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Pubbl. Mer, 27 Apr 2022

Violenza nelle carceri: anche un unico atto lesivo dell´incolumità o della libertà individuale e morale della vittima può costituire tortura

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Annalisa Nocera



Con sentenza n. 8973/2022 la Cassazione ha offerto interessanti spunti riflessione su diverse tematiche, pronunciandosi su un ricorso cautelare promosso da un Comandante della Polizia Penitenziaria indagato per lesioni, tortura, falso e depistaggio. La Corte ha esaminato la differenza tra il concorso per omissione e il concorso per commissione nonchè ha chiarito che la tortura è un delitto eventualmente abituale. Ha altresì precisato le ragioni per le quali appariva adeguata la misura cautelare degli arresti domiciliari nonostante il Comandante fosse stato sospeso dalle sue funzioni e si fosse interrotto il nesso di occasionalità tra la funzione e il locus commissi delicti.


ENG With the sentence nr. 8973/2022, the Supreme Court offered interesting food for thought on various issues by ruling on a precautionary appeal initiated by a prison police commander under investigation for injuries, torture, forgery and misdirection. The Court examined thedifference between the complicity by omission and the complicity by commission and clarified that torture is possibly a habitual crime. Furthermore, the Court specified the reasons why the precautionary measure of house arrest appeared to be adequate even if the Commander had been suspended from his duties and the occational link between the function held and the locus commissi delicti was interrupted.

Sommario: 1. Il fatto; 2. La responsabilità del Comandante: tra concorso per omissione e concorso per commissione; 3. Il delitto di tortura; 4. Considerazioni conclusive.

1. Il fatto

Con sentenza n. 8973 del 2022, la V Sez. della Corte di Cassazione ha dichiarato infondato un ricorso cautelare promosso dal ricorrente, un Comandante della Polizia Penitenziaria, avverso l’ordinanza del Tribunale del Riesame che, ritenuti sussistenti i gravi indizi di colpevolezza e le esigenze cautelari, aveva ritenuto fosse applicabile la misura cautelare degli arresti domiciliari per avere commesso diversi fatti di lesioni aggravate, tortura, calunnia, falso e depistaggio.

Il fatto storico da cui avevano tratto origine le contestazioni riguarda una serie di fatti violenti, commessi materialmente da parte di altri imputati, in occasione di una vera e propria azione di forza (definita “perquisizione straordinaria”) perpetrata ai danni di un gruppo di detenuti a seguito di alcuni disordini che si erano verificati all’interno dell’istituto penitenziario.

Il Comandante, sebbene non fosse fisicamente presente al momento della commissione delle violenze, aveva avuto un ruolo determinante nella organizzazione della “perquisizione straordinaria” e inoltre aveva partecipato alla strategia di depistaggio, attraverso la creazione di falsi documenti e manipolazioni di prove.

Il quadro indiziario che aveva condotto all’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari si fondava principalmente sullo scambio di corrispondenza via chat tra gli agenti di polizia penitenziaria, sulle immagini estrapolate dalle riprese di videosorveglianza nonché sulle dichiarazioni dei detenuti, da cui emergeva che numerosi agenti di Polizia Penitenziaria avevano agito con condotte violente e vessatorie ai danni dei detenuti.

Nello specifico, a questi ultimi era stato ordinato di spostarsi, di inginocchiarsi, di mettersi con la faccia al muro, gli era stato imposto di attraversare il c.d. 'Corridoio umano' (la fila di agenti che impone ai detenuti il passaggio e nel contempo li picchia), ed erano stati anche violentemente colpiti con manganelli, calci, schiaffi e pugni.

La violenza non si era arrestata nemmeno dinanzi a uomini immobilizzati, o affetti da patologie ed aiutati negli spostamenti da altri detenuti, e addirittura non deambulanti, e perciò costretti su una sedia a rotelle.

Oltre alle violenze fisiche, i detenuti avevano subito umiliazioni degradanti quali ad esempio l'esser stati costretti a bere l'acqua prelevata dal water. A causa dei torti subiti, le vittime avevano manifestato reazioni emotive particolarmente intense dal pianto, al tremore, allo svenimento per giungere fino all'incontinenza urinaria.

Le sofferenze fisiche e psicologiche erano state perpetrate anche nei giorni immediatamente successivi e non erano cessate nemmeno durante la notte; tant'e che alcuni detenuti avevano portato indosso indumenti macchiati del proprio sangue, mentre altri, essendo stati stati privati di coperte e indumenti, per fronteggiare il freddo, erano stati costretti a dormire abbracciati.

Le mortificazioni erano state estese anche ai detenuti rimasti in altro reparto che avevano subito l’imposizione, indubbiamente lesiva della capacita di autodeterminazione, del taglio della barba.

Ciò chiarito in punto di fatto, dalla sentenza emergono importanti spunti di natura dogmatica che consentono di riflettere sia su istituti di diritto penale generale sia sulla qualificazione giuridica del reato di tortura, recentemente introdotto nel nostro ordinamento.

2. La responsabilità del Comandante: tra concorso per omissione e concorso per commissione

L’ordinanza del Tribunale del riesame impugnata aveva qualificato i fatti ai sensi dell'art. 40, comma 2, c.p., sul rilievo che il Comandante della Polizia penitenziaria del carcere avesse il dovere di garantire il rispetto della legalità e l'obbligo giuridico di impedire gli eventi poi verificatisi.

Come è noto, l’art. 40 cpv c.p. introduce nel nostro ordinamento una clausola di equivalenza in base alla quale «non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo» e, combinandosi con le norme di parte speciale, disciplina la responsabilità per i reati omissivi impropri.

Questi sono reati di evento caratterizzati dalla presenza di soggetti investiti di una posizione di garanzia, che origina dalla legge o dal contratto, avente ad oggetto obblighi di controllo o di protezione nei confronti di taluni beni giuridici[1].

Nel caso esaminato dalla sentenza in commento, la Cassazione precisa che nonostante corrisponda al vero la circostanza secondo cui il Comandante della Polizia penitenziaria sarebbe titolare di particolari obblighi di protezione, nel caso di specie non pare essere questa la corretta qualificazione della sua posizione.

La mera assenza dell’indagato al momento della commissione materiale dei fatti non può essere l’unico elemento su cui argomentare un’imputazione di responsabilità per un reato omissivo improprio; e questo dato è specificato dalla Cassazione che si premura di sottolineare la differenza esistente con la partecipazione nel reato per il tramite dell’art. 110 c.p. che contempla il concorso morale e quello materiale[2].

Invero, la sentenza precisa che l’assenza dell’imputato dal locus commissi delicti non vuol dire necessariamente che vi sia stato concorso per omissione poiché anche in difetto della fisica partecipazione può esservi una condotta attiva causalmente rilevante. Infatti, la partecipazione nel reato altrui in forma commissiva può avvenire in forma materiale nonché in forma morale e in entrambe le ipotesi si tratterà di concorso per commissione e non di concorso per omissione.

Poste queste premesse, ad avviso della Corte, la mera assenza del Comandante al momento delle violenze e la sua mancata partecipazione agli atti esecutivi di tortura, non privano di rilevanza, sotto il profilo materiale, ma anche morale (di istigazione), il contributo fornito prima (e anche dopo, per occultare il reato) dell'inizio delle operazioni di pestaggio.

L’organizzazione del reato e il continuo scambio di informazioni con gli esecutori materiali sono elementi idonei a inquadrare la condotta del ricorrente nell’ambito del concorso di persone nel reato ex art. 110 c.p., e non in quello della responsabilità concorsuale per effetto dell’art. 40 cpv[3].

3. Il delitto di tortura

La sentenza in commento offre anche alcuni spunti sul delitto di tortura, recentemente introdotto con la legge n. 110 del 2017 e collocato all’art. 613 bis del Codice penale.

Occorre preliminarmente chiarire che il legislatore ha disciplinato l’ipotesi delittuosa, se pur con notevole ritardo, con il fine di dare attuazione agli impegni internazionali a cui ha aderito l’Italia sia con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo sia con la Convenzione Onu contro la tortura e altri trattamenti e pene crudeli, inumani e degradanti del 1984 (cd. CAT)[4].

Durante il periodo di vuoto normativo era sorta l'esigenza di reprimere quei fatti che astrattamente erano qualificabili come tortura, ma che non trovavano una puntuale collocazione in alcun testo normativo atto a descriverli tant'è che la giurisprudenza faceva ricorso ad altre fattispecie quali abuso d’ufficio, lesioni aggravate, percosse, violenza privata.

Ad oggi le esigenze di criminalizzazione risultano finalmente rispettate e la sentenza si preoccupa di precisare che il legislatore ha voluto costruire il delitto di tortura come un reato eventualmente abituale «potendo essere integrato da più condotte violente, gravemente minatorie o crudeli, reiterate nel tempo, oppure da un unico atto lesivo dell'incolumità o della libertà individuale e morale della vittima, che però comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona» come affermato da Cass., Sez. V, 8 luglio 2019, n. 47079, che, in motivazione, ha precisato che per l'integrazione del reato nella sua forma abituale sono sufficienti due condotte, reiterate anche in un minimo lasso temporale.

Quanto al dolo, è stato affermato in Cass., Sez. V, 15 ottobre 2019, n. 4755 che: «in tema di tortura, anche quando ii reato assuma forma abituale, per l'integrazione dell'elemento soggettivo non è richiesto un dolo unitario, consistente nella rappresentazione e deliberazione iniziali del complesso delle condotte da realizzare, ma è sufficiente la coscienza e volontà, di volta in volta, delle singole condotte».

La struttura del reato di tortura viene, poi, valorizzata dalla Cassazione nelle argomentazioni spese per sostenere l’adeguatezza della misura cautelare degli arresti domiciliari in relazione al pericolo di reiterazione del reato.

Nello specifico, la Corte ha voluto precisare che nei reati contro la pubblica amministrazione non sempre la sospensione cautelare disciplinare può essere sufficientemente idonea ad escludere il pericolo di reiterazione dei reati e il giudice di merito può ritenere sussistente il periculum (e quindi applicare una misura cautelare restrittiva) pure quando il pubblico dipendente risulti sospeso o dimesso dal servizio «purché fornisca adeguata e logica motivazione in merito alla mancata rilevanza della sopravvenuta sospensione o cessazione del rapporto, con riferimento alle circostanze di fatto che concorrono a evidenziare la probabile rinnovazione di analoghe condotte criminose da parte dell'imputato nella mutata veste di soggetto ormai estraneo all'amministrazione, in situazione, perciò, di concorrente in reato proprio commesso da altri soggetti muniti della qualifica richiesta».

Ad avviso della Corte, peraltro, quando si tratta di reati comuni, come la tortura, «ed in particolare di reati a base violenta, non viene in rilievo un tale rapporto qualificato, sicché il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie non può essere eliso dalla sospensione della qualifica giuridica».

Dunque, pare che la Cassazione tolleri una riduzione dell’onere motivazionale dell’autorità giudiziaria in sede cautelare circa l’inadeguatezza della sola sospensione cautelare quando il pubblico ufficiale commetta reati comuni. Dinanzi a queste fattispecie, sembrerebbe esservi un pericolo di reiterazione a prescindere dalla sospensione dell’autore del reato che giustificherebbe l’applicazione di misure cautelari restrittive.

4. Considerazioni conclusive

Il caso oggetto della sentenza in commento consente di riflettere su aspetti di varia natura.  

Da una parte, le condotte violente e vessatorie commesse ai danni detenuti mostrano il fallimento dello Stato nel perseguire la missione di rieducare il condannato, dall’altra si palesano inaccettabili violazioni dei diritti umani in pesante contrasto con i principi fondanti dell’ordinamento democratico.

Sotto il profilo giuridico emergono interessanti spunti in ordine alla differenza tra il concorso per omissione il concorso per commissione (mediante contributo morale e/o materiale), nonché in ordine al reato di tortura e all’onere motivazionale sulle esigenze cautelari.

Con riferimento a quest'ultimo aspetto, la Cassazione pare alleggerire l'onere motivazionale in caso di applicazione di misure cautelari in capo a un pubblico ufficiale che commette un delitto comune. Invero, nonostante a seguito della sospensione dalla propria funzione venga interrotto il nesso di occasionalità tra il luogo in cui il reato è stato commesso e l'esercizio dei poteri inerenti alla propria funzione, la Corte conferisce rilievo alla natura del reato commesso anzichè alla funzione rivestita. Nello specifico, pare consacrare un principio secondo cui quando il pubblico ufficiale commette un reato comune a base violenta le esigenze cautelari sussistono anche quando subisce l'applicazione della sospensione dalle proprie mansioni. Non rileverebbe, quindi, l'interruzione del nesso di occasionalità tra la funzione pubblica e il luogo in cui il reato è stato commesso potendo la pericolosità del soggetto desumersi dal reato commesso e, da questo, anche le esigenze caurelari. 


Note e riferimenti bibliografici

[1] G. Marinucci, E. Dolcini, G. L. Gatta, Manuale di Diritto Penale, Parte Generale, Cap. VI, 8, Le Peculiarità del fatto nei reati omissivi, 266 e ss.

[2] Sulla differenza tra il concorso materiale e il concorso morale si veda G. Marinucci, E. Dolcini, G. L. Gatta, Manuale di Diritto Penale, Parte Generale, Cap. X, 13.2 E 13.3, Le Peculiarità del fatto nei reati omissivi, 546 e ss.

[3] Sul concorso mediante omissione si veda G. Marinucci, E. Dolcini, G. L. Gatta, Manuale di Diritto Penale, Parte Generale, Cap. X, 19, Le Peculiarità del fatto nei reati omissivi, 561 ss.