ISCRIVITI (leggi qui)
Pubbl. Mer, 18 Mag 2022
Sottoposto a PEER REVIEW

Le contestazioni a catena: tra teoria e problemi applicativi

Modifica pagina

Valentina Valenti
Dottorando di ricercaUniversità degli Studi di Catanzaro Magna Græcia



Il divieto di cui all’art. 297, comma 3, c.p.p. improntato al principio di garantismo processuale onde arginare il fenomeno dell’applicazione indiscriminata delle misure cautelari personali, nel corso degli anni ha tenuto banco per l’oggettiva difficoltà di una regolamentazione nella prassi applicativa. Se la ratio legis è immediatamente percepibile non altrettanto può dirsi con riferimento all’individuazione delle ipotesi per le quali può ritenersi violato l’istituto del codice di rito. La Corte di Cassazione in concerto con la Corte Costituzionale è stata più volte impegnata nell’arduo compito di gettare luce su una disposizione poco chiara.


ENG The prohibition of art. 297, paragraph 3, c.p.p., based on the principle of procedural guarantees in order to curb the phenomenon of the indiscriminate application of personal precautionary measures, over the years has held sway due to the objective difficulty of regulation in the application practice. If the ratio legis is immediately perceivable, the same cannot be said with reference to the identification of the hypotheses for which the institution of the code of practice can be considered violated. The Court of Cassation, in concert with the Constitutional Court, has repeatedly been engaged in the arduous task of shedding light on an unclear provision.

Sommario: 1. Il fondamento; 2. L'ambito operativo; 2.1. Il fatto uguale; 2.2. Le ipotesi di connessione qualificata e non qualificata; 2.3. I fatti diversi connessi; 2.4. I fatti diversi non connessi; 3. La desumibilità degli atti e la retrodatazione dei termini di custodia cautelare; 4. Gli ultimi approdi giurisprudenziali; 5. Conclusioni.

1. Il fondamento

Nell’esercizio della giurisdizione il tempo è al contempo uno strumento ed un vincolo[1]. La corretta considerazione –– giuridica e di fatto –– del suo scorrere consente lo svolgersi di attività procedimentali in una sequenza scadenzata onde rispondere all’esigenza che esse occupino un tempo definito.

Nel procedimento penale la previsione di tempi tende, altresì, a realizzare un equilibrio tra l’efficienza degli apparati e le garanzie dei soggetti coinvolti.

Le problematiche legate alla pratica delle c.d. contestazioni a catena sono state sentite fin dai tempi in cui vigeva il codice Rocco.  Infatti, in un contesto culturale di matrice inquisitoria ma strettamente legato al valore del rigore del diritto, non poteva non rimediarsi alla lacuna normativa che consentiva al P.M. di raggirare i canoni processuali in cui si fondava la coerenza della disciplina delle misure cautelari circa i limiti massimi della c.d. carcerazione preventiva[2].

Con l’avvento dell’illuminismo giuridico in Italia, all’incirca dagli anni ‘70, la giurisprudenza ha iniziato ad ammettere in via interpretativa la possibilità di eccezioni all’autonoma decorrenza dei termini in rapporto a ciascun titolo cautelare nell’ipotesi di adozione di misure relative allo stesso fatto o a fatti diversi, in quest’ultimo caso purché conosciuti o conoscibili dall’autorità giudiziaria al momento dell’emissione della prima ordinanza che ammetteva la misura cautelare; tale cambiamento è il risultato dell’evoluzione giuridico-culturale che l’Italia ha vissuto in quegli anni, l’idea dello Stato garantista al servizio dei cittadini faceva cedere il posto a quella dello Stato totalitario, il concetto di giustizia processuale intesa come soddisfacimento della pretesa punitiva dello Stato mediante la formalizzazione dell’applicazione della legge penale lasciava spazio a quella di un insieme di atti e procedure finalizzati a garantire il rispetto dei diritti del cittadino nel rapporto con la vicenda penale per cui saranno applicate le norme di diritto sostanziale[3].

La locuzione "contestazioni a catena" allude alle ipotesi nelle quali in tempi diversi e successivi vengano poste in essere, a carico dell’indagato e/o imputato, più ordinanze applicative della custodia cautelare in relazione al medesimo fatto o a fatti comunque già noti ab origine all'autorità giudiziaria. La ratio ivi sottesa persegue il fine di spostare in avanti l'avvio della decorrenza dei termini di custodia cautelare, così da prolungare la durata della misura ed aggirare i limiti stabiliti dal codice processuale penale.

Le contestazioni a catena regolate dell’art. 297, comma 3, c.p.p. rappresentano uno dei fenomeni più complessi che il codice di rito disciplina. Le principali difficoltà originano prima facie dalla tecnica normativa non di immediata comprensione per la qual cosa si è reso necessario più volte l’intervento della Corte di Cassazione a Sezioni Unite[4].

La notevole complessità e l’elevato tenore tecnico di tale argomento pretende che si svolga un inquadramento dell’istituto sia sotto il profilo del suo attuale stato dogmatico sia sotto quello della sua lunga e tormentata evoluzione.  Evoluzione segnata, invero, dal dibattito circa due ordini di problemi: in primo luogo quello sulla possibile estensione del suo ambito di applicabilità, in secondo luogo quello sugli spazi di valutazione da parte del giudice circa l’effettivo comportamento dell’autorità inquirente nel disporre le contestazioni a catena; ossia quanto la sanzione di retrodatazione dipenda da criteri automatici e quanto dalla convinzione del giudice circa la recensibilità delle scelte poste in essere dal pubblico ministero[5].

L’istituto in esame si inserisce nell’àmbito delle misure cautelari personali frutto, quest’ultime, di un arzigogolato iter normativo. Il coacervo di direttive stabilite nell’art. 2  legge 16 febbraio 1987 n. 61 recante “Delega legislativa al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale[6] in ordine alle misure restrittive per esigenze cautelari, delineando con sufficiente compiutezza profili e contenuti di un vero e proprio sottosistema normativo, indusse il legislatore delegato a sottolineare l’autonomia sistematica del settore dedicando, per l’appunto, un intero libro del nuovo codice al tema delle misure cautelari. Tale libro, il IV, è tutt’oggi suddiviso in due titoli l’uno riferito alle misure cautelari personali e l’altro alle misure cautelari reali[7].

La materia de libertate, nella quale l’istituto si inserisce, ha da sempre suscitato l’attenzione della dottrina[8] e della giurisprudenza[9] sia interna che internazionale[10] per la sua pretesa incompatibilità ai princìpi costituzionali di cui agli artt. 3, 13, 14, 15, 25, 27 della Carta fondamentale. Sebbene discorrere di misure cautelari e principio di innocenza potrebbe sembrare, a tratti, una contraddizione in termini l’impianto cautelare risulta del tutto congruo con l’archetipo costituzionale posto che la libertà personale deve essere bilanciata con altri valori di rango primario: l’amministrazione della giustizia e la tutela della collettività, giusto per citarne alcuni. 

Purtuttavia, la disciplina in commento si pone in un delicato crocevia di norme costituzionali, internazionali e legislative. L’art 13, c. 5, Cost. dispone che “la legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva” mentre, se si volge l’attenzione al quadro internazionale, l’articolo 5, par.  3 CEDU prevede che “Ogni persona arrestata [] … deve essere tradotta al più presto dinanzi a un giudice o a un altro magistrato autorizzato dalla legge ad esercitare funzioni giudiziarie e ha diritto di essere giudicata entro un termine ragionevole o di essere posta in libertà durante l’istruttoria. La scarcerazione può essere subordinata ad una garanzia che assicuri la comparizione della persona all’udienza

La ricaduta legislativa del combinato disposto di tali prìncipi si ritrova nel codice di procedura penale negli artt. 303 e 304 posti a presidio dei termini massimi di custodia cautelare. A tale regolamentazione, vieppiù, bisogna aggiungere l’art. 297, comma 1, il quale stabilisce quale dies a quo della custodia cautelare il momento della cattura, dell’arresto o del fermo di indiziato di delitto; per le altre misure diverse dalla custodiale, invece, il termine decorre dal momento in cui l’ordinanza è stata notificata.

Tale modo di disciplinare ha consentito di enucleare il prìncipio dell’autonoma decorrenza dei termini cautelari in virtù del quale si pone una differenziazione, in termini di decorrenza temporale, tra le misure custodiali o meno.

Tale princìpio, però, non di rado è suscettibile di abuso, soprattutto nel momento in cui l’autorità inquirente decida, artificiosamente o per semplice negligenza, di notificare un’ulteriore misura cautelare in prossimità della scadenza della prima.

Ebbene, la disposizione predetta recante “il computo dei termini di custodia cautelare” sebbene sia palesemente funzionale ad una tipica causa di estinzione delle misure cautelari personali –– qual è quella connessa alla durata massima dei termini custodiali –– la normativa concernente il computo dei termini de quibus si colloca nel nuovo sistema tra le disposizioni dettate per l’esecuzione delle varie misure. Sia perché vi risultano le regole fissate sulla decorrenza degli effetti sia perché trova altresì posto la disciplina in cui l’ordinanza origina dal medesimo fatto di reato, sia l’ipotesi in cui vengono applicate due diverse misure cautelari che originano da due fatti diversi.

La natura dell’istituto de quo, di matrice prettamente giurisprudenziale, è quella di evitare che la rigorosa predeterminazione dei termini di durata massima delle misure cautelari possa essere elusa tramite la diluizione nel tempo di due o più provvedimenti restrittivi nei confronti della stessa persona.

Il nucleo di disvalore del fenomeno risiede più in particolare, come ha avuto modo di evidenziare la Corte costituzionale[11], «nell’impedimento, ad esso conseguente, al contemporaneo decorso dei termini relativi a plurimi titoli custodiali nei confronti del medesimo soggetto». Oltretutto, argomenta il giudice delle leggi «il “ritardo” nell’adozione della seconda ordinanza cautelare non vale, di per sé, a prolungare i termini di durata massima della prima misura – essendo gli stessi predeterminati per legge, ai sensi dell’art. 303 cod. proc. pen. – ma, in difetto di adeguati correttivi, avrebbe l’effetto di espandere la restrizione complessiva della libertà personale dell’imputato, tramite il “cumulo materiale” – totale o parziale – dei periodi custodiali afferenti a ciascun reato. Ciò, col risultato di porre l’interessato in situazione deteriore rispetto a chi, versando nella medesima situazione sostanziale, venga invece raggiunto da provvedimenti cautelari coevi, e di rendere, al tempo stesso, aggirabile la predeterminazione legale dei termini di durata massima delle misure, imposta dall’art. 13, quinto comma, Cost[12]

Si è ribadita, de facto, la necessità di disciplinare il sistema de quo già regolata dalla giurisprudenza di legittimità prima dell’entrata in vigore della l. 28 luglio 1984 n. 398 non poteva essere protratto con le contestazioni c.d. “a grappolo” basate su fatti e circostanza già note all’ufficio del procuratore[13].

2. L’ambito operativo

La disciplina delle contestazioni a catena sembra lontana dall'aver trovato un assetto definitivo nonostante si sia registrato, nel corso del tempo, un copioso intervento giurisprudenziale.

Alla delicatezza e la complessità della materia ha contribuito l’art. 12 legge 8 agosto 1995 n. 332 recante “Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione, di misure cautelari e di diritto di difesa” che ha rimodulato il comma 3 della disposizione che, ad oggi, risulta così formulato “Se nei confronti di un imputato sono emesse più ordinanze che dispongono la medesima misura per uno stesso fatto, benché diversamente circostanziato o qualificato, ovvero per fatti diversi commessi anteriormente alla emissione della prima ordinanza in relazione ai quali sussiste connessione ai sensi dell'articolo 12, comma 1, lettere b) e c), limitatamente ai casi di reati commessi per eseguire gli altri, i termini decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati all'imputazione più grave. La disposizione non si applica relativamente alle ordinanze per fatti non desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto con il quale sussiste connessione ai sensi del presente comma”.

Per quanto la tecnica normativa adoperata il legislatore del tempo sia a tratti “oscura” e di non immediata percezione ci si potrebbe spingere ad affermare come tale istituto si declini sia in senso soggettivo –– dunque a presidio della libertà personale dell’indagato –– che oggettivo, giusto il riferimento alla molteplice presenza di ordinanze cautelative emesse nei confronti del medesimo soggetto.

Prima dell’intervento riformatore del 1995 la giurisprudenza riteneva che la disciplina contro il fenomeno delle contestazioni a catena non operasse fra diversi procedimenti[14].

L’orientamento della Suprema Corte di Cassazione si àncorava ad un indirizzo non del tutto in linea con l’entrata in vigore del nuovo codice di rito e con l’ideale di garantismo che ne permeava l’intera struttura. Non a caso, dunque, fu necessario un intervento legislativo per porre in essere il cambiamento di rotta necessario ad adeguare la disciplina delle contestazioni a catena al nuovo grado di giurisdizionalità che contraddistingue il processo accusatorio.

Ciò, però, non è stato risolutivo di alcune questioni che, ancor oggi, permangono.

Anzitutto bisogna comprendere quando e in quale occasione si versi nell’ ipotesi di cui all’art. 297, c. 3, c.p.p. Già dal tenore letterale della formulazione è possibile individuare le prime ipotesi: in primis, quando vengono emesse più ordinanze in capo al medesimo indagato per il medesimo fatto a prescindere, si badi, dalla diversa “veste” giuridica del fatto e dalla presenza di diversi accidentalia delicti del reato; in secondo luogo quando l’indagato sia attinto da più ordinanze per fatti diversi e questi siano stati commessi in un momento precedente l’emissione del provvedimento cautelativo per il fatto di reato per il quale si procede e per il quale sia stata emessa l’ordinanza primigenia. In tale evenienza, però, deve trattarsi di fatto di reato connesso ai sensi dell’art. 12, lettere b) e c) c.p.p. limitatamente alle ipotesi in cui gli uni siano stati commesse per eseguirne gli altri.

Infine, a chiusura della disposizione il legislatore afferma che tale disciplina non può trovare applicazione per le ipotesi in cui la desumibilità degli atti non sussista prima della richiesta di rinvio a giudizio per il fatto con il quale vige la connessione ex art. 12 c.p.p. 

Ebbene, la voluntas legislatoris sottesa alla disposizione è quella di evitare che, attraverso la reiterazione nel tempo nei confronti di uno stesso soggetto di più ordinanze coercitive per uno stesso fatto o per fatti connessi, i termini di custodia cautelare, pur rigorosamente regimentati dall'art. 303 cod. proc. pen., vengano ad essere indebitamente prolungati. Il legislatore ha voluto scongiurare che il pubblico ministero, scaglionando nel tempo le richieste di emissione di più provvedimenti coercitivi per fatti diversi fra loro connessi e già noti al momento dell'emissione della prima ordinanza, possa aggirare il sistema dei termini massimi di custodia e prolungare oltre i limiti di legge il vincolo alla libertà personale: si è così voluto garantire che, non appena gli elementi indiziari a fondamento di una determinata imputazione siano conosciuti o conoscibili, anche se emersi in altro procedimento, l'inquirente non indugi nel richiedere l'emissione dell'ordinanza cautelare, e ciò nella prospettiva di assicurare che la durata della custodia –– in ossequio ai canoni di uguaglianza e ragionevolezza –– dipenda da un fatto obiettivo  quale quello dell'acquisizione di elementi idonei e sufficienti per adottare i diversi provvedimenti cautelari, e non da una imponderabile valutazione soggettiva degli organi titolari del "potere cautelare"[15].

Come opportunatamente evidenziato da autorevole dottrina[16] il quadro normativo presenta diverse ipotesi di funzionamento bastevoli a qualificare l’istituto come “elastico” e, dunque, non àncorato a rigidi automatismi procedurali.

Giusto quanto stabilito con una prosa di scarsa comprensibilità la Corte di Cassazione è stata chiamata a far luce, a più riprese, sulla disciplina.

Ciò ha consentito di estendere e meglio individuare l’àmbito di applicabilità dell’istituto de quo.

Infatti alle già richiamate ipotesi bisogna aggiungere anche quelle individuate dalla giurisprudenza e, dunque, in caso di ordinanze emesse nello stesso procedimento o in procedimenti diversi, in relazione a fatti connessi o non connessi.

È necessario distinguere le situazioni in cui si tratti di fatti per i quali si proceda nell'àmbito del medesimo procedimento penale ovvero in procedimenti distinti e, nell'àmbito di ciascuno delle ipotesi de quibus, se trattasi di fatti connessi o meno.  

2.1. Il fatto uguale

La prima circostanza individuata dall’art. 297 c.p.p., nella quale l’istituto esprime la massima operatività, attiene all’emissione di più ordinanze cautelari emesse, nei confronti del medesimo soggetto, per lo stesso fatto.

Ciò impone una prima delimitazione concettuale.

Lungi dal rappresentare un elemento di immediata intellegibilità, il concetto di esame si presta a svariate interpretazioni a seconda della natura del reato che viene “attratta” nell’alveo dell’art. 297 c.p.p.

L’incipit “stesso fatto” è stato attenzionato dalla dottrina[17] la quale si è a lungo interrogata se esso debba essere valutato come un “identico fatto storico che costituisce reato” oppure, in senso più ampio, come stesso procedimento penale. La questione, non di poco conto, si riflette inevitabilmente anche sul princìpio del ne bin in idem cautelare. In tale àmbito «la nozione di idem factum viene ricostruita alla stregua della figura dogmatica della fattispecie giudiziale, ravvisandone la ricorrenza quando le diverse contestazioni cautelari sostanzino imputazioni non autonome e cumulabili tra loro, bensì suscettibili di essere decise all’interno di un unico capo della sentenza»[18]

Senonché in un primo momento la Cassazione interpretò la locuzione “ordinanze applicative dello stesso fatto” non solo in caso di identica condotta-evento-rapporto di causalità, ancorché diversamente circostanziato o qualificato, ma altresì quelli di concorso formale di reati, di aberratio ictus o delicti ex artt. 82 e 83 c.p.[19]

Con espresso riferimento, invece, ai reati permanenti la giurisprudenza individuò lo “stesso fatto” come identità della condotta e dell’evento nel loro aspetto fenomenico sicché in presenza di una pluralità di condotte commissive od omissive la circostanza non poteva essere incardinata nell’identità delittuosa del fatto anche se essa fosse stata frutto di un unico reato permanente[20].

Il legislatore del 1995, tuttavia, nel ridefinire l'ambito di operatività della regola espressa nell'art. 297 comma 3 c.p.p., non limitò a recepire le acquisizioni già ormai consolidate sul piano giurisprudenziale e finì per delineare un istituto dai connotati ben diversi rispetto a quello tradizionalmente indicato come «divieto di contestazioni a catena». Nel prevedere che la suddetta regola di retrodatazione della decorrenza del termine debba applicarsi nel caso in cui «nei confronti di un imputato vengano emesse più ordinanze che dispongono la stessa misura», non solo «per uno stesso fatto, benché diversamente circostanziato o qualificato», ma anche «per fatti diversi commessi anteriormente alla emissione della prima ordinanza» e legati dai già ricordati vincoli di connessione, l'art. 297 comma 3 c.p.p. infatti sembrerebbe subordinarne l'operatività ai soli limiti espressamente risultanti dal testo normativo. Senza che, in particolare, nessun espresso rilievo assuma - stando al dato testuale - la circostanza che la tardività di una successiva ulteriore contestazione possa essere addebitabile ad inerzia «colpevole» dell'autorità procedente[21].

A fronte di un dato normativo piuttosto univoco nel dar rilievo, ai fini dell'operatività della regola ivi prevista, unicamente al presupposto della sussistenza dei già detti vincoli di connessione, in dottrina[22] si è riconosciuto come la modifica legislativa scaturisse da un istituto esorbitante rispetto allo stesso concetto di contestazione a catena, evidenziando che «dal punto di vista tecnico, può parlarsi di contestazione «a catena» solo se il secondo provvedimento è stato adottato per fatti già «acquisiti agli atti» al momento dell'emissione del primo, e cioè quando al giudice può rimproverarsi di non aver adottato un solo provvedimento cumulativo». Mentre, nella nuova disposizione, il legislatore aveva in sostanza fissato «una sorta di presunzione assoluta di responsabilità del pubblico ministero per «contestazione tardiva» con riferimento a tutte le ordinanze di custodia richieste ed ottenute successivamente alla prima, fondando tale presunzione sul semplice dato obiettivo del susseguirsi nel tempo delle suddette ordinanze per «fatti diversi».

Di qui si rilevava ulteriormente come la disciplina introdotta dalla legge n. 332 del 1995 suscitasse, proprio sotto questo profilo, forti riserve anche sul piano della legittimità costituzionale delle scelte sottostanti[23], seppur la scelta di fondo fosse da rinvenire nella volontà legislativa di scoraggiare la diffusione di talune prassi giudiziarie.  

2.2. Le ipotesi di connessione qualificata e non qualificata

Il concetto di connessione qualificata è imprescindibilmente àncorato alle ipotesti previste dall’art. 12 c.p.p. che per la sua particolare incidenza e importanza anche in altre settori processuali –– si pensi, putacaso, alla competenza, alla prova dichiarativa o al regime ex art. 270 c.p.p. in tema di intercettazioni –– è stata a lungo oggetto di interesse giurisprudenziale.

Il perimetro di operatività di cui all’art. 297, c. 3, c.p.p., come si vedrà, varia a seconda che –– giustappunto –– si versi nella prima ipotesi piuttosto che nell’altra.

In ossequio al dovere di completezza logico-giuridico è necessario evidenziare che, onde parlare di connessione qualificata, deve versarsi in una delle seguenti ipotesi: concorso formale, reato continuato e nesso teleologico. Come noto, le prime due sono da ricondurre allo schema dell’art. 81 c.p. a mente del quale è sanzionata la condotta di chi con una sola azione od omissione vìola diverse disposizioni di legge ovvero commette più violazioni della medesima disposizione di legge –– concorso formale –– e di chi con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge.

Più complicata è l’esatta di individuazione del nesso teleologico, ferma la stretta contiguità con il reato continuato, da tempo attenzionata da dottrina[24] e giurisprudenza[25]. Sul piano ontologico l’aggravante ex art. 61, c. 2, c.p. connotata da un rapporto mezzo-fine intercorrente tra i reati commessi presuppone nell’agente una originaria e preventiva rappresentazione di entrambe le fattispecie da commettere. Senonché il coefficiente psicologico si sovrappone a quello del reato continuato.

La Corte di Cassazione nella sua più autorevole composizione[26] nel 2017 è intervenuta nella dibattuta materia declinando la connessione teleologica in materia oggettiva e abbandonando del tutto il proprio orientamento che considerava conditio sine qua non l’identità soggettiva degli autori.

Gli Ermellini, infatti, nel ripercorrere la “storia” dell’art. 12, lett. c) c.p.p. hanno evidenziato come nella formulazione primigenia la disposizione in esame faceva riferimento alla locuzione “se una persona” e dunque era giocoforza ritenere che, ai fini della connessione teleologica, questa era integrata da plurimi fatti di reato addebitabili al medesimo indagato.

Il dato testuale ––  profondamente innovato dal d.l. 20 novembre 1991, n. 367  recante "Coordinamento delle indagini nei procedimenti per reati di criminalità organizzata" convertito  in L. 20 gennaio 1992, n. 8 s.m.i., in cui l’art. 1 ha soppresso l'esplicito riferimento all'identità dell'autore dei fatti in connessione, sostituendolo con una locuzione impersonale "se dei reati per cui si procede" ––  oltre ad ampliare lo spettro dei legami rilevanti tra reati, aggiungendovi la cosiddetta connessione occasionale , ossia i reati commessi in occasione di altri,  e ulteriori profili finalistici[27].

L’impianto normativo, modificato ex novo con L. 1 marzo 2001, n. 63 rubricata "Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale in materia di formazione e valutazione della prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell'art. 111 Cost." ha espunto, grazie all'art. 1, il riferimento alla connessione occasionale e ai profili finalistici introdotti nel 1991 senza ritornare all’adozione della formula  "se una persona è imputata []…“ bensì mantenendo in vita la locuzione “oggettivistica” .

Ebbene, l’attuale formulazione dell’art. 12, lett. c), c.p.p. impone una riflessione in quanto l'oggettivo riferimento ai reati, invece che quello soggettivo ai loro autori, per individuare il vincolo teleologico, esprime un parametro da interpretare come un univoco segnale di mutamento della voluntas legis di ampliare il perimetro di operatività dell'istituto della connessione assicurando l'esame unitario, in particolare, dei fenomeni di criminalità organizzata.

Vi è un ulteriore aspetto da considerare: gli ulteriori aspetti e porzioni di articolo sui quali la riforma ha inciso. 

La formulazione ab origine dell'art. 12, lett. b) era, infatti, così strutturata: "se una persona è imputata di più reati commessi con una sola azione od omissione ovvero con più azioni od omissioni in unità di tempo e di luogo" mentre quella introdotta dalla predetta riforma recita "se una persona è imputata di più reati commessi con una sola azione od omissione ovvero con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso".  

Le stratificazioni normative invero non aiutano l’interprete a fare luce su una disciplina cotanto articolata, soprattutto quando si versa nell’elevato rischio di sovrapporre istituti e concetti dogmatici che poggiano ed operano su piani differenti.

Facendo proprio il pensiero della Suprema Corte di Cassazione[28] si evidenzia come la disciplina della connessione, ante riforma del 1991, prevedesse la  coesistenza sia delle ipotesi di cui alla lettera b) che c)  e di conseguenza la previsione della identità soggettiva degli autori dei reati in entrambi i casi poteva ritenersi dovuta al fatto che, mentre nella lettera b) rientravano i soli casi di continuazione caratterizzati da unità spazio-temporale delle azioni od omissioni, la lettera c) prevedeva una ulteriore ipotesi di possibile continuazione ossia quella della commissione di uno o più reati al fine di commetterne altri, in quanto la giurisprudenza –– all’epoca –– identificava  il nesso teleologico  come elemento indicatore del disegno criminoso[29].  

L'assorbimento nella lett. b) –– per effetto della novella –– di tutte le ipotesi di continuazione è interpretabile nella voluntas legis di escludere dalla connessione teleologica –– o dal nesso finalistico come dir si voglia –– il requisito soggettivo dell'identità degli autori.

Interpretando a fortiori, infatti, la previsione di cui alla lett. c) rischierebbe di duplicare, anche se solo in parte, quella della lett. b), in quanto il nesso finalistico è normalmente sintomo di unica progettualità criminosa.

Muovendo da queste premesse gli Ermellini hanno escluso l’adesione all’orientamento minoritario[30] in seno alla Corte che prediligeva una interpretazione logico-sistematica tale per cui sarebbe necessario la perfetta coincidenza degli autori dei reati per integrare le ipotesi ex art. 12, lett. c), c.p.p.

Senonché ciò che rileva è la natura essenzialmente oggettiva non adeguatamente valorizzata dalle singole sezioni formanti l’orientamento a lungo prevalente. Se vi convoglia il ragionamento giuridico sulla soggettività degli autori dei reati si rischia –– e nella prassi si è verificato –– di non valutare gli aspetti penali sostanziali della connessione teleologica, che convergono nell'indicare quale criterio per la ricorrenza di tale ipotesi il solo legame finalistico tra i reati, posto che l’aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 2  fa riferimento anche ad altre ipotesi, quali ad esempio, la commissione di un reato per eseguirne od occultarne un altro. Senonché la configurabilità della connessione teleologica in caso di autori diversi è stata riconosciuta[31] tanto in sede dottrinale che giurisprudenziale[32].

Peraltro, un consolidato orientamento di legittimità[33] –– oggi non più sussistente[34] –– ha a lungo ritenuto l'istituto della continuazione non incompatibile con l'aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 2, sul rilievo che la continuazione, quale strumento equilibratore della pena, agisce sul piano della riconducibilità di più reati ad un comune programma criminoso, mentre l'aggravante del nesso teleologico, connotata dalla strumentalità di un reato rispetto ad un altro e finalizzata all'aggravamento della pena in quanto espressione di maggior pericolosità del colpevole, può rientrare, nonostante la differente funzione dei due istituti, nel programma criminoso elaborato da un solo agente o da più concorrenti nel reato.

La richiamata unità  del processo volitivo –– a lungo prevalente –– implicherebbe l'estensione all'art. 12 c.p.p., lett. c)  del parametro soggettivo proprio delle lett. a), concorso di persone nel reato,  e b), concorso formale e continuazione della stessa disposizione, senza tener conto che queste ultime ipotesi di connessione possono ricomprendere, nel caso di ricorrenza di entrambe anche la commissione da parte delle stesse persone di più reati-mezzo e di più reati-fine  se espressivi di un'unica progettualità, rendendo sostanzialmente superflua la previsione della connessione sub c), se intesa nel senso che presupponga, a propria volta, l'identità degli autori dei reati.

Interpretazione questa, che non può trovare asilo e applicazione concreta in quanto trattasi di una norma derogatoria delle regole sulla competenza e, in quanto tale, da interpretare strictu sensu e non mediante analogia o altri ragionamenti estensivi.

Ad un esame più dettagliato e puntuale la formulazione dell'art. 12, lett. c) c.p.p. sposta e concentra l’attenzione essenzialmente sul legame oggettivo tra due o più reati, senza esigere che l'autore - o gli autori - di quello strumentale all'altro o agli altri debba - o debbano - necessariamente prendere parte a quest'ultimo, che può essere commesso da terzi. La ratio sottesa alla conclusione de qua  risulta del resto avvalorata dalla considerazione che il caso di nesso strumentale per occultamento, il quale rappresenta la seconda ipotesi di connessione di cui alla lett. c) della norma in esame, accomunata alla prima dall’introduzioni di cui  "se dei reati per cui si procede"  esprime con tutta evidenza la possibilità che l'autore del secondo reato, ispirato alla finalità di occultamento del precedente, sia diverso dall'autore del primo - ben potendo il reato finalizzato all'occultamento di un fatto criminoso già commesso essere realizzato, per le più svariate ragioni, da persona diversa -, risultando così l'unità del processo volitivo del tutto estranea, o comunque meramente eventuale, a tale fattispecie di collegamento tra reati.

Né può ricorrersi alla paventata violazione dell’art. 25 Cost[35]. ove gli indagati dei reati meno gravi o –– in caso egual disvalore –– successivi al primo  fossero attratti nell'orbita della competenza del giudice, rispettivamente, di quello più grave o del primo reato, per la ragione che l'interesse di un imputato alla trattazione unitaria di procedimenti per reati commessi in continuazione, o connessi teleologicamente, non potrebbe pregiudicare quello del coimputato a non essere sottratto al giudice naturale secondo le regole ordinarie della competenza, giusta la tradizionale equazione processual-penalistica in virtù della quale al cospetto del giudice naturale si incardina il forum commissi delicti.   Così argomentando si trascurerebbe il valore costituzionalmente tutelato della imparzialità del giudice, assicurato dalla sua precostituzione rispetto alla vicenda controversa, in base a criteri generali, che, nei limiti della non arbitrarietà e della ragionevolezza, appartengono alla discrezionalità legislativa.

Va da sé, però, che il principio dell'efficienza della giurisdizione non può che essere assicurato dalla unitarietà della celebrazione del processo e dunque, dalla ragionevole durata e dalla prevenzione di giudicati non fisiologicamente contrastanti.

Vale la pena ricordare, oltretutto, l’insegnamento delle Sezioni Unite[36] penali nel noto caso “Taricco” in virtù della quale il “nesso teleologico oggettivamente interpretato” non contrasta con il principio del giudice naturale precostituito per legge in quanto, pur derogando alle norme ordinarie sulla competenza per materia e per territorio, costituisce un criterio originario e autonomo –– nonché predeterminato in modo generale –– di competenza ancoràto, pur esso, al criterio del locus commissi delicti del reato più grave o, in caso di parità, al luogo di commissione del primo reato.

Orbene, una volta circoscritte –– o quanto meno si spera –– le ipotesi di connessione qualificata tenendo bene a mente cosa intendere per nesso teologico e la differenza con le ipotesi di cui alla lettera b), si può cercare di individuare quando si versi in ipotesi di connessione non qualificata.

In realtà, pur correndo il rischio di risultare banale, si può tranquillamente affermare che si ha connessione non qualificata quando non si versi nelle ipotesi ex art. 297, c. 3, c.p. p.

Dunque si ci pone al di fuori delle eventualità contemplate dall’art. 12 c.p.p.  Gli atti posti a fondamento della seconda ordinanza cautelativa erano già nel patrimonio conoscitivo dell’ufficio di Procura sin dall’emissione della prima ordinanza.

Non ci pone il problema ermeneutico di individuare un collegamento tra due procedimenti penali pendenti in quanto, ciò, porterebbe il lettore a ripercorrere le coordinate valutative sopraesposte.

Nel caso che occupa, invece, si versa nella “peculiare” ipotesi in cui il medesimo compendio investigativo –– o anche solo una parte –– sia posto a fondamento della richiesta di misure cautelare personale per due diversi fatti per il medesimo –– o medesimi –– soggetti indagati.

Può anche verificarsi l’ipotesi che il pubblico ministero a fronte di una corposa documentazione investigativa decida di utilizzare parte di tali atti per richiedere una prima misura cautelare e, in tempi successivi, ponga a fondamento di una nuova richiesta degli elementi dell’attività di indagine a lui già noti ma non utilizzati.

Tale opera di “parcellizzazione” investigativa consente all’organo inquirente di scegliere e valutare quali aspetti sottoporre a parziale discovery e quali continuare a sottoporre a segreto istruttorio. Nella cornice fattuale ivi proposta si parla –– in senso a-tecnico –– di connessione non qualificata proprio perché tale collegamento tra più fatti non collegati ex se, seppur riferibili al medesimo indagato, non deriva da istituti regolamentati dalla legge ma dal “taglio” con cui l’Accusa crea il fascicolo da delegare alla fase endo-processuale per eccellenza: l’àmbito cautelare per l’appunto.

Il problema delle contestazioni a catena per fatti non connessi è stato particolarmente sentito in giurisprudenza specie nell'ambito dei procedimenti relativi ai reati commessi da strutture associative di stampo mafioso[37].

In letteratura[38], oltretutto, in ossequio ai valori del garantismo processuale si è registrato un orientamento favorevole all’ applicazione del meccanismo della retrodatazione di cui all'art. 297 comma 3 c.p.p. anche ai casi di contestazioni a catena per reati non connessi, ancorché subordinatamente al criterio della desumibilità  –– su cui si ritornerà ––   facendo leva essenzialmente su due argomentazioni:  una visione storico-ricostruttivo della disposizione e la tematica della «colpevole inerzia del p.m.» aspetto, questo, che ha rappresentato la genesi dello sviluppo in subiecta materia. 

Per quel che concerne la prima esposizione sarebbe contrario alla ratio dell'intera evoluzione normativa escludere totalmente dal meccanismo della retrodatazione le ipotesi di contestazioni a catena per reati non connessi[39]:  la tendenza normativa, dal 1930 ad oggi  in tema di contestazioni a catena, è sempre  stata nel senso di ampliare l’àmbito della retrodatazione sì che  una lettura che attenui le garanzie riconosciute in precedenza dalla giurisprudenza –– ponendosi in contrasto con tale sviluppo storico ––  si porrebbe in contraddizione con il sistema normativo vigente in materia di provvedimenti cautelari.  

Sull’assenza di operatività dell’organo inquirente la dottrina[40] non ha mancato di evidenziare i rischi, cui inevitabilmente si andrebbe incontro, nel voler  aderire ad  un'interpretazione massimalista e, dunque negare, l’operatività ex art. 297 c.p.p. Più nel dettaglio, gli studiosi hanno fatto leva sul fatto che l’adesione alla tesi de qua  varrebbe ad ammettere che ove il pubblico ministero diluisca artificiosamente nel tempo la contestazione di fatti diversi debba sempre applicarsi il principio di autonoma decorrenza dei titoli cautelari in virtù del fatto  che la disposizione de qua –– recando circoscritte eccezioni alla regola iuris ––  opererebbe in vi generale con riferimento a quanto non espressamente previsto in via eccezionale o espressamente menzionato.  Tale argomentazione, ovviamente, si pone al di fuori delle regola in materia de libertate e si allontana oltremodo dai princìpi a presidio del giusto processo. Quando, infatti, il pubblico ministero artificiosamente diluisce le contestazioni egli ritarda quella che sarebbe stata la legittima, e fisiologica, decorrenza del termine. Pertanto, in tali ipotesi, ove in concreto vi sia la prova della mala fede del pubblico ministero, continua ad essere legittima e doverosa la soluzione secondo cui i termini di custodia in relazione al reato oggetto della seconda ordinanza decorrono dalla data in cui essa poteva e doveva essere emessa[41].

Oltretutto, facendo proprio il pensiero di autorevole dottrina[42] viene naturale aderire alle considerazioni di seguito esposte: «Se il legislatore ha voluto semplificare, dettando, per la retrodatazione dei termini custodiali, una condizione (sussistenza di nessi qualificati tra la pluralità di fatti qualificati come reato) per sua natura meno opinabile e di più facile dimostrazione rispetto alla emergenza dei presupposti per l'adozione della misura coercitiva attraverso un controllo ora per allora, ciò non significa consentire al titolare della funzione d'accusa di frantumare e centellinare la contestazione dei fatti unitariamente emersi in modo chiaro ed evidente, con l'intento persecutorio di distanziare nel tempo il decorso dei corrispondenti termini per eludere la disciplina dei tempi della custodia cautelare, così svuotando di significato la garanzia insita nella c.d. scarcerazione automatica per decorrenza dei termini massimi ex artt. 303 e 306 c.p.p.».

In presenza di una pluralità di provvedimenti coercitivi per fatti reato diversi a carico dello stesso soggetto, l'unificazione del dies a quo del termine di custodia è possibile e doverosa se e quando sia comunque accertato che fin dal momento della richiesta iniziale risultava un quadro indiziario tale da legittimare il provvedimento coercitivo anche per il fatto-reato diverso anche in ipotesi di connessione non qualificata.

Le argomentazioni sinora esposte –– caratterizzate un’interpretazione del sistema orientata da una dichiarata diffidenza nei confronti dell'organo inquirente –– presterebbero il fianco a talune critiche per la loro intrinseca restrittività operativa inevitabilmente frutto di un eccessivo pragmatismo[43].

In realtà, a parere di chi scrive la materia cautelare –– in ex equo con l’esecuzione penale –– è caratterizzata, più di altre, da una doppia natura teorico-pratica e non potrebbe essere altrimenti visto il largo (ab)uso dei provvedimenti limitativi della libertà personale. Si consideri che, nella prassi, la custodia cautelare assuma la funzione di anticipare una pena di cui si vede lontana e incerta l’esecuzione, o di impartire un’immediata lezione a quello che si ritiene autore del reato, è confermato dal modesto impiego delle misure non custodiali e meno afflittive che spesso, è significativo, vengono applicate – o meglio, concesse – soltanto dopo un periodo più o meno lungo di carcerazione: mentre dovrebbe trattarsi di misure da utilizzare in via principale, sulla base del principio di adeguatezza, che fa dipendere la loro scelta dalla valutazione della natura e del grado delle esigenze cautelari da soddisfare[44].

Le critiche e i problemi delle contestazioni a catena nascono ed evolvono nella prassi applicativa la quale ha dimostrato, non di rado, la tendenza inquisitoria degli strumenti de quibus frutto di un approccio non oggettivo e imparziale dell’organo dell’Accusa che dovrebbe tendere –– e contribuire –– all’accertamento delle verità e a dare concretezza al volto invisibile della Giustizia senza “scadere” nel giustizialismo in cui, sovente, si esaurisce.

2.3.  I fatti diversi connessi

In materia di contestazioni a catena delle ordinanze cautelari per fatti connessi emesse in distinti procedimenti e di retrodatazione dei termini, ex art. 297, comma 3 e 303 c.p.p., sono sorti non poche perplessità ed incertezze anche in virtù dei plurimi indirizzi giurisprudenziali ravvisabili in seno alla medesima Cassazione.

Il quesito di diritto devoluto alle Sezioni Unite nel 2018[45] ha riguardato la seguente circostanza: “se, in ipotesi di pluralità di ordinanze applicative di misure cautelari per fatti connessi, la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare, di cui all'art. 297, comma 3, cod. proc. pen., deve essere effettuata frazionando la durata globale della custodia cautelare ed imputandovi solo i periodi relativi a fasi omogenee”.

Sul quesito, invero, gli Ermellini non danno soluzione al problema –– tanto che la questione verrà riproposta nel 2020 –– ma offrono alcuni spunti per gettare luce sulla sotto-fattispecie in esame.

Affrontando la tematica sottesa in pronuncia il Collegio di legittimità invero affronta una questione di estrema importanza e complessità sebbene, a differenza delle precedenti pronunce, non si dilunga in disquisizioni giuridiche particolarmente prolisse e articolate.

Con espresso riferimento della riconducibilità dell’art. 297 c.p.p. nell’alveo dei reati associativi la Cassazione aderisce all’orientamento maggioritario[46] espresso nel 2007 con la già citata sentenza a Sezioni Unite “Librato” a mente della quale «[può] condividersi l'affermazione della giurisprudenza prevalente…[] che la retrodatazione prevista dall'art. 297, comma 3, c.p.p. "presuppone che i fatti oggetto dell'ordinanza rispetto alla quale operare la retrodatazione siano stati commessi anteriormente all'emissione della prima ordinanza e tale condizione non sussiste nell'ipotesi in cui l'ordinanza successiva abbia ad oggetto la contestazione del reato di associazione di stampo mafioso con descrizione del momento temporale di commissione mediante una formula cosiddetta aperta, che faccia uso di locuzioni tali da indicare la persistente commissione del reato pur dopo l'emissione della prima ordinanza" (...). È solo rispetto a condotte illecite anteriori all'inizio della custodia cautelare disposta con la prima ordinanza che può ragionevolmente operarsi la retrodatazione di misure adottate in un momento successivo, come si desume dalla lettera dell'art. 297, comma 3, c.p.p., che prende in considerazione solo i "fatti diversi commessi anteriormente alla emissione della prima ordinanza». Le ragioni sono immediatamente percepibili e si fondano, sostanzialmente, sulla circostanza che laddove si abbracciasse una interpretazione più elastica grazie alla quale, mediante il ricorso alle contestazioni “aperte”, si consentirebbe la copertura –– in virtù della retrodatazione –– della prosecuzione dell'attività criminale rispetto alla quale non potrebbero più essere utilizzate misure cautelari.

Un ragionamento di tal fatta mal si concilierebbe con i princìpi regolatori dei provvedimenti della privazione della libertà personale. Ciò con l’effetto di porre il predetto in una condizione deteriore rispetto a chi, pur versando nella medesima situazione sostanziale, venga invece attinto da «provvedimenti cautelari coevi»[47].

La giurisprudenza di legittimità, non a caso, ha escluso che la retrodatazione possa trovare applicazione nel caso in cui le ordinanze a catena abbiano ad oggetto diversi periodi di consumazione del medesimo reato permanente, stante la peculiare fisionomia della fattispecie criminosa che, pur integrando un unico reato, sotto il profilo della previsione normativa, si compone strutturalmente di plurimi fatti idonei ad integrarlo[48].

In osservanza, peraltro, al tenore letterale dell’art. 297 c.p.p. ciò che dovrebbe rivelare attiene all’unicità del fatto e non anche del reato. L’ulteriore compressione della libertà personale subìta dal destinatario della misura per lo stesso reato, in ragione del decorrere di un nuovo ed autonomo termine di durata della misura all’interno della stessa fase, si giustificherebbe in funzione dell’accertamento di quei nuovi fatti che, pur avvinti in un unico reato permanente, aggravano l’offensività della condotta. Assunto che stride però con l’art. 303 c.p.p., in cui la durata della custodia cautelare viene rapportata al reato per il quale si procede e non ai fatti che, seppur astrattamente dotati di autonoma rilevanza penale, non assurgono ad altrettante autonome regiudicande.

Tanto meno la retrodatazione sembra potersi escludere nei casi in cui la seconda misura abbia ad oggetto il protrarsi del medesimo reato permanente successivamente all’esecuzione dell’ordinanza primigenia. Ciò in considerazione del fatto che, pur non disconoscendo come la legge correli il meccanismo de quo all’anteriorità dei fatti di cui alla seconda ordinanza rispetto all’emissione del primo titolo custodiale, tale previsione sarebbe applicabile unicamente alle ipotesi di più ordinanze attinenti fatti diversi e non anche laddove si ravvisi l’idem factum[49]. Perseguendo la retrodatazione la finalità, in presenza di plurime ordinanze emesse nell’ambito di un procedimento sostanzialmente unico, di tutelare la proporzione tra durata della custodia cautelare e la gravità del reato per cui si procede, appare indifferente allo scopo l’anteriorità dei fatti storici di cui alla seconda ordinanza. Non a caso, infatti, la retrodatazione opera ogni qual volta i titoli custodiali riguardino lo stesso destinatario e siano stati emessi in tempi diversi. Non rileva se la frammentazione delle domande cautelari sia o meno ascrivibile a profili di rimproverabilità degli organi titolari del potere cautelare. L’automatismo della retrodatazione discende dal fatto che la decorrenza ex novo ai sensi dell’art. art. 297, comma 5, c.p.p. dello stesso termine cautelare, in tutto o in parte già decorso, determina di per sé un inaccettabile stravolgimento del nesso di proporzionalità che, nell’ambito di ciascun procedimento, deve intercorrere tra gravità del reato e durata della correlata custodia cautelare. L’intenzione è, giustappunto, quella di “blindare” la possibilità del prolungamento dei termini massimi di custodia cautelare per effetto dello “slittamento” in avanti del dies a quo frutto dell’applicazione della seconda ordinanza cautelare.

2.4. I fatti diversi non connessi.  

Ulteriore e distinta ipotesi si ha con riferimento alla possibilità, originariamente non prevista dal legislatore, di estendere la sfera applicativa del divieto anche alle ipotesi fattuali, non avvinte da connessione, grazie all’opera congiunta sia della giurisprudenza di legittimità[50] che del giudice delle leggi[51].

Come già ampiamente chiarito l’ipotesi in esame è stata riconosciuta grazie all’ermeneusi garantista della Corte costituzionale nella, ormai più volte citata, pronuncia n. 408 del 2005.

Prima di allora, infatti, il riconoscimento ex art. 297 c.p.p. non operava e, quale corollario logico, il termine di decorrenza cautelare decorreva ex novo con l’emissione della nuova ordinanza distinta dalla primigenia.

Ad oggi nel solco di un orientamento pressocché consolidato[52] si riconosce la violazione del divieto delle contestazioni a catena anche per fatti diversi e non connessi. Tuttavia, affinché il termine possa retroagire –– nei procedimenti pendenti presso la stessa A.G. –– è necessaria la conoscenza degli elementi giustificativi dell’applicazione del secondo provvedimento già al momento dell’emissione del primo.

Addirittura con una sentenza ancor più garantista, e pressoché critica nei confronti dell’agire del pubblico ministero, si è affermato che «opera la retroattività della decorrenza dei termini di custodia cautelare allorché le notizie di reato siano pervenute a quella autorità precedentemente all’adozione della prima misura, a nulla rilevando la conoscenza effettiva, da parte di essa, della notizia sulla quale si fonda la misura ulteriore»[53].

Si è già messa in luce la circostanza per la quale si versi in ipotesi di connessione non qualificata, sia del fenomeno di parcellizzazione del compendio investigativo ad opera del P.M.

Ciononostante, in letteratura[54] si discusse molto circa legittimità dell’iter motivazionale della Corte costituzionale onde estendere l’art. 297 c.p.p.  ai fatti non connessi. L’aspetto sul quale si concentrò l’ampio dibattito attiene alla diversa terminologia impiegata –– atti vs ordinanza vs procedimento –– il quale assume una rilevanza centrale nel dibattito processuale tanto da essere stato nuovamente al centro dell’attenzione delle Sezioni Unite[55] nel 2020, seppur in contesti diversi.  

Ritornando al tema in esame la Consulta parla di desumibilità dagli atti al momento della emissione della precedente “ordinanza” mentre l’art. 297, comma 3, c.p.p. indica “fatti non desumibili dagli atti”.

L’incertezza terminologica ha rappresentato la linfa vitale del dibattito in seno alla comunità dei processualisti ma anche delle corti tanto da rendersi necessario, nel 2006, l’intervento a Sezioni Unite “Librato” al fine di chiarire meglio la portata della sentenza costituzionale e meglio individuare le circostanze, alla presenza delle quali, è possibile retrodatare il die a quo cautelare.

Osservarono le Sezioni unite che nella motivazione della pronuncia di costituzionalità n. 408 del 2005 non c'è alcun riferimento alla pluralità di procedimenti né si prospetta una differenziazione rispetto alla precedente sentenza del collegio di legittimità[56] alla cui ricostruzione normativa la Corte costituzionale mostrava di aderire[57].

Come è stato messo in rilievo dalla Cassazione prima e in dottrina[58] dopo il fatto diverso non connesso richiamata il concetto di unicità da intendere –– a sua volta –– in unicità reale e virtuale, quest’ultima ravvisabile nel caso in cui formalmente i procedimenti siano, sì, diversi ma tale diversificazione sia frutto di una scelta consapevole del pubblico ministero, dominus delle indagini preliminari.

Come noto, la discrezionalità “processuale” in capo all’ordine inquirente è ampia e si riversa su più àmbiti: stralcio posizioni processuali, riunione, la richiesta differimento dei colloqui difensivi ex art. 104, comma 3, c.p.p., giusto per citarne alcuni.

Tale possibilità di scelta ha come fine l’evitare che possa essere arrecato il pregiudizio alle indagini.

Ciò non può tradursi, tuttavia, in un aggiramento delle regole processuali.

Ciò posto, ogni qualvolta, a fronte dell’unicità di un fatto di reato –– composto da plurimi fatti in capo al medesimo indagato non avvinti dal vincolo della connessione –– l’Accusa, fermi i requisiti di cui al combinato disposto degli artt. 273-274 c.p.p., deve presentare una richiesta cautelare che tenga conto di tutti senza ricorrere all’escamotage scansione temporale delle richieste e alla parcellizzazione del fascicolo d’indagine.

3.  La desumibilità degli atti e la retrodatazione dei termini di custodia cautelare

Ebbene, la disamina di tutte le possibilità dalle quali evincere l’applicazione concreta delle contestazioni a catena non è un mero esercizio teorico ma rappresenta le fondamenta per operare e individuare l’altro tassello essenziale dell’art. 297, c. 3, c.p.p.  L’incipitLa disposizione non si applica relativamente alle ordinanze per fatti non desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto con il quale sussiste connessione ai sensi del presente comma” è stata qualificata come “oscura” dalla dottrina[59] più avveduta la quale paventò, sin dall’entrata in vigore della disciplina, una possibile “deriva soggettiva giurisprudenziale” dell’eccezione normativa[60].

Infatti, il concetto intorno al quale ruota l’intera l’eventualità in esame attiene alla c.d. “desumibilità degli atti”.

Importante, però, è non “cadere” nell’errore concettuale di sovrapporla alla nozione di mera 'conoscibilità': il PM può ben essere a conoscenza di elementi d’indagine ma ciò non significa che essi in automatico assurgano a valutazioni utilizzabili ex artt. 273 c.p.p. Affinché, infatti, sia rilevante ai fini dell'art. 297, c. 3, c.p.p.  la desumibilità deve essere individuata nella conoscenza da un determinato compendio documentale o dichiarativo degli elementi relativi a un determinato fatto di reato, aventi ex se una specifica pregnanza processuale[61]. In altre parole essa è collegata, in concreto ed inequivocabilmente, dalla presenza a disposizione dell’Autorità Giudiziaria degli elementi da essa conosciuti o conoscibili, ossia, dalla presenza, al momento dell’emissione della prima ordinanza, di un quadro indiziario di tale gravità e completezza, conoscibile dall’autorità procedente ed apprezzabile in tutta la sua valenza probatoria, tale da integrare i presupposti legittimanti l’adozione delle ordinanze successive[62].

Trattasi di un elemento di estrema importanza caratterizzato da una particolare “elasticità” e modulabilità in quanto muta a seconda delle situazioni nella quale ci si trovi.

Essa viene in rilievo, anzitutto, nei casi ex art. 12 c.p.p. –– fermi i limiti supra elencati –– e particolarmente nell’àmbito dei fatti diversi non connessi grazie alla nota sentenza manipolativa additiva della Corte costituzionale del 2005 n. 408.

Ebbene, viene naturale chiedersi a questo punto quando, di fatto, si versi nell’ipotesi or ora descritta.

La completa disamina sub-specie non può che essere di matrice giurisprudenziale, tanto di legittimità quanto di costituzionalità, stante lo stretto dialogo tra le due Corti[63] sulla tematica.  La Corte di Cassazione ha più volte cercato di ridare “organicità” alla disciplina che si appalesa come frammentaria e altalenante.

Ad esempio, la seconda sezione della Suprema Corte[64] nel 2015 ha perimetrato l’operatività dell’istituto ponendo delle nette differenze per le plurime ipotesi. Tale pronuncia, seppur non deliberata nella più autorevole composizione, ha il pregio di aver fatto il “punto della situazione” riassumendo per ogni singola ipotesi come operi l’art. 297 c.p.p.  Per gli “addetti ai lavori” essa rappresenta la rotta da seguire in mezzo ad una marea giurisprudenziale che affanna nel tracciare un percorso chiaro.

E cosi sì ha che, nel caso in cui i fatti di un medesimo procedimento siano connessi, la retrodatazione della seconda ordinanza alla data di esecuzione o di notificazione della prima opera a condizione che sussistano due condizioni: in primo luogo,  che i fatti siano stati commessi anteriormente all'emissione della prima ordinanza coercitiva rispetto alla quale si domanda la retrodatazione; e che sussista connessione qualificata ex art. 12, lett. b) c), c.p.p. fra i fatti di cui alle due ordinanze coercitive.

Di conseguenza, inserendosi nel solco già tracciato dalle Sezioni Unite “Rahulia”[65],  allorché trattasi di fatti connessi per i quali si procede nell'àmbito del medesimo procedimento non è necessario che ricorra l'ulteriore requisito della desumibilità dei fatti di cui alla seconda ordinanza coercitiva dagli atti posti a fondamento della prima ordinanza cautelare.

Diversamente opinando, nel caso in cui i fatti oggetto del medesimo procedimento non siano connessi, oltre al requisito della anteriorità, è necessario anche l'ulteriore condizione della desumibilità.

In tale ipotesi, ai fini della retrodatazione, è dunque richiesto che: i fatti siano stati commessi anteriormente all'emissione della prima ordinanza coercitiva, rispetto alla quale si domanda appunto la retrodatazione; che i fatti fossero desumibili dagli atti prima dell'emissione della prima ordinanza coercitiva[66].

Nel caso in cui si tratti di fatti oggetto di procedimenti distinti, occorre distinguere a seconda se si tratti di fatti connessi o meno.  

Nel caso di fatti connessi, vale la regola codificata nella seconda parte dell'art. 297 c.p.p., comma 3, secondo la quale la retrodatazione opera a condizione che: 1) i fatti siano stati commessi anteriormente all'emissione della prima ordinanza coercitiva, rispetto alla quale si domanda la retrodatazione; 2) sussista connessione qualificata ex art. 12 lett., b) c), c.p.p.  fra i fatti di cui alle due ordinanze coercitive; 3) i fatti oggetto del diverso procedimento fossero desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio per il fatto o i fatti oggetto della prima ordinanza[67].

Invece, nel caso in cui si tratti di procedimenti diversi per fatti non connessi, la retrodatazione è possibile solo a condizione che:  i fatti siano stati commessi anteriormente alla emissione della prima ordinanza coercitiva, rispetto alla quale si domanda la retrodatazione;  i procedimenti siano pendenti  innanzi alla stessa A.G.; la loro separazione sia frutto di una scelta indebita del P.M.; infine, che  i fatti oggetto del diverso procedimento fossero desumibili dagli atti anteriormente alla prima ordinanza[68].

Per costante giurisprudenza[69], infatti, la retrodatazione della decorrenza dei termini di durata massima delle misure applicate con successive ordinanze opera solamente se gli accadimenti oggetto dei provvedimenti fossero desumibili dagli atti già prima del momento in cui è intervenuto rinvio a giudizio per i fatti posti alla base della prima ordinanza.

Di conseguenza, al fine di consentire al Giudicante l’analisi puntuale dei requisiti di cui si discorre –– sia esso Tribunale del Riesame o la Corte di Cassazione in caso di impugnazione –– grava sul difensore dell’indagato l’onere di allegazione degli atti per individuare la violazione del divieto delle contestazioni a catena e retrodatare all’emissione della prima ordinanza cautelare l’esecuzione del secondo provvedimento de libertate.   

4.  Gli ultimi approdi giurisprudenziali

Con sentenza del 28 maggio 2020 n. 23166, la giurisprudenza di Cassazione nella più autorevole composizione si è espressa in ordine ai procedimenti pendenti in fasi processuali diverso sulla corretta modalità per operare la retrodatazione dei termini di fase, a seguito di un nuovo contrasto tra le sezioni semplici.

Nello specifico l’orientamento più risalente e maggioritario[70] abbraccia la modalità cosiddetta “a scomputo” in virtù della quale la retrodatazione impone, per il computo dei termini di fase, il frazionamento della durata globale della misura custodiale imputando solo i periodi per fasi omogenee.  Così argomentando si sostiene che, in caso di contestazioni a catena ai sensi dell'art. 297, comma 3, cod. proc. pen., la retrodatazione dei termini di custodia cautelare della seconda ordinanza andrebbe necessariamente operata sommando al periodo di custodia già subito dall'indagato solo quello sofferto in base alla prima ordinanza nella medesima fase. Esso implicherebbe che, per verificare l'avvenuta scadenza del termine di fase relativo alla seconda misura, occorrerebbe in primo luogo calcolare la durata della custodia cautelare subita nella medesima fase nel corso del primo procedimento; a tale periodo andrebbe poi sommato il tempo di custodia subito in relazione alla seconda misura cautelare, per poi verificare se la somma dei due periodi determini o meno il superamento del termine di fase relativo a tale ultima misura[71].

L’orientamento minoritario[72], invece, con espresso riferimento all’applicazione di plurime misure cautelari per fatti connessi, per il computo della retrodatazione considera l’intera custodia cautelare subìta anche se relativa a fasi non omogenee. In ipotesi di pluralità di ordinanze applicative di misure cautelari per fatti connessi, la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare, di cui all'art. 297, comma 3, cod. proc. pen., non deve essere effettuata frazionando la globale durata della custodia cautelare ed imputandovi solo i periodi relativi a fasi omogenee».

Il fondamento sarebbe da rinvenire, nello specifico, in un’ottica “garantista”: la "retrodatazione", in ossequio ai princìpi di certezza e di «durata minima»[73] della custodia cautelare, non potrebbe essere elusa tramite la diluizione nel tempo di più provvedimenti restrittivi nei confronti della stessa persona, con il conseguente impedimento al contemporaneo decorso dei termini relativi a plurimi titoli custodiali nei confronti del medesimo soggetto. Mediante il ritardo nell'adozione della seconda ordinanza cautelare ed in assenza del correttivo previsto dall'art. 297, comma 3, cod. proc. pen., si determinerebbe l'indebita espansione della restrizione complessiva della libertà personale dell'imputato, tramite il «cumulo materiale» - totale o parziale - dei periodi di custodia afferenti a ciascun reato. Effetto che non si verificherebbe, invece, qualora l'indagato, pur versando nella medesima situazione sostanziale, fosse stato raggiunto da provvedimenti cautelari coevi.[74]

Di conseguenza a seguito della rimessione del princìpio di diritto “Se, in ipotesi di pluralità di ordinanze applicative di misure cautelari per fatti connessi, la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare, di cui all'art. 297, comma terzo, cod. proc. pen., deve essere effettuata frazionando la durata globale della custodia cautelare, ed imputandovi solo í periodi relativi a fasi omogenee, oppure computando l'intera durata della custodia cautelare subita, anche se relativa a fasi non omogenee”, le Sezioni Unite pongono l’attenzione anche su un altro aspetto non precedentemente vagliato.

Infatti, afferma la Corte –– pur a volere aderire al principio secondo cui ai fini del calcolo della "retrodatazione" occorre frazionare la durata globale della custodia cautelare, imputando alla misura adottata per seconda i soli periodi relativi a fasi omogenee –– gli indirizzi supra prospettati ritengono che il sistema de quo sarebbe applicabile unicamente allorquando entrambi i diversi procedimenti versino nella medesima fase. Laddove, infatti, il procedimento in cui è stata emessa la prima misura cautelare sia passato a una fase successiva in costanza dell'efficacia di tale misura, la ratio dell'istituto della contestazione a catena implicherebbe che la misura da ultimo applicata non perda efficacia quand'anche il procedimento cui essa accede versi ancora nella fase antecedente. La misura custodiale applicata per prima, ed ancora efficace in conseguenza del nuovo termine di fase, impedirebbe di dichiarare l'inefficacia della misura cautelare applicata per seconda, in quanto «l'effetto della retrodatazione conduce alla assimilazione della misura cautelare retrodatata alla primigenia, come se fosse stata emessa coevamente ad essa, così da eliminare il pregiudizio dell'indagato della contestazione a catena, che lo avrebbe sottoposto ad un ingiusto aggiramento dei termini massimi di custodia cautelare»[75]. Da ciò conseguirebbe che la seconda ordinanza segue esattamente le sorti procedimentali della prima e, dunque, intanto potrà essere dichiarata la perenzione della ordinanza retrodatata in quanto i termini massimi di custodia cautelare afferenti all'altra ordinanza siano effettivamente scaduti.  

Senonché la quarta sezione, rimettente, ha sostenuto che poiché la finalità della retrodatazione consiste nel riallineare fattispecie cautelari che, pur dovendo nascere in un unico contesto temporale, si sono sviluppate in tempi successivi, tale risultato non sarebbe ottenuto ove si procedesse solo alla sommatoria dei termini decorsi in fasi omogenee. Ciò avrebbe per effetto che il periodo di custodia cautelare maturato nella fase delle indagini preliminari per la seconda misura potrebbe cumularsi soltanto a quello trascorso nella medesima fase per la prima misura, in tal modo potendosi determinare, mediante frazionati passaggi di fase dei procedimenti, un'indebita protrazione dei termini di durata della compressione della libertà personale oltre i limiti che sarebbero conseguiti all'adozione congiunta dei due titoli custodiali.

Oltretutto, medio tempore è andato sviluppandosi un ulteriore orientamento[76] che, contrariamente a quelli sinora esposti, si è principalmente concentrato su per la specificità delle argomentazioni esposte non tanto sul profilo concernente le modalità della "retrodatazione" e del computo dei termini di custodia cautelare che ne consegue bensì sull'effetto che determina sulla seconda ordinanza il passaggio di fase verificatosi nel procedimento in cui è stata adottata la prima.

Il frazionamento della durata globale potrebbe applicarsi, così argomentano, solo tale sistema di calcolo sarebbe applicabile unicamente allorché entrambi i procedimenti nell'ambito dei quali le misure cautelari sono state emesse versino nella medesima fase. Laddove il procedimento in cui è stata emessa la prima misura cautelare sia passato a una fase successiva in costanza dell'efficacia di tale misura, la ratio dell'istituto della contestazione a catena implicherebbe che la misura da ultimo applicata non perda di efficacia quand'anche il procedimento cui essa accede versi ancora nella fase antecedente. 

Di conseguenza, «la misura custodiale applicata per prima ed ancora efficace in conseguenza del nuovo termine di fase, impedirebbe infatti di dichiarare l'inefficacia della misura cautelare applicata per seconda, in quanto "l'effetto della retrodatazione conduce alla assimilazione della misura cautelare retrodatata alla primigenia, come se fosse stata emessa coevamente ad essa»[77].

Le Sezioni Unite aderendo a tale ultimo indirizzo, che impone solo il computo per i termini di fase, analizza litterae legis[78] la disposizione dell’art. 297 c.p.p. Secondo il più alto consesso essa –– esclusivamente focalizzata sulla decorrenza dei termini di custodia relativi alla seconda misura cautelare e suscettibile al riguardo di immediata e autonoma applicazione –– non contiene alcuna indicazione circa la necessità di procedere a ulteriori calcoli finalizzati alla sommatoria dei periodi di custodia cautelare subiti in riferimento a ciascuna misura cautelare, né pone alcuna preclusione circa l'imputazione di periodi di custodia relativi a fasi processuali diverse. Tantomeno prevede o suggerisce che la retrodatazione debba operare secondo modalità analoghe allo scomputo dalla pena detentiva del periodo di custodia cautelare presofferto. Al contrario, secondo il collegio, essa descrive un meccanismo basato sull'anticipazione, mediante una fictio iuris, del termine iniziale di durata della seconda misura. Ciò che del resto risulta perfettamente conforme alla nozione di "retrodatazione" nella quale viene, per consuetudine, icasticamente riassunto il fenomeno in esame.

In definitiva, l'art. 297 c.p.p., comma 3, delinea un sistema che si sostanzia nella mera sostituzione del termine iniziale di durata della misura adottata per ultima, sicché per calcolare il relativo termine di fase sarà sufficiente far riferimento al dies a quo della prima ordinanza.

L'orientamento giurisprudenziale minoritario appare, secondo gli Ermellini, l'unico compatibile con i plurimi pronunciamenti della Corte costituzionale[79] che hanno chiaramente delineato ratio e finalità del meccanismo della retrodatazione.

L’ indifferibile esigenza di garanzia in merito alla certezza della durata della custodia cautelare rappresenta del resto il motivo conduttore della giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di contestazioni a catena e retrodatazione.

Sostanzialmente, il livello di “protezione avanzata” posto dall’istituto contemplato dall’art. 297, comma 3, c.p.p., che neppure arretra a fronte della trasformazione della custodia cautelare in pena detentiva, non può certo soccombere fra le maglie dei termini cautelari intra-fasici, scanditi da fattori variabili e incontrollabili.

La sentenza in commento, in armonia con i dettami interpretativi pregressi, esalta quindi la funzione di massima garanzia svolta dal meccanismo della retrodatazione delle misure cautelari, spostando poi il focus sulle altre frontiere di attuale dibattito giurisprudenziale, quali, in particolare, quelle attinenti ai parametri della connessione qualificata ed alla nozione di “desumibilità dagli atti” di cui all’art. 297, comma 3, c.p.p., dalla cui sussistenza può dipendere la concreta operatività in favor dell’istituto. Quest’ultimo è il terreno in cui svolge un ruolo di maggior protagonismo il giudice di merito, che, pur essendo chiamato ad applicare una norma che ad oggi ha perso le sue connotazioni di vaghezza, è spesso alle prese con addebiti cautelari indefiniti (fatto che viepiù rileva quanto al tempus commissi delicti, rammentandosi l’importanza dell’accertamento in punto di anteriorità dei fatti di cui alla seconda ordinanza) e risultanze investigative equivoche in relazione al potere/dovere di unicità dell’iniziativa cautelare da parte della Autorità giudiziaria inquirente[80].

5. Considerazioni conclusive

Da molti anni  e da più parti, si sottolinea il problema, ormai di entità non più tollerabile, del sovraffollamento carcerario la cui soluzione richiede interventi strutturali rispetto ai ciclici provvedimenti di clemenza. È un dato di fatto che alla causazione del fenomeno contribuisce in maniera certamente non indifferente anche l’uso smodato della custodia cautelare[81]. Per arginare tale fenomeno, nel corso delle ultime legislature, anche in sede di Commissioni ministeriali di riforma del codice di rito, numerose sono state le proposte per cercare di riportare la custodia cautelare in quegli ambiti di assoluta e stretta necessità che sarebbero imposti in un sistema ispirato al principio costituzionale della inviolabilità della libertà personale, nel cui solco la riforma del 1995 in tema di contestazioni a catena si inserisce a pieno titolo.

Le maggiori difficoltà, per chi si approccia a tale tematica processuale, è la disciplina altamente dispersiva e di non immediata comprensione che non consente ai soggetti interessati di individuare facilmente l’applicabilità dell’istituto.

A questa estrema e disagevole situazione processuale non sono rimaste indifferenti né la Cassazione –– sia a sezione semplice che nella sua più autorevole composizione –– né la giurisprudenza costituzionale le quali, non di rado, hanno cercato di ricomporre il mosaico e dotare di organicità ad un istituto ab origine sprovvisto. Costituiscono riprova infatti i numerosi interventi giurisprudenziali medio tempore registratesi con il chiaro intento di colmare le carenze interpretative. Non appare irragionevole ritenere, a fronte di una “applicabilità aperta”, che nel prossimo futuro la Corte di cassazione possa ritornare sull’istituto.

Alla luce di quanto finora argomentato e prospettato le più autorevoli voci[82] nel panorama processual-penale hanno prospettato, sin dall’entrata in vigore della novella del 1995,  dubbi di ragionevolezza su una normativa troppo rigida, tanto da arrivare a parlare di ipergarantismo.

Se la difficoltà andrebbe ricondotta all’impossibilità per l’organo dell’Accusa di poter provare che, di fatto, il suo “agire” sia stato tempestivo onde escludere una colpevole inerzia della gestione e nel coordinamento del fascicolo nel corso delle indagini preliminare si ritiene, allora, che la medesima difficoltà –– ma per ragioni di segno contrario –– vada ricondotta anche all’indagato e alla difesa posto che, per provare la violazione dell’art. 297 c.p.p. deve essere dimostrabile e dimostrata, in capo al PM, la conoscenza degli atti del procedimento. Ciò può avvenire solo attraverso un potere di allegazione puntuale e concreto. L’accesso alla documentazione processuale, soprattutto se attiene a due procedimenti diversi (soprattutto dinnanzi ad A.G. diverse) rende non impossibile, ma quantomeno problematica, l’applicabilità della retrodatazione.

Non appare così irragionevole porre un freno alle azioni del Pubblico Ministero soprattutto per l’abuso delle misure cautelari –– subspecie inframuraria –– che nel corso degli anni non hanno mai subìto una inflessione.  

De resto che l’abuso del processo[83] esisti è cosa nota, così come è pacifico il fatto che, a volte, abbia ispirato talune norme processuali per porvi un freno.

Se si desidera trovare uno “spazio” alla nozione ed all’operatività dell’abuso, questo embrerebbe collocarsi al di fuori delle ipotesi che — costituenti possibili deviazioni dalle finalità delle norme — il legislatore sanziona a posteriori –– perché non rispondenti allo scopo dell’attività svolta ––  o di cui impedisce l’esercizio in quanto non ritenuto conforme alle finalità previste dalla legge. Un’attenta lettura delle disposizioni codicistiche evidenzia numerose situazioni nelle quali il legislatore sanziona i comportamenti processuali delle parti che risultano frutto di una deviazione dai fini per i quali il legislatore conferisce, alle stesse e ai soggetti processuali, diritti o facoltà[84].

Una elencazione di queste situazioni, ancorché incompleta, potrebbe risultare utile per affrontare il problema dell’abuso del processo e dell’abuso del diritto. A titolo meramente esemplificativo si pensi ,in primo luogo, all’art. 441, comma 1 c.p.p., secondo cui nel corso del giudizio abbreviato non condizionato non è possibile effettuare contestazioni suppletive, pena altrimenti la nullità a regime intermedio prevista dall’art. 178, lett. c) cpp la cui ratio mira ad evitare contestazioni a sorpresa successive alla scelta irrevocabile di procedere con il rito speciale, sicché, trattasi di un precetto che ha come scopo  la tutela dell’affidamento dell’imputato e, dall’altro, la prevenzione di possibili abusi, da parte del P.M., nell’esercizio del potere di contestazione; o, ancora, alla disciplina in materia di sanatorie generali delle nullità ex art. 183 cpp e delle notificazioni che parrebbero ispirate dall’esigenza di evitare il riconoscimento di patologie prive di una reale offesa all’interesse processuale tutelato, con conseguente tutela dell’ordinamento da possibili abusi difensivi nell’eccepire nullità meramente apparenti e/o formali[85].

La disamina complessiva restituisce al lettore una visione, ancor oggi, incompleta e la percezione che si ha quando si approccia alla tematica de qua, è quella di una disciplina che l’organo d’accusa rifugge.  Va da sé che, al pari degli altri istituti supra menzionati, la l’introduzione dell’art. 297 c.p.p. soggiace alla medesima ratio.

A fronte di un evidente squilibrio di poteri tra l’organo inquirente e la difesa –– si è ben lontani, ancora, dal famoso princìpio di parità delle armi ex art. 111 Cost. –– il divieto confluito della disposizione in esame dovrebbe rappresentare un monito per il PM da una applicazione tendenzialmente indeterminata della materia cautelare alla quale dovrebbe ricorrere con giudizio, equilibrio e razionalità.

Invece il quadro che la prassi e le sentenze di legittimità ci restituiscono mostrano uno scenario non proprio edificante, in cui l’idea che tiene banco –– e che difficilmente potrebbe scemare –– attiene ad un potere in mano al giudicante fortemente disancorato dai limiti. Se il divieto nasce per “arginare” un fenomeno in cui il PM è l’unico protagonista, se si sviluppa per far fronte a dei vizi genetici e patologici allora non è tanto “sbagliato” il pregiudizio sull’agire del Pubblico Ministero.

Non dovrebbe, allora, parlarsi di un ipergarantismo ma più correttamente di un semplice princìpio processuale di civiltà giuridica a fronte del quale la libertà personale dell’indagato non può essere limitata che per ragioni valide, consentite dalla legge e solo a fronte di un titolo –– ancorché custodiale –– legittimo.

Che il legislatore nel corso del tempo abbia cercato di introdurre rimedi e porre dei limiti per far fronte alla carcerazione preventiva è fatto notorio: si pensi, ad esempio, nell’ambito dei criteri in tema di adeguamento e scelta delle misure, all’art. 275 c.p.p. in tema di giudizio prognostico di condanna che ove inferiore ai tre anni di penale è ostativo all’applicazione della misura custodiale.

Non possono che condividersi –– anche in questa sede –– le considerazioni svolte da voci più autorevoli[86] che già all’epoca delle riforme prospettarono l’efficacia pressappoco limitata di tali rimedi.   

Sia in tema di cui all’art. 275 che 297 c.p.p. il fil rouge è quello di rafforzare di arginare la carcerazione preventiva da un lato e rafforzare il coacervo dei diritti processuali dell’indagato. Emblematico, in tal senso, il passaggio della Consulta quando afferma «nessuno spazio può residuare in capo agli organi titolari del ‘potere cautelare' di scegliere il momento a partire dal quale possono essere fatti decorrere i termini custodiali»[87]

Almeno per quel che concerne il divieto delle contestazioni a catena forse sarebbe più utile un intervento legislativo che cerchi di colmare, anzitutto, le esigenze di chiarezza di cui la disposizione pecca e successivamente procedere ad alla normativizzazione di un fenomeno sviluppatosi nella giurisprudenza.

Perché se sono i casi giurisprudenziali a «trainare» le norme, allora è giocoforza che queste scontino il rischio, nell'ingegnarsi a costruire discorsi generali e astratti, di una sovra o sotto esposizione lessicale e, conseguentemente, di probabili derive per altre dubbie applicazioni e rinnovate incertezze[88].

Forse, solo così, si potrebbe raggiungere un minimo di certezza e stabilità circa l’individuazione di diritti, di doveri, di circostanze e di oneri per le parti processuali ai quali, per circa venti anni, hanno dovuto sopperire le giurisdizioni superiori creando, inevitabilmente, dubbi e contrasti che si traducono –– in assenza di chiarezza e certezza –– in una lesione delle garanzie difensive dell’indagato nella cui sfera soggettiva la macchina processuale produce i suoi effetti.


Note e riferimenti bibliografici

[1] BATTARINO, Il tempo del procedimento penale, tra angoscia della prescrizione e conquista di buone prassi, in Quest. Giust., 2017, in www.questionegiustizia.it

[2]LOVINO, Sulle contestazioni a catena, in Treccani, 2010, in www.treccani.it, il quale continua “la c.d. “carcerazione preventiva” rappresentava il factum principis dell’accertamento processuale, nel senso che lo strumento probatorio di maggior rilievo, sia dal punto di vista quantitativo che da quello qualitativo, era la confessione dell’imputato, che il più delle volte era il risultato dell’opera estorsiva del PM, la quale veniva posta in essere utilizzando, appunto, lo strumento della custodia cautelare in carcere; per l’appunto, l’art. 78 del codice 1930 qualificava l’imputato come il soggetto nei cui confronti si procede al fine dell’applicazione della pena, dunque risultava fisiologico che egli fosse ristretto nella sua libertà personale ancor prima di essere condannato, in primis al fine di ottenere la migliore collaborazione del soggetto del procedimento per la realizzazione dell’accertamento fattuale e poi perché questi non potesse tentare di sottrarsi agli effetti della condanna”.

[3] Ibidem.

[4] Si ricorda Cass., Sez. Un., 22 marzo 2005, n. 21957; Cass., Sez. Un.,19 luglio 2018, n.48109; Cass., Sez. Un., 29 luglio 2020, n. 23166.

[5] LONGO, La sentenza n. 233 del 2011: ancora un (condivisibile) intervento della consulta in tema di “contestazioni a catena”, in Giur. Cost. consultabile in https://www.giurcost.org/studi/longo1.htm .

[6]L’art. 2 della legge delega individuava nelle linee guida ai numeri d’ordine 59-65 gli interventi in tema de libertate da attuare. Più nello specifico si prevedeva “59) previsione di misure diverse di coercizione personale, fino alla custodia in carcere; potere-dovere del pubblico ministero di richiedere, presentando al giudice gli elementi su cui si fonda la sua richiesta, e del giudice di disporre, con provvedimento motivato, le misure di coercizione personale a carico della persona nei cui confronti ricorrono gravi indizi di colpevolezza, quando sussistono inderogabili esigenze attinenti alle indagini e per il tempo strettamente necessario ovvero quando sussistono esigenze di tutela della collettività o, se il reato risulta di particolare gravità, quando la persona si è data alla fuga o vi è concreto pericolo di fuga; divieto di misure di coercizione che limitano la libertà personale se il reato per il quale si procede è punito con pena detentiva non superiore nel massimo a tre anni, senza tener conto nel computo della pena delle circostanze aggravanti, fatta eccezione per quelle per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale, esclusa la recidiva, e senza tener conto delle circostanze attenuanti, fatta eccezione per l'età e per la circostanza prevista dal n. 4) dell'art. 62 del codice penale; divieto di disporre la custodia in carcere se, con l'applicazione di altre misure di coercizione personale, possono essere adeguatamente soddisfatte le esigenze cautelari; obbligo di disporre la revoca delle misure applicate se vengono a cessare le esigenze cautelari; previsione della sostituzione o della revoca della misura della custodia in carcere, qualora l'ulteriore protrarsi di questa risulti non proporzionata alla entità del fatto ed alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata; riesaminabilità anche nel merito del provvedimento che decide sulla misura di coercizione dinnanzi al tribunale in camera di consiglio, con garanzia del contraddittorio e ricorribilità per cassazione; previsione dell'immediata esecutività del provvedimento che pone in libertà l'imputato; 60) diritto dell'imputato in stato di custodia cautelare ad essere interrogato nella fase delle indagini preliminari immediatamente e comunque non oltre cinque giorni dalla esecuzione del provvedimento privativo della libertà personale; liberazione dell'imputato che non sia stato interrogato entro detto termine, salvo che ciò sia dipeso da assoluto impedimento del quale il giudice dà atto con decreto; nuovo decorso del termine dalla data della notizia della cessazione dell'impedimento; 61) previsione, per ciascuna fase processuale, di termini autonomi di durata massima delle misure di coercizione; diritto dell'imputato di essere comunque scarcerato e cessazione automatica di ogni altra misura coercitiva alla scadenza dei termini previsti per ciascuna fase; durata massima della custodia in carcere, in misura predeterminata in relazione a diverse categorie di reati, con previsione che, su richiesta del pubblico ministero, il giudice, in relazione a particolari e gravi esigenze, possa prorogare i termini per periodi predeterminati; previsione che i termini di durata massima delle misure possano essere sospesi durante il dibattimento in relazione allo svolgimento e alla complessità dello stesso nonché a differimenti processuali non imposti da esigenze istruttorie e determinati da fatti riferibili all'imputato o al suo difensore; previsione che in ogni caso la durata massima della custodia in carcere, tenuto conto anche di tutte le proroghe, non possa superare i quattro anni, sino alla sentenza definitiva; ragguaglio dei termini delle misure di coercizione personale diverse dalla custodia in carcere ai termini di questa; 62) previsione che, nei confronti dell'imputato scarcerato per decorrenza dei termini, il giudice possa disporre misure cautelari; previsione della possibilità di ripristino della custodia in carcere nel caso di violazione dolosa delle misure suddette nonché, per i reati di particolare gravità, con la sentenza di condanna in primo o in secondo grado, quando l'imputato si è dato alla fuga o vi è concreto pericolo di fuga; 63) previsione che, in caso di condanna dopo sentenza di assoluzione, il giudice possa disporre misure di coercizione quando sussistono inderogabili esigenze di tutela della collettività ovvero quando l'imputato si è dato alla fuga o vi è concreto pericolo di fuga e il reato risulta di particolare gravità; 64) potere del giudice dell'udienza preliminare e del giudice del dibattimento di disporre misure di coercizione personale nei casi, alle condizioni e con i limiti previsti nel n. 59);”

[7] CONSO- GREVI, Compendio di procedura penale, CEDAM, Padova, 2006, p. 419.  

[8] DE AMICIS, Sui rapporti fra misure cautelari personali e presunzione di non colpevolezza dell'indagato, in Cass. pen., 2020, vol. 60, n. 2, pp. 801 ss.; MAZZA, Le persone pericolose (in difesa della presunzione d’innocenza), in Dir. pen. cont., consultabile in www.archiviodpc.dirittopenaleuomo.org; PAULESU, La presunzione di non colpevolezza dell’indagato, Torino, Giappichelli, 2009, pp. 2 ss.

[9] Tra le più celebri sentenze sia permesso ricordare Corte cost., 10 marzo 1966, n. 18, in Giur. cost., 1966; Corte cost., 6 aprile 1973, n. 34; Corte cost., 19 febbraio 1965, n. 5; Corte cost., 8 maggio 1974, n. 123.

[10] L’argomento è stato più volte affrontato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo –– non esclusivamente con riferimento all’Italia –– la quale ha salvaguardo la misura la misura cautelare ma non ha mancato di porre un monito affinché gli ordinamenti giudiziari interni motivassero adeguatamente il provvedimento restrittivo come, da ultimo, avvenuto con la sentenza CEDU, sez. IV, 7 luglio 2020, Dimo Dimov e altri c. Bulgaria. Per approfondimenti sul tema sia consentito un rinvio a CASSIBBA, Impugnazioni de libertate e garanzie minime dell’equità processuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, n. 2.

[11] Cfr. Corte cost., 22 luglio 2011, n. 233.

[12] Cfr. Corte cost., 6 dicembre 2013, n. 293.

[13] RAMAJOLI, Le misure cautelari (personali e reali) nel codice di procedura penale, CEDAM, Padova, 1993, p. 177.

[14] Cass., sez. I,  31 gennaio 1994, n. 617.

[15] Per un maggiore approfondimento sia consentito il rinvio a Corte cost., 24 ottobre 2005, n. 408.

[16] BELLELLI– DE AMICIS, Scarcerazione per decorrenza dei termini, in Dig. disc. pen., Vol. XIII, UTET, Torino, 1997, pp. 19-20 in cui si richiama il pensiero di CHIAVARIO, Libertà – III) Libertà personale – Dir. Proc. Pen., in Enc. Giur., Vol. XIX, Roma, 1990, p. 14.  

[17]Ad esempio LUDOVICI, La disciplina delle “contestazioni a catena”, cit., p. 102 ss.; APRATI, Gli accertamenti sulla “retrodatazione” dei termini di decorrenza delle misure cautelari e contestazioni a catena, in Montagna (coordinato da), La giustizia penale differenziata. Gli accertamenti complementari, III, Utet, 2011, p. 649.   

[18] Ibidem.

[19] Cfr. Cass., 23 luglio 1992, Pezzella, in Giust. Pen., 1992, III, pp. 584 ss.  Come evidenzia GIULIANI, Le Sezioni unite "normalizzano" l'interpretazione in tema di contestazioni a catena ex art. 297 comma 3 c.p.p. (nel solco obbligato di una discutibile sentenza costituzionale), in Cass. pen., 2005, 10, pp. 2896 ss., afferma come  «In realtà tale orientamento, per costante interpretazione risalente ad un indirizzo giurisprudenziale già affermatosi nel vigore del codice abrogato, affermava che –– ai fini della decorrenza dei termini di custodia cautelare dal giorno di esecuzione del primo provvedimento ––  si dovessero considerare come «stesso fatto», non solo quello caratterizzato dalla identica sequenza «condotta-evento-rapporto di causalità» ma altresì per «fatti formalmente diversi» tra loro collegabili per effetto delle regole di cui agli artt. 81 comma 1, 82 comma 2 e 83 comma 2 c.p. (espressamente richiamate nell'allora vigente art. 297 comma 3 c.p.p.) ovvero «anche per altra ragione», a condizione che i successivi provvedimenti fossero relativi a fatti i cui elementi probatori risultassero acquisiti al momento della emissione del primo di tali provvedimenti Più precisamente, affinché il meccanismo di retrodatazione del termine previsto dall'art. 297 comma 3 c.p.p. potesse operare anche in relazione a fatti diversi, si richiedeva non solo che la non tempestiva contestazione di un fatto, ulteriore e diverso rispetto a quello fondante il primo provvedimento cautelare, fosse addebitabile al «colpevole ritardo» del pubblico ministero. ma anche che si potesse affermare in modo incontestabile che gli indizi originariamente a disposizione dell'autorità giudiziaria fossero già tali da consentire fin da principio l'emissione di un unico provvedimento».

[20] cfr. Cass., sent. 11 novembre 1998, Maniniello; conf. Cass., 1 luglio 1999, n. Meduri, Rv 215206.

[21] GIULIANI, op. cit., p. 2999.

[22] GIULIANI, op. cit., p. 2999.

[23] GREVI, op. cit., p. 3103.

[24] GAROFOLI, Manuele di diritto penale. Parte generale, Molfetta, Nel diritto editore, 2020, p. 1169; DE LIGUORI, Connessione teleologica e concorso di reati, in Cass. pen., 1987, pp. 1127 ss.; ZAGREBELSKY, (voce) Reato continuato, in Enc. dir., vol. XXXVIII, Giuffré, Milano, 1987, pp. 839 ss. 

[25] Sia consentito il rinvio a Cass., Sez. Un.., sent. 20 dicembre 1969, Spizzichino; Cass., sez. I,  6 marzo 1996 n. 3442; Cass., sez. I,  1° febbraio 1982, in Cass. pen., 1986, p. 245.

[26] Cfr. Cass., Sez. Un.., 24 novembre 2017, n. 53390.

[27] Si allude alla finalità di conseguimento, anche per altri, del profitto, del prezzo, del prodotto o dell'impunità rispetto ad altri reati), così uniformando il dettato normativo, in toto, a quello dell'art. 45, n. 2 del codice previgente, già oggetto di drastica potatura, ispirata al favor separationis, ad opera del legislatore delegato in sede di emanazione del nuovo codice di procedura penale. Essa venne interpretata, nella parte relativa al nesso teleologico, nel senso dell'esigenza del rapporto obiettivo di strumentalità tra i reati. Per ulteriori approfondimenti si v. Cass., Sez. 1, 29 giugno 1983 n. 1373, Rv. 159824, nella cui occasione venne affermato come in tema di individuazione della competenza per territorio per reati connessi, la semplice analogia tra diversi reati, ove non si traduca in effettiva identità di fattispecie criminose o in reati connessi oggettivamente, probatoriamente o teleologicamente, non determina spostamento di competenza.

[28] Cass., Sez. Un.., sent. 24 novembre 2017, n. 53390.

[29] Cfr. Cass., sez. I, 6 marzo 1996, n. 3442, Rv. 204326

[30] Tra le tante v. Cass., sez. I, 9 marzo 1995, n. 3385,  Rv. 200701; Cass., sez. III., 26 novembre 1999, n. 2731, Rv. 215762; Cass., sez. I., 23 ottobre 2002, n. 42883, Rv. 222800.  Tali pronunce, invero, sostenitrici dell’indiritto maggioritario –– e dunque dell’identità degli autori –– non considerano l’incidenza normativa del 1991. Si considerano solo due elementi a sostegno della maggiore autorevolezza del pensiero giurisprudenziale: l'unità del processo volitivo tra il reato-mezzo ed il reato-fine, ritenuto presupposto logico della connessione teleologica, sarebbe configurabile solo qualora i reati siano stati commessi dagli stessi soggetti; il secondo, in certo senso rafforzativo del precedente, che l'interesse di un solo imputato alla trattazione unitaria di reati connessi tra loro con il vincolo teleologico non potrebbe pregiudicare quello del coimputato  –– o dei coimputati ––  a non essere sottratto al giudice naturale secondo le regole ordinarie della competenza.

[31]  Cfr. Corte cost., 11 febbraio 2013, dep. 14 febbraio 2013, n. 21.

[32] Per maggiori approfondimenti sul punto si v. MAZZA, I protagonisti del processo, in CORSO– DEAN –DOMINIONI, Procedura penale, Giappichelli, 2014, p. 78.

[33] Cfr. Cass., sez. II, 09 novembre 2012 n. 46638, Rv. 253901; Cass., sez. II,  17 novembre 2004, n. 48317, Rv. 230427; Cass., sez. I,  03 novembre 2004, 46270, Rv. 230188; Cass., sez. I, 06 marzo 1996, n. 3442,  Rv. 204326; Cass., sez. V, 27 settembre 1995, 10508,  Rv. 202499.

[34] Sulla compatibilità tra il reato continuato e il nesso teleologico si v., tra le più recenti, Cass., sez. I., 11 ottobre 2018, n. 16881.  

[35]In relazione al princìpio del giudice naturale precostituito per legge vi è una copiosa letteratura dottrinale che giurisprudenziale. Si ricorda, ad esempio, GAROFALO, La diversificazione degli standard di prova nel processo penale nel rapporto fra giurisdizioni, in Cass. pen., 2020, 10, pp. 3882 ss.; CORVI, La tutela processuale della terzietà e imparzialità del giudice: cosa si può fare di più?,  in Riv. It. Dir. proc. pen., 2012, 3, pp. 812 ss.; GIARDA, Imparzialità del giudice e difficoltà operative derivanti dalla incompatibilità, in Il giusto processo, Atti del Convegno di Salerno, Milano, 1998, p. 355; FIANDACA- DI CHIARA  Una introduzione al sistema penale per una lettura costituzionalmente orientata, Napoli, 2003, p. 216. Tra le pronunce giurisprudenziali sia consentito il rinvio a Corte cost., n. 117 del 2012; Corte cost.,  n. 30 del 2011; Corte cost., n. 279 del 2009; Corte cost., n. 168 del 2006; Corte cost., n. 452 del 1997; Corte cost., n. 130 del 1995; Corte cost., n. 100 del 1984; Corte cost.,  n. 88 del 1962, tutte concordi nel sostenere che la nozione di giudice naturale non si cristallizza nella determinazione di una competenza generale, ma è frutto del complesso della disciplina attributiva della competenza, formandosi per effetto di tutte le disposizioni di legge, comprese quelle derogatorie alle regole ordinarie in base a criteri che ragionevolmente valutino i valori in gioco, anche di rango costituzionale, e i disparati interessi coinvolti nel processo.

[36] Cass., Sez. Un.., 28 febbraio 2013, n. 27343,  Rv. 255345.

[37] D’ARMA - DELLI PRISCOLI, Contestazioni a catena, tempestivo esercizio del potere cautelare ed organizzazione degli uffici giudiziari, in Cass. pen., 2006, 12, pp. 4289 ss., i quali ricostruiscono, in nota, gli orientamenti giurisprudenziali sull’applicabilità o meno della retrodatazione in assenza di connessione. Sul punto si ritiene utile riportare gli estremi: «a favore della non applicabilità della norma impugnata a fatti non legati da connessione qualificata (indirizzo prevalente in giurisprudenza fino all'intervento delle Sezioni unite) cfr., fra le tante, Cass., sez. I, 22 luglio 1997, Rv 208503;  Cass., sez. VI, 17 dicembre 2002, n. 42271, Rv n. 222951;  Cass., sez. VI, 3 luglio 2000, n. 2135, Rv 217560;  Cass., sez. I, 3 agosto 1999, n. 2529, Rv 213354;  Cass., sez. I, 2 giugno 1999, Rv 213500. Risultava viceversa minoritario l'indirizzo giurisprudenziale che sosteneva l'applicabilità della norma impugnata anche a fatti non legati da connessione qualificata nelle ipotesi in cui gli elementi cautelari fossero già desumibili al momento dell'adozione della prima misura: cfr., fra le altre, Cass., sez. VI, 4 maggio 1999, n. 290, Rv 214050;  Cass., sez. VI, 14 maggio 1997, n. 1290, Rv 206929».

[38] Si v., su tutti, CONTI C., Le contestazioni a catena nell'applicazione della custodia cautelare: dalla repressione di un abuso ad un automatismo indifferenziato, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2001, pp. 1297 ss., momento della richiesta iniziale risultava un quadro indiziario tale da legittimare il provvedimento coercitivo anche per il fatto-reato diverso, connesso o meno ex art. 12, lett. b) e c) c.p.p. [...]».

[39] D'ARMA-DELLI PRISCOLI, Contestazioni a catena, cit., p. 4292.

[40] CONTI, Le contestazioni a catena nell'applicazione della custodia cautelare, cit., p. 1297 ss.; Margaritelli, Quali meccanismi per calcolare i termini di durata della custodia cautelare nelle ipotesi di contestazioni a catena?, in Dir. pen. proc., 1996, p. 1512.

[41] CORTI, Le contestazioni a catena nell'applicazione della custodia cautelare, cit., p. 1300.

[42] MARGARITELLI, Quali meccanismi per calcolare i termini di durata della custodia cautelare, cit., in Dir. pen. proc., 1996, p. 1516.

[43] D’ARMA- DELLI PRISCOLI, Contestazioni a catena, cit., p. 4292.

[44] ILLUMINATI, Presentazione, in AA.VV., Custodia cautelare e sovraffollamento carcerario, AIGA, Rimini, 2014, in www.journals.uniurb.it.

[45] cfr. Cass, Sez. Un.,19 luglio 2018, n. 48109.

[46]Cass., sez. II, 24 gennaio 2017, n. 8461, Rv. 269121; Cass., Sez. I, 07 ottobre 2014, n. 46103,  Rv. 261272; Cass., sez. VI, 24 aprile 2012, n. 31441, Rv. 253237; Cass., sez. I, 21 aprile 2010, n. 20882, Rv. 247576; Cass., sez. I, 12 giugno 2008, n. 27785, Rv. 240873.

[47]PICCARDI, La retrodatazione dei termini ex art. 297, comma 3, c.p.p. in materia di contestazioni a catena delle ordinanze applicative delle misure cautelari per fatti connessi in procedimenti pendenti in fasi distinte, in Cass. pen., 2019, 3, p. 1039, che richiama il pensiero di Romeo, Contestazioni a catena, retrodatazione dei termini di custodia e giudicato per i fatti di prima contestazione, in Dir. pen. cont., 2011.

[48]PICCARDI, La retrodatazione dei termini, cit., p. 1049, nota 46.

[49]Ibidem.

[50] Cfr. Cass., Sez. Un., sent. 10 giugno 2005, n. 21957.

[51] Cfr. Corte cost., sent. 3 novembre 2005, n. 408.

[52] Tutte le sentenze successive al 2005 riconoscono la portata della pronuncia del giudice delle leggi.

[53] Cfr. Cass., sent. 8 gennaio 2010, in Cass., pen. 11, 668. Sul punto di v. anche ILLUMINATI- GIULIANI, Commentario breve al codice di procedura penale, CEDAM, Milano, 2021, p. 1340 ss.

[54] D’ARMA- DELLI PRISCOLI, Contestazioni a catena, cit., p. 4299; POTETTI, I fatti diversi non connessi nell'ambito delle c.d. “contestazioni a catena” (art. 297, comma 3, c.p.p.), in Cass. pen., 2017, 11, p. 4102 ss.

[55] Il riferimento è a Cass., Sez. Un., 2 gennaio 2020, n. 20127,  in tema di inutilizzabilità delle intercettazioni ex art. 270 c.p.p. In tale sede la Corte affronta nuovamente il tema della distinzione reato e procedimento.

[56] Cfr. Cass., Sez. Un., 22 marzo 2005, n. 21957.

[57] POTETTI, I fatti diversi non connessi, cit., p. 4109.

[58] Ibidem.

[59] GREVI, Commento agli artt. 2-5 L .12 agosto 1982, n. 532, in Leg. pen., 1983, 71; Id., Pluralità di ordinanze cautelari per «fatti diversi» e computo dei termini di custodia cautelare nel nuovo art. 297, 3° co, c.p.p.: una disciplina di assai dubbia ragionevolezza, in Cass. pen., 1995, pp. 3095 ss. il quale ha lapidariamente qualificato il comma come “difficilmente intellegibile a fronte di una prosa tanto contorta”; CHIAVARIO, Chiaroscuri di una “novelladagli intenti riequilibratori, in LP, 1995;

[60] Ad esempio GREVI, Pluralità di ordinanze cautelari per «fatti diversi», cit., p. 3105 affermò testualmente: «Non è difficile prevedere che, a riguardo, vi sarà molto da discutere, e non mancheranno le iniziative giudiziarie più azzardate, obiettivamente incoraggiate da una dizione testuale oscura ed ambigua, che potrebbe aprire il varco ad imprevedibili ed indebite “scarcerazioni a catena”».

[61] cfr. Cass., sent. III, 20 novembre 2015, n.822.

[62] cfr. Cass., sez. II,  02 dicembre 2005, n. 4669.

[63] Per approfondimenti si v. ROMEO, Corte Cost., 22 Luglio 2011, n. 233, Pres. Quaranta, Rel. Frigo (contestazioni a catena, retrodatazione dei termini di custodia e giudicato per i fatti di prima contestazione), in Dir. pen. cont., 2011, in ww.archiviodpc.dirittopenaleuomo.org, il quale riporta gli estremi di due casi emblematici: «due vicende emblematiche, anche per l’esito identico: Sez. un., 31 gennaio 2008 n. 6026, Huzuneanu, smentita da Corte cost., 4 dicembre 2009 n. 317 e Sez. un., 25 marzo 1998 n. 10, Savino, smentita da Corte cost., 22 giugno 1998 n. 232: qui, però, si era tentata la via del ripensamento delle Sezioni unite, preclusa da un’inopinata restituzione; con la conseguenza che le stesse Sezioni unite furono costrette a intervenire nuovamente, dopo l’interpretativa di rigetto citata: Sez. un., 16 dicembre 1998 n. 25/1999, Alagni, in Cass. pen., p. 1405 ss».

[64] Cfr. Cass., 24 gennaio 2015, n. 12514, Rv 263067.

[65] Cfr. Cass., Sez. Un., 22 marzo 2005, n. 21957, Rv 231058.

[66] Sul punto sia consentito il rinvio, per quel che in questa sede interessa, a Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2006, n. 14535, Rv 235909.

[67] Netta in tale senso è la motivazione della sentenza della Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2006, n. 14535, cit., allorché schematizza il dictum di Cass., Sez. Un., 22 marzo 2005, n. 21957, Rv 231057.

[68] Valutazioni giuridiche frutto della “portata” Corte Cost., 3 novembre 2005 n. 408, Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2006, n. 14535, cit.

[69] Da ultimo Cass., 11 febbraio 2022, n. 6946.

[70] Cfr. Cass., sez. VI, 6 febbraio 2013, n. 15736, Rv. 257204; Cass., sez. fer., 21 agosto 2014, n. 47581, Rv. 261262; Cass., sez. VI, 12 novembre 2014, n.50761, Rv. 261700.

[71] Cass., sez. VI, 6 febbraio 2013, n. 15736, cit.

[72] Cass., sez. VI, 28 dicembre 2016, n. n. 3058, Rv. 26928.

[73] Sia consentito il rinvio a Corte cost., sentenze n. 233 del 2011 e n. 293 del 2013.

[74] Cass., sez. VI,  28 dicembre 2016, n. 3058, cit.

[75] Cass., sez. IV,  2 marzo 2017, n. 18111.

[76] Cass., sez. IV, 18 aprile 2013, n. 21999; Cass., sez. V,  5 febbraio 2014, n. 17071; Cass., sez. IV,  2 marzo 2017, n. 18111.

[77] Cass., sez. IV,  2 marzo 2017, cit.

[78] Per la Corte il dato testuale traccia con chiarezza la struttura stessa dell'istituto. Significativo, argomentano i Giudici, è che la stessa Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2006, n. 14535, cit., la quale pure sottolinea la differenza concettuale che connota il fenomeno della retrodatazione nelle situazioni relative alla successione di ordinanze cautelari adottate nello stesso procedimento, rispetto a quelle relative a procedimenti connessi, conclude nel senso che anche nelle fattispecie diverse da quella tipica, in cui si verifica una vera e propria sovrapposizione delle misure cautelari, si determinano i medesimi effetti e si rende pertanto necessaria la rimodulazione della durata di quella successiva mediante la regressione del suo termine iniziale.

[79] Già con la sentenza n. 89 del 1996 la Corte costituzionale ha evidenziato che lo scopo dell'istituto in esame è quello di "comprimere entro spazi sicuri il termine di durata massima delle misure cautelari, in perfetta aderenza con quanto previsto dall'art. 13 Cost., u.c.", al fine di impedire "la diluizione dei termini in ragione dell'episodico concatenarsi di più fattispecie cautelari". In quell'occasione, la Corte costituzionale non mancò di rilevare come l'ancoraggio della retrodatazione ad ipotesi che presentano "elementi di correlazione contenutistica" - quali sono l'identità del fatto cautelare o i casi di connessione qualificata delineati all'art. 297 c.p.p., comma 3, - risponde "alla avvertita esigenza di configurare limiti obiettivi e ineludibili alla durata dei provvedimenti che incidono sulla libertà personale e ciò con particolare riferimento alla fase delle indagini preliminari, la quale, per essere affidata alle iniziative investigative del pubblico ministero, mal si presta a controlli successivi sul sempre opinabile terreno della tempestività delle relative acquisizioni".

[80] ZAVAGLIA, La retrodatazione dei termini di durata della custodia cautelare exart. 297, comma 3, c.p.p., in Cass., pen., 2020, 12, pp. 4516 ss.

[81] DIDDI-GERACI (a cura di), Misure cautelari ad personam in un triennio di riforme,  Torino, Giappichelli, 2015, p. XIII.

[82] GREVI, op. cit., p. 3109; GIARDA, Libertà personale dell’imputato: ipergarantismo o neogarantismo?, in Corr. giur., 1995, pp. 1124 ss.

[83] Sia consentito il rinvio a PACIFICI, L’abuso del processo penale, in Quest. giust., 2018, consultabile in www.questionegiustizia.it; TARUFFO, L’abuso del processo: profili generali, in Riv. Trim. dir. Proc. Civ., I, 2012, pp. 139 ss; PADOVANI, A.D.R. sul c.d. Abuso del processo, in Cass. pen., 2012, p. 3605; AMODIO, L’abuso delle forme degli atti processuali penali, in Riv. it. dir. e proc. pen., II, 2016, p. 559; CATALANO, L’abnormità tra crisi della legalità e crisi della Cassazione, in Ind. pen., 2016, p. 113; PALAZZO, L’abuso del processo e i suoi rimedi tra legalità processuale e legalità sostanziale, in Cass. pen., 2012, p. 3611.

[84]SPANGHER, Abuso del processo, (diritto processuale penale), in Annali, 2016, IX, consultabile in www.enciclopediadeldiritto.it

[85] PACIFICI, L’abuso del processo penale, in Quest. giust., 2018.

[86] DANIELE, Il palliativo del nuovo art. 275 co. 2 bis c.p.p. contro l'abuso della custodia cautelare, in Dir. Pen. cont., 2014.

[87] Cfr. C. Cost., sent. 3 novembre 2005 n. 408.

[88] ROMEO, Tanto tuonò che piovve, in Cass pen., 2005, 4, p. 1193 ss.