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Pubbl. Ven, 3 Giu 2022

Nuovi fattori di rischio per il lavoro agile

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Ciro D´ambrosio
TecnicoNessuna



L’articolo esamina i possibili casi ed effetti derivanti dalle nuove modalità di organizzare e di rendere le prestazioni lavorative a seguito dell’ultimo vissuto emergenziale, intersecando la logica degli accadimenti con l’analisi della recente dottrina e giurisprudenza di riferimento.


ENG The article examines the possible cases and effects deriving from the new ways of organizing and rendering work services following the last emergency experience, intersecting the logic of the events with the analysis of the recent reference doctrine and jurisprudence.

Sommario: 1. Premessa; 2. Vecchi e nuovi rischi del lavoro agile; 3. Conclusioni.

1. Premessa

In piena ondata pandemica (aprile 2020) quando Eurofund aveva rilevato che il 37%[1] dei lavoratori europei svolgeva le sue attività da casa per contenere la diffusione del contagio era stata ammessa una concreta possibilità: “è anche più probabile che stiano lavorando più a lungo rispetto al passato e che perdano periodi di riposo adeguati[2]”.

Il tempo delle chiusure generalizzate dei luoghi di lavoro imposte su scala planetaria per ridurre la diffusione del contagio da Coronavirus (ad eccezione delle attività economiche essenziali) ha liberato “l’enorme potenziale non sfruttato per il lavoro flessibile” e si è candidato ad essere considerato il momento storico in cui “ogni lavoratore che è stato in grado di farlo ha iniziato a lavorare da casa, avviando un esperimento sociale di un tipo e su una scala mai vista prima[3]”. In Italia la nuova organizzazione del lavoro, più in ritardo che rispetto ad altri paesi europei, non è stata comunque da meno con i primi trimestri del 2020 in cui l’incidenza del lavoro da casa è salita vertiginosamente a 4,4 milioni[4].

Si tratta indubbiamente di una necessità che ha consentito, allo stesso tempo, di poter mantenere una certa continuità del lavoro e di poter gestire nuove esigenze familiari imposte anche dalla chiusura delle scuole ma l’effetto globale dominante è stato che il 27%[5] di smart workers europei è risultato al lavoro “nel tempo libero per soddisfare le richieste di lavoro”. Prima della pandemia il dato non era molto diverso: già “il 28% dei telelavoratori regolari lavorava spesso nel tempo libero, rispetto all'8% della forza lavoro nel suo complesso[6]”. In pratica, “portare il lavoro a casa”, organizzando vere e proprie postazioni di lavoro (da qui, home office[7]), ha creato una certa interferenza tra sfera professionale e sfera privata. L’indubbia utilità di veder accresciuta la conciliazione dei tempi di vita-lavoro (obiettivo dichiarato della moderna legislazione) è sembrato certamente un passo verso il futuro che però non si può esimere dall’indurre precise riflessioni in ordine agli effetti dettati dallo sviluppo dei modi di organizzare il lavoro e di rendere le attività.

Ad esempio, così come era noto che la maggiore flessibilità del lavoro può comportare un maggior rischio di incidenti e di malattie professionali[8] si è reso doveroso evidenziare che “lo smartworker, a causa della frammentazione della prestazione lavorativa nell’arco dell’intera giornata, abbia una diversa percezione dello svolgimento del lavoro rispetto al lavoratore in azienda e che, per effetto delle interruzioni dell’attività lavorativa, tenda a lavorare per un numero di ore nettamente superiore rispetto a quello richiesto dal contratto, con rischio di possibili gravi ripercussioni sulla propria salute derivanti dall’ invasione del tempo di lavoro nello spazio di vita privata e viceversa[9]”. In sintesi, il fatto di non avere tempi di lavoro certi o comunque prestabiliti secondo una reale programmazione autonoma unito a cambi improvvisi dell’organizzazione e del carico di lavoro scanditi da un’espansione tecnologia senza precedenti secondo il criterio di determinati risultati da raggiungere, ha tutte le potenzialità per generare un certo “stress da lavoro correlato[10]” prospettando una serie di effetti che si trovano oggi soltanto ad uno stadio embrionale.

2. Vecchi e nuovi rischi del lavoro agile

Lo spostamento delle attività lavorative in luoghi non protetti come quelli dei locali aziendali ha rinnovato l’attenzione verso condizioni del passato che sono tornate attuali: microclima, temperatura e illuminazione naturale e artificiale degli spazi, impianti elettrici e uso delle strumentazioni, sufficiente areazione degli ambienti, ergonomia e postura delle postazioni.

Si può parlare di “vecchi e nuovi rischi” per il lavoro agile. Oltre quelli degli ambienti indoor (interni) andrebbero considerati i rischi aggiuntivi che deriverebbero da quelli outdoor (esterni): esposizione alla radiazione solare e illuminazione naturale eccessiva per l’uso di strumenti a video, condizioni meteorologiche meno controllate, luoghi isolati e quindi a rischio di interventi. Si tratta di fattori tradizionali e fattori emergenti che già l’informativa Inail[11] del 2020 inerenti la questione della salute e sicurezza ha ritenuto porre come questioni da determinare in sede di valutazione dei rischi.

Si prospettano conseguenze per la salute del lavoratore, alcune delle quali più trasversali e a lungo termine, come l’esposizione prolungata a campi elettromagnetici derivante dai device di ultima generazione[12], mentre altre caratterizzate da ricadute più immediate e specifiche, come i rischi derivanti da ambienti non idonei o condizioni che possono avere forte attinenza sotto l’aspetto psicologico con conseguenze fisiche che variano “dalla fatica cronica alla depressione con insonnia, ansia, emicrania, sbalzi emotivi, ulcere di stomaco, allergie, disordini della pelle, lombaggini e attacchi reumatici, abusi di alcol e tabacco, attacchi cardiaci e addirittura suicidio[13]”. Alcune di queste possono derivare da particolari circostanze che sono generate dalle moderne prestazioni di lavoro da remoto, non tutte inquadrate in giurisprudenza ma presenti in dottrina, seppure sempre valutabili in ogni valutazione dei rischi[14].

Innanzitutto, ci sono quei lavoratori che svolgono la loro attività in una condizione prevalentemente solitaria dalla quale può derivare una sorta di disagio e un conseguente malessere (stress da lavoro da comprendere nel Documento di Valutazione dei Rischi [15]). In questa situazione si parla del rischio “working alone[16](lavoro in solitudine) che caratterizza l’isolamento dei lavoratori agili, da rilevare sulla base della soggettività di ciascun lavoratore ma che tendenzialmente è accentuata da minor contatto con i colleghi, mancato confronto rispetto alle decisioni e alle possibili soluzioni dei processi lavorativi, meno occasioni di condivisione delle problematiche e quindi di accrescimento della sicurezza personale, minore comprensione e adesione agli scopi del gruppo di lavoro e di appartenenza all’intera organizzazione.

L’erosione di contatti umani di tipo professionale può sviluppare un allontanamento deleterio per il lavoratore che secondo una visione più sociologica può causare “la sensazione di perdere informazioni importanti e di non avere accesso alle persone chiave dell’organizzazione, di essere escluso da quelle forme di conoscenza tacita che sono facilitate nelle interazioni faccia a faccia[17]”. Concepire i risvolti sociali del lavoro quale attività umana e sociale consente infatti di postulare un possibile senso di “alienazione” dato da un forte restringimento della socialità che può avere effetti negativi sul singolo individuo per la sua natura innata: “l’uomo è infatti un animale sociale, forse anche perché i primi uomini in epoca preistorica, rimanendo in gruppo, avevano maggiori probabilità di sopravvivere e tale influenza ambientale può aver comportato un maggiore sviluppo delle zone cerebrali che inviano impulsi negativi quando si è in solitudine generando sensazioni di incertezza e di pericolo. Il lavoro in solitudine può arrivare a farci sentire insicuri come se fossimo minacciati anche fisicamente[18]”. Per constatare il bisogno di socialità è possibile attingere ai più recenti eventi di flash mob, inni e riti che si sono susseguiti dai palazzi di molte città italiane, nel pieno della pandemia (marzo 2020).

3. Conclusioni

Solo ma con strumenti digitali perennemente connessi e ad elevata interattività. La contraddizione del lavoratore moderno scopre rischi crescenti che, in alcuni casi, hanno già avuto spazio in giurisprudenza: il “technology stress o tecnostress”, riconosciuto in una sentenza del 2007[19] e incluso nell’elenco Inail delle malattie professionali “non tabellate[20]” nel 2014. Definito per la prima volta come “malattia moderna causata dalla propria incapacità di far fronte o trattare le informazioni e le nuove tecnologie di comunicazione in modo sano[21]” è frutto di analisi  in contesti organizzativi in cui si sono rilevati livelli di stress superiori in relazione all’uso delle tecnologie e che le stesse prospettive analitiche dell’Inail lo considerano attribuibile a “una serie di fattori psicosociali tra cui capitale psicologico, sovraccarico di lavoro, conflitti interpersonali, ambiguità di ruolo, conflitto lavoro-famiglia, ansia, ruolo e insicurezza, processi cognitivi, conflitto di ruolo, sovraccarico di ruoli e violazione della privacy[22]”.

In quest’ottica, è facile rileggere alcuni atteggiamenti individuali, fra i più comuni dei lavoratori posti in modalità agile nel 2020, quali il controllo frequente e fuori orario dello smartphone, l’interruzione di qualsiasi attività, anche personale o familiare, al momento della ricezione di un’e-mail, e una continua tensione verso la postazione di lavoro ricreata nei luoghi privati. E proprio per il fatto di dover “vivere sempre online”, reso evidente nel momento di emergenza sanitaria, ha spinto lo stesso Parlamento Europeo a sollevare il problema generale a tutti gli stati membri con la risoluzione del 2021[23] (in ordine alla necessità di un “diritto alla disconnessione” in ambito europeo): “gli strumenti digitali utilizzati a scopi lavorativi possono creare una pressione e uno stress costanti, avere un impatto negativo sulla salute fisica e mentale e sul benessere dei lavoratori e condurre a malattie psicosociali o altre malattie professionali, come l'ansia, la depressione, il burnout, lo stress da tecnologia, disturbi del sonno e muscoloscheletrici[24]”.

Un’iperconnettività da “tecnostress” unita all’occorrenza di lavorare “in solitudine” senza orari prestabiliti, spazi di lavoro integrati con quelli della quotidianità e carichi di lavoro eccessivi o ambiziosi ha posto il problema del “working everytime” e dunque del superlavoro (“overworking”) in particolare per le “persone che già tendono ad essere work addicted, ovvero abbiano sviluppato una dipendenza patologica dal lavoro (workaholism), che nei casi estremi può essere molto simile ad una dipendenza da sostanze[25]”. La sensazione di “non riuscire a staccare” può trascendere sino al punto di un esaurimento delle risorse piscofisiche del lavoratore e che può accostarsi alla sindrome da “burnout” già riconosciuta a livello internazionale[26]. La situazione transitoria del 2020 sulla base della quale ha preso forma l’impegno del Parlamento Europeo già citato (21 gennaio 2021) ha considerato proprio queste situazioni che hanno esposto i lavoratori “a uno stress aggiuntivo legato al lavoro e hanno reso meno netti i confini tra lavoro e vita privata[27]come basi da cui partire per riconoscere nuove tutele da concretizzare nel “disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro[28]”.


Note e riferimenti bibliografici

[1] European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions (Eurofound), “Living, working and COVID-19: First results - April 2020”, Dublino, 28 settembre 2020.

[2] Oscar Vargas Llave (Eurofound), COVID-19 unleashed the potential for telework – How are workers coping?, pubblicato sul sito Eurofound il 9 giugno 2020, (Fonte: https://www.eurofound.europa.eu/).

[3] Le citazioni sono contenute nell’articolo di Oscar Vargas Llave (Eurofound), COVID-19 unleashed the potential for telework – How are workers coping?, pubblicato sul sito Eurofound il 9 giugno 2020, (Fonte: https://www.eurofound.europa.eu/).

[4] Aa.Vv., Il mercato del lavoro 2020. Una lettura integrata, Istituto nazionale di statistica, Roma, ISBN 978-88-458-2040-3.

[5] European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions (Eurofound), “Living, working and COVID-19: First results - April 2020”, Dublino, 28 settembre 2020.

[6] Agnès Parent-Thirion, Isabella Biletta, Jorge Cabrita, Oscar Vargas, Greet Vermeylen, Aleksandra Wilczynska and Mathijn Wilkens, (Eurofound), Sixth European Working Conditions Survey – Overview report (2017 update), Publications Office of the European Union, 2017, ISBN 978-92-897-1596-6.

[7] Il termine è descritto nel dizionario online della Cambridge University Press (2021) come una stanza o un’area dell’abitazione adibita alle attività lavorative (Fonte: https://dictionary.cambridge.org/).

[8] Si fa riferimento ai dati della ricerca Eurispes-Ispesl “Incidenti sul lavoro e lavoro atipico”, 2003, Roma.

[9] Luca Mannarelli, La tutela INAIL del lavoratore agile, Annali del 2018 del Dipartimento Jonico – Università degli Studi di Bari “A. Moro”, Edizioni Djsge, ISBN 978-88-9428103-3

[10] L’Accordo Europeo sullo stress da lavoro-correlato risale all’8 ottobre 2004 tra il sindacato europeo (Ces) e le tre organizzazioni datoriali europee (Unice, ora BusinessEurope, Ueapme e Ceep) ed è stato recepito in Italia con l’Accordo interconfederale del 9 giungo 2008 tra Confindustria, Confapi, Confartigianato,  Casartigiani, Claai, Cna, Confesercenti, Confcooperative, Legacooperative, Agci, Confservizi, Confagricoltura, Coldiretti, Cgil, Cisl, Uil, in cui si definisce lo stress lavoro-correlato come una “condizione, accompagnata da sofferenze o disfunzioni fisiche, psichiche, psicologiche o sociali, che scaturisce dalla sensazione di non essere in grado di rispondere alle richieste o di non essere all’altezza delle aspettative”.

[11] Dalla pagina web disponibile sul sito Inail del 12 giugno 2020 “Coronavirus - fase 3: ulteriori disposizioni attuative per il contenimento dell'emergenza in tutta Italia. Lavoro agile” disponibile al sito web https://www.inail.it/).

[12] ll rischio da campi elettromagnetici appartiene alle radiazioni non Ionizzanti e previsto al Capo IV – “Protezione dei lavoratori dai rischi di esposizione a campi elettromagnetici” del Decreto Legislativo n. 81 del 9 Aprile 2008 con le successive integrazioni quale “Testo Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro”.

[13] Valentina Forastieri, SafeWork: Information Note on Women Workers and Gender Issues on Occupational Safety and Health, International Labour Office (ILO), Geneva, 2000.

[14] Articolo 17 comma 1 lett. a del Decreto Legislativo n. 81 del 9 aprile 2008 con le successive integrazioni quale “Testo Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro”.

[15] Articolo 28 comma 1 del Decreto Legislativo n. 81 del 9 aprile 2008 con le successive integrazioni quale “Testo Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro”.

[16] La definizione “una persona è ‘sola’ al lavoro quando non può essere vista o sentita da un’altra persona; e quando non può aspettarsi una visita da un altro lavoratore” è del centro governativo federale Canada’s National Occupational Health e Safety Resource (Fonte:  https://www.ccohs.ca) ma risale alla nota di orientamento ufficiale del Government of Western Australia (Department of Mines, Industry Regulation and Safety) applicata a tutti i luoghi di lavoro dell’Australia occidentale coperti dall’Occupational Safety and Health Act del 1984 (OSH Act).

[17] Roberto Albano, Tania Parisi, Lia Tirabeni, Gli smart workers tra solitudine e collaborazione, in Cambio. Rivista sulle trasformazioni sociali, n. 17, 2019, ISSN 2239-1118.

[18] Ente Bilaterale Nazionale Terziario, La salute e sicurezza sul lavoro nella New Economy, Romana Editrice S.r.l., 2020.

[19] La sentenza “Guariniello” del Tribunale di Torino del 2007 riconosce il tecnostress come malattia professionale che nel 2014 viene inserita nell’elenco delle malattie professionali non tabellate da parte di Inail.

[20] La Corte Costituzionale con la sentenza n. 179 del 10 febbraio 1988 ha introdotto nella legislazione italiana il cosiddetto “sistema misto” in base al quale vige un duplice sistema: le malattie “tabellari” secondo il principio della “presunzione legale d’origine” e quelle “non tabellari” in cui è data la possibilità al lavoratore di dimostrare che la malattia “non tabellata” di cui è portatore abbia origine professionale.

[21] Craig Brod “Technostress: the human cost of the computer Revolution”, Addison Wesley Publishing Company, 1984.

[22] Aa.Vv., Inail (Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro e ambientale), ICT e lavoro: nuove prospettive di analisi per la salute e la sicurezza sul lavoro, 2016, ISBN 978-88-7484-526-2.

[23] Risoluzione del Parlamento Europeo del 21 gennaio 2021 recante raccomandazioni alla Commissione sul diritto alla disconnessione.

[24] Considerando n.8 della risoluzione del Parlamento Europeo del 21 gennaio 2021 recante raccomandazioni alla Commissione sul diritto alla disconnessione.

[25] Le citazioni riportate sono tratte da Andrea Castiello D’Antonio, Malati di lavoro. Cos’è e come si manifesta il Workaholism, Cooper, 2010, EAN 9788873941019.

[26] L’undicesima edizione dell’International Classification of Diseases (ICD) del 2019 tenuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che cataloga malattie e disturbi in tutto il mondo, ha incluso il “burnout” come “sindrome concettualizzata come risultato da uno stress cronico sul posto di lavoro che non è stato gestito con successo”.

[27] Considerando n. 8 della risoluzione del Parlamento Europeo del 21 gennaio 2021 recante raccomandazioni alla Commissione sul diritto alla disconnessione.

[28] Articolo 19 co. 1 della Legge 22 maggio 2017 numero 81, recante “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l'articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”.