi da una loro relazione oggettiva, possono essere annoverati proprio nel quadro delle situazioni giuridiche soggettive ovvero dei diritti (misti) di libertà, individuali e collettivi, ovvero ancora, mutuando l’espressione da autorevole dottrina, nel diritto degli individui. Gli usi civici sono presenti nel connubio inestricabile tra valori e principi costituzionali, già a partire dalla vecchia logica dei diritti pubblici soggettivi e dei diritti civici, ora diritti democratici e lavoristi ex art. 1 Cost., forme di esercizio della sovranità popolare (diritti di sovranità), diritti fondamentali (personali, pluralistici e solidaristici) ex art. 2 Cost., diritti di eguaglianza, formale e sostanziale, ex art. 3 Cost., diritti di autonomia (e sovranità) ex art. 5 Cost., diritti delle minoranze ex art. 6 Cost., diritti laici ma anche ecclesiastici (con il relativo demanio esterno) ex artt. 7 e 8 Cost., diritti ambientali e culturali ex art. 9 Cost., in uno Stato di (multi)cultura, diritti comuni(tari) e diritti umani ex artt. 10 e 11 Cost.

Hanno, dunque, una molteplice dimensione, a un tempo, personalista, pluralista, comune, solidarista, collettiva, civica, cooperativa, territoriale, frazionale, sussidiaria, storica, giuridica, politica, sociale, comparata, urbanistica, turistica, forestale, archeologica, etnologica, antropologica, culturale (e via dicendo)[23]. La Corte Costituzionale ha stabilito poi con la  sentenza n. 156 del 1995, che gli usi civici sono strumenti di conservazione della forma originaria del territorio e, quindi, strumenti di tutela dell’ambiente. Ancora, con la sentenza n. 310 del 2006, i giudici costituzionali hanno previsto che la disciplina statale di riferimento tende a garantire l’interesse della collettività generale alla conservazione degli usi civici  contribuendo ad una vera tutela ambientale partecipata.

Considerando anche l’ampio risalto dato dalle nuove costituzioni sudamericane (Bolivia ed Ecuador)  ai valori posti a fondamento della disciplina degli usi civici, lo sviluppo straordinario dell’eco-diritto, della rilevanza costituzionale attribuita alle consuetudini delle realtà geografiche locali, dei gruppi etnici e delle comunità in genere, il paradigma evolutivo proprietà collettive- usi civici – beni comuni rappresenta un asse fondamentale nella riconsiderazione della proprietà in un’interpretazione costituzionalmente orientata. Per questo essi si pongono come diritti fondamentali funzionali alla realizzazione della persona sia come singolo sia nelle formazioni sociali «ove si svolge la sua personalità» ex art.2 Cost.

Da questo si deduce, quindi, che “un altro modo di possedere” non solo è possibile, ma è necessario per realizzare i principi fondamentali della nostra Costituzione.

5. LA DICOTOMIA PUBBLICO/COMUNE NELLA SOCIETÀ GLOBALIZZATA

Quello che per Ugo Mattei può far intendere  un nuovo Medioevo, altro non è che un processo di depotenziamento del diritto a tutto vantaggio del potere tecnocratico. L’effervescenza di multinazionali e potenti gruppi finanziari a livello internazionale e nazionale fa si che nuovi soggetti sovrani globali si rendano produttori diretti ed indiretti del diritto. Il loro atteggiarsi influenza le politiche nazionali saccheggiando e depredando beni comuni e proprietà collettiva.  La commistione pubblico/privato è palesemente visibile in alcune politiche di spossessamento del comune a livello globale, incoraggiate dalla Banca mondiale e condotte in cooperazione con Stati e multinazionali: esemplare è il caso della celebre “guerra dell’acqua” di Cochabamba, in Bolivia, nonché la lotta per la difesa della terra dei campesinos in Chiapas, costituente la prima lotta politica per i beni comuni con l’insurrezione zapatista.

Tuttavia è proprio a causa di questa politica “imprenditoriale” che fa dello spossessamento e della privatizzazione le due armi principali, che riemerge in tutta la sua dirompenza la necessità del comune e, quindi, di un diritto dei beni comuni. È proprio questa aggressione a far sviluppare una coscienza globale capace di ridurre ad unità luoghi all’apparenza quanto mai distanti, come le lotte contadine per la terra, quelle metropolitane per l’acqua, per l’ambiente e per la mobilità sostenibile; e ancora quelle per l’università o per la sanità pubblica, quelle contro le grandi infrastrutture ed il nucleare, o quelle sempre più importanti e violente per il libero accesso alla Rete e all’informazione. Questi luoghi distanti divengono così luoghi comuni. L’attacco e la distruzione dei beni e dei luoghi comuni provocano la consapevolezza della loro esistenza, troppo spesso data per scontata e mai apprezzata finché essi non vengono distrutti[24].

6. LA RIFORMA PROPRIETARIA NEL CASSETTO: LA PROPOSTA DELLA COMMISSIONE RODOTA’

Tra i massimi promotori del comune in Italia vi è sicuramente Stefano Rodotà, illustre giurista e anche Presidente della Commissione sui beni pubblici istituita con decreto del ministro della Giustizia del 21.6.2007 avente l’obiettivo di elaborare uno schema di legge di delegazione[25] al Governo per la modifica delle disposizioni del codice civile in materia proprietaria. Lo schema aveva tre obiettivi precisi: a) ripensare la disciplina di riferimento in materia di beni pubblici; b) ripensare la classificazione dei beni pubblici in ragione della loro natura economico-sociale, a differenza di quella tradizionalmente collegata all’idea di demanio e del patrimonio indisponibile; c) ricondurre quella parte del codice civile che riguarda i beni pubblici ai principi fondamentali della Costituzione, collegando le utilità dei beni alla soddisfazione dei diritti della persona. Inoltre, il disegno di legge delega doveva riformare l’art. 810 c.c. distinguendo i beni in tre categorie distinte, ossia i beni comuni, i beni pubblici e i beni privati. Per la Commissione i beni comuni sono quei beni che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona. I beni comuni devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future. Titolari di beni comuni possono essere persone giuridiche pubbliche o privati. In ogni caso deve essere garantita loro la fruizione collettiva, nei limiti e secondo le modalità fissati dalla legge. Quando i titolari sono persone giuridiche pubbliche i beni comuni sono gestiti da soggetti pubblici e sono collocati fuori commercio; ne è consentita la concessione nei soli casi previsti dalla legge e per una durata limitata, senza possibilità di proroghe (art.1, comma terzo, lettera c, del disegno di legge).

Rientrano in tale categoria, sempre secondo la Commissione Rodotà, i torrenti, i fiumi e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque, l’aria, i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati di riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali e ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate. Tale disciplina avrebbe dovuto essere oggetto di una specifica armonizzazione normativa con quella già vigente e riguardante gli usi civici, mentre per quanto concerneva la tutela giurisdizionale dei suddetti beni la legittimazione ad agire sarebbe sorta in capo a chiunque ne avesse avuto interesse e cioè in capo a tutti i cittadini che, astrattamente, avrebbero potuto godere direttamente dei beni in questione[26]. In sintesi, sono considerati, nel disegno in esame, tutti quei beni funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo della personalità dei cittadini. Essi sarebbero dovuti essere a titolarità diffusa, gestiti ed amministrati in maniera partecipata e secondo il principio di solidarietà; ma, soprattutto, non avrebbero potuto essere sottoposti a nessun tipo di gestione privata. Un riferimento costituzionale importante per tale riforma sarebbe stato l’art. 43 Cost. il quale ribadisce che “a fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.

Come sottolinea A. Ciervo, l’art. 43 Cost. è stato poco considerato, sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza; esso, infatti, avrebbe dovuto svolgere, secondo i Costituenti, una duplice funzione, garantista e interventista per quanto concerne il ruolo dello Stato nell’economia. In particolar modo, i monopoli privati o, comunque, la gestione privata delle fonti di energia e dei servizi pubblici essenziali, ostacolerebbero la realizzazione di quei “fini di utilità generale” che devono essere letti in combinato disposto con l’art. 3 Cost., secondo comma[27].

La stessa Corte Costituzionale ha avuto occasione di confermare questa interpretazione quando, nella sentenza n. 58/1965, al punto 4 del “Considerato in diritto”, riconosce che la funzione del suddetto articolo consista nella “eliminazione della eventualità che il privato, col peso della propria impresa (…) possa direttamente e profondamente influire su interi settori economici con le conseguenze di ordine politico e sociale che a tale influenza sono connesse”.

Ma al di là della funzione interventista e garantista svolta dall’art.43 Cost. per realizzare un’eguaglianza sostanziale, la disposizione sembra rivalutare quella funzione di gestione dei beni pubblici di tipo cooperativo e non necessariamente statale. Difatti, esso aprirebbe alla deprivatizzazione di determinate imprese, in particolari settori in cui sarebbe comunque necessaria una qualche forma di controllo democratico. Il connubio de-privatizzazione/socializzazione verrebbe a delinearsi nella parte in cui l’art. 43 della Costituzione prevede, oltre allo Stato e agli enti pubblici, anche “le comunità di lavoratori o di utenti” tra quei soggetti, melius formazioni sociali, incaricati dallo Stato di gestire in modo cooperativo detti beni. Come rendere però applicabile l’art.43 della Costituzione in una realtà quale quella odierna caratterizzata da particolari logiche privatistiche dominanti del mercato e della concorrenza? Lo stesso processo di integrazione europea, infatti, ha reso più complesso applicare l’art.43 della Costituzione perché “in un progressivo quadro di erosione della sovranità statuale, a vantaggio dell’ordinamento comunitario (…) è ormai il diritto europeo a stabilire in quali casi è eccezionalmente ammesso il conferimento di diritti speciali ed esclusivi a uno o più operatori”[28]. Probabilmente è stato però proprio l’esito del referendum del giugno 2011 contro la privatizzazione dell’acqua, ad attribuire all’art.43 della Costituzione un nuovo significato, una nuova possibile interpretazione.

In ogni caso, concludendo la disamina sul disegno di legge delega promosso dalla Commissione Rodotà, oltre ai beni comuni ed ai beni privati, veniva in quella sede riformulata anche la concezione tradizionale dei beni pubblici (demanio, patrimonio disponibile ed indisponibile) secondo tre fattispecie:

  • beni ad appartenenza pubblica necessaria, perché “a titolo di sovranità”. Sono essenziali per l’adempimento di finalità costituzionali di interesse primario come i “servizi pubblici essenziali” (art. 43 Cost.), e pertanto inalienabili (piazze, strade, autostrade e ferrovie, porti e aeroporti, spiagge, acquedotti, opere di difesa nazionale;
  • beni pubblici sociali, vincolati alla soddisfazione di diritti civili e sociali della persona. Vi rientrano ospedali e scuole pubbliche, musei, abitazioni sociali, tribunali, reti di servizi pubblici, e pertanto sono vincolati a specifiche destinazioni d’uso;
  • beni pubblici fruttiferi, che appartengono a soggetti pubblici, ma in regime di “proprietà privata” in quanto destinati a produrre introiti, e devono perciò essere opportunamente gestiti o dati in gestione, ma possono anche essere alienati. In ogni caso, il corrispettivo ricevuto dovrà essere necessariamente investito nel c.d. Welfare State.[29].

7. CONCLUSIONI

Da quanto si è sinora esposto, sia recependo gli orientamenti giurisprudenziali[30], sia volgendo lo sguardo alla dottrina, si è avuto modo di rileggere il sistema proprietario rintracciando il fondamento giuridico dei beni comuni nella loro capacità di esprimere utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali che la stessa Costituzione riconosce e garantisce. Essi costituiscono una forma moderna di proprietà collettiva, poiché di essi la collettività ha l’effettivo godimento, mentre l’appartenenza al potere pubblico è finalizzata alla costituzione, conservazione, disposizione delle utilità collettive e collaterali e della gestione del bene. Diversamente dai beni pubblici, per i beni comuni si prescinde dalla titolarità, essendo decisivo l’ordine di fruizione del bene. “E tutto questo viene proiettato nella dimensione della cittadinanza, per il rapporto che si istituisce tra le persone, i loro bisogni, i beni che possono soddisfarli”[31].

Il comune rifiuta la concentrazione del potere a favore della sua diffusione. Il comune ha come modello un ecosistema, ossia una comunità di individui o di gruppi sociali legati fra loro da una struttura a rete; esso rifiuta più in generale l’idea gerarchica, a favore di un modello collaborativo e partecipativo che non conferisce mai potere ad una parte rispetto ad altri elementi del medesimo tutto. In questo senso il comune rifiuta la logica del potere tout court a favore di quella ben diversa della partecipazione.

Orbene, queste modalità di gestione e di proprietà sono fondamentali perché riguardano le modalità di costruzione della società, dove i diritti fondamentali e i mezzi per realizzarli assumono responsabilmente una “nuova” ma forse vecchia (se si considera che tutto questo rientra negli obiettivi del Costituente del ’48) centralità, come elementi costitutivi della persona e della sua cittadinanza.

Attraverso questo legame tra diritti fondamentali e beni comuni, si sfugge altresì dalla dicotomia diritti e doveri, sostituita dal più umano e civile binomio costituito da pienezza della vita individuale e responsabilità sociali condivise. La solidarietà ritrova così la sua funzione di principio costitutivo della convivenza. Una rivoluzione giuridica del sistema proprietario che riporta al centro del diritto l’essenzialità dell’essere rispetto all’avere, la persona ed il costituzionalismo dei bisogni.


[1] F. CASSANO, Homo civicus. La ragionevole follia dei beni comuni, Bari, 2004.
[2] U. MATTEI.,I beni comuni fra economia, diritto e filosofia, in Spazio filosofico, 2013, p. 112.
[3]  La frase costituirà poi il titolo del fortunato libro di Paolo Grossi, “Un altro modo di possedere” – L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Milano, 1977.
[4] P.GROSSI, Il problema storico-giuridico della proprietà collettiva in Italia, in F.Carletti (a cura di), Demani civici e risorse ambientali, Napoli, Novene, 1993, p.7.
[5] G.CORONA. Declino dei commons ed equilibri ambientali. Il caso italiano tra Otto e Novecento, in “Società e Storia”, Franco Angeli, 2004, p.380.
[6] C.HESS, E.OSTROM (a cura di), La conoscenza come bene comune, Milano, Mondatori, 2009, pp. 5-6.
[7] D.BOLLIER, Lo sviluppo del paradigma dei beni comuni, in C.Hess, E.Ostrom, La conoscenza come bene comune, cit., pp.32-33.
[8] S.RODOTÁ, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, Bologna, Il Mulino,  2013, p. 477.
[9] P.MADDALENA, Per una teoria dei beni comuni, da MicroMega del 9/2013.
[10] Ibidem.
[11]U. MATTEI. Beni comuni. Un manifesto, Bari, Editori Laterza, 2012, pag.11.
[12] Ivi, p.28.
[13] Ivi, p.32.
[14] Letteralmente l’art.17 della Carta si riferiva a tutti gli uomini liberi (every free man).
[15] Ivi, p.33.
[16] Ivi, p.34.
[17] S. SETTIS, Azione popolare. Cittadini per il bene comune, Torino, Einaudi 2012, p.70.
[18] http://accessoallaterra.blogspot.it/p/gli-usi-civici-una-diversa-forma-di.html, ultima consultazione 22 febbraio 2015.
[19] G. DI GENIO, Tutela e rilevanza costituzionale dei diritti di uso civico, Giappichelli, Torino, 2012.
[20] In “Annali di studi sulla proprietà collettiva”, n.1, 2008.
[21] A. CIERVO, I beni comuni, Roma, Ediesse, 2012, pp 60-61.
[22] G. DI GENIO, Tutela e rilevanza costituzionale dei diritti di uso civico, cit.
[23] G. DI GENIO, Tutela e rilevanza costituzionale dei diritti di uso civico, cit.
[24] Ivi, p.24.
[25] Il disegno di legge delega realizzato dalla Commissione Rodotà non è, comunque, mai giunto alla discussione parlamentare.
[26] A.CIERVO, I beni comuni, Roma, Ediesse, 2012, p.154.
[27] Ivi, p.155.
[28] A. LUCARELLI, Articolo 43, in Commentario alla Costituzione, I, a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Utet, Torino, 2006.
[29] S. SETTIS, Azione popolare. Cittadini per il bene comune, Torino, Einaudi 2012, p. 105.
[30] Su tutte, fondamentale è la sentenza numero 3665 del 15 febbraio 2011della Corte di Cassazione italiana, a Sezioni unite, nella quale è stato utilizzato utilizzato per la prima volta il concetto giuridico di «beni comuni» per risolvere una complessa questione avente ad oggetto l’accertamento del diritto di proprietà della Valle Averto in Veneto, una delle numerose valli da pesca che costituiscono la parte meridionale della Laguna di Venezia e che, formalmente, non era mai stata riconosciuta dallo Stato come bene demaniale. La sentenza impugnata aveva affermato la demanialità dell’intera laguna. La Corte di Cassazione ha risolto questa annosa questione, enunciando una importantissima massima giuridica:Dalla applicazione diretta (drittwirkung) degli artt. 2, 9 e 42 della Costituzione si ricava il principio della tutela della umana personalità e del suo corretto svolgimento nell’ambito dello Stato sociale, anche nell’ambito del «paesaggio», con specifico riferimento non solo ai beni costituenti, per classificazione legislativa codicistica, il demanio e il patrimonio oggetto della «proprietà» dello Stato, ma anche riguardo a quei beni che, indipendentemente da una preventiva individuazione da parte del legislatore, per loro intrinseca natura o finalizzazione, risultino, sulla base di una compiuta interpretazione dell’intero sistema normativo, funzionali al perseguimento e al soddisfacimento degli interessi della collettività e che – per tale loro destinazione, appunto, alla realizzazione dello Stato sociale – devono ritenersi «comuni», prescindendo dal titolo di proprietà, risultando così recessivo l’aspetto demaniale a fronte di quello della funzionalità del bene rispetto ad interessi della collettività.(...) Le valli da pesca configurano uno dei casi in cui i principi combinati dello sviluppo della persona (art.2 Cost.), della tutela del paesaggio (art.9 Cost.) e della funzione sociale della proprietà (art. 42 Cost.) trovano specifica attuazione, dando origine ad una concezione di bene pubblico, inteso in senso non solo di oggetto di diritto reale spettante allo Stato, ma quale strumento finalizzato alla realizzazione di valori costituzionali. Detta natura di tali beni (… ) ha la sua origine costitutiva nella legge quale ordinamento composto da una pluralità di fonti (in particolar modo la Costituzione), sulla base della sussistenza «all’attualità» di determinate caratteristiche (fisiche-geografiche) in concreto previste dal legislatore.
[31] S.RODOTÀ, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, Bologna, Il Mulino,  2013, p. 461.