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Pubbl. Ven, 23 Ott 2015

La confisca urbanistica e il braccio di ferro tra Corte Edu e Corte Costituzionale.

Rosa Mugavero


La Corte Costituzionale con la sentenza n. 49/2015 riscrive le coordinate classiche in tema di rapporti diritto interno/Cedu, circoscrivendo gli obblighi tradizionalmente gravanti sul giudice interno (di procedere ad un´interpretazione conforme e, se del caso, a sollevare la questione di legittimità costituzionale) solo per l’ipotesi in cui il diritto nazionale contrasti con il diritto consolidato della Cedu, allo scopo di perseguire un assetto interpretativo stabile in tema di diritti fondamentali. L´occasione propizia è offerta dalla confisca urbanistica ex art, 44 co. 2 d.p.r. 380/2001.


1) I contrastati rapporti della CEDU col diritto nazionale. Corte Costituzionale n. 49/2015.

1) I contrastati rapporti della CEDU col diritto nazionale. Corte Costituzionale n. 49/2015.

Il tema delle interazioni tra diritto penale e fonti sovranazionali ha assunto un'importanza fondamentale nell'ottica del sistema italo-comunitario-internazionale delle fonti.

A differenza del diritto civile (governato da altri principi e volto a regolare diritti di natura essenzialmente patrimoniale), la rilevanza della questione nel diritto penale riveste connotati peculiari e si apprezza con maggiore serietà poichè vengono in rilievo limitazioni alle libertà della persona, prima fra tutte la libertà personale.

Rispetto a tale libertà un posto di assoluto rilievo è occupato dal principio di legalità ex art. 25 co. 2 Cost., che nella classica formula del "nullum crimen sine lege" si pone a presidio del favor libertatis, in funzione di garanzia del cittadino, esprimendo un alto principio di civiltà giuridica[1].

Gli "ordinamenti" con i quali il diritto penale italiano si interfaccia, e dai quali conseguentemente riceve un'influenza, sono in buona sostanza l'Unione Europea e la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta fondamentali (CEDU)[2]. Mentre l'interferenza del diritto dell'Unione Europea non pone più ormai particolari problemi interpretativi[3] (salvo a verificare la compatibilità della riserva di legge in materia penale con competenza penale indiretta in capo agli organi dell’Unione)[4], decisamente più travagliati appaiono i rapporti del diritto penale con la Cedu, sempre al centro di continue spinte centrifughe e fughe all'indietro, che da ultimo hanno ricevuto nuova linfa vitale da un recente e innovativo arresto della Corte Costituzionale del 2015.

E' noto infatti che il rango della Cedu all'interno della gerarchia delle fonti e l'influenza che essa esercita nel diritto italiano sono stati oggetto storicamente di due diverse interpretazioni.

Per il tradizionale orientamento della Corte Costituzionale (consolidatosi con le "sentenze gemelle" n. 348 e 349 del 2007) le norme della Cedu trovano ingresso nel nostro ordinamento non attraverso il viatico dell'art.10 Cost., nè a mezzo dell'art. 11 Cost., ma attraverso il ponte eretto dall'art. 117 Cost. che nel fare espresso riferimento agli "obblighi internazionali" si riferisce anche (e soprattutto) alla Cedu, che assurge a rango di fonte interposta integrando il parametro di costituzionalità.

La conseguenza di una tale impostazione è che il giudice interno, allorquando  ravvisi un contrasto della norma interna con la Cedu, è obbligato a procedere prima ad un’interpretazione costituzionalmente (rectius convenzionalmente) orientata, e se il conflitto permane dovrà sollevare una questione di legittimità costituzionale.

Di contrario avviso si è mostrata invece la giurisprudenza amministrativa[5], che ha assegnato al Trattato di Lisbona del 2009 l’effetto di aver provocato quella che è stata definita la “comunitarizzazione della Cedu”, inferendo dalla modifica dell’art. 6 TUE (segnatamente il riferimento è ai commi 2 e 3) una equiparazione della Cedu al diritto unionale, e per questa via l’ingresso delle norme Cedu nel nostro ordinamento attraverso il parametro costituito dall’art. 11 Cost., con tutto quello che ne deriva in termini di potere di disapplicazione e legittimazione a proporre la questione di legittimità costituzionale.

A dirimere il contrasto è intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza n. 80 del 2011 che, rimanendo fedele al precedente filone interpretativo, ha sposato la tesi della non equiparabilità della Cedu al diritto dell’Unione Europea, sulla scorta della duplice considerazione secondo la quale, da un lato, l’art. 6 TUE postula una mera adesione dell’Unione Europea alla Cedu (che tra l’altro ancora non è avvenuta), dall’altro se il legislatore avesse voluto operare una simile equiparazione lo avrebbe fatto espressamente, come del resto è accaduto per la Carta di Nizza al co. 1 della medesima norma.

Su questo scenario, quando sembrava definitivamente chiusa la questione dell’influenza della Cedu sul nostro ordinamento, interviene rimeditando parzialmente i termini del dibattito, la sopracitata pronuncia della Corte Costituzionale n. 49 del 26 marzo 2015.

Per quanto il Giudice delle Leggi formalmente non deragli dai binari della tesi storicamente seguita, è innegabile un sensibile cambio di prospettiva che sembra ictu oculi ispirato dalla (non troppo) latente volontà di cercare di porre un argine alle spesso troppo frettolose questioni di legittimità costituzionale sollevate dai giudici di merito, poco accorti nel valutare gli arresti della Corte Edu all’interno del più ampio contesto dei precedenti giurisprudenziali.

Con maggiore impegno esplicativo, la pronuncia della Corte si contraddistingue per l’originale “vademecum” che offre ai giudici a quibus per vagliare la reale portata della giurisprudenza della Corte di Strasburgo rispetto alla natura del contrasto che consente di portare al vaglio della Consulta una determinata questione che rischia di soverchiare la gerarchia dei valori della Carta Fondamentale.

In particolare, il principio di diritto espresso dalla Consulta postula l’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale (previo ricorso allo strumento dell’interpretazione convenzionalmente conforme per dissipare l’assunta antinomia) soltanto a fronte di un insanabile contrasto che si rinvenga tra l’ordinamento nazionale e il “diritto consolidato”[6] della CEDU, così come interpretato dalla Corte Edu.

Nella diversa ipotesi in cui, invece, il giudice riscontri che la pronuncia della Corte Edu rappresenti diritto non consolidato, oltre al fatto che esso non sarà vincolante in sede di interpretazione, non potrà sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna contrastante in forza dell’art. 117, 1 co. Cost., poiché la norma interposta (ovvero, il diritto della Convenzione per come interpretato dalla giurisprudenza europea) non si è ancora consolidata.  

Così stando le cose, la sensazione che emerge dalle coordinate tracciate dalla Corte Costituzionale è tutt’altro che rassicurante, poiché, pur a fronte del nobile intento che l’ha animata di gettare le basi per mantenere una maggiore certezza al cospetto dei diritti fondamentali, il rischio è che la pronuncia si ritorca contro sé stessa: oltre all’ovvia considerazione della poco opportuna scelta di onerare di un compito così gravoso il giudice comune (che spesso non è in possesso dello strumentario idoneo ad una valutazione di questo tipo), è verosimile che in futuro la giurisprudenza propenderà più facilmente per il disconoscimento di un “diritto consolidato”, anche al fine di sciogliersi dai lacciuoli della Cedu, con buona pace della tanto agognata certezza del diritto.

 

2)  Il principio di legalità alla luce dell’art. 7 Cedu.

La sede elettiva che rappresenta una sorta di "palestra" per il vaglio dei rapporti intercorrenti tra il diritto penale domestico e la Cedu è rappresentata senz’altro dalla questione relativa all’influenza del principio di legalità scolpito dall’art. 7 Cedu[7], rectius dell’interpretazione che della stessa norma fornisce la Corte Edu.

Problema peraltro sul quale sono destinate ad incidere, seppur indirettamente, le coordinate ermeneutiche tracciate dalla Corte Costituzionale n. 49 del 2015.

La rilevanza applicativa della questione involge e si basa su una molteplicità di aspetti di diritto penale sostanziale.

Preliminarmente, va dato atto dell’orientamento consolidato della Corte Costituzionale in punto di efficacia delle pronunce della Corte Edu, in base al quale queste ultime sono senz’altro vincolanti ma lo Stato conserva pur sempre un certo margine di discrezionalità circa le modalità e le forme dell’adeguamento.

In secondo luogo, la questione concerne il principio (se non più importante, quantomeno) primario e fondante del moderno sistema penale, che oltre a recare con sé l’applicazione di un regime giuridico peculiare (la qualificazione come “penale” di un determinato fatto illecito o di una sanzione comporta l’applicazione di un diverso regime intertemporale, dei principi di colpevolezza, proporzionalità, offensività ecc.), induce ad una riflessione circa il moderno significato di legalità, da alcuni eloquentemente definita “legalità multilivello”.

Ma il dato più significativo, che conferisce alla questione un interesse di primario rilievo per gli interpreti, è costituito dalla portata dirompente che l’art. 7 Cedu ha sul sistema penale interno, in quanto il contenuto della “legalità europea” non combacia perfettamente con il principio di legalità di fonte domestica.

Difatti, sebbene alcuni propendono per un’interpretazione minimalista dell’art. 7 Cedu non in grado di apportare alcuna incidenza in positivo per il diritto interno, la costante giurisprudenza della Corte di Strasburgo va invece nel senso opposto e assegna una valenza tutta particolare all’art. 7 Cedu, che travalica il tradizionale raggio di applicazione di cui dispone l’art. 25 co. 2 Cost[8].

La prima tendenza che dà conto di questa impostazione consiste nella “interpretazione autonomistica” di illecito e sanzione penale di cui si fa portatrice la Corte Edu: per i giudici europei, cioè, le denominazioni formali rivenienti dai singoli ordinamenti nazionali non costituiscono un ostacolo per l’attività interpretativa che loro compete. Il nomen juris può al massimo costituire un indice rivelatore (tra gli altri) della natura giuridica di un illecito o di una sanzione.

Tanto sulla base dell’opzione in favore di un’interpretazione che perviene a considerare penali tutti gli illeciti e le sanzioni sostanzialmente ed implicitamente penali, alla stregua di criteri che variano a seconda che si tratti di un illecito (tipo di comportamento sanzionato, struttura della norma, gravità della sanzione dedotta dal quantum o dalle modalità dell’esecuzione) o di una sanzione (collegamento con una condanna per un illecito penale, procedimento seguito, autorità che la irroga, scopo, gravità, finalità, qualificazione nel diritto interno). Alla luce di tali considerazioni, l’art. 7 Cedu, pur enunciando lo stesso principio dell’art. 25 co.2 Cost., si applica a fattispecie diverse da quelle che rientrano nella norma costituzionale in quanto “misure di tipo diverso” da quelle considerate penali nell’ordinamento interno.

La seconda tendenza riscontrabile nella giurisprudenza Cedu relativa all’art. 7 è rappresentata dalla “valorizzazione degli aspetti qualitativi della legalità”: essi si compendiano nella accessibilità della fonte (intesa come possibilità di conoscere la norma) e nella prevedibilità della stessa (intesa sia come determinatezza che come interpretazione ragionevole), e si riferiscono tanto alla fonte legale che alla giurisprudenza, in virtù della “relazione concorrenziale” della seconda con la prima[9].

Tanto conduce alla conseguenza, più volte ribadita dalla Corte Edu, della desumibilità dall’art. 7 Cedu, oltre che dei principi di legalità ed irretroattività sfavorevole, anche del principio di colpevolezza: quest’ultimo infatti non può che essere legato a filo doppio col principio di legalità, che assolvendo alla funzione di calcolabilità delle conseguenze dannose connesse ad un determinato comportamento, sarebbe irrimediabilmente vanificato se la legge penale che tali conseguenze dannose prevede fosse inaccessibile o imprevedibile.

 

3)  La confisca urbanistica ex art. 44 d.p.r. 380/2001

Il caso applicativo più importante che costituisce ancora oggi il banco di prova per la tenuta del principio di legalità in questi termini inteso è rappresentato dalla confisca urbanistica disciplinata dall’art. 44 d.p.r. 380/2001 (Testo Unico Edilizia), disposta all’esito dell’accertamento della lottizzazione abusiva: i problemi che si pongono sono sostanzialmente due, e cioè i) da un lato, la qualificazione della natura giuridica di tale tipologia di confisca (istituto che in generale viene considerato anche dalla giurisprudenza interna come “ibrido e proteiforme”); ii) dall’altro, il connesso problema dell’applicabilità di questa confisca anche in caso di omessa condanna dell’imputato, che risente (almeno in astratto) della soluzione adottata in merito alla natura giuridica.

In concreto, le ipotesi analizzate dalla giurisprudenza di applicabilità della confisca in caso di proscioglimento dell’imputato attengono alle ipotesi accertamento del difetto dell’elemento psicologico nonché di intervenuta prescrizione del reato.

Il problema interpretativo, che soprattutto nel secondo dei due casi è emerso, consiste nella esatta perimetrazione dell’espressione utilizzata dal legislatore all’art. 44 co. 2 Testo Unico Edilizia “accerta che vi è stata lottizzazione abusiva”: ci si chiede cioè se si tratti di una formale condanna da parte del giudice penale ovvero se comunque possa considerarsi sufficiente un accertamento incidentale della responsabilità.

La questione non è di poco momento, in quanto vengono in rilievo opposte esigenze che devono essere adeguatamente bilanciate dal giudice: da un lato, l’interesse statuale a punire e sanzionare una condotta riprovevole o comunque ad evitare che il reo benefici del prodotto della sua condotta illecita, dall’altro, la tutela del diritto di proprietà che trova fondamento senz’altro nella Costituzione, ma che assurge addirittura a diritto fondamentale nella Cedu, ai sensi dell’art.1 del Protocollo addizionale alla Convenzione.

L’orientamento tradizionale della giurisprudenza italiana ha sempre considerato la confisca ex art. 44 co. 2 T.U.E. una sanzione amministrativa che trova applicazione a condizione che venga accertata la “materialità” del fatto della lottizzazione abusiva[10], con la duplice conseguenza che tale sanzione non si applica in caso di proscioglimento perché “il fatto non sussiste”, potendo  invece trovare applicazione nell’ipotesi di proscioglimento perché “il fatto non costituisce reato” per difetto dell’elemento psicologico.

Sul punto è tuttavia intervenuta con delle sentenze che costituiscono una pietra miliare in parte qua, la Corte Edu nel 2007 e nel 2009 in relazione al c.d. Caso Punta Perotti: si trattava in particolare di una vicenda di lottizzazione abusiva nella quale la Corte mandò esenti tutti gli imputati  per mancanza dell’elemento soggettivo della lottizzazione (in virtù di un errore scusabile) ma che comportò comunque da parte del giudice l’applicazione della confisca dei terreni lottizzati e degli immobili ivi edificati.

La Corte Edu ha risolto la questione passando per due snodi interpretativi essenziali: in primo luogo, l’affermazione della natura di sanzione penale della confisca urbanistica di cui all’art. 44 del T.U Edilizia, ricavata attraverso una lettura combinata di una pluralità di indici rivelatori (quali la finalità punitiva ed afflittiva, la particolare gravità della misura, la qualificazione giuridica dell’art. 44[11], il collegamento con un reato)e dalla quale si arriva alla conseguenza che tale tipo di confisca rientra nell’ambito applicativo dell’art. 7 Cedu.

In secondo luogo, la Corte afferma la desumibilità dal’art. 7 anche del principio di colpevolezza, il solo autenticamente violato dalla disciplina italiana all’art. 44 co. 2, allorchè consente l’applicazione della confisca urbanistica anche in danno di soggetti prosciolti per difetto di elemento soggettivo, in quanto incorsi in un errore insormontabile ed inevitabile, e quindi scusabile ex art. 5 c.p.

Le pronunce della giurisprudenza italiana immediatamente successive si adeguano sostanzialmente al dictat della Corte Edu in quanto, pur se formalmente continuano a qualificare la confisca alla stregua di una sanzione amministrativa, la trattano in concreto come una pena, poiché ne escludono l’applicazione in tutti i casi di proscioglimento per assenza di colpa in favore dell’imputato nonché dei soggetti acquirenti dell’immobile abusivamente lottizzato dei quali si dimostri la loro posizione di terzi estranei[12].

Quanto invece all’altra delle due ipotesi di proscioglimento, e cioè al caso di omessa condanna per intervenuta prescrizione del reato, la giurisprudenza italiana ha continuato ad opporre vecchie resistenze, in quanto con una artificiosa interpretazione che formalmente era rispettosa dell’ormai imperante orientamento della Corte di Strasburgo, nella sostanza la evade facendo prevalere preoccupazioni di tipo special-preventivo.

Infatti la Cassazione, nel pronunciarsi sulla questione[13] da un lato ribadiva il carattere sanzionatorio della confisca ex art. 44 T.U. Edilizia, ma ciononostante la riteneva applicabile in caso di proscioglimento per intervenuta prescrizione sull’assunto che in questo caso (a differenza del proscioglimento per difetto dell’elemento psicologico) un sostanziale riconoscimento della responsabilità penale dell’imputato c’è stato, anche se esso viene meno per effetto dell’intervenuta prescrizione, ed in considerazione del fatto che la pronuncia di condanna non è stata elevata della Corte Edu al rango di presupposto necessario per disporre la confisca, all’uopo potendosi ritenere sufficiente l’accertamento di una sostanziale responsabilità.

Sul punto interviene a fare la necessaria chiarezza la Corte Edu il 29 ottobre 2013 (caso Varvara c. Italia) che, come prevedibile, afferma (ancora una volta) la non applicabilità della confisca in caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione, adducendo una duplice argomentazione: partendo dalla premessa della natura penale della confisca, chiarisce da un lato che la condanna formale è presupposto di applicabilità della stessa, dall’altro che in casi del genere prevale la tutela del diritto di proprietà che non può essere compromesso da un mero accertamento incidentale della responsabilità.

A distanza di un anno, la Corte di Cassazione[14] rimette alla Corte Costituzionale la legittimità dell’indirizzo da ultimo esposto dal giudice europeo, che viene censurato per il fatto di tutelare in maniera incondizionata la proprietà a scapito di altri beni costituzionalmente rilevanti (come il patrimonio storico, artistico, l’ambiente, ecc.).

La Corte Costituzionale con la pronuncia n. 49/2015, più volte citata, facendo applicazione dei principi sopraesposti, dichiara inammissibile la questione in quanto afferma che la questione di legittimità costituzionale è suscettibile di essere sollevata soltanto quando il diritto interno contrasti con un “diritto consolidato” della Corte Edu, e tale non può dirsi il principio di diritto espresso dalla stessa nel Caso Varvara. Da tali premesse, consegue che il giudice interno non è tenuto né all’interpretazione convenzionalmente conforme della norma interna contrastante, né a sollevare la questione di legittimità costituzionale, in quanto può legittimamente discostarsi da tale orientamento: il che, in altri termini, significa che il giudice potrà, laddove lo ritenga opportuno e motivandolo adeguatamente, applicare la confisca in danno del soggetto prosciolto per intervenuta prescrizione del reato, a differenza di quanto non possa fare invece nel (diverso?) caso di proscioglimento per difetto dell’elemento psicologico del reato.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Sul principio di legalità, senza pretesa di esaustività, cfr. MARINI, Nullum crimen, nulla poena sine lege, in Enc. Dir., Milano, 1978, 950 ss.; PALAZZO, Legge penale, in DIg., disc. Pen, Torino, 1993, 278 ss; VASSALLI, Nullum crimen, nulla poena sine lege, in Ibidem, 1994

[2] Firmata a Roma il 4 novembre 1950 ed entrata in vigore il 4 novembre 1953, costituisce una norma vincolante la cui violazione può essere invocata sia dagli Stati membri che dai singoli cittadini attraverso il ricorso alla Corte di Strasburgo.

[3] A partire dalla nota sentenza della Corte di Giustizia del 9 marzo 1978, causa Simmenthal, consultabile in Racc., 1978, 629, è acquisito il principio di diritto per cui, in caso di contrasto del diritto nazionale  col diritto dell'Unione Europea, il giudice interno debba procedere dapprima ad un'interpretazione conforme della norma nazionale, e in caso di contrasto insanabile debba provvedere direttamente a disapplicare (rectius non applicare)quest'ultima e ad applicare quella comunitaria.

[4] Per un’analisi dettagliata dei rapporti diritto interno e Unione Europea, G. TESAURO, Diritto dell’Unione Europea, Cedam, Padova, 2012.

[5]Ex multis, C.D.S. Sez. IV, 2 marzo 2010, n. 1220; Tar Lazio, Roma, Sez. II, 18 maggio 2010, n. 11984.

[6] La Corte individua in negativo i casi in cui il giudice può discostarsi dal principio espresso dalla Corte Edu, poichènon si tratta di diritto consolidato: la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea;  gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni;  la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano.

[7] Testualmente “Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso.”

[8] Cfr. BERNARDI, Il principio di legalità dei reati e delle pene nella Crta europea dei diritti: problemi e prospettive, in Riv. It. Dir. Comunit., 2002, 04, 673; CONFORTI-RAIMONDI, Commentario alla Convenzione Europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2001.

[9] Cfr. Sezioni Unite 21 gennaio n.18288.

[10] ANGELILLIS, Lottizzazione abusiva: la natura giuridica della confisca all’esame dI Cedu e Corte Costituzionale, in Cass. Pen., 2008, 11, 4333.

[11] Rubricato “sanzioni penali”.

[12] Il terzo acquirente dell’immobile lottizzato può subire la confisca solo quando sia ravvisabile quantomeno la sua  condotta colposa in ordine al carattere abusivo della confisca. Il che è escluso allorchè dimostri di avere agito in buona fede, senza cioè rendersi conto di partecipare ad un’operazione di lottizzazione illecita.

[13] Ex multis, Cass. Pen. Sez.III, 14 maggio 2009, n. 20243.

[14] Cass. Pen., sez. III, 20 maggio 2014, n. 20636.