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Pubbl. Mar, 8 Feb 2022

L´Adunanza Plenaria si pronuncia sull´ambito di applicazione del termine di prescrizione decennale previsto dall´art. 114, comma 1, c.p.a.

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Antonino Aliberti



Il presente contributo prende in esame la sentenza n. 24 del 4/12/2020, con la quale l´Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha affermato che il termine decennale previsto dall´art. 114 c.p.a. può essere interrotto anche con un atto stragiudiziale volto a conseguire quanto spetta in base al giudicato. L´analisi del principio di diritto enunciato dalla Plenaria interseca rilevanti questioni interpretative attinenti ai caratteri e alla natura giuridica del giudizio di ottemperanza, alla disciplina della prescrizione, al principio di effettività della tutela giurisdizionale e alla natura della situazione giuridica soggettiva facente capo al ricorrente che sia risultato vittorioso all´esito del giudizio di cognizione.


ENG This paper analyses the judgement no. 24 of 4 December 2020, by which the Plenary Assembly of the Counseil of State explains that the ten years limitation period provided for in article 114 c.p.a. can be interrupted by an out of court act aimed at obtaining what is due according to the judgement. The analysis of the principle enunciated by the Plenary Assembly intersects relevant interpretative problems concerning the characteristics and the legal nature of the judgment of compliance, the regulation of the limitation period, the principle of effectiveness of judicial protection and the nature of the legal position belonging to the appeleant who was victorious at the outcome of the judgment.

Sommario: 1.  Premessa; 2.  Il giudizio di ottemperanza: evoluzione storica, disciplina e caratteri; 3. La natura del termine di cui all’art. 114, comma 1, c.p.a. e gli atti idonei a determinarne l’interruzione; 3.1 Il caso. 3.2 Il contrasto giurisprudenziale e l’opzione ermeneutica abbracciata dal CGARS nell’ordinanza di rimessione; 3.3 La soluzione dell’Adunanza Plenaria; 4. Considerazioni finali.

1.  Premessa

Con la sentenza n. 24 del 04/12/2020 l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha posto fine al dibattito dottrinale e giurisprudenziale relativo alla natura giuridica del termine decennale previsto dall’art. 114, comma 1, c.p.a. per la proposizione dell’actio iudicati e agli atti suscettibili di determinarne l’interruzione.  Nello specifico, il Supremo consesso della giustizia amministrativa ha affermato che il termine in questione può essere interrotto anche mediante un atto stragiudiziale che sia diretto a conseguire quanto spetta in base al giudicato.

La pronuncia in esame offre lo spunto per numerose e approfondite riflessioni sui caratteri del giudizio di ottemperanza, sulla natura della situazione giuridica soggettiva azionabile dal ricorrente che sia risultato vittorioso all’esito del giudizio di cognizione e sulla disciplina della prescrizione, con particolare riguardo agli atti idonei a determinarne l’interruzione.

Ai fini di una adeguata comprensione della portata e dei riflessi del principio di diritto enunciato dall’Adunanza Plenaria, appare opportuno esaminare i caratteri e la disciplina del giudizio di ottemperanza per poi procedere ad un’attenta analisi della questione controversa, dei diversi orientamenti maturati sul punto in seno alla giurisprudenza amministrativa e, infine, della soluzione prospettata dall’Adunanza Plenaria.

2.  Il giudizio di ottemperanza: evoluzione storica, disciplina e caratteri

L’origine e l’evoluzione del giudizio di ottemperanza sono strettamente connessi con l’esigenza di assicurare una tutela giurisdizionale piena ed effettiva nei confronti della pubblica amministrazione, garantendo al cittadino che sia risultato vittorioso all’esito del giudizio di cognizione il conseguimento del bene della vita cui aspirava[1].

Nell’impianto normativo della legge abolitiva del contenzioso amministrativo n. 2248 del 1865, pur prevedendosi all’art. 4 l’obbligo della pubblica amministrazione di «conformarsi al giudicato dei tribunali in quanto riguarda il caso deciso»[2], non si apprestava alcuno specifico rimedio per far fronte all’inerzia della parte pubblica nell’esecuzione del giudicato, ritenendosi che uno strumento di tal fatta potesse comportare un’indebita ingerenza dell’autorità giudiziaria nella sfera del merito amministrativo, con violazione del principio di separazione dei poteri[3].

L’introduzione del giudizio di ottemperanza si deve alla L. n. 5992 del 1889, che ha previsto la devoluzione alla IV Sezione del Consiglio di Stato delle controversie relative alla mancata attuazione da parte della pubblica amministrazione delle decisioni del giudice ordinario[4].

Con riferimento alle decisioni del giudice amministrativo, non si avvertiva ancora l’esigenza di apprestare un’adeguata tutela a fronte della loro mancata o inesatta esecuzione, ritenendosi che l’annullamento con effetto retroattivo del provvedimento limitativo della sfera giuridica del privato fosse di per sé interamente satisfattivo della pretesa del ricorrente. Con l’emersione degli interessi pretensivi, richiedenti per la loro piena soddisfazione un’attività positiva della parte pubblica, si comprese l’erroneità della precedente convinzione e si aprì la strada all’estensione giurisprudenziale del rimedio dell’ottemperanza anche alle ipotesi di mancata o inesatta attuazione delle sentenze del giudice amministrativo[5].

All’estensione operata in via interpretativa fese seguito l’intervento del Legislatore che, con la legge istitutiva dei Tar, rese esperibile l’actio iudicati anche in relazione alle sentenza del giudice amministrativo passate in giudicato[6] e, successivamente, con la L. 205/2000, estese il rimedio in esame anche alle sentenze esecutive non ancora passate in giudicato del giudice amministrativo e alle ordinanze cautelari[7].

L’attuale disciplina del giudizio di ottemperanza è contenuta nel Titolo I del Libro IV del Codice del processo amministrativo, al quale si deve un riordino delle precedenti disposizioni e un loro adeguamento ai principi affermati negli anni dalla giurisprudenza amministrativa.

Il Titolo I del Libro IV del Codice si apre con l’art. 112, che, dopo ave sancito l’obbligo per la pubblica amministrazione e per le altre parti[8] di eseguire il giudicato, stabilisce che il giudizio di ottemperanza può essere promosso per conseguire l’attuazione:

a) delle sentenze passate in giudicato del giudice amministrativo;

b) delle sentenze esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo;

c) delle sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati del giudice ordinario al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi al giudicato in relazione al caso concreto;

d) delle sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati per i quali non sia previsto il rimedio dell’ottemperanza, per conseguire l’adempimento dell’obbligo della parte pubblica di conformarsi alla decisione;

e) dei lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili, al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi al giudicato in relazione al caso concreto.

A seguito dell'espunzione della norma che richiedeva la previa proposizione di una diffida ad adempiere rivolta alla pubblica amministrazione, l’unico presupposto per l’instaurazione del giudizio di ottemperanza è oggi costituito dall’esistenza di una decisione passata in giudicato o comunque esecutiva del giudice amministrativo o di una decisione passata in giudicato di altro giudice o del collegio arbitrale.

Non rientra, invece, tra i presupposti del giudizio di ottemperanza l’inadempimento della pubblica amministrazione, atteso che esso costituisce l’oggetto del giudizio[9].

Dalla lettura dell’art. 112 c.p.a. emerge la scelta del legislatore di utilizzare il termine “attuazione” con riferimento alla funzione del giudizio di ottemperanza, lasciando trasparire il chiaro intento di riconoscere a tale rimedio una portata ben più ampia rispetto al processo esecutivo disciplinato dal Codice di procedura civile. Tale scelta sembra giustificata dalla particolare natura della parte soccombente, che è costituita da un soggetto pubblico investito di poteri autoritativi funzionalizzati alla realizzazione di un interesse collettivo[10].

La decisione del giudice amministrativo accerta, infatti, la legittimità dell’esercizio del potere conferito alla pubblica amministrazione entro gli stretti confini dei vizi fatti valere dal privato con i motivi del ricorso, conservando, di conseguenza, la parte pubblica all’esito del giudizio di cognizione un certo margine di discrezionalità nel riesercizio del potere, incontrando quale unico limite il decisum giudiziale.

Il riferimento al concetto di “attuazione”, più ampio e complesso rispetto alla mera esecuzione, si giustifica, inoltre, alla luce della diversa portata che assume l’obbligo di conformarsi al giudicato in relazione alla natura della situazione giuridica soggettiva azionata dal ricorrente e del provvedimento di cui si chiede l’ottemperanza.

Se gli interessi di natura oppositiva risultano interamente soddisfatti dalla sentenza di annullamento del provvedimento amministrativo illegittimo, quelli di carattere pretensivo richiedono, infatti, ai fini della loro piena realizzazione, lo svolgimento di un’ulteriore attività da parte della pubblica amministrazione, con la conseguenza che anche le stesse modalità dell’ottemperanza saranno differenti a seconda della natura del provvedimento rimasto inattuato[11].

A tal riguardo, va precisato che proprio l’esigenza di garantire al ricorrente vittorioso il conseguimento del bene della vita a lui spettante ha giustificato il riconoscimento al giudice dell’ottemperanza di poteri particolarmente incisivi, non limitati alla mera esecuzione del giudicato.

Se il processo esecutivo disciplinato dal Codice di procedura civile svolge una funzione di adeguamento della realtà di fatto ad una regola giuridica già compiutamente individuata nella sentenza da eseguire, il giudizio di ottemperanza concorre, invece, all'individuazione di quella regola tutte le volte in cui all’esito del giudizio di cognizione permanga un certo margine di discrezionalità della parte pubblica nell’attuazione del giudicato[12].

In tale ipotesi, spetta al giudice dell’ottemperanza il delicato compito di interpretare la decisione da attuare per individuare il comportamento che dovrebbe essere tenuto dall’amministrazione, accertare il comportamento in concreto tenuto e verificare la conformità di quest’ultimo con quello doveroso[13].

Se ne ricava che l’attività del giudice dell’ottemperanza non è limitata alla mera esecuzione della sentenza, ma si estende alla sua interpretazione, integrazione e specificazione, allo scopo di individuare la volontà della legge nel caso concreto.

Il potere riconosciuto al giudice dell’ottemperanza di specificare e completare il comando contenuto nella sentenza, anche alla luce delle sopravvenienze fattuali e giuridiche, ha portato alla nascita del concetto di “giudicato a formazione progressiva”[14], che si riferisce proprio alla circostanza che la regola contenuta nella decisione del giudice amministrativo si presenta spesso elastica, incompleta o condizionata e richiede di essere integrata ed esplicitata in sede di ottemperanza.

La complessità e l’ampiezza delle funzioni del giudizio di ottemperanza hanno sollevato in dottrina e giurisprudenza il dibattito sulla natura giuridica da attribuire a tale giudizio.

Ritenendosi ormai risolta la risalente disputa in ordine alla natura amministrativa o giurisdizionale di tale rimedio[15], è necessario verificare se il giudizio di ottemperanza presenti i caratteri del giudizio di cognizione o di quello di esecuzione.

Facendo leva sui poteri integrativi, interpretativi e specificativi del giudicato riconosciuti in capo al giudice dell’ottemperanza, il cui compito è quello di individuare la volontà della legge nel caso concreto, l’orientamento oggi prevalente in giurisprudenza afferma che il giudizio di ottemperanza avrebbe una natura mista, di cognizione e di esecuzione[16].

A tal riguardo, si è osservato che la ricomprensione di profili cognitori nell’ambito del giudizio di ottemperanza sarebbe una diretta conseguenza dell’ampiezza dei poteri riconosciuti al giudice in tale sede[17].

Dal combinato disposto degli artt. 7, comma 6, e 134 c.p.a. si ricava, infatti, che il giudizio di ottemperanza rientra tra le ipotesi in cui il giudice amministrativo esercita la giurisdizione con cognizione estesa al merito, potendo sostituirsi alla pubblica amministrazione nell’adozione del provvedimento ovvero modificare o riformare il provvedimento impugnato.

Più in dettaglio, i poteri del giudice dell’ottemperanza sono individuati dall’art. 114 c.p.a., ai sensi del quale il giudice, in caso di accoglimento del ricorso, oltre a ordinare l’ottemperanza prescrivendone le relative modalità, può spingersi fino a determinare il contenuto del provvedimento amministrativo o ad emanarlo in luogo dell’amministrazione[18].

Al giudice dell’ottemperanza è, altresì, riconosciuto il potere di dichiarare nulli gli atti violativi o elusivi del giudicato[19], la cui nullità è oggi sancita dall’art. 21 septies, comma 2, della L. n. 241/1990 e le relative controversie sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo dall’art. 133, comma 1, lett. a), n. 5.

Nel caso di sentenze non ancora passate in giudicato o di altri provvedimenti esecutivi, il giudice dell’ottemperanza ha, invece, il potere di dichiarare inefficaci gli atti emessi in violazione o elusione degli stessi. In tale ipotesi, peraltro, i poteri del giudice incontrano il limite della non incontrovertibilità delle statuizioni contenute nella decisione, che potrebbe essere riformata in grado di appello. Ne scaturisce l’impossibilità per il giudice di dar luogo ad effetti irreversibili, dovendo adeguatamente calibrare le esigenze di effettività della tutela giurisdizionale con la provvisorietà e non definitività del provvedimento da attuare[20].

Tra i poteri che l’art. 114 riconosce in capo al giudice dell’ottemperanza rientrano, infine, quello di nominare, ove occorra, un commissario ad acta[21] e quello di fissare, su richiesta di parte e salvo che sia manifestamente iniquo, la somma dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato[22].

A norma dell’art. 112, comma 3, nel giudizio di ottemperanza è, altresì, possibile proporre in unico grado azione di condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenze a azione di condanna al risarcimento dei danni scaturenti dall'impossibilità o mancata esecuzione del giudicato o dalla sua violazione o elusione[23].

Le considerazioni fin qui svolte in ordine alla natura e alla funzione del giudizio di ottemperanza, nonché ai poteri riconosciuti al giudice in tale sede, non sono, tuttavia, automaticamente estensibili alla controversa figura dell’ottemperanza per chiarimenti, disciplinata dal comma 5 dell’art. 112 c.p.a., ai sensi del quale, il giudizio in esame può essere promosso anche «al fine di ottenere chiarimenti in ordine alle modalità dell’ottemperanza»[24]

A differenza dell’ordinario giudizio di ottemperanza, nell’ambito del quale legittimato attivo è il ricorrente vittorioso in sede di cognizione che si rivolge al giudice per ottenere l’attuazione della decisione rimasta ineseguita dalla parte pubblica, nell’ottemperanza per chiarimenti la legittimazione attiva spetta alla stessa pubblica amministrazione soccombente, che si rivolge al giudice per ottenere chiarimenti in ordine alle modalità di attuazione del giudicato. I caratteri di tale rimedio hanno indotto la dottrina ad affermare che esso non sia propriamente inquadrabile tra le azioni di ottemperanza, venendo ad esse assimilato solo quanto al regime processuale[25].  Tale impostazione ha trovato conferma anche nella giurisprudenza amministrativa[26].

Nell’esame della disciplina del giudizio di ottemperanza e delle novità apportate dal Codice del processo amministrativo, non può non farsi menzione delle disposizioni in materia di competenza contenute nell’art. 113 c.p.a. In particolare, la norma in esame opera una distinzione tra l’attuazione delle sentenze e degli altri provvedimenti del giudice amministrativo e quella delle decisioni del giudice ordinario o di altri giudici e dei lodi arbitrali.

Nel primo caso, si prevede la competenza dello stesso giudice che ha pronunciato la sentenza di cui si chiede l’attuazione, con la precisazione che la competenza permane in capo al Tar anche nel caso in cui i suoi provvedimenti siano stati confermati in grado d’appello «con motivazione che abbia lo stesso contenuto conformativo e dispositivo dei provvedimenti di primo grado»[27].  Tale previsione si giustifica sulla base del rilievo per cui il giudice che ha emesso la sentenza è anche quello più idoneo a stabilirne le relative modalità attuative.

Per l’attuazione di decisioni di altri giudici, il secondo comma dell’art. 113 c.p.a. stabilisce, invece, che il ricorso va proposto al Tar nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha emesso la sentenza di cui si chiede l’ottemperanza.

3. La natura del termine di cui all’art. 114, comma 1, c.p.a. e gli atti idonei a determinarne l’interruzione

Dopo aver ricostruito sinteticamente l’evoluzione storica, la natura giuridica e la disciplina legislativa del giudizio di ottemperanza, è necessario concentrare l’attenzione sul disposto dell’art. 114, comma 1, secondo periodo, c.p.a., ai sensi del quale l’azione di ottemperanza si prescrive con il decorso di dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza.

La norma in esame è stata oggetto della recente pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 24 del 2020, la quale ha risolto la controversa questione relativa alla possibilità di interrompere il termine decennale di cui all’art. 114 c.p.a. mediante un atto stragiudiziale di messa in mora.

Ai fini di un’adeguata comprensione della questione prospettata e della soluzione fornita dal Supremo Consesso della giustizia amministrativa, appare opportuno muovere dall’esame della fattispecie concreta che ha portato il CGARS ad operare la rimessione all’Adunanza Plenaria.

3.1 Il caso

Con sentenza n. 180 del 23 aprile 2001, il Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana, accogliendo l’appello degli eredi di un professore associato già in servizio presso l’Università di Catania, riformava la precedente decisione del Tar Sicilia, Sezione di Catania, e affermava l’esistenza del diritto degli eredi del professore di conseguire alcune differenze retributive a quest’ultimo spettanti per il lavoro svolto tra l’1 agosto del 1980 e il 31 luglio del 1985, a seguito della rideterminazione della decorrenza della nomina a professore associato.

Il 5 aprile del 2011, gli eredi del professore notificavano la sentenza del CGARS, passata in giudicato, all’Università di Catania e al Ministero dell’Università e della ricerca per ottenere l’adempimento delle amministrazioni resistenti agli obblighi scaturenti dalla sentenza e interrompere la prescrizione del diritto alle somme indicate nella decisione notificata.

A seguito della mancata risposta delle amministrazioni, il 9 luglio del 2019, i ricorrenti chiedevano alle amministrazioni il pagamento delle somme dovute, quantificate in € 86.846, 74, ma anche in tal caso alla richiesta di pagamento non faceva seguito alcun riscontro da parte degli intimati.

Pertanto, con ricorso di ottemperanza n. 67 del 2020, gli eredi del professore adivano il CGARS, chiedendo l’esecuzione delle statuizioni contenute nella sentenza passata in giudicato.

Nel corso del giudizio dinanzi al CGARS, l’Università di Catania eccepiva la prescrizione dell’actio iudicati promossa dai ricorrenti, evidenziando come dal passaggio in giudicato della sentenza n. 180 del 2001 alla notifica del ricorso di ottemperanza fossero trascorsi circa 19 anni e fosse stato, pertanto, superato il termine decennale previsto dall’art. 114, comma 1, c.p.a.

Con nota dell’8 maggio 2020, i ricorrenti replicavano alle eccezioni sollevate dall’amministrazione resistente, rilevando che alla sentenza notificata il 5 aprile 2011 era stata apposta una inequivocabile intimazione ad adempiere, formulata con la frase «si notifichi ai fini dell’esatta ottemperanza ed a tutti gli effetti, compreso quello interruttivo della prescrizione». A ciò si aggiungeva che anche la richiesta di accesso agli atti, notificata all’amministrazione resistente il 5 aprile del 2012, era idonea a produrre l’effetto interruttivo della prescrizione, dal momento che nel corpo della richiesta era esplicitato che la stessa era formulata al fine di «valutare l’opportunità di proseguire nell’azione legale».

Alla luce delle tesi difensive avanzate dalle parti, il Collegio riteneva dirimente ai fini della decisione del ricorso la risoluzione della questione relativa all’esatta interpretazione dell’art. 114 c.p.a., con particolare riferimento agli atti idonei a determinare l’interruzione del termine decennale per la proposizione dell’actio iudicati.

3.2 Il contrasto giurisprudenziale e l’opzione ermeneutica abbracciata dal CGARS nell’ordinanza di rimessione

Nell’individuazione dei quesiti da sottoporre all’Adunanza Plenaria, il CGARS nell’ordinanza di rimessione si sofferma in primo luogo sulla natura giuridica del termine di cui all’art. 114 c.p.a.

Pur prendendo atto dell’utilizzazione nell’art. 114 c.p.a. del termine “prescrizione” che sembra fugare ogni dubbio interpretativo, il giudice rimettente ritiene necessario che l’Adunanza Plenaria chiarisca se il termine non sia, invece, di natura decadenziale e se, qualora se ne affermi il carattere prescrizionale,  la prescrizione riguardi il diritto di azione, potendo essere interrotta solo dalla proposizione del ricorso, o, piuttosto, il diritto sostanziale sottostante, con la conseguenza che l’interruzione del termine prescrizionale potrebbe essere realizzata anche con un atto stragiudiziale.

A tal riguardo, il giudice a quo evidenzia come la giurisprudenza maggioritaria sia concorde nell’affermare la natura prescrizionale del termine di proposizione dell’actio iudicati, ma ritiene, comunque, auspicabile una «riflessione aggiornata»[28] sulla natura giuridica di tale termine alla luce dell’attuale configurazione del giudizio di ottemperanza.

Se la posizione della giurisprudenza sembra essere pressoché unanime in ordine alla natura prescrizionale del termine di cui all’art. 114 c.p.a., nell’ordinanza di rimessione si evidenzia l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine all’individuazione degli atti idonei a determinarne l’interruzione.

A sostegno della tesi restrittiva, secondo la quale il termine per la proposizione dell’actio iudicati non può essere interrotto mediante atti stragiudiziali, viene richiamata la sentenza del Consiglio di Stato n. 5558 del 2011, in base alla quale l’interruzione del termine in questione può avvenire con la proposizione dell’azione di ottemperanza, sebbene dinanzi ad un giudice incompetente[29].

Per l’opposto orientamento, abbracciato dalla sentenza della terza sezione del Consiglio di Stato n. 94 del 2013, dalla natura prescrizionale del termine di cui all’art. 114 c.p.a. scaturirebbe la possibilità di determinarne l’interruzione anche mediante atti diversi dalla proposizione del ricorso, tra i quali il Collegio menziona atti di diffida, istanza di tentativo di conciliazione o, ancora, istanza a provvedere all’ottemperanza della sentenza[30].

Nel rimettere la risoluzione del contrasto giurisprudenziale all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, il CGARS esprime la propria posizione sulla questione, ritenendo non convincente la tesi dell’ammissibilità di atti interruttivi stragiudiziali per plurime ragioni, puntualmente elencate nell’ordinanza di rimessione.

La prima delle ragioni elencate dal giudice rimettente si fonda su considerazioni di carattere sistematico e, nello specifico, sulla circostanza che nel corpo del Codice del processo amministrativo il termine per la proposizione delle azioni può essere interrotto solo con la presentazione del ricorso e non con atti di diversa natura.

In secondo luogo, il CGARS fa riferimento al diverso ambito applicativo degli artt. 114 c.p.a. e 2953 c.c. La prima di tali disposizioni sarebbe riferita alla prescrizione dell’azione, mentre la seconda, a norma della quale «i diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo ad essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato si prescrivono con il decorso di dieci anni», sarebbe riferita ai diritti sostanziali e non sarebbe, pertanto, applicabile nel processo amministrativo.

Per il giudice rimettente non deporrebbe in senso contrario neppure la natura prescrizionale del termine di cui all’art. 114 c.p.a., atteso che gli atti interruttivi della prescrizione devono necessariamente essere atti di esercizio dei diritti «che siano pertinenti e idonei ad esercitare i diritti stessi», con la conseguenza che l’unico atto di esercizio del diritto di azione sarebbe la proposizione dell’azione stessa.

A sostegno della propria tesi, il Collegio richiama precedenti pronunce della giurisprudenza amministrativa e civile, che escludevano la possibilità di interrompere il termine di proposizione del ricorso mediante atti stragiudiziali[31].

Secondo quanto affermato dal giudice rimettente, inoltre, anche in quelle ipotesi in cui il Codice prevede che la proposizione dell’azione sia preceduta da atti di diffida o di messa in mora, tali atti non hanno efficacia interruttiva della prescrizione, stante il carattere perentorio dei termini processuali, che sono sottratti alla disponibilità delle parti e suscettibili di interruzione soltanto con il compimento degli atti processuali previsti dal Codice.

A sostegno della propria tesi, il CGARS evidenzia che il principio di effettività della tutela giurisdizionale, evocato dai fautori della concezione c.d. “estensiva”, deve essere adeguatamente bilanciato con altri interessi parimenti degni di considerazione, tra i quali particolare rilievo assumono i principi di ragionevole durata del processo e di buon andamento della pubblica amministrazione.

Siffatti interessi rischierebbero di essere frustrati dall’ammissibilità di atti stragiudiziali interruttivi del termine di prescrizione del ricorso in ottemperanza perché, avallando una soluzione di tal genere, si finirebbe per esporre la pubblica amministrazione alla reiterazione di atti interruttivi stragiudiziali fatti nell’imminenza della scadenza del termine per un tempo potenzialmente indefinito.

Tale inconveniente troverebbe riscontro proprio nel caso preso in esame dal giudice rimettente, nel quale L’università di Catania si trova a resistere ad una richiesta di ottemperanza promossa a quasi vent’anni di distanza dal passaggio in giudicato della decisione ineseguita.

Dopo aver espresso la propria posizione in materia e ritenendo la risoluzione della questione in esame assolutamente dirimente ai fini della decisione della controversia, il CGARS rimette all’Adunanza Plenaria i seguenti quesiti:

«a) se il termine di prescrizione decennale dell’actio iudicati previsto dall’art. 114 c. 1 c.p.a. riguardi il diritto di azione o il diritto sostanziale riconosciuto dal giudicato;

b) se, ritenuta la prescrizione riferita all’azione processuale, secondo il chiaro tenore letterale dell’art. 114 c. 1 c.p.a., il termine di prescrizione possa essere interrotto esclusivamente mediante l’esercizio dell’azione (come sembra desumersi dall’Adunanza plenaria n. 5/1991 resa anteriormente all’entrata in vigore del c.p.a. del 2010), (anche davanti a giudice incompetente o privo di giurisdizione e fatti salvi gli effetti della translatio iudicii) o anche mediante atti stragiudiziali volti a conseguire il bene della vita riconosciuto dal giudicato;

c) se, pertanto, al di là del nomen iuris di prescrizione utilizzato dall’art. 114 c. 1 c.p.a., il termine di esercizio dell’actio iudicati operi, nella sostanza, come un termine di decadenza, al pari di tutti gli altri termini previsti dal c.p.a. per l’esercizio di azioni davanti al giudice amministrativo, e si presti, pertanto, ad una esegesi sistematica e armonica con l’impianto del c.p.a.;

d) se, in subordine, ove si ritenesse che l’art. 114 c. 1 c.p.a. vada interpretato nel senso di consentire atti stragiudiziali di interruzione dell’actio iudicati, non si profili un dubbio di legittimità costituzionale della previsione quanto meno in relazione agli artt. 111 e 97 Cost., per violazione dei principi di ragionevole durata dei processi e di buon andamento dell’Amministrazione»

3.3 La soluzione dell’Adunanza Plenaria

Nel rispondere ai quesiti sottoposti dal collegio rimettente, l’Adunanza Plenaria osserva che la risoluzione delle questioni prospettate richiede un esame dell’evoluzione normativa in tema di giudizio di ottemperanza e di prescrizione e impone di tenere conto del principio di parità della tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi.

Nel ricostruire l’evoluzione storica del giudizio di ottemperanza, l’Adunanza Plenaria evidenzia come, nella sua originaria configurazione risultante dall’art. 4, n. 4, della L. 5992 del 1889, articolo poi trasfuso nei testi unici sul Consiglio di Stato, il rimedio in questione era concepito solo per l’esecuzione del giudicato dei tribunali che avesse riconosciuto la lesione di un diritto civile o politico.

Il termine per la proposizione dell’actio iudicati si ricavava dal combinato disposto dell’art. 90 R.D. n. 642 del 1907 e degli artt. 2135 e 2123 del Codice civile del 1865.

La prima di tali disposizioni sanciva che il ricorso in ottemperanza potesse essere proposto finché durasse l’azione di giudicato, mentre gli artt. 2135 e 2123 stabilivano, rispettivamente la durata trentennale del termine di prescrizione delle azioni reali e personali e la possibilità di interrompere tale termine «civilmente», e quindi con una domanda giudiziale o un atto di costituzione in mora.

Da tale quadro normativo si ricavava che l’actio iudicati, circoscritta alle sole sentenze del giudice civile, fosse proponibile entro un termine di prescrizione di trent’anni, suscettibile di interruzione.

Ciò premesso, L’Adunanza plenaria richiama la progressiva estensione giurisprudenziale del rimedio dell’ottemperanza anche alle sentenza del giudice amministrativo[32].

Il Collegio chiarisce, poi, che sul quadro normativo sopra descritto ha inciso l’entrata in vigore del Codice civile del 1942, che ha profondamente modificato la disciplina della prescrizione, prevedendo la durata decennale del termine ordinario e disciplinando in dettaglio sia la prescrizione dell’actio iudicati sia le modalità di interruzione della prescrizione.

Con specifico riferimento a tali aspetti, l’art. 2953 ha disposto espressamente che «i diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo ad essi è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato si prescrivono con il decorso di dieci anni», mentre l’art. 2943 ha precisato che la prescrizione può essere interrotta mediante atti di costituzione in mora del debitore.

Pur evidenziando la scelta lessicale fatta dal legislatore di riferire la prescrizione non alle azioni, come in precedenza, ma ai diritti, l’Adunanza Plenaria concentra la propria attenzione sui riflessi della nuova normativa codicistica che, letta in combinato disposto con il richiamo contenuto nell’art. 90 R.D. n. 642 del 1907, ha comportato l’applicazione del termine decennale all’ottemperanza relativa all’esecuzione del giudicato civile.

La giurisprudenza del Consiglio di Stato, precedente all’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo, è stata concorde nel ribadire l’applicabilità degli artt. 2953 e 2943, comma 4, ai ricorsi di ottemperanza relativi all’esecuzione di giudicati civili o di giudicati amministrativi riguardanti diritti soggettivi. Ciò in ossequio al principio di effettività della tutela giurisdizionale dei diritti soggettivi, che deve essere di pari grado, indipendentemente dalla devoluzione della relativa controversia al giudice ordinario o a quello amministrativo.

A diverse conclusioni è giunta, invece, la giurisprudenza amministrativa in relazione all’attuazione di giudicati di annullamento di atti amministrativi lesivi di interessi legittimi, prospettandosi, in tale ambito, la questione della possibilità di interrompere il termine per la proposizione dell’actio iudicati mediante atti stragiudiziali.

Sul punto, sebbene fosse sostenibile la tesi della possibilità di proporre in ogni tempo l’azione di ottemperanza alla luce dell’imprescrittibilità degli interessi legittimi, esigenze di certezza del diritto e di stabilità dei rapporti giuridici hanno indotto la giurisprudenza a ritenere applicabile il termine decennale di cui all’art. 90 R.D. n. 642 del 1907 anche all’ottemperanza promossa per la tutela di interessi legittimi, con la sostanziale differenza che, in tal caso, si è esclusa la possibilità di interrompere il termine in questione con atti stragiudiziali.

Quest’ultima impostazione è stata abbracciata dall’Adunanza Plenaria con la sentenza n. 5 del 1991, richiamata dal giudice rimettente a sostegno della tesi restrittiva.

Nel proseguire il proprio percorso argomentativo, l’Adunanza Plenaria chiarisce che nel contesto normativo e giurisprudenziale appena ricostruito si è inserito l’art. 114 c.p.a., che ha sancito la prescrizione dell’actio iudicati con il decorso di dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza, facendo un consapevole ed espresso riferimento alla prescrizione dell’azione e non della posizione giuridica oggetto del giudicato.

La norma di nuova introduzione nulla ha mutato in relazione alla prescrizione dell’azione di ottemperanza relativa all’attuazione del giudicato concernente diritti soggettivi.

Con rifermento all’ottemperanza dei giudicati relativi a posizioni di interesse legittimo, L’Adunanza Plenaria rileva, invece, che il legislatore non ha condiviso le conclusioni della sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 5 del 1991 e ha introdotto la regola in base alla quale il termine di cui all’art. 114 c.p.a. ha natura prescrizionale ed è, quindi, suscettibile di interruzione anche con atti stragiudiziali.

La circostanza che tale previsione sia riferita proprio all’ottemperanza dei giudicati relativi a posizioni di interesse legittimo è confermata dalla considerazione che, con riferimento ai diritti, una tale soluzione è implicita e costituzionalmente obbligata, non potendosi prevedere per essi un termine di decadenza, che renderebbe la disciplina processuale dell’actio iudicati del tutto incoerente con quella sostanziale di cui all’art. 2953 c.c.

Secondo l’Adunanza Plenaria, il Legislatore avrebbe, quindi, optato per l’introduzione di una disciplina unitaria della prescrizione dell’azione di ottemperanza, indipendentemente dalla situazione giuridica soggettiva fatta valere dal ricorrente.

Ad avviso del Supremo consesso della giustizia amministrativa, una tale soluzione sarebbe pienamente compatibile e coerente con il principio di effettività della tutela giurisdizionale e con i principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale.

Sotto il primo profilo, il principio di effettività e pienezza della tutela giurisdizionale è affermato dall’art. 1 c.p.a. senza alcuna distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi, ai quali deve essere riconosciuta uguale dignità ai sensi degli artt. 24 e 103 Cost. Se ne ricava che, in ogni caso, al privato, che abbia ottenuto un giudicato favorevole, vada riconosciuta la possibilità di provocare l’interruzione del termine di proposizione dell’actio iudicati, sollecitando la pubblica amministrazione con un atto stragiudiziale.

In secondo luogo, L’Adunanza Plenaria richiama quelle pronunce[33], con le quali la Corte costituzionale ha rilevato l’esistenza, nelle controversie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, di un vero e proprio nodo gordiano tra diritti soggettivi e interessi legittimi, che giustificherebbe l’unificazione del regime giuridico dell’actio iudicati, indipendentemente dalla situazione giuridica azionata.

A conclusione del proprio iter argomentativo, il Collegio chiarisce che la soluzione della interrompibilità del termine di cui all’art. 114 c.p.a. mediante atti stragiudiziali non appare incompatibile con i principi enunciati dagli artt. 97 e 111 Cost.

Dalla sentenza favorevole al privato, emessa all’esito del giudizio di cognizione, scaturisce, infatti, l’obbligo della pubblica amministrazione soccombente di conformarsi al giudicato ed è proprio l’inadempimento di tale obbligo che integrerebbe una violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione ex art. 97 Cost., non certo la condotta del ricorrente vittorioso che solleciti la parte pubblica soccombente ad eseguire il giudicato.

Neppure sarebbe ravvisabile una violazione del principio di ragionevole durata del processo, atteso che il principio in esame concerne il periodo di tempo entro il quale deve intervenire una decisione giurisdizionale a fronte del ricorso del cittadino e non preclude al legislatore di introdurre una norma che consenta al privato vittorioso in sede di cognizione di scegliere di sollecitare l’amministrazione soccombente in via stragiudiziale, piuttosto che proporre fin da subito l’actio iudicati.

Alla luce di tali considerazioni, l’Adunanza Plenaria afferma il principio di diritto, in base al quale «il termine decennale previsto dall’art. 114, comma 1, c.p.a. in ogni caso può essere interrotto anche con un atto stragiudiziale volto a conseguire quanto spetta in base al giudicato».

4. Considerazioni finali.

Con la pronuncia in esame, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha adottato l’opzione ermeneutica senza dubbio più coerente con il dato letterale risultante dall’art. 114 c.p.a. e con la disciplina dettata dal Codice civile in materia di prescrizione.

La scelta del legislatore di utilizzare nel corpo dell’art. 114 c.p.a. il termine “prescrizione” sembra, infatti, lasciare ben pochi dubbi sulla natura giuridica del termine in questione.

All’affermazione del carattere prescrizionale del termine di proposizione dell’actio iudicati segue, poi, necessariamente la possibilità di determinarne l'interruzione mediante un atto stragiudiziale di messa in mora, coerentemente con quanto affermato dall’art. 2943, comma 4, c.c.

La norma da ultimo indicata, infatti, menziona tra gli atti idonei a determinare l’interruzione della prescrizione, oltre all’instaurazione di un giudizio, anche gli altri atti che valgano a costituire in mora il debitore ai sensi dell’art. 1219 c.c.

Particolarmente degna di nota è la scelta dell’Adunanza Plenaria di non soffermarsi sulla distinzione tra prescrizione sostanziale e prescrizione processuale, quasi a ritenere poco rilevante la soluzione di tale questione. Questa scelta, secondo una parte della dottrina, non è affatto casuale, ma scaturisce dalla considerazione che il diritto sottostante e il suo esercizio in giudizio vadano visti come un continuum necessario e non come aspetti tra loro distinti e separati[34].

Particolare rilievo assumono, poi, le conclusioni cui perviene l’Adunanza Plenaria nel paragrafo 6.4 della sentenza in esame, laddove si afferma che l’art. 114 c.p.a. è espressione dell’intento del legislatore di dettare un regime unitario quanto al termine di proposizione dell’actio iudicati, senza operare alcuna distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi.

Tale scelta interpretativa interseca la delicata questione concernente la natura della situazione giuridica soggettiva azionata in sede di ottemperanza dal ricorrente vittorioso.

Sul punto, la tesi prevalente sostiene che il ricorrente che sia risultato vincente all’esito del giudizio di cognizione sarebbe titolare di un diritto soggettivo perfetto, cui farebbe da contraltare l’obbligo in capo alla pubblica amministrazione soccombente di conformarsi al giudicato. Siffatta impostazione si fonda su tre diverse considerazioni[35].

In primo luogo, si fa leva sulla posizione differenziata in cui si trova il ricorrente vittorioso, che ha ottenuto una decisione direttamente incidente sul suo rapporto con la pubblica amministrazione.

Secondariamente, si rileva che il ricorso di ottemperanza non è soggetto a termini di decadenza, ma solo alla prescrizione decennale di cui all’art. 114 c.p.a.

Infine, si fa leva sulla radicale nullità dei provvedimenti adottati in violazione o elusione del giudicato a norma dell’art. 21 septies della L. n. 241 del 1990.

L’impostazione da ultimo menzionata sembra, tuttavia, stridere con quei casi in cui la pubblica amministrazione all’esito del giudizio di cognizione conservi margini di discrezionalità in ordine al riesercizio del potere e alle modalità con cui conformarsi al giudicato. In tal caso, la posizione del privato sembrerebbe, infatti, presentare i caratteri dell’interesse legittimo.

La sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 24 del 2020 sembra superare tale questione interpretativa, quanto meno rispetto alla delicata questione del termine per la proposizione dell’actio iudicati. Sotto tale profilo, infatti, non appare più indispensabile l’individuazione della situazione giuridica azionata dal ricorrente vittorioso, atteso che il regime processuale dettato dal legislatore sarebbe unitario e quindi uguale per diritti e interessi.

La tesi dell’Adunanza Plenaria ha avuto seguito nella giurisprudenza successiva, che ha abbracciato il principio di diritto della interrompibilità del termine di prescrizione dell’actio iudicati anche mediante atti stragiudiziali di diffida o messa in mora[36].

Ad avviso di chi scrive, nella decisione in commento l’Adunanza Plenaria si è trovata, ancora una volta, di fronte al delicato problema della ricerca di un punto di equilibrio tra l’esigenza di garantire una tutela giurisdizionale piena ed effettiva e la necessità di assicurare la certezza e la stabilità dei rapporti giuridici.

Proprio tale ultimo profilo è stato valorizzato nell’ordinanza di rimessione, in cui si è affermata la non condivisibilità di una soluzione ermeneutica che renda la pubblica amministrazione soccombente esposta sine die ad atti di diffida o messa in mora del privato, specie se reiterati nell’imminenza della scadenza del termine decennale di prescrizione dell’actio iudicati.

L’Adunanza Plenaria sembra, invece, aver accordato una valenza assolutamente prioritaria al principio di effettività della tutela giurisdizionale.

Il principio in questione, oltre ad essere desumibile dagli artt. 24 e 113 Cost., ha trovato pieno riconoscimento a livello sovranazionale nell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e nell’art. 13 della CEDU ed è oggi collocato dal Codice del processo amministrativo al primo posto tra i principi generali della giurisdizione amministrativa.

Tale quadro normativo rende evidente l’assoluta centralità del principio di effettività della tutela giurisdizionale tanto nell’ordinamento interno, quanto in quello sovranazionale.

L’Adunanza Plenaria sembra prendere atto del rilievo assunto dal principio in questione e abbraccia la soluzione certamente più coerente con l’esigenza di assicurare al privato una tutela giurisdizionale autenticamente piena ed effettiva nei confronti della pubblica amministrazione.

A tal fine, il Supremo Consesso della giustizia amministrativa ritiene assolutamente necessario evitare che la pubblica amministrazione soccombente possa trarre vantaggio dalla mancata esecuzione del giudicato, atteso che una tale eventualità sarebbe contrastante anche con il principio di buon andamento di cui all’art. 97 Cost.

Ne consegue che la soluzione più compatibile con i principi costituzionali e, in particolare, con il principio di effettività della tutela giurisdizionale è, ad avviso della Plenaria, quella di consentire al privato di chiedere l’adempimento della parte pubblica soccombente anche mediante atti stragiudiziali. Ciò consentirebbe, peraltro, anche di pervenire ad accordi transattivi volti a definire la controversia, coerentemente con le garanzie partecipative del procedimento amministrativo indicate dalla L. 241 del 1990 e, in particolare, con i modelli consensuali di cui all’art. 11 della Legge in questione.

Per l’Adunanza Plenaria non assume, invece, rilievo l’esposizione della pubblica amministrazione agli atti stragiudiziali di diffida e messa in mora, reiterabili dal privato anche per anni, dal momento che una tale conseguenza negativa non sarebbe contrastante con il principio di ragionevole durata del processo, ma deriverebbe alla parte pubblica dalla mancata esecuzione del giudicato.

La soluzione dell’Adunanza Plenaria appare, pertanto, pienamente condivisibile, collocandosi nel solco di quel graduale percorso normativo e giurisprudenziale che, a partire dalla legge abolitiva del contenzioso amministrativo del 1865, si è mosso nel senso di un sempre maggiore ampliamento dello spettro di tutela del privato nei confronti della pubblica amministrazione.

Solo la scelta di consentire al ricorrente vittorioso la possibilità di interrompere il termine di proposizione dell’actio iudicati anche con atti stragiudiziali appare, infatti, pienamente coerente con la necessità di assicurare al cittadino una tutela giurisdizionale piena ed effettiva nei confronti della pubblica amministrazione, evitando che quest’ultima, risultata soccombente in sede di cognizione, possa trarre benefici dal suo comportamento negligente nell’esecuzione del giudicato.


Note e riferimenti bibliografici

[1] Cfr., per tutti, F.G. Scoca, Giustizia amministrativa, Torino, 2014, 605; per una ricostruzione dettagliata dell’evoluzione storica del giudizio di ottemperanza si veda M. Avossa, A. Giaquinto, Ottemperanza sull’esecuzione del decreto ingiuntivo e sindacato del giudice, in Camminodiritto.it, 1 ss.

[2] V. art. 4 L. n. 2248/1865.

[3] R. Galli, Nuovo corso di diritto amministrativo, Tomo II, Milano, 2016, 1669.

[4] V. art. 4, n. 4, L. 5992/1889.

[5] R. Galli,  op. cit., 1670.

[6] V. art. 37, comma 3, L. 1034/1971.

[7] V. Artt. 3 e 10 L. 205/2000.

[8] Sul concetto di “altre parti” e sulla estensione della legittimazione passiva nel giudizio di ottemperanza a soggetti formalmente e sostanzialmente privati si veda R. Galli,  op. cit., 1671 ss. Nello specifico la tesi che individua tra i legittimati passivi dell’azione di ottemperanza i soggetti privati che non siano titolari di potestà pubblicistiche ha trovato conferma nel riferimento alle “altre parti” contenuto nell’art. 112 c.p.a. e nel rilievo assunto nel nostro ordinamento dal principio di effettività della tutela giurisdizionale, che sarebbe vanificato dall’affermazione della impossibilità di eseguire coattivamente il giudicato amministrativo nei confronti di soggetti privati.  

[9] F.G. Scoca,  op. cit., 608.

[10] R. Greco, L’effettività della tutela nel giudizio di ottemperanza, in giustizia-amministrativa.it (2019), 2.

[11] A. De Vita, Il giudizio di ottemperanza, in giustizia-amministrativa.it (2018), 2.

[12] F.G. Scoca,  op. cit., 610.

[13] A. De Vita, op. cit., 3.

[14] Sul concetto di giudicato a formazione progressiva alla luce della natura giuridica del giudizio di ottemperanza, con specifico riferimento all’impatto dello ius superveniens europeo si veda F. Floridia, L’incidenza dello ius superveniens europeo sul giudizio di ottemperanza, in Camminodiritto.it, 2 ss.

[15] Per una ricostruzione del dibattito in ordine al carattere autenticamente giurisdizionale del giudizio di ottemperanza si veda R. Galli, op. cit., 1674.

[16] Cfr. Ad. plen. n. 2/2013, in giustizia-amministrativa.it, che ha affermato il carattere “polisemico” del giudizio di ottemperanza.

[17] R. Galli, op. cit., 1675.

[18] V. Art. 114, comma 3, c.p.a.

[19] Sui concetti di violazione ed elusione del giudicato conoscibili dal giudice dell’ottemperanza e sulla loro distinzione rispetto alla differente ipotesi di autonomo vizio di legittimità del provvedimento da far valere con una distinta azione di annullamento si veda R. Greco, op. cit., 5 ss.  

[20] Per una accurata disamina dell’ottemperanza dei provvedimenti cautelari e in generale non definitivi, si veda De Vita, op. cit., 11 ss.; F.G. Scoca, op. cit., 614 ss.

[21] Sulla natura giuridica del commissario ad acta, se organo straordinario della pubblica amministrazione o ausiliario del giudice, si veda R. Galli, op. cit., 1693; in particolare, la tesi che qualifica il commissario ad acta quale ausiliario del giudice sembra trovare conferma nella devoluzione al giudice dell’ottemperanza di tutte le questioni relative agli atti del commissario e nella possibilità delle parti di proporre avverso tali atti reclamo dinanzi allo stesso giudice dell’ottemperanza ex art. 114, comma 6, c.p.a.

[22] Per un ampia trattazione sulla penalità di mora nel processo amministrativo si veda M. Binda, Le astreintes nel giudizio amministrativo, in giustizia-amministrativa.it (2019), 1 ss.; sulla specifica questione dell’applicabilità della penalità di mora nel caso di ottemperanza di una pena pecuniaria, cfr. V. Lucia, Coercizione indiretta: astreinte amministrativa ed effettività del giudicato. Applicabilità nel giudizio di ottemperanza di una pena pecuniaria, in Camminodiritto.it, 1 ss.

[23] Sull’ammissibilità della domanda risarcitoria avanzata per la prima volta in sede di ottemperanza, si veda A. De Vita, op. cit., 17 ss; R. Galli, op. cit., 1695 ss; F.G. Scoca, op. cit., 620 ss.

[24] V. art. 112, comma 5, c.p.a.

[25] A. De Vita, op. cit. 11.

[26] Cfr. Ad plen. n. 2/2013, cit., secondo la quale la legittimazione attiva in capo alla pubblica amministrazione confermerebbe la non riconducibilità del ricorso per chiarimenti alle azioni di ottemperanza.

[27] V. Art. 113, comma 1, c.p.a.

[28] CGARS, ord. n. 466/2020, in giustizia-amministrativa.it.

[29] Cfr. Cons. St. n. 5558/2011, in giustizia-amministrativa.it.

[30] Cfr. Cons. St. n. 94/2013 in giustizia-amministrativa.it.

[31] Nell’ordinanza di rimessione si richiamano, in particolare Ad. Plen., n. 5/1991, Cass. S.U. n. 8085/2007 e Cons. St. n. 5558/2011 e n. 6479/2018.

[32] Tale estensione ha riguardato in primo luogo i casi di lesione di un diritto soggettivo nell’ambito della giurisdizione esclusiva (Cons. St. n. 181/1928), e poi i casi di mancata emanazione di un atto ulteriore dopo l’annullamento di un diniego (Cons. St. n. 616/1937)  e di esecuzione di della sentenza di annullamento di un titolo abilitativo rilasciato da un terzo (Cons. St., Ad. Plen., n. 13/1952).

[33] Corte Cost., n. 204/2004 e 191/2006, in giurcost.org.

[34] D. D’Amico, Anche gli atti stragiudiziali sono idonei a interrompere la prescrizione decennale di cu all’art. 114, comma 1, c.p.a., nota Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato sentenza del 4 dicembre 2020, n. 24, in ildirittoamministrativo.it.

[35] G. Greco, op. cit., 4.

[36] Hanno fatto applicazione del principio di diritto affermato dall’Adunanza Plenaria Cons. St. n. 5359/2021 e n. 4890/2021, in giustizia-amministrativa.it.

Bibliografia

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D. D’Amico, Anche gli atti stragiudiziali sono idonei a interrompere la prescrizione decennale di cu all’art. 114, comma 1, c.p.a., nota Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato sentenza del 4 dicembre 2020, n. 24, in ildirittoamministrativo.it.

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