Pubbl. Ven, 10 Giu 2022
La Cassazione sul rapporto tra delitto di corruzione propria e quello di rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio
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Anna Onore
La Corte Suprema, con sentenza del 15 febbraio 2022, ud. 27 gennaio 2022, n. 5390, afferma che non è configurabile alcun rapporto di specialità tra delitto di rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio (art. 326, co. 3, c.p.) e corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.), atteso che non solo le condotte materiali del pubblico ufficiale nei due reati sono descritte in maniera differente, ma soprattutto perché la prima fattispecie riguarda un reato monosoggettivo “di mano propria”, rispetto al quale è possibile un concorso eventuale dell’extraneus, mentre la seconda ha ad oggetto un reato bilaterale, a concorso necessario, in cui la condotta del pubblico agente si pone come prestazione di un accordo corruttivo.
Sommario. 1. I fatti di causa; 2. I criteri atti a risolvere il conflitto tra norme e reati: l’orientamento consolidato delle Sezioni Unite; 2.1. (Segue): sul raffronto strutturale tra corruzione, ex art. 319 c.p., e rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio, ex art. 326, co. 3, c.p.; 3. Conclusioni: la soluzione fornita della Suprema Corte.
1. I fatti di causa
Con la sentenza n. 5390 del 15 febbraio 2022, (ud. 27 gennaio 2022), la Cassazione affronta nuovamente il tema del rapporto tra fattispecie penali, specie tra concorso apparente di norme e concorso di reati, rispetto agli illeciti di cui agli artt. 319 e 326, co. 3, c.p., che disciplinano rispettivamente il delitto di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (c.d. corruzione propria)[1] e quello di rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio[2], quando il predetto agente si avvale illegittimamente delle notizie d’ufficio per procurare a sé o ad altri un indebito profitto patrimoniale ovvero un ingiusto profitto non patrimoniale o per arrecare a terzi un danno.
Nel caso di specie, l’imputato veniva condannato per i reati di cui agli artt. 319 e 326, co. 3, c.p., avvinti dal vincolo della continuazione (art. 81 cpv. c.p.) per aver - in qualità di pubblico ufficiale - ricevuto denaro o comunque per averne accettato la promessa da un consulente di una società assicurativa (G.S. s.r.l.) per compiere atti contrari ai doveri di ufficio, consistiti nell’avvalersi illegittimamente e, in particolare, nel rivelare in più occasioni i dettagli di sinistri stradali che erano giunti al suo ufficio, notizie che dovevano rimanere segrete, fornendo al predetto consulente i nominativi e i contatti telefonici dei soggetti coinvolti in quei sinistri per consentirgli di contattarli e offrire loro i servizi della società, nonché per avere ricevuto in cambio dal predetto la promessa del riconoscimento di una percentuale del 10% del corrispettivo riconosciuto dal cliente della G.S. al buon esito della pratica.
La Corte d’appello di Torino confermava le imputazioni mosse e, in applicazione della diminuente dell’art. 323-bis c.p., rimodulava la pena principale e quella accessoria.
L’imputato, così, proponeva ricorso per cassazione formulando un unico motivo di doglianza. In particolare, deduceva la violazione di legge, in relazione all’art. 15 c.p., per avere la Corte territoriale disatteso la richiesta di riqualificazione giuridica del fatto contestato ai sensi dell’art. 326, co. 3, c.p., dunque come mera utilizzazione di segreti di ufficio, con conseguente assorbimento del reato addebitato ex art. 319 c.p. Secondo la difesa, il delitto di corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio e quello di utilizzazione di notizie di ufficio avrebbero in comune il fine perseguito (ossia l’aver agito con lo scopo di profitto per sé o per altri), mentre ciò che li distingue sarebbe la connotazione della condotta, cioè la rivelazione di notizie segrete, quale specifico atto contrario ai doveri di ufficio: con la conseguenza che la fattispecie incriminatrice prevista dall’art. 326, co. 3, c.p., che non contiene alcuna clausola di salvaguardia, sarebbe speciale rispetto a quella dell’art. 319 c.p., in quanto volta a sanzionare proprio l’uso illegittimo delle notizie d’ufficio[3]. In altre parole, il giudice di merito avrebbe illegittimamente ritenuto che i reati in oggetto potessero tra loro concorrere e che il raffronto normativo non potesse risolversi in termini di specialità.
2. I criteri atti a risolvere il conflitto tra norme e reati: l’orientamento consolidato delle Sezioni Unite
Preliminarmente, al fine di agevolare la comprensione dell’iter decisionale della Cassazione nella pronuncia in commento, occorre precisare i criteri adoperati nel panorama giuridico per risolvere il conflitto tra norme e l’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza della Suprema Corte, nella sua più autorevole composizione; criteri che consentono anche di distinguere il concorso apparente di norme dal concorso effettivo di reati e, quindi, chiarire se il comportamento materiale si sostanzia in una pluralità di fattispecie criminose ovvero se il reato perfezionato vada considerato unico[4].
Una precisazione terminologica è d’obbligo.
Il concorso apparente di norme ricorre quando più norme sembrano disciplinare prima facie un medesimo fatto di reato ma solo una di queste troverà concreta applicazione. Il concorso di norme, quindi, si pone in alternativa logica rispetto al concorso effettivo di reati che si verifica quando un soggetto pone in essere più reati con una pluralità di azioni od omissioni (concorso materiale) ovvero con un’unica azione od omissione (concorso formale), violando più disposizioni di legge oppure la medesima norma incriminatrice; in questo caso, si è soliti distinguere tra concorso eterogeneo od omogeneo che vale sia per il concorso di norme che di reati[5]. Nella presente disamina, la norma di riferimento è l’art. 15 c.p., ai sensi del quale, «quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito».
I più autorevoli esponenti della dottrina hanno cercato di individuare dei criteri discretivi per risolvere il conflitto apparente tra norme senza giungere, però, a soluzioni unitarie; oscillante nel tempo è apparso anche l’orientamento giurisprudenziale. Le varie ricostruzioni offerte possono essere ricondotte rispettivamente nell’alveo delle teorie moniste[6] ovvero in quelle pluraliste[7]: secondo le prime, l’unico criterio atto a risolvere il predetto conflitto sarebbe quello di specialità, ex art. 15 c.p.; di contro, i sostenitori delle teorie pluralistiche fanno ricorso – oltre alla specialità – agli ulteriori criteri complementari, valoriali, della sussidiarietà e dell’assorbimento o consunzione.
Presupposto comune alle ricostruzioni ivi richiamate è la definizione di specialità, che può essere intesa in senso astratto ovvero in concreto: la prima presuppone una valutazione strutturale tra le norme in rapporto, laddove una di queste presenta un elemento specializzante rispetto all’altra in confronto; di contro, la specialità in concreto impone una valutazione in relazione al fatto commesso: il rapporto di specialità, quindi, sussiste tutte le volte in cui il fatto realizzato può essere sussunto sotto due distinte norme incriminatrici a prescindere che queste in astratto si pongano in relazione di genere a specie[8]. Prevalsa anche in giurisprudenza[9] la tesi secondo cui il criterio di specialità presuppone una relazione logico-strutturale tra norme e che la locuzione “stessa materia” va intesa come fattispecie astratta, occorre ricordare che questa può rilevare in senso unilaterale oppure bilaterale (o reciproca); la specialità unilaterale ricorre quando la norma posta in raffronto presenta un elemento specializzante (per aggiunta o per specificazione) oltre a quelli comuni condivisi con l’altra; la specialità reciproca o bilaterale, diversamente, si configura quando le due fattispecie, accanto ad alcuni elementi comuni, presentano ciascuna un qualche elemento specializzante.
Orbene, secondo i fautori della teoria monista, il criterio di specialità opererebbe sia al ricorrere della specialità unilaterale che reciproca, salvo la previsione di clausole di sussidiarietà espresse; in altre parole, la “lex specialis derogat generali” allo scopo di impedire che un soggetto possa essere ritenuto penalmente responsabile più volte per lo stesso fatto, ricondotto in diverse fattispecie normative: pur seguendo tale impostazione, la specialità sarebbe espressione del principio del ne bis in idem sostanziale[10].
Secondo i sostenitori delle teorie pluraliste, invece, l’applicazione dell’art. 15 c.p. sarebbe limitato alle sole ipotesi di specialità unilaterale, per la quale risulta più agevole individuare quale norma sia “più speciale” dell’altra; al ricorrere, invece, della c.d. specialità reciproca i criteri applicabili sarebbero quelli di sussidiarietà e di assorbimento, anch’essi espressione del principio del ne bis in idem sostanziale.
Il principio di sussidiarietà verrebbe in rilievo ogniqualvolta tra le fattispecie astratte sia ravvisabile un rapporto di complementarietà, in modo tale che la norma sussidiaria trovi applicazione quando quella primaria non lo sia[11]. Altro criterio invocato in materia di concorso apparente di norme è quello di consunzione-assorbimento che si applica quando la realizzazione di un reato comporta - secondo l’id quod plerumque accidit - la commissione di un secondo reato meno grave, il quale, ad una valutazione normativo-sociale, apparirebbe assorbito dal primo. In altre parole, il concorso apparente di norme si risolve in base alla consunzione, ossia il principio per cui la norma che offende il bene giuridico in misura maggiore assorbe quella di minor (dis)valore penale[12].
Il ricorso a questi criteri meramente valoriali e privi di alcun aggancio normativo è stato criticato dalla giurisprudenza più recente, sebbene si sia mostrata oscillante in più occasioni; infatti, non sono mancate occasioni in cui la stessa Corte ha ricondotto il principio di consunzione o di assorbimento nella disposizione di cui all’art. 15 che, se, da un lato, sancisce il principio di specialità, dall’altro lato, ne ammette delle deroghe a favore della norma che prevede il reato più grave. Precisamente, secondo questa ricostruzione, «il criterio di specialità non è suscettibile di assorbire tutte le situazioni di concorso apparente, di modo che è necessario fare ricorso al criterio non espressamente codificato, ma conforme all’interpretazione sistematica, della consunzione o dell’assorbimento»[13], finanche attraverso lo schema del reato complesso[14].
Di contro, secondo orientamento ormai consolidato dalle Sezioni Unite[15], i criteri deputati a regolamentare il rapporto tra reati nel caso di concorso di norme penali sono esclusivamente quelli normativi e, quindi, oltre alla specialità, ex art. 15 c.p., anche la sussidiarietà c.d. espressa (a mezzo della previsione di clausole di riserva), con esclusione del criterio dell’assorbimento o consunzione.
In linea con l’interpretazione che ripudia le teorie pluralistiche si pone la pronuncia in commento. Nell’occasione, la Corte richiama alcuni suoi precedenti[16] che «escludono l’impiego di altri criteri, quali quelli della consunzione o dell’assorbimento, [in quanto] giudizi di valore capaci di mettere in crisi il principio costituzionale di determinatezza»; pertanto, «in caso di concorso di norme penali che regolano la stessa materia, il criterio di specialità richiede che, ai fini della individuazione della disposizione prevalente, il presupposto della convergenza di norme può ritenersi integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra le norme stesse, alla cui verifica deve procedersi mediante il confronto strutturale tra le fattispecie astratte configurate e la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definirle». In dettaglio, il Supremo consesso chiarisce che la norma speciale è «quella che contiene tutti gli elementi costitutivi della norma generale e che presenta uno o più requisiti propri e caratteristici, che hanno appunto funzione specializzante, sicché l’ipotesi di cui alla norma speciale, qualora la stessa mancasse, ricadrebbe nell’ambito operativo della norma generale; è necessario, cioè, che le due disposizioni appaiano come due cerchi concentrici, di diametro diverso, per cui quello più ampio contenga in sé quello minore, ed abbia, inoltre, un settore residuo, destinato ad accogliere i requisiti aggiuntivi della specialità»[17]. Specialità, quindi, che assurge a criterio euristico di riferimento[18].
2.1. (Segue): sul raffronto strutturale tra corruzione, ex art. 319 c.p., e rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio, ex art. 326, co. 3, c.p.
Giova, così, ricostruire brevemente l’ambito applicativo delle fattispecie di reato coinvolte, ossia la corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.) e la rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio (art. 326 c.p.) al fine di una loro comparazione strutturale. Entrambe collocate nel Titolo II del Libro II del codice penale, dedicato ai delitti contro la Pubblica Amministrazione a tutela del buon andamento e imparzialità dell’amministrazione pubblica, si configurano come reati propri in ragione della qualifica soggettiva rivestita dal soggetto agente, quale pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio[19].
La fattispecie corruttiva, ex art. 319 c.p., ricondotta nella categoria dei reati-contratto o reati plurisoggettivi propri a forma libera, necessita ai fini della sua configurazione la stipula di un accordo (c.d. pactum sceleris)[20] che deve intercorre tra pubblico agente e privato, in base al quale il primo accetta dal secondo un compenso che non gli è dovuto in cambio del ritardo o l’omissione di un atto del suo ufficio oppure l’emanazione di un atto contrario ai doveri d’ufficio.
Riguardo al momento consumativo, la giurisprudenza prevalente[21] ritiene che il delitto de quo sia una fattispecie a duplice schema, principale e sussidiario, che si perfeziona con l’accettazione della promessa se resta inadempiuta ovvero con il ricevimento del denaro o dell’utilità; a seconda che il comportamento incriminato si realizzi prima o dopo il compimento dell’atto contrario ai doveri d’ufficio si è solito discernere tra corruzione (propria) antecedente o susseguente. In linea con il dettato della norma, la giurisprudenza[22] è concorde nel ritenere necessaria la prova che l’adozione dell’atto contrario ai doveri d’ufficio sia causa della prestazione dell’utilità e della sua accettazione da parte del pubblico ufficiale, non essendo sufficiente, a tal fine, la mera circostanza dell’avvenuta dazione. Premesso che per atto contrario ai doveri di ufficio deve intendersi «un atto contrario al generico dovere di fedeltà, obbedienza, segretezza e imparzialità, con esclusione dall’area del penalmente rilevante di quello contrario al solo dovere di correttezza»[23] e che l’atto in questione non è soltanto quello tipicamente amministrativo, particolari problemi di qualificazione giuridica della condotta rilevano quando lo stesso atto è espressione del potere discrezionale e l’accordo corruttivo abbia ad oggetto la c.d. vendita di discrezionalità[24]. In effetti, la corruzione ex art. 319 è definita propria per distinguerla dalla corruzione per l’esercizio della funzioni o dei suoi poteri (c.d. impropria), ex art. 318 c.p.[25], che si concretizza nel mercanteggiamento della pubblica funzione o vendita in blocco della funzione pubblica[26]. Infine, avendo riguardo all’elemento soggettivo del reato è richiesto il dolo generico, che consiste nella coscienza e volontà della condotta posta in essere dai soggetti coinvolti.
Passando, poi, in rassegna il delitto di cui all’art. 326 c.p., occorre premettere che questo è posto a tutela non solo del corretto funzionamento della P.A. ma anche della segretezza e riservatezza di talune informazioni che debbano essere riservate all’esclusiva cognizione e uso della stessa amministrazione pubblica. L’illecito in parola può manifestarsi in due distinte fattispecie che sostanziano la violazione del segreto d’ufficio[27]: la rivelazione di notizie d’ufficio (co. 1 e 2) e l’utilizzazione di notizie d’ufficio (co. 3) in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio o comunque abusando della sua qualità.
Il primo e il secondo comma sanzionano le condotte di rivelazione e di agevolazione della conoscenza di notizie d’ufficio che devono restare segrete; se l’agevolazione è soltanto colposa, la pena inflitta è della reclusione fino a un anno (inferiore rispetto a quella irrogata al primo comma: reclusione da sei mesi a tre anni). Per notizie di ufficio che devono rimanere segrete si intendono non solo le informazioni sottratte alla divulgazione in ogni tempo e nei confronti di chiunque, ma anche quelle la cui diffusione sia vietata dalle norme sul diritto di accesso, perché effettuate senza il rispetto delle modalità previste ovvero nei confronti di soggetti non titolari del relativo diritto[28]. Non ricorrono gli estremi del delitto anzidetto quando la notizia sia divenuta di dominio pubblico né quando essa, sebbene ancora segreta, sia rivelata a persone appartenenti alla P.A. autorizzate a riceverla, in quanto debbano necessariamente esserne informate per la realizzazione dei fini istituzionali connessi al segreto, ovvero a persone che, pur estranee all’apparato pubblico, ne siano già venute altrimenti a conoscenza[29]. La rivelazione consiste nel portare a conoscenza la notizia segreta a terzi e, quindi, la predetta condotta illecita può realizzarsi nella sola forma commissiva; diversamente, la condotta di agevolazione può attuarsi anche mediante un comportamento omissivo.
Il terzo comma, poi, disciplina altre due fattispecie aggravate: la condotta del pubblico ufficiale (o dell’incaricato di pubblico servizio) che si avvale illegittimamente di notizie di ufficio o al fine di conseguire un indebito profitto patrimoniale oppure un profitto non patrimoniale o per causare ad altri un danno ingiusto[30]. Precisamente, il legislatore nel descrivere la condotta illecita fa riferimento all’uso illegittimo dei segreti d’ufficio, potendo questo sostanziarsi nello sfruttamento ovvero nell’utilizzazione delle conoscenze che il P.U. ha acquisito per ragione del suo ufficio.
Inoltre, essendo un illecito monosoggettivo di mano propria, la norma punisce soltanto l’agente che fa uso improprio delle notizie al fine di trarne un indebito vantaggio (di natura patrimoniale che non patrimoniale) ma non anche il terzo che abbia beneficiato della notizia segretata; infatti, perché l’extraneus possa concorrere nel reato proprio è necessario che questi «non si sia limitato a ricevere la notizia ma abbia istigato o indotto il pubblico ufficiale ad attuare la rivelazione, non essendo sufficiente ad integrare il reato la mera rivelazione a terzi della notizia coperta da segreto[31]. Il fine indebito perseguito vale a configurare l’elemento soggettivo del reato in termini di dolo specifico, con la precisazione che il profitto alla cui realizzazione è finalizzata la condotta del pubblico agente deve essere una conseguenza diretta dell’utilizzo dei segreti di ufficio da parte dello stesso intraneus[32].
Proprio dal raffronto strutturale delle norme in parola, ossia gli art. 319 e 326, co. 3, c.p., si sviluppano la ricostruzione dei fatti fornita dalla difesa nel caso attenzionato e le censure mosse dalla Corte Suprema.
Ebbene, secondo il ricorrente le predette fattispecie incriminatrici non darebbero luogo a un concorso effettivo di reati, posto che l’illecito ex art. 326, co. 3, c.p. sarebbe norma speciale rispetto a quella di cui all’art. 319 c.p. Precipuamente, secondo questi il delitto di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio e quello di utilizzazione di notizie di ufficio presenterebbero elementi comuni, ossia la qualifica soggettiva dell’agente e l’aver agito con lo scopo di profitto per sé o per altri, mentre l’elemento distintivo sarebbe la connotazione della condotta, cioè la rivelazione di notizie segrete; quest’ultima sarebbe una specificazione dell’atto contrario ai doveri di ufficio; così inteso, la contestazione della corruzione risulterebbe ingiustificata. Tale impostazione, però, omette di considerare che, laddove l’atto contrario ai doveri di ufficio, che il pubblico agente ha compiuto o che si è impegnato a compiere, fosse quello dell’utilizzazione di una notizia da lui acquisita in ragione del suo servizio e che sarebbe dovuta rimanere segreta, il riconoscimento dell’esistenza di un accordo corruttivo, dunque degli estremi del delitto di cui all’art. 319 c.p., finisce per mettere in risalto come il profitto conseguito sia un “effetto diretto” della dazione o della promessa fatta dal privato corruttore, e una conseguenza solo indiretta dell’impiego che il pubblico agente abbia fatto o intenda fare di notizie d’ufficio.
3. Conclusioni: la soluzione fornita della Suprema Corte
La Corte di cassazione, ripercorsi i principi di diritto sopra richiamati in materia di concorso apparente di norme e concorso effettivo di reati e individuati i rispettivi elementi costitutivi delle ipotesi delittuose in esame, rigetta il ricorso presentato dall’imputato sostenendo che non vi siano i presupposti per accogliere la sollecitazione difensiva finalizzata alla applicazione della disciplina di cui all’art. 15 c.p.. In altre parole la Cassazione afferma che tra i predetti delitti si configuri un concorso effettivo di reati[33]. Dichiara, altresì, infondata la censura con cui la difesa sostiene che il delitto di rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio (art. 326 c.p.) debba assorbire quello di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.).
Nello specifico, la Suprema Corte sostiene che non sia configurabile alcun rapporto di specialità tra le fattispecie incriminatrici previste rispettivamente dall’art. 319 e dall’art. 326, co. 3, c.p.: «non solo perché le condotte materiali del pubblico agente nei due reati sono descritte in maniera nettamente differente[34] ma soprattutto perché la seconda fattispecie riguarda un reato monosoggettivo di mano propria, rispetto al quale è possibile un concorso eventuale di un extraneus, mentre la prima ha ad oggetto un reato bilaterale, a concorso necessario, in cui la condotta del pubblico agente si pone come prestazione di un accordo sinallagmatico corruttivo».
Neppure potrebbero condurre a differente soluzione la circostanza che l’art. 326, co. 3, c.p. punisca la condotta di chi si avvale di notizie di ufficio «per procurare a sé o ad altri un indebito profitto patrimoniale […] o un ingiusto profitto non patrimoniale» né il fatto che l’art. 319 c.p. faccia riferimento «a un atto contrario ai doveri d’ufficio», che ben potrebbe essere costituito dall’utilizzazione (o anche dalla mera rivelazione) di segreti di ufficio.
Rispetto alla prima questione, occorre ricordare che il profitto patrimoniale indebitamente perseguito non attiene alla descrizione dell’elemento materiale ma incide sull’elemento psicologico del reato, così definendolo in termini di dolo specifico.
Ancora, il dato descrittivo delle fattispecie ex art. 319 c.p. non riguarda direttamente la condotta del pubblico agente sanzionato da quella norma incriminatrice, bensì la ragione della intesa corruttiva, che potrebbe anche non aver ancora trovato attuazione («per compiere o per aver compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio»).
Per tali motivi, la Corte conclude affermando che «l’assenza nelle fattispecie normative poste a raffronto di elementi fondamentali comuni, con la presenza in una sola di esse di qualche elemento caratterizzante in più che la specializzi rispetto all’altra, esclude, perciò, che nel caso in esame sia applicabile il principio di specialità, di cui all’art. 15 c.p.».
Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del processo.
[1] L’art. 319 c.p. così recita: «Il pubblico ufficiale, che, per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da sei a dieci anni».
[2] L’art. 326 c.p. afferma che «1. Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio, che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie di ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. 2. Se l’agevolazione è soltanto colposa, si applica la reclusione fino a un anno. 3. Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio, che, per procurare a sé o ad altri un indebito profitto patrimoniale, si avvale illegittimamente di notizie di ufficio, le quali debbano rimanere segrete, è punito con la reclusione da due a cinque anni. Se il fatto è commesso al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto non patrimoniale o di cagionare ad altri un danno ingiusto, si applica la pena della reclusione fino a due anni».
[3] Nell’occasione, il difensore dell’imputato sostiene che «è errata l’affermazione dei giudici di merito secondo cui le notizie segrete disvelate dal reo avessero un valore economico immediato, in quanto la controparte otteneva esclusivamente il vantaggio di essere “presentato autorevolmente” a persone coinvolte in incidenti stradali al fine di poter proporre loro i servizi della società G.S., prima che lo potessero fare altre società concorrenti: sicché il rapporto sinallagmatico che si creava tra i due (cui veniva promessa una “spettanza per il disturbo”) finiva per concretizzare quell’indebito profitto patrimoniale, per la cui realizzazione avevano agito entrambi gli utilizzatori delle notizie che dovevano rimanere segrete».
[4] Il tema del rapporto tra concorso effettivo di reati e concorso apparente di norme presuppone risolta la questione della distinzione tra unità e pluralità di reati. Tre le principali teorie che si sono susseguite nel tempo: la concezione naturalistica, la teoria normativa e quella normativa a base ontologica. L’accezione naturalistica ravvisa la pluralità in presenza di più azioni in rerum natura e, viceversa, unicità laddove vi sia naturalisticamente un’unica azione; unicità di azione riscontrata ora nell’unicità di evento in senso naturalistico, nell’unicità del processo esecutivo e volitivo oppure nella contestualità degli atti accompagnata dalla unicità del fine. Diversamente, i fautori della teoria normativa sostengono che l’unità o pluralità di reati sia determinata ex lege; pertanto, è unica l’azione tipica penalmente rilevante, comprensiva di tutti gli elementi necessari a realizzare il reato (condotta, nesso causale, evento, elemento soggettivo) anche quando si realizzi mediante il compimento di più atti. Questa teoria, che amplia eccessivamente la discrezionalità legislativa, è oggi temperata dalla concezione normativa a base ontologica, che presuppone rispettati i principi generali di materialità e di offensività: occorre far riferimento alla natura del bene giuridico leso; qualora questi presenti natura patrimoniale, la ripetizione delle medesime condotte - in un lasso di tempo circoscritto - integrano gli estremi di un unico reato. Di contro, la natura personale del bene leso vale a configurare una pluralità di reati quante sono le persone offese dalla condotta criminosa. Sulle varie teorie si rinvia rispettivamente e A. PAGLIARO, Concorso di norme penali, in Enc. dir., VII, Giuffrè Editore, Milano, 1961, 548 ss.; F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte generale, Giuffrè, Milano, 2003, 370 ss.; F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte gen., ed. XI, Cedam, Padova, 2020, 451 ss..
[5] Sulla tematica in oggetto si rinvia, per un approfondimento e senza pretesa di esaustività, a G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale - parte generale, ed. VIII, Zanichelli Editore, Bologna, 2019, 695 ss.; D. PULITANO’, Diritto penale, ed. IX, Giappichelli Editore, Torino, 2021, 428 ss.; F. PALAZZO, Corso di diritto penale. Parte generale, ed. VIII, Giappichelli Editore, Torino, 2021, 523 ss.; G. MARINUCCI, E. DOLCINI, G.L. GATTA, Manuale di diritto penale. Parte generale, Giuffrè Editore, Milano, 2021, 470 ss.
[6] Si rinvia, per tutti, a F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte generale, Giuffrè Editore, Milano, 2003, 380 ss.; A. VALLINI, Concorso di norme e di reati, in Le forme di manifestazione del reato, a cura di G. De Francesco, Giappichelli Editore, Torino, 2011, 299 ss.; V. ZAGREBELSKY, Il Concorso apparente di norme e il reato compresso, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale. Parte generale, ed. I, a cura di F. Bricola-V. Zagrebelsky, Giappichelli Editore, Torino, 1996, 221 ss.
[7] Tra i vari autori, a sostegno dell’impostazione pluralista, pregevole è la ricostruzione fornita da G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale - parte generale, ed. VIII, cit., 698 ss.
[8] Più diffusamente sul tema, si rinvia a G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale - parte generale, ed. VIII, cit., 487 ss.
[9] Impostazione ermeneutica confermata da Cass., Sez. un., 18 dicembre 2002, n. 8545 del 18/12/2002, in C.E.D. Cass., Rv. 223395. Nella parte motiva della sentenza si legge che sul concetto di “stessa materia” sono emerse diverse ricostruzioni, anche nell’ambito delle stesse Sezioni Unite «alcune interpretando la “stessa materia” come identità del bene alla cui tutela le norme in concorso sono finalizzate (Cass., Sez. un., 21 aprile 1995, n. 9568 in C.E.D. Cass., Rv. 202011), altre, invece, escludendo che il concorso apparente di norme sia configurabile sulla base del bene giuridico protetto dalle disposizioni apparentemente confliggenti (Cass. pen., Sez. un.,19 gennaio 1982, n. 420, in C.E.D. Cass., Rv. 151618). La giurisprudenza prevalente e più recente prende posizione a favore di un raffronto meramente strutturale delle fattispecie considerate, prescindendo dall’analisi del fatto storico e abbandonando la soluzione di combinare criteri tra loro diversi (ex multis Cass., Sez. un., 15 gennaio 2001, n. 35; Cass., Sez. un., 20 febbraio 2003, n. 8545, in C.E.D. Cass., Rv. 223395), ed afferma che il criterio di specialità presuppone una relazione logico-strutturale tra norme. [Pertanto,] la locuzione “stessa materia” va intesa come fattispecie astratta e non quale episodio in concreto verificatosi sussumibile in più norme, indipendentemente da un astratto rapporto di genere a specie tra queste»; il richiamo alla natura del bene giuridico protetto non è considerato “decisivo” e, inoltre, può dare adito a dubbi nel caso di reati plurioffensivi (Cass., Sez. un., 9 maggio 2001, n. 23427, in C.E.D. Cass., Rv. 218771)».
[10] Nel nostro ordinamento, sebbene il principio del ne bis in idem sostanziale non trovi espressa previsione normativa questo si ricava da una lettura congiunta degli artt. 15, 84 (rispetto al reato complesso), 61, 62 e 68 c.p. in materia di disposizioni circostanziate. Nel diritto sovranazionale, i referenti normativi sono l’art. 50 della Carta di Nizza e l’art. 4, Prot. 7, CEDU; in definitiva, il principio del ne bis in idem sostanziale concerne le ipotesi di qualificazione normativa multipla di un medesimo fatto (quindi il rapporto astratto tra norme penali). Diversamente, il ne bis in idem processuale, ai sensi dell’art. 649 c.p.p., sancisce il divieto di doppio giudizio per il medesimo fatto (neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze). Sul tema si rinvia, per tutti, ad A. F. TRIPODI, Il nuovo volto del ne bis in idem convenzionale agli occhi del giudice delle leggi. Riflessi sul doppio binario sanzionatorio in materia fiscale, in Giur. cost., 2/2018, 530 ss.; Id., Cumuli punitivi, ne bis in idem e proporzionalità, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2017, 1076-1077; R. A. RUGGIERO, Il ne bis in idem: un principio alla ricerca di un centro di gravità permanente, in Cass. pen., 10/2017, 3809 ss.; F. VIGANÒ, La Grande Camera della Corte di Strasburgo su ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio, in Dir. pen. cont., 18 novembre 2016; C. VINCIGUERRA, Il principio del ne bis in idem nella giurisprudenza della Corte Edu, in Dir. pen. trib., 2015.
[11] Il rapporto di sussidiarietà si ravvisa quando le norme in confronto tutelano il medesimo bene giuridico ma in stati diversi di aggressione. Il rapporto di sussidiarietà trova espressione a mezzo di clausole di riserva, che possono essere espresse (si pensi all’espressione «salvo che il fatto costituisca più grave reato»), tacite o indeterminate. Per un maggiore approfondimento della materia, si rinvia ad A. PAGLIARO, voce Concorso di norme, in Enc. dir., VIII, Giuffrè Editore, Milano, 1961, 545 ss.
[12] In tal senso si esprime G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale - parte generale, ed. VIII, cit., 698 ss.
[13] Così Cass., Sez. un., 28 marzo 2001, n. 22902, in C.E.D. Cass., Rv. 218873.
[14] Cfr. Cass., Sez. un., 26 ottobre 2021, n. 38402, in Dejure. La Corte, chiamata a chiarire il rapporto tra le fattispecie di omicidio aggravato (art. 576, co. 1, n. 5.1, c.p.) e delitto di atti persecutori (art. 612-bis c.p.), sostiene che nel caso di specie non è possibile ricorrere all’applicazione dell’art. 15 c.p., in termini di concorso apparente di norme, né appare dirimente invocare la clausola di riserva contenuta in una delle norme incriminatrici astrattamente incidenti sulla fattispecie, ossia l’art. 612-bis c.p.; piuttosto, risolve la questio iuris invocando l’applicazione dell’art. 84 c.p., che disciplina il reato complesso, indiscussa ipotesi di assorbimento in ragione del rapporto di continenza che viene a configurarsi tra le norme in oggetto. In definitiva, la Cassazione afferma che «la fattispecie del delitto di omicidio, realizzata a seguito di quella di atti persecutori da parte dell’agente nei confronti della medesima vittima, contestata e ritenuta nella forma del delitto aggravato ai sensi degli artt. 575 e 576, primo comma, n. 5.1 c.p. (…) integra un reato complesso, ai sensi dell’art. 84, primo comma, c.p., in ragione della unitarietà del fatto».
[15] Cass., Sez. un., 20 dicembre 2005, n. 47164, in C.E.D. Cass., Rv. 232303. Nel dettaglio, la Corte afferma che «i criteri di consunzione e di assorbimento sono privi di fondamento normativo perché l’inciso finale dell’art. 15 c.p., “salvo che sia altrimenti stabilito”, allude alle clausole di riserva previste dalle singole norme incriminatrici che, in deroga al principio di specialità, prevedono, sì, talora l’applicazione della norma generale, anziché di quella speciale, considerata sussidiaria».
[16] Ex multis., Cass., Sez. un., 28 ottobre 2010, n. 1235, in C.E.D. Cass., Rv. 248864; Cass., Sez. un., 21 gennaio 2011, n. 1963, in C.E.D. Cass., Rv. 248722.
[17] Così chiarito in Cass., Sez. un., 28 ottobre 2010, n. 1235, cit. Nella predetta sentenza le Sezioni Unite, intervenute per dirimere il contrasto giurisprudenziale sorto in riferimento ai rapporti tra i delitti di frode fiscale previsti dal D. lgs. 74/2000 e la fattispecie di truffa aggravata ai danni dello Stato, ex art. 640, co. 2 n. 1, c.p., sostengono che il principio di specialità espresso dall’art. 15 c.p. preclude la configurazione del concorso di reati: la fattispecie tributaria (frode fiscale) rileva come legge speciale rispetto all’ipotesi codicistica (truffa aggravata).
[18] Come recentemente confermato da Cass., Sez. un., 12 settembre 2017, n. 41588, in Dejure, sul rapporto tra i delitti di detenzione e porto illegale in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo. Il principio di diritto ivi enunciato è il seguente: «I delitti di detenzione e porto illegale in luogo pubblico o aperto al pubblico di arma comune da sparo ex artt. 2, 4 e 7 legge 2 ottobre 1967, n. 895, non concorrono, rispettivamente, con quelli di detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico della stessa arma clandestina, ex art. 23, primo, terzo e quarto comma, legge 18 aprile 1975, n. 110». Per un commento della sentenza si rinvia a G. SERRA, Le Sezioni Unite e il concorso apparente di norme, tra considerazioni tradizionali e nuovi spunti interpretativi, in Dir. pen. cont., 11/2017, 173 ss.
[19] La definizione di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio è fornita dagli artt. 357 e 358 c.p. Sono pubblici ufficiali coloro che esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa; di contro, l’incaricato di pubblico servizio è colui che presta un servizio pubblico, cioè un’attività disciplinata da norme di diritto pubblico, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici della funzione pubblica, ossia dei poteri deliberativi, autoritativi o certificativi.
[20] A ben vedere, tale patto può essere anche promosso da un soggetto terzo, il quale risponderà anch’egli del reato come concorrente eventuale. Cfr. Cass., Sez. VI, 14 giugno 2004, n. 26625, in Guid. Dir., 2004, 29, 84 ss.
[21] A questa impostazione ha aderito la Cass., Sez. un., 21 aprile 2010, n. 1528, in Dejure, ripudiando la tesi secondo cui la consumazione si collocherebbe al momento di perfezionamento dell’accordo corruttivo, relegando la dazione effettiva nell’area del post factum non punibile. La Corte, invero, ha osservato che il reato di corruzione può attuarsi attraverso due distinte e autonome ipotesi fattuali, quella della dazione e quella della promessa accettata, cui corrisponde il momento consumativo del reato. Per un maggiore approfondimento si rinvia a L. SCOLLO, La corruzione senza accordo: notazioni in tema di elementi costitutivi, in Sist. pen., 4/2021, 25 ss.
[22] Cfr., una per tutte, Cass., Sez. VI, 7 novembre 2011, n. 5017, in Dejure.
[23] Ex multis, Cass., Sez. VI, 3 febbraio 2016, n. 6677 in Dejure; Cass., Sez. VI, 4 febbraio 2014, n. 23354 in Dejure.
[24] Un esempio, riportato dalla cronaca giudiziaria, di difficile inquadramento giuridico è quello del privato che mette a libro paga il pubblico funzionario per la necessità di essere inserito tra le stazioni appaltanti a cui vengono attribuite le commesse. Per orientamento maggioritario, a cui ha aderito da ultimo la Cass., Sez. VII, 29 gennaio 2019, n. 4486, cit., «lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi realizzato attraverso l’impegno permanente a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata, integra il reato di cui all’art. 318 c.p. e non il più grave reato di corruzione propria di cui all’art. 319 c.p., salvo che la messa a disposizione della funzione abbia prodotto il compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio».
[25] L’art. 318 c.p. persegue «Il pubblico ufficiale, che, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da tre a otto anni». Nella sua originaria versione, così recitava: «Il pubblico ufficiale, che, per compiere un atto del suo ufficio, riceve, per sé o per un terzo, in denaro od altra utilità, una retribuzione che non gli è dovuta, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni». All’indomani della novella del 2012 (Legge Severino) la norma in parola ha subito notevoli modifiche: anzitutto, è venuto meno il riferimento al concetto di “retribuzione” che evocava un rapporto di corrispondenza tra le prestazioni poste in essere dal P.U. e dal privato. Inoltre, è stato espunto ogni riferimento all’atto d’ufficio, prevedendo solo la necessità di un generico collegamento fra “dazione o promessa di utilità” ed esercizio delle funzioni pubbliche. Infine, il predetto intervento legislativo ha equiparato sotto il profilo sanzionatorio le figure di corruzione impropria antecedente e susseguente.
[26] Si rinvia, per tutti, a F. BELLAGAMBA, Riflessioni a margine del nuovo assetto riservato ai delitti di corruzione dalla Legge “negaprincipi” e “spazzagaranzie”, in Discrimen, 2020; D. FALCINELLI, Nel castello di carte dell’attività politica impropriamente corrotta. Considerazioni sul rapporto tra i delitti ex artt. 318 e 319 c.p., in Arch. pen., 1/2019; M. GAMBARDELLA, Dall’atto alla funzione pubblica: la metamorfosi legislativa della corruzione “impropria”, in Arch. pen., 1/2013; D. PULITANO’, La novella in materia di corruzione, in Cass. pen., suppl. al fasc. 2/2012; G. BALBI, Alcune osservazioni in tema di riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione, in Dir. pen. cont., 3-4/2012, 5 ss.
[27] Il segreto d’ufficio costituisce uno dei doveri fondamentali del Pubblico Ufficiale, definibile come la situazione corrispondente ad un interesse giuridicamente apprezzabile di un soggetto a che un determinato contenuto di esperienza non sia rivelato ad altri. La fonte dell’obbligo del segreto è rintracciabile nell’art. 15 dello Statuto degli impiegati civili dello Stato (d.P.R. 10 gennaio1957, n. 3) così come sostituito dall’art. 28 della l. n. 241/1990, che dispone: «L’impiegato deve mantenere il segreto d’ufficio. Non può trasmettere a chi non ne abbia diritto informazioni riguardanti i provvedimenti od operazioni amministrative in corso o concluse ovvero notizie di cui sia venuto a conoscenza a causa delle sue funzioni, al di fuori delle ipotesi e delle modalità previste dalle norme sul diritto di accesso. Nell’ambito delle proprie attribuzioni, l’impiegato preposto ad un ufficio rilascia copie ed estratti di atti e documenti di ufficio nei casi non vietati dall’ordinamento». Si rinvia a R. G. MARUOTTI, Violazione dei segreti d’ufficio, in Trattato di diritto penale, pt. spec., II, I delitti contro la Pubblica Amministrazione, a cura di A. Cadoppi, S. Canestrari, A. Manna, M. Papa, Torino, 2008, 417; A. PAGLIARO, Principi di diritto penale, cit., 277.
[28] Così Cass, Sez. VI, 6 dicembre 2013, n. 49133 in Dejure. Nella specie un cancelliere in servizio presso un tribunale civile aveva fatto visionare tre fascicoli custoditi nel suo ufficio, relativi a ricorsi per decreto ingiuntivo, ad una persona del tutto estranea sia all’ufficio, sia ai procedimenti visionati.
[29] Cfr. Cass., Sez. VI, 12 giugno 2020, n. 18125, in Dejure.
[30] L’art. 326, co. 2 c.p. è stato introdotto dall’art. 15 L. 26 aprile 1990, n. 86. Prima di detta novella, l’utilizzazione di segreti d’ufficio non costituiva un fatto di reato.
[31] Cfr. Cass., Sez. VI, 23 luglio 2018, n. 34928, in Dejure.
[32] In questo senso v. Cass., Sez. VI, 31 marzo 2015, n. 39428, in C.E.D. Cass., Rv. 264783; Cass., Sez. I, 3 ottobre 2007, n. 39514, in C.E.D. Cass., Rv. 237747.
[33] A sostegno della predetta affermazione richiama un precedente della Cassazione sul rapporto tra art. 326, co. 1, e 319 c.p., ove sostiene che possa configurarsi tra queste un concorso formale di reati. Cfr. Cass., Sez. un., 28 ottobre 2010, n. 1235, cit..
[34] Nella parte motiva della sentenza, la Corte chiarisce che l’art. 319 c.p., integrato dall’art. 320 c.p., punisce la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che «riceve, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità, o ne accetta la promessa»; diversamente, l’art. 326, co. 3, c.p., sanziona, invece la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che «si avvale illegittimamente di notizie di ufficio».