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Pubbl. Mer, 16 Feb 2022

Sfruttamento della prostituzione: la legittimità delle ordinanze sindacali

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Valerio Di Stefano
Funzionario della P.A.Università degli Studi della Tuscia



Il fenomeno della prostituzione è in continuo aumento e le autorità locali si stanno attivando al fine di limitare il più possibile tale fenomeno. Nel corso degli anni i Sindaci hanno emanato ordinanze “anche” contingibili e urgenti ai sensi degli artt. 50 e 54 del TUEL che hanno attirato l’attenzione dei giudici amministrativi in merito alla loro legittimità. Si vedrà, infatti, che non sempre queste ordinanze rientrano nei poteri e nelle competenze del Sindaco e, molte volte, tali atti ledono diritti fondamentali dei cittadini. Quanto detto ha spinto i giudici amministrativi ad adottare una linea precisa e delineata sulla questione.


ENG The phenomenon of prostitution is constantly increasing and local authorities are taking action to limit this phenomenon as much as possible. Over the years, the Statutory Auditors have issued “also” contingent and urgent ordinances pursuant to art. 50 and 54 of the TUEL which attracted the attention of administrative judges regarding their legitimacy. It will be seen, in fact, that these ordinances do not always fall within the powers and competences of the Mayor and, many times, such acts harm the fundamental rights of citizens. What has been said has prompted the administrative judges to adopt a precise and delineated line on the issue.

Sommario: 1. Le implicazioni giuridiche connesse al fenomeno della prostituzione: il quadro generale; 1.1. Le implicazioni di carattere civile; 2. Le conseguenze penali; 1.3. I risvolti di carattere tributario; 2. Il caso Tarantini; 2.1. Le pronunce della Corte d’Appello; 2.2. Le recenti pronunce della Corte costituzionale; 3. La prevenzione e la repressione dello sfruttamento della prostituzione: interventi amministrativi; 3.1. Il pacchetto sicurezza del 2008. 3.2. Il decreto Minniti; 3.3. Il potere di ordinanza dei Sindaci; 3.4.Il quadro generale in alcuni Comuni; 3.5 Il caso Tivoli; 3.6. Il caso Massa Carrara; 4. La regolamentazione in alcuni Stati Europei; 4.1. L’approccio tedesco; 4.2. La normativa francese; 5. Conclusioni. 

Premessa

La prostituzione è senza dubbio un triste fenomeno sociale non solo per le diverse implicazioni sottese a detta attività, poliedrica e dalle multiformi sfaccettature, ma anche perché già il solo inquadramento giuridico è abbastanza complesso. 

Non si tratta di un fenomeno univoco ma di una fattispecie molto diversificata sia per quanto riguarda i contesti lavorativi nei quali si svolge che per la tipologia di persone che si dedicano a detta attività e dei loro relativi clienti.

In estrema sintesi, essa evoca due principi fondamentali corrispondenti da un lato alla dignità umana e dall’altro alla libertà dell’individuo di autodeterminarsi.

La stessa dignità personale si regge però sulla necessità di assicurare un giusto equilibrio tra la libertà di scelta che consente la mercificazione del proprio corpo e il diritto all’autodeterminazione che necessita di non essere vincolato a particolari condizioni sociali ed economiche.

Quest’attività coinvolge ulteriori norme di rango primario rappresentati dal diritto alla salute (fisica e psichica, individuale e collettiva) e all’ordine pubblico.

Senza alcun dubbio, tuttavia, si può affermare che essa costituisce nello stesso tempo una delle maggiori fonti di ogni attività illecita[1] (consumo e spaccio di droghe, alcoolismo, implicazioni di diverso tipo con i casi di immigrazione irregolare, di criminalità organizzata e della tratta degli esseri umani).

Essendo estremamente diversificati gli approcci con cui detta attività può essere osservata, anche il suo inquadramento giuridico e la sua regolamentazione è stata fatta sotto differenti aspetti, partendo da quello penale e tributario e, giungendo, infine, a quello civilistico, a seconda del contesto e dello specifico bene che il legislatore, di volta in volta, ha inteso tutelare.

A livello internazionale i diversi Paesi hanno disciplinato la materia in maniera diversa, alcuni ponendo l’accento sull’aspetto più puramente proibizionistico e quindi sulla disciplina delle sanzioni, di natura quasi esclusivamente penale da irrogare nei confronti dei soggetti a vario titolo coinvolti, altri considerandola alla stregua di una qualsiasi altra attività di prestazione di servizi a fronte di un prezzo concordato.

Obiettivo del presente lavoro non è quello di fare una disamina completa di tutti gli aspetti giuridici coinvolti bensì quello di soffermarsi in maniera compiuta su quelli civilistici, al fine di analizzare, in un Paese come il nostro dall’approccio proibizionistico, l’evoluzione degli strumenti utilizzati dagli amministratori nella disciplina di questo fenomeno.

1. Le implicazioni giuridiche connesse al fenomeno della prostituzione: il quadro generale

In linea generale si può affermare che mancano dati certi sul fenomeno della prostituzione. Gli unici dati ufficiali disponibili risalgono al 2015 e derivano da una “Indagine statistica su un campione rappresentativo di fascicoli definiti con sentenza relativamente ai reati ex art. 600, 601 e 602 del codice penale” fatta dal Ministero della Giustizia. 

Dallo studio emerge che ogni anno in Italia vengono iscritte in media circa 209 contestazioni di reato inerenti alla tratta di esseri umani e che il 73% di questi riguarda la riduzione in schiavitù (art. 600 cp), il 23% la tratta di persone (art. 601) e il 4% l'alienazione e acquisto di schiavi (art. 602 cp). La vittima tipica dello sfruttamento corrisponde al profilo di un/una giovane, di età media di 25 anni, nel 75,2% dei casi è di sesso femminile, di nazionalità estera e la restante parte di sesso maschile.

Il 15,7% delle vittime sono rappresentate da minorenni che giungono in Italia insieme o con il consenso dei genitori mentre il 21,4% sono uomini desiderosi di venire in Italia con la speranza di trovare un lavoro. 

Gli ultimi dati Istat (2015) fanno capire che nemmeno con la crisi economica si è avuto una riduzione del fatturato proveniente da questa attività, che è pari a circa 3,6 miliardi di euro (circa il 25% del totale delle attività illegali) a fronte di consumi pari a circa 4 miliardi di euro.

Si tratta di dati che seppure stimati danno una idea della diffusione del fenomeno in Italia il cui impatto sulla società esula dai confini di un singolo settore coinvolgendone diversi, a loro volta assoggettati a diversi profili giuridici.

Un’analisi del fenomeno, tuttavia, non può prescindere dal fatto che detta attività presuppone il fatto che ogni individuo possa disporre liberamente del proprio corpo, e che allo stesso, in quanto individuo, spettano tutte le tutele previste da tutte le carte costituzionali e internazionali, basate oltre che sulla dignità umana anche sul principio di uguaglianza e sul diritto al lavoro e alla salute.

In questo senso si è pronunciata la Corte di Strasburgo[2], nel caso K.A. e A.D. c. Belgio 2005, che, appellandosi all’articolo 7 della Corte Europea dei Diritti dell’uomo, ha riconosciuto la libertà sessuale quale parte integrante dell’autonomia personale e, nel caso di rapporti privati stabiliti con il consenso delle parti, l’illegittimità di qualsiasi interferenza statale in materia.

Si tratta in ogni caso di rapporti particolari caratterizzati da interessi specifici che devono essere attentamente valutati sia perché rientrano nella sfera dei diritti della persona sia perché sono soggetti a disposizioni giuridiche diverse.

Lo stesso concetto di persona umana comprende una pluralità di significati e di sfumature per cui spetta solo al legislatore la regolamentazione del fenomeno, stabilendo i limiti entro cui un individuo può disporre del proprio corpo.  

Ma in questa pluralità di concezioni quali sono i beni giuridici da tutelare? La Corte di Cassazione con la sentenza n. 35776 del 2004 ha individuato nella dignità e nella libertà della persona umana il bene giuridico da tutelare, costituzionalmente garantito dall’art. 2 della costituzione.

 Questa tesi viene accolta anche da una ulteriore sentenza della medesima Corte, ovvero dalla n. 49643 del 2015 nella quale si afferma che il bene giuridico da tutelare è quello della “libera autodeterminazione della prostituta a svolgere le proprie attività”.

Detta libertà di determinazione nel compimento di atti sessuali, era già stata ribadita nel 2004 dalla Suprema Corte che aveva stabilito “che non costituisce reato il compimento di atti sessuali al di fuori di ogni attività di sfruttamento o agevolazione, anche se posti in essere con fini di lucro personale [3]”.

In altre parole, le ultime sentenze hanno spostato l’oggetto giuridico da tutelare dal bene collettivo della moralità e dell’ordine pubblico della legge Merlin a quello individuale della libertà, intesa come diritto soggettivo assoluto,[4] e della dignità della persona e del diritto all’autodeterminazione sessuale, beni costituzionalmente rilevanti e compresi tra i diritti inviolabili della persona umana, garantiti dall’art.2 della Costituzione[5].

La dottrina ha molto dibattuto sulle implicazioni di tipo civile, penale, tributario e amministrativo connesse al fenomeno della prostituzione che verranno affrontati nei paragrafi seguenti.

1.1. Le implicazioni di carattere civile

Con riguardo all’aspetto civilistico la dottrina si è sempre interrogata sulla validità del contratto recante prestazioni sessuali a pagamento. 

Sul punto preme evidenziare che l'articolo 1372 del Codice civile stabilisce che "Il contratto ha forza di legge tra le parti". Tra i requisiti essenziali del contratto, oltre all’accordo, l'oggetto e la forma, vi è, all’articolo 1325, la causa che, intesa in senso concreto, ingloba gli interessi economici reali del negozio. Detta causa, ai fini della validità del contratto deve essere lecita, altrimenti entra in gioco l’articolo 1418 Codice civile che stabilisce la nullità del contratto.  E come noto, la causa è illecita quando è contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume. 

La Corte di Cassazione ci insegna che il buon costume dev’essere inteso “come il complesso dei principi etici costituenti la morale sociale, in quanto ad essi uniforma il proprio comportamento la generalità delle persone corrette, di buona fede e sani principi, in un determinato momento storico e in un dato ambiente” (Cass. 7523/2001). 

Secondo alcune altre pronunce sono da considerarsi contrari al buon costume i contratti che prevedono prestazioni a carattere sessuale (Cass. 4927/1986; Cass. 1110/1958; Trib. di Milano 1.7.1993).

Ne deriva che il contratto in oggetto, anche se privo di vizi del consenso (errore, violenza o dolo), in presenza di una causa illecita (contraria al buon costume) sarebbe comunque privo di validità giuridica per nullità della causa, e quindi privo di efficacia ex tunc. Nel caso specifico, quindi, il contratto stipulato sotto qualsiasi forma, anche verbalmente, tra un individuo che si prostituisce ed un cliente è nullo sotto l’aspetto civilistico in quanto l’oggetto del contratto stesso, una prestazione sessuale a pagamento[6], è ritenuto contrario al buon costume, va considerato come mai stipulato e in caso di inadempimento di una delle parti, l'altra non potrà ricorrere al giudice per vedere tutelata la propria posizione. 

Si tratta di fatto dell’applicazione del principio della irripetibilità della prestazione ex articolo 2035 Codice civile, fatta a seguito di un negozio turpe od immorale, quando allo stesso partecipino entrambi i contraenti. 

Sulla scorta di quanto appena detto risulta palese che un contratto assume carattere immorale quando prevede prestazioni a carattere sessuale. 

In nessun caso sarà, pertanto, possibile ricorrere in giudizio per ottenere l’esecuzione forzata del contratto o il risarcimento del danno oppure il pagamento del prezzo non corrisposto dal "cliente" moroso.  Ne consegue, inoltre, che chi ha pagato in anticipo il prezzo non può riottenere quanto versato in caso di inadempimento e non può chiedere la riduzione del prezzo qualora non sia soddisfatto delle prestazioni ottenute. 

Per quanto concerne la nullità di una singola clausola contrattuale e non dell’intero contratto, c’è da dire, che se detta clausola riveste un ruolo determinante nel contratto, al punto che questo non sarebbe stato stipulato in sua mancanza, la nullità si estende all'intero contratto.

1.2. Le conseguenze penali

L’aspetto che sicuramente presenta maggiori problematiche è quello penale. Come noto, con l’entrata in vigore della legge Merlin[7] è stata disposta la chiusura delle case di tolleranza e sono stati introdotti i reati di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione. 

La norma prevede, comunque, la non sanzionabilità della prostituzione liberamente esercitata poiché riconducibile ai diritti fondamentali ed inviolabili dell’uomo, previsti espressamente dalla Costituzione agli artt. 2 e 13. Gran parte della dottrina ha criticato aspramente tale norma, considerata caotica e frettolosa, per il fatto che la stessa non rispetterebbe i principi di diritto e non permetterebbe una semplice interpretazione della disciplina[8].

La norma, come già anticipato, ha previsto l’introduzione di due nuove fattispecie di reato rubricate come sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione. 

Con il termine favoreggiamento si vuole intendere, sotto il profilo oggettivo, qualunque attività idonea a procurare favorevoli condizioni per l’esercizio della prostituzione, mentre sotto il profilo soggettivo, la consapevolezza di agevolare il commercio altrui del proprio corpo senza che abbia rilevanza il movente dell’azione[9].

Con il termine sfruttamento, invece, si intende quella condotta posta in essere da uno o più soggetti volta a conseguire un provento economico dall’attività sessuale posta in essere da altri[10].

In altri termini, lo sfruttamento consiste nella partecipazione finanziaria all’esercizio della prostituzione, in modo da far conseguire, in capo al colpevole, utilità economicamente valutabili[11].

Sulla sanzionabilità delle condotte di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, è opportuno evidenziare un radicale mutamento dell’orientamento giurisprudenziale sul requisito dell’abitualità. 

Infatti, la Suprema Corte, in un primo momento, aveva stabilito che “le fattispecie criminose di cui all'art. 3 della L. 20 febbraio 1958 n. 75, in tema di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, non esigono l’abitualità della condotta, potendosi ravvisare anche a seguito di un solo episodio, stante la finalità di contrastare ogni fenomeno di interposizione personale, a fine di lucro o soltanto agevolativi, della prostituzione, né l’esplicazione nei confronti di persona già dedita a tale attività”[12].

Solo pochi anni dopo la Corte ha mutato il proprio orientamento, rilevando che “il proprietario o il gestore dell’albergo ove la prostituta si accompagna ai propri clienti può essere chiamato a rispondere del reato di cui all’art. 3, n. 3 della L. n. 75/1958 soltanto ove si dimostri l’abitualità della sua condotta tollerante[13].

In mancanza di norme unitarie, sono state numerose, negli ultimi tempi, le pronunce in materia della Corte di Cassazione che, al fine di colmare le lacune esistenti nella legislazione, ha stabilito che il reato di favoreggiamento della prostituzione può essere integrato anche da un solo episodio agevolativo[14] e che  la compatibilità tra continuazione ed aggravante di cui all’art. 4, n. 7, della legge n. 75 del 1958, è affermata quando ci sono diverse tipologie di condotte illecite, ad esempio di sfruttamento e di favoreggiamento, insieme, della prostituzione [15].

Anche la pubblicazione di annunci per rendere più allettante l’offerta e facilitare l’approccio con un numero maggiore di clienti integra il reato di favoreggiamento della prostituzione[16]  così come qualunque attività idonea a procurare favorevoli condizioni per l’esercizio della prostituzione[17].

Il reato di sfruttamento della prostituzione, che non ha sempre il requisito dell’abitualità, consiste in qualsiasi consapevole e volontaria partecipazione, anche occasionale, ai proventi dell’attività di prostituzione[18].

Sul punto la Suprema Corte ha rilevato che tale reato può concorrere con quello di favoreggiamento della prostituzione, in quanto in essi sono presenti due condotte autonome e distinte, essendo lo sfruttamento finalizzato a trarre comunque delle utilità economiche o meno, rilevanti per l’agente, mentre il favoreggiamento ha il solo scopo di agevolare l’attività di meretricio.

Preme evidenziare che il reato di favoreggiamento della prostituzione è integrato nella condotta recante l’accompagnamento abituale con la propria autovettura di una donna nel luogo in cui la stessa si prostituisce[19]. Così come integra il medesimo reato l’intimazione da parte di un soggetto di non parcheggiare il furgone nella piazzola dove una persona era solita prostituirsi poiché d’intralcio all’attività di meretricio[20].

C’è tuttavia da dire che un eventuale intervento normativo, auspicato dalle diverse parti, non può non tener conto dell’evoluzione che ha caratterizzato il fenomeno sociale della prostituzione rispetto al periodo in cui era stata emanata la legge n. 75 del 1958. 

Allo stato attuale ci sono stati diversi interventi legislativi che hanno cercato di regolamentare la materia. Con il decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 e con gli articoli 600-bis, 600-ter e 600-quinquies del Codice penale, la legislazione italiana ha introdotto gli strumenti per la tutela delle vittime del traffico a fine di sfruttamento sessuale e per la tutela dei minori, vittime di sfruttamento della prostituzione, della pornografia e del turismo sessuale.

Con la Convenzione di Istanbul del 2011, resa esecutiva dalla legge 19 giugno 2013, n. 77, è stato introdotto nel nostro ordinamento il primo strumento internazionale di tutela dei diritti delle donne, con l’obiettivo di contrastare e di prevenire qualunque tipo di violenza contro le donne. Con il decreto legislativo n. 24 del 2014 è stata recepita la direttiva 2011/36/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 aprile 2011, concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime. 

Nonostante i diversi provvedimenti già emanati, nel corso degli ultimi anni, a testimoniare la necessità di mettere in atto strumenti giuridici atti a contrastare efficacemente la prostituzione e i reati ad essa correlati, si sono succedute numerose proposte di disegni di leggi, alcuni aventi ad oggetto la modifica dell'articolo 3 della legge 20 febbraio 1958, n. 75, che prevede l'introduzione di sanzioni per coloro che, avvalendosi delle prestazioni sessuali di soggetti che esercitano la prostituzione, partecipano allo sfruttamento e alla violazione della dignità della persona ridotta a merce.

Altre proposte mirano ad una modifica completa della legge del 1958 consentendo l’esercizio della

prostituzione nelle abitazioni private, non punendo più le case di tolleranza e prevedendo interventi di carattere sanitario a tutela delle persone interessate.  

Al di là dei contenuti delle singole proposte è evidente la necessità di una norma unitaria che ne disciplini i diversi aspetti. 

1.2. I risvolti di carattere tributario

Sotto l’aspetto tributario, la questione che è stata sollevata in più di un’occasione è quella relativa alla tassazione del reddito meretriciale e di conseguenza alla possibilità che lo stesso sia soggetto a tutta la normativa vigente in materia.

Nel corso del tempo la giurisprudenza ha manifestato diversi e opposti orientamenti.

La prima risposta al riguardo è arrivata durante gli anni ’80, con la sentenza n. 4927/1986 della Corte di Cassazione[21]che ha ritenuto non tassabili i redditi derivanti dall’attività di prostituzione in quanto costituiscono una forma di risarcimento del danno “a causa della lesione dell’integrità della dignità di chi abbia subito l’affronto della vendita di sé”.

Al contrario, la Corte di Giustizia dell'Unione europea nella sentenza n. 268 del 20.11.2001, causa C-268/99, ha stabilito che la prostituzione rientra tra le attività economiche, inquadrabili nella categoria del lavoro autonomo, quando si dimostra che è svolta dal prestatore del servizio  “senza alcun vincolo di subordinazione per quanto riguarda la scelta di tale attività, le condizioni di lavoro e retributive, sotto la propria responsabilità e a fronte di una retribuzione che gli sia pagata integralmente e direttamente”.

Spetta al giudice nazionale di "accertare in ciascun caso, alla luce degli elementi di prova che gli sono forniti, se sussistono le condizioni che consentono di ritenere che la prostituzione sia svolta come lavoro autonomo, ossia: senza alcun vincolo di subordinazione per quanto riguarda la scelta di tale attività, le condizioni di lavoro e retributive, sotto la propria responsabilità, e a fronte di una retribuzione che gli sia pagata integralmente e direttamente". 

La Commissione Tributaria Provinciale di Milano[22], alcuni anni dopo, ha confermato l’orientamento della Corte, rilevando che i redditi derivanti dall’attività di prostituzione non rientravano in nessuna delle categorie reddituali del TUIR (D.P.R. n. 917 del 1986, Testo Unico delle Imposte sui Redditi), e che il corrispettivo della prestazione sessuale ha un connotato di natura sostanzialmente risarcitoria, e quindi non tassabile. 

In senso analogo si esprimeva, l’anno successivo, anche la Commissione Tributaria Regionale Lombardia[23].

Una visione totalmente differente è stata data dalla Commissione Tributaria Provinciale di Firenze , la quale ha rilevato che “i proventi da meretricio andassero certamente attratti a tassazione e ricondotti alla categoria dei redditi diversi, ritenendo che la normativa rispondesse proprio all’esigenza, avvertita dal legislatore, di ricondurre a tassazione tutte quelle espressioni economiche, connesse all’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere, idonee a concorrere alle spese pubbliche, in attuazione del disposto di cui all’art. 53 della Costituzione”.  

Della stessa opinione, successivamente, è stata la Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Emilia la quale ha espressamente rilevato che i redditi derivanti dall’attività di prostituzione sono riconducibili alla categoria del reddito di lavoro autonomo.

A questo riguardo bisogna subito chiarire che a livello europeo vi è un'enorme differenza nel modo in cui gli Stati membri considerano la prostituzione. Vi sono due principali orientamenti[24], il primo che vede la prostituzione come una disparità di genere e una violazione dei diritti delle donne e l'altro che afferma esattamente l’opposto sostenendo la parità di genere e il diritto della donna a decidere cosa fare del suo corpo.

In entrambi i casi, il Parlamento europeo chiede agli Stati membri di mettere in atto politiche finalizzate a contrastare la tratta di esseri umani, lo sfruttamento sessuale e la prostituzione e di garantire il sostegno a tutte le parti interessate.  

Negli Stati dove la materia è regolamentata da provvedimenti di natura amministrativa, detta attività viene disciplinata e tassata al pari di qualsiasi altra attività economica. In Grecia, Ungheria, Paesi Bassi, Austria, Germania e Lettonia, coloro che si dedicano alla prostituzione  hanno diritti e doveri simili agli altri lavoratori, compresa la possibilità di accedere alla previdenza sociale e di riunirsi in sindacati.  

In Italia, la prostituzione è considerata di per sé un fatto penalmente non rilevante, anche se vengono sfavorite di fatto tutte le attività illecite ad essa collegate (sfruttamento, tratta delle donne, induzione e favoreggiamento della prostituzione stessa).  

Ci sono state diverse pronunce a partire da quella della Corte di Giustizia n. 268/01 sopra citata ed in particolare, con la sentenza n. 20528 del 01/10/2010, la Corte Suprema di Cassazione civile, sez. tributaria, ha affermato che i redditi da prostituzione,  “qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all'articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, sono comunque considerati come redditi diversi” sono soggetti a tassazione ai sensi dell’art. 53 della Costituzione che impone ad ogni cittadino di contribuire alla spesa pubblica in proporzione alla propria capacità contributiva.

La sentenza della Corte di Cassazione che pone fine ai dubbi interpretativi sulla tassabilità o meno dei redditi derivanti dall’attività di meretricio è la sentenza n. 10578/2011 che stabilisce la soggettività tributaria passiva dell’attività di prostituzione[25].

Da ultimo di nuovo la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15596 del 27/07/2016[26], ha affermato che se anche i redditi provenienti da attività illecite sono soggetti a tassazione, lo devono essere ancora di più quelli provenienti dall’attività di prostituzione, di per sé priva di profili di illiceità.   

Sulla scorta di quanto rilevato nelle precedenti sentenze, recentemente la Suprema Corte[27] è stata nuovamente chiamata a giudicare l’imponibilità o meno dei redditi derivanti da attività di prostituzione. Sul punto gli Ermellini hanno consolidato l’ultimo orientamento, affermando che “l'attività di prostituzione, esercitata in modo occasionale ovvero abituale, origina un reddito imponibile ai fini dell'Irpef poiché tali introiti sono ricompresi nella categoria residuale dei cosiddetti "redditi diversi". La circostanza dell'abitualità rileva per un differente scopo, concernente la sottoposizione di detti proventi anche alle imposte indirette, in conformità al disposto di cui all'art. 5 D.P.R. n. 633/1972, per il quale costituisce esercizio di arti o professioni, soggette all'imposta sul valore aggiunto, l'esercizio per professione abituale di qualunque attività di lavoro autonomo”.

Da quanto sopra riportato vi è di fatto una discrasia tra quanto previsto dal giudice tributario che intende tassare il reddito meretriciale, al pari di tutte le altre attività autonome, e quanto affermato dal giudice penale che punisce chi agevola la produzione di detto reddito[28].

In considerazione, quindi, dei diversi aspetti ancora da regolamentare risulta evidente che è necessario l’intervento del legislatore per chiarire le modalità di applicazione della normativa vigente al reddito meretriciale.

2. Il caso Tarantini

Il nome di questo giovane imprenditore barese è balzato sulle prime pagine dei giornali a seguito di un’inchiesta della procura di Bari sull’assegnazione di alcuni appalti nel settore della sanità. Nel corso di quelle indagini vengono fuori delle intercettazioni telefoniche in cui Tarantini parla delle feste che organizzava a casa del premier. Viene fuori il nome di Patrizia D’Addario, ex candidata al consiglio comunale di Bari, che racconta di avere ricevuto dei soldi e la stessa candidatura alle amministrative, grazie alla partecipazione ad alcune feste a casa di Berlusconi e che Giampaolo Tarantini era  l’uomo che teneva i contatti con lei e altre ragazze, portandole alle feste dietro il pagamento di una somma in denaro. 

Il Tribunale di Bari nel 2015, accogliendo in pieno la tesi accusatoria dei PM, aveva condannato Gianpaolo Tarantini tra gli altri 7 imputati del processo escort, a 7 anni e 10 mesi, con le accuse a vario titolo di associazione per delinquere finalizzata alla agevolazione, induzione, favoreggiamento e sfruttamento della attività di prostituzione con lo stesso, al fine di raggiungere una serie di obiettivi, tra i quali quello di candidarsi con Forza Italia alle elezioni europee del 2009 e fare affari con la Protezione civile e Finmeccanica. 

Lo stesso Tribunale di Bari aveva trasmesso gli atti alla procura per l'eventuale esercizio dell'azione penale nei confronti di Silvio Berlusconi ai sensi dell'articolo 377 del Codice penale (intralcio alla giustizia) ed aveva disposto la trasmissione degli atti alla procura affinché venisse valutata l'ipotesi di reato di falsa testimonianza nei confronti di alcune delle ragazze portate da Gianpaolo Tarantini nelle residenze di Silvio Berlusconi affinché si prostituissero. Contro tale pronunzia gli avvocati degli imputati hanno avanzato ricorso ed hanno riproposto dinanzi alla Corte di Appello l'eccezione “di illegittimità costituzionale degli artt. 3 n. 4), 5) ed 8) della L. n. 75 del 1958 nella parte in cui prevedono come reato o sanzionano con la medesima pena edittale i reati di reclutamento, induzione, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione quando la stessa sia volontaria, consapevole e professionale piuttosto che svolta in modo coatto o per bisogno economico, per contrasto con gli artt. 2, 3, 13, 25 e 27 della Costituzione, ovvero con i principi di uguaglianza, libertà sessuale, autodeterminazione, nonché di legalità, offensività, tassatività e proporzionalità della pena[29]”.

Detta eccezione è stata respinta dal Tribunale in questione in prima istanza.

2.1. Le pronunce della corte d’Appello

La Corte di Appello nella seduta del 6 febbraio 2018, solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma primo, nr. 4) prima parte e nr. 8) della L. 20 febbraio 1958, n. 75, nella parte in cui configura come illecito penale il reclutamento ed il favoreggiamento della prostituzione volontariamente e consapevolmente esercitata siccome in contrasto con gli artt. 2, 3, 13, 25 comma 2, 27 e 41 della Costituzione. 

Prima di addivenire alla predetta conclusione, tuttavia, ricostruisce in maniera rigorosa  la vicenda processuale che vedeva contestato al Tarantini e agli altri il reato di cui all’art. 416, c. 1, 2 e 3, c.p., per essersi associati tra loro allo scopo di commettere un numero indeterminato di delitti relativi al reclutamento di donne al fine di farle esercitare la prostituzione, quello di cui all’art. 3, comma primo, numeri 4) e 8) L. n. 75 del 1958, per avere più volte reclutato, favorito e sfruttato l'attività di prostituzione di diverse donne e in diversi luoghi, il reato di cui agli artt. 81, 56 c.p., 3, comma primo, numeri 4), 5) e 8), e art. 4, comma primo, numero 7), L. n. 75 del 1958, per avere reclutato diverse donne, per favorirne la prostituzione dietro corrispettivo in denaro, ovvero promettendo altre utilità,  i reati di cui agli artt. 81, 110 c.p., 3, comma primo, numeri 4) e 8), art. 4, comma primo, numero 7), L. n. 75 del 1958, per avere, in concorso tra loro, reclutato favorito e sfruttato l'attività di prostituzione. Le finalità che Tarantini, secondo il Tribunale di Bari, intendeva raggiungere erano quelle di ottenere, per il tramite dell’allora Presidente del Consiglio, incarichi istituzionali e allacciare, avvalendosi della sua intermediazione, rapporti di tipo affaristico con i vertici della Protezione civile, di F. S.p.A., di società a quest'ultima collegate (S.P. s.c. a r.l., S.S.I. S.p.A. e S. S.p.A.), di I.A. spa ed altre società. 

I difensori degli imputati hanno riproposto, nell'udienza del 21.12.17, l’eccezione di illegittimità costituzionale dell'art. 3 comma primo nr. 4 ed 8), 4 nr.7) L. n. 75 del 1958.  

La Corte d’Appello considera particolarmente rilevante la decisione in merito all'eccezione di illegittimità costituzionale in quanto il suo eventuale accoglimento riguardo il reato di reclutamento e di favoreggiamento ai fini di prostituzione comporterebbe l’assoluzione di tutti gli imputati perché il fatto non sarebbe più previsto dalla legge come reato. Per la Corte non ha importanza neppure il fatto che alcuni dei reati si siano prescritti perché prevale la formula del maggior favore della formula assolutoria piena rispetto alla pronunzia di non doversi procedere per estinzione del reato.

La prima obiezione mossa dalla Corte riguarda la contrapposizione tra le norme citate e il principio della libertà di autodeterminazione della persona umana di cui all'art. 2 della Costituzione, che dovrebbe comprendere il “diritto a disporre della propria sessualità in termini contrattualistici”. In proposito la Corte costituzionale nella sentenza n. 561 del 1987 aveva dichiarato che la sessualità rappresenta “uno degli essenziali modi di espressione della persona umana” e il poterne disporre liberamente rappresenta quindi “un diritto soggettivo assoluto”.

La medesima Corte dopo aver dato la definizione di escort[30], afferma che la scelta effettuata dalle escort costituiscono l’affermarsi della libertà di autodeterminazione della persona umana e che le condotte di reclutamento e favoreggiamento della prostituzione, nell’attuale contesto sociale[31], attribuite agli imputati sono prive di costrizioni che possano incidere su detta libertà di autodeterminazione e sono quindi in contrasto con l’art. 2 della Costituzione. 

La medesima Corte sostiene inoltre che le norme sopra citate sono anche in contrasto con l’art.41 della Costituzione perché violerebbero la libertà di iniziativa economica privata.

In tale ambito, conclude la Corte che l'interferenza di terzi non va “in alcun modo ad intaccare la scelta primigenia delle escort di autodeterminarsi sessualmente nel senso della cessione lucrativa della propria corporeità”.  Ne consegue che “l'interferenza di terzi si colloca all'interno del libero incontro sul mercato del sesso tra domanda ed offerta di prestazione sessuale e va a supportare il preminente interesse delle escort a segnalarsi, attraverso il meccanismo del reclutamento e/o favoreggiamento, quali persone contattabili ai fini di rendere favori sessuali verso privati clienti in cambio di denaro”.

Un ulteriore motivo a sostegno delle tesi portate avanti dalla Corte riguarda il contrasto tra le norme richiamate e il principio di offensività, in base al quale non vi può essere reato senza l'offesa di un bene giuridico tutelato dall'ordinamento secondo gli artt.13, 25 e 27 della Costituzione.

Nel caso specifico il bene giuridico tutelato non può rinvenirsi nella moralità pubblica e nel buon costume bensì nella tutela del diritto all’autodeterminazione della persona umana e, quindi, “…mutatis mutandis, nella tutela della dignità di chi si autodetermini alla cessione lucrativa della propria corporeità”. In conclusione, per la Corte, anche riguardo il principio di offensività sia il reato di reclutamento che quello di favoreggiamento “non solo non arrecano alcuna lesione alla suddetta e presupposta libertà autodeterminativa ma addirittura ne facilitano la piena attuazione, arrecando vantaggi ai soggetti che ne sono destinatari: invero se la escort sceglie liberamente di offrire sesso a pagamento chi le dà una mano nell'effettuazione di tale sua scelta produce un vantaggio e non un danno allo stesso bene giuridico tutelato”.

Al fine di completare l’esame relativo alla legittimità costituzionale della Legge Merlin, la Corte di appello si sofferma anche sul profilo inerente alla violazione del principio di legalità di cui all'art. 25 comma II Costituzione, con riferimento alla necessità della “tassativa determinatezza”. Secondo la Corte il reato di favoreggiamento della prostituzione (art. 3 comma primo n.8 prima ipotesi L. n. 58 del 1975) “che si atteggia per definizione quale reato a forma libera intendendo punire "chiunque in qualsiasi modo favorisca la prostituzione altrui" mancherebbe il requisito della precisione e della esatta determinazione della fattispecie.

Da quanto sopra riportato la Corte, “solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma primo, nr. 4) prima parte e nr. 8) della L. 20 febbraio 1958, n. 75, nella parte in cui configura come illecito penale il reclutamento ed il favoreggiamento della prostituzione volontariamente e consapevolmente esercitata siccome in contrasto con gli artt. 2, 3, 13, 25 comma 2, 27 e 41 della Costituzione”. 

2.2. Le recenti pronunce della Corte costituzionale

Con la sentenza n. 141/2019 la Corte costituzionale ha rigettato per infondatezza le questioni di illegittimità sollevate dalla Corte d’appello di Bari in ordine all’art. 3 comma 1 nn. 4) e 8) della l. 20 febbraio 1958, n. 752: la c.d. “legge Merlin”, in quanto ritenute in contrasto con gli artt. 2, 3, 13, 25 c. 2, 27 e 41 della Costituzione «nella parte in cui configura come illecito penale il reclutamento e il favoreggiamento della prostituzione volontariamente e consapevolmente esercitata».

Per quanto concerne il presunto contrasto con l’art. 2 della Costituzione, che stabilisce l’impegno dello Stato a riconoscere e garantire i «diritti inviolabili dell’uomo», la Consulta afferma che lo stesso è strettamente connesso con il principio di solidarietà espresso dal successivo art. 3, che prevede l’impegno per la Repubblica a rimuovere tutti gli ostacoli, economici e sociali, che impediscono «il pieno sviluppo della persona umana».

Pertanto, se è vero che nell’ambito dei diritti inviolabili rientri la libertà sessuale, come affermato con la sentenza n. 561 del 1987, diritto soggettivo assoluto da tutelare, non può essere condiviso l’assunto della Corte in base al quale la prostituzione volontaria sarebbe un modo di autoaffermazione della persona umana dietro corresponsione di utilità. 

Per la Consulta l’offerta di prestazioni sessuali in cambio di denaro corrisponde ad una “prestazione di servizio retribuita” inserita nel quadro di uno scambio sinallagmatico, assoggettabile ad imposizione fiscale e che estendendo questo concetto “qualsiasi attività imprenditoriale o di lavoro autonomo verrebbe a costituire un diritto inviolabile della persona nella misura in cui richiede l’esercizio di una qualche libertà costituzionalmente garantita.” e che in quest’ambito la tutela della

persona che si prostituisce è solo indiretta in quanto verrebbero tutelati innanzitutto i terzi che si intromettono in detta attività.  

Per quanto riguarda, invece, il contrasto delle norme con l’art. 41 della Costituzione, la Consulta da un lato riconosce che l’attività di prostituzione costituisce di per sé un’attività economica, dall’altro pone l’accento sul fatto che detta libertà può svolgersi a condizione che non sia “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.  Per la Corte quand’anche non si sia di fronte a forme forzate di prostituzione, la scelta di prostituirsi per la Corte è condizionata da fattori, quali quelli economici, sociali o familiari che comunque limitano la libertà di scelta della persona e che la linea demarcatoria tra scelte veramente libere e quelle che non lo sono è labile al punto tale da poter essere accertata, sul piano processuale solo ex post.

Per la Corte, anche nel caso di libera scelta iniziale, è necessario considerare i pericoli cui le persone che si prostituiscono si espongono nell’esercizio delle loro attività e le difficoltà che incontrano nell’uscire volontariamente da determinati circuiti a causa di pressioni e di ricatti. Il bene tutelato è la dignità umana intesa in senso oggettivo e il legislatore in quel dato momento storico “ravvisa nella prostituzione, anche volontaria, una attività che degrada e svilisce l’individuo, in quanto riduce la sfera più intima della corporeità a livello di merce a disposizione del cliente”.

Tutte queste considerazioni giustificherebbero, pertanto, la scelta del legislatore di non intervenire verso chi esercita la prostituzione ma solo nei confronti dei terzi che intervengono, a vario titolo, in detta attività, analogamente a quello che accade in materia di stupefacenti, per cui la normativa stabilisce la non sanzionabilità del consumatore di sostanze stupefacenti rispetto a colui che gli fornisce la sostanza. 

Se è vero, inoltre, che la legge non vieta l’offerta di sesso a pagamento è anche vero per la Consulta che detto contratto sia considerato nullo per illiceità della causa (art. 1343 del Codice civile)che ha come unica conseguenza il diritto della persona che si prostituisce di trattenere le somme ricevute dal cliente (art. 2035 cod. civ.)

Sono anche irrilevanti per la Consulta le diverse pronunce in materia tributaria in quanto per il legislatore nazionale anche i proventi derivanti da attività illecite sono soggetti ad imposizione fiscale[32].

Per la Corte è infondata anche la questione riguardante il principio di necessaria offensività del reato.

Il ragionamento posto alla base di detta infondatezza parte dalla discrezionalità del legislatore nell’individuare i fatti punibili e la relativa pena e dal fatto che dette scelte sono censurabili, dal punto di vista della legittimità costituzionale, solo qualora siano manifestatamente irragionevoli o arbitrarie. La Corte ha poi chiarito che il principio di offensività, operi sia “in astratto” in quanto il legislatore è tenuto a reprimere penalmente solo beni o interessi ritenuti meritevoli di tutela che in concreto per il fatto che il giudice comune dovrà evitare che vengano puniti comportamenti privi di potenzialità lesiva.  Per quanto riguarda l’intervento in astratto il legislatore può anche optare per forme di tutela anticipata che può agire anche quando i valori protetti siano semplicemente esposti a pericolo e può individuare la soglia minima di pericolosità oltre la quale fare scattare l’azione punitiva.

Affinché, però, il predetto principio sia rispettato è necessario che la valutazione della pericolosità del fatto incriminato non sia né irrazionale e né arbitraria, ma che risponda all’”id quod plerumque accidit” [33].

La Consulta, infine, giudica infondata anche l’ultima questione, con la quale il giudice a quo ha denunciato il difetto di determinatezza e tassatività della sola fattispecie del favoreggiamento, confermando le conclusioni già espresse nella propria sentenza n. 44/ 64 e con l’ordinanza n. 98 del 1964. Per la Corte, infatti, includere nella formula descrittiva dell’illecito espressioni sommarie, vocaboli polisensi, clausole generali o concetti “elastici”, non è difatti incompatibile con l’art. 25 c. 2 Cost. quando la descrizione del fatto incriminato consenta  da un lato  al giudice di “esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile”; e, dall’altro “permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo” (sentenza n. 25 del 2019; nello stesso senso, sentenze n. 172 del 2014, n. 282 del 2010, n. 21 del 2009, n. 327 del 2008 e n. 5 del 2004).

Da quanto sopra ne deriva che il reato di favoreggiamento, descritto come «chiunque in qualsiasi modo favorisca […] la prostituzione altrui» è un concetto non più indeterminato di quanto lo sia la disposizione sul concorso di persone nel reato (art.110 del Codice penale). In estrema sintesi, per il giudice delle leggi il favoreggiamento non è altro che una forma di concorso nell’altrui prostituzione. Nessun argomento inoltre, per la Corte, può essere dedotto a sostegno dell’indeterminatezza del reato di favoreggiamento in quanto, al contrario di quanto affermato dalla Corte di appello, è necessario che la condotta incriminata favorisca l’attività e non la persona che la esercita: “L’affermazione è, infatti, sintonica al testo della norma censurata – il quale esige che la condotta incriminata favorisca l’attività, e non la persona che la esercita – e mira proprio ad evitare indebite dilatazioni della sfera applicativa della figura criminosa”.

Con ciò, per la Consulta, risulta infondata anche la censura di violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’ingiustificata disparità di trattamento di situazioni in assunto analoghe.

3. La prevenzione e la repressione dello sfruttamento della prostituzione: interventi amministrativi

Nei paragrafi precedenti abbiamo visto come in Italia vengano colpite penalmente le situazioni parallele al fenomeno della prostituzione e come di fatto la possibilità di liberalizzazione della prostituzione, considerandola come espressione del principio della libertà di autodeterminazione in campo sessuale della persona umana, riconducibile ai diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 Cost. non sia stato preso in considerazione dalla Corte costituzionale che ha ritenuto invece di lasciare intatto l’impianto normativo di cui alla legge n. 75 del 1958.   

Non concorda neppure sul fatto che l’incriminazione delle condotte di favoreggiamento della prostituzione vadano di fatto a ledere la libertà di iniziativa economica privata sancita dall’art. 41 Cost. anche, la quale dovrebbe essere “libera nella stessa misura in cui libera è la fonte primigenia di tale iniziativa”. In maniera blanda, ovvero nella ricerca del bene giuridico protetto, viene anche considerato infondato il contrasto tra le diverse fattispecie delittuose e il principio di offensività, desumibile dagli artt. 13, 25 c. 1 e 27 Cost., così come inesistente per le motivazioni sopra esposte viene considerata la discrasia tra la sola fattispecie di favoreggiamento della prostituzione e il principio di legalità sancito dall’art. 25 Cost.

La situazione rappresentata dal legislatore nazionale sul piano penale sembra essere rimasta ferma al momento storico del decreto Merlin, nonostante l’evoluzione sociale, economica e tecnologica che si è avuta nel corso degli anni del fenomeno della prostituzione.

In considerazione di detti cambiamenti il legislatore nazionale, non volendo affermare il diritto all’autodeterminazione della propria sessualità, ha cercato di regolamentare dal punto di vista amministrativo la prostituzione e le attività ad essa collegate.

Nei paragrafi seguenti l’accento verrà posto sulle misure amministrative più importanti che di volta in volta sono state intraprese dai soggetti che a vario titolo possono intervenire nella materia.

3.1. Il pacchetto sicurezza del 2008

Nel 2008 per regolamentare il fenomeno dell’immigrazione viene approvato dal Consiglio dei ministri il cosiddetto pacchetto sicurezza, costituito dal decreto-legge 23 maggio 2008 n. 92 recante “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica” converto nella legge 24 luglio 2008 n. 15 e dal decreto legislativo n. 160 del 3 giugno 2008, con il quale è stata innovata la normativa in materia di ricongiungimento familiare. In seguito con la legge n. 94 del 15 luglio 2009 è stata approvata la legge “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica” nota come pacchetto di sicurezza 2009.

Il Decreto-legge ha introdotto numerose innovazioni in materia tra le quali quelle relative alle espulsioni degli stranieri, agli affitti in nero, alla sicurezza sulle strade ed ai reati in materia di mafia.

Quello su cui in questa sede ci si intende soffermare è il fatto che il decreto-legge in questione modifica l’art. 54 del Testo unico degli enti locali (Tuel), contenente norme sulle “Attribuzioni del sindaco nelle funzioni di competenza statale”, nella parte in cui viene disciplinato il potere di ordinanza del Sindaco.

Nello specifico, l’art. 6 della l. n. 125 del 24 luglio 2008, attribuisce, al comma 4, nuovi poteri ai sindaci che quali ufficiali del Governo, al fine di prevenire ed eliminare situazioni di grave pericolo per l’incolumità pubblica e per la sicurezza urbana, potranno adottare ordinanze “anche” contingibili e urgenti. Detti provvedimenti devono essere comunicati, in via preventiva, al prefetto per consentire loro la messa in atto degli strumenti necessari ad attuare le misure previste dall’ordinanza. Il comma 4 bis stabilisce, infine che con decreto del Ministro dell'interno dev’essere disciplinato l'ambito di applicazione delle predette disposizioni, anche fornendo una definizione di incolumità pubblica e di sicurezza urbana.

Con il decreto 5 agosto 2008 recante “Incolumità pubblica e sicurezza urbana: definizione e ambiti di applicazione” viene stabilito che per pubblica incolumità si intende “l'integrità fisica della popolazione” e per sicurezza urbana “un bene pubblico da tutelare” attraverso diverse attività finalizzate a migliorare la vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale.

L’art. 2 elenca i campi di applicazione della predetta norma che sono rinvenibili in tutte quelle situazioni di degrado che favoriscono tra l’altro, il sopraggiungere di fenomeni criminosi quali lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, l’accattonaggio, oppure in tutti quei comportamenti, come ad esempio, la prostituzione su strada o l'accattonaggio molesto, possono offendere la pubblica decenza. Il sindaco può inoltre esercitare il potere d’ordinanza anche quando i comportamenti messi in atto provochino danni al patrimonio pubblico o privato, o nei casi in cui detti comportamenti determinino incuria degrado o occupazione abusiva di immobili.

Con la norma citata il legislatore ha voluto rafforzare i poteri del sindaco rispetto a quanto previsto dalla normativa precedente anche se di contro, quasi a voler compensare l’ampliamento di detti poteri, è stato stabilito che le predette ordinanze in via preventiva devono essere comunicate al prefetto che a sua volta può disporre ispezioni per accertarne il regolare svolgimento e può sostituire il sindaco in caso di inerzia.

3.2. Il decreto Minniti

Con decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14 recante "Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città", pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 93 del 21 aprile 2017 insieme alla legge di conversione 18 aprile 2017, n. 48, noto più comunemente come decreto sicurezza, è stato approvato un pacchetto di misure, il cui obiettivo è quello di combattere il degrado urbano potenziando il coordinamento e l’insieme degli interventi da parte dei diversi soggetti istituzionali che operano sul territorio.

A tal fine vengono introdotti i concetti di sicurezza integrata e di sicurezza urbana. La prima che rappresenta l'insieme degli interventi assicurati da tutti gli Enti territoriali, ciascuno nell'ambito delle proprie competenze e responsabilità, al fine giungere alla promozione e all'attuazione di un sistema unitario e integrato di sicurezza per il benessere delle comunità.

La sicurezza urbana è definita come il bene pubblico relativo alla vivibilità e al decoro delle città, da perseguire anche tramite il contributo congiunto degli enti territoriali aventi ad oggetto la riqualificazione e il recupero delle aree o dei siti più degradati, l’eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale, la prevenzione della criminalità, la promozione del rispetto della legalità e, infine, attraverso maggiori livelli di coesione sociale e convivenza civile. 

La norma, inoltre, modifica il testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali (d.lgs. n. 267/2000) e rafforza i poteri di intervento dei sindaci che possono adottare ordinanze dirette a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana anche al fine di tutelare la tranquillità dei cittadini o specifici regolamenti in materia.

Il sindaco, quale ufficiale del Governo ex art. 54 T.U. Enti locali, può adottare anche le ordinanze contingibili e urgenti, dirette a prevenire e contrastare le situazioni che favoriscono l'insorgere di fenomeni criminosi o di illegalità, quali lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, l'accattonaggio con impiego di minori e disabili, o fenomeni di abusivismo, quale l'illecita occupazione di spazi pubblici, o di violenza, anche legati all'abuso di alcool o all'uso di sostanze stupefacenti.

3.3. Il potere di ordinanza dei Sindaci

L’art. 50 del D. Lgs. 18 agosto 2000 n. 267 (Testo Unico degli Enti Locali), al primo comma afferma che il sindaco è l’organo responsabile dell’amministrazione del comune, esercita le funzioni che gli vengono attribuite dalle leggi, dallo statuto e dai regolamenti e tutte le altre attribuitegli, quale autorità locale, nelle materie previste da specifiche disposizioni di legge. In particolare il comma 5 [34] del medesimo articolo individua le situazioni nelle quali il Sindaco può emanare dette ordinanze.

Nell’analisi sopra effettuata, tuttavia, è stato visto come gli ultimi interventi in materia di sicurezza urbana hanno mirato ad aumentare il potere d’intervento dei sindaci tramite le ordinanze che rappresentano quegli strumenti che consentono all’autorità amministrativa, in una situazione di necessità e urgenza, di dare disposizioni per la tutela di un dato interesse pubblico. 

La caratteristica fondamentale delle ordinanze è quella di essere atti a contenuto atipico che possono essere adottati, sulla base di specifiche norme, tra cui quelle contenute nell’art. 54 del Tuel, per fronteggiare situazioni eccezionali, nel rispetto della Costituzione e dei principi generali dell’ordinamento, anche in deroga alla normativa di rango primario.

Le maggiori criticità delle norme introdotte nel 2008 sono rinvenibili nella formula utilizzata dal legislatore secondo cui il sindaco può emanare ordinanze «anche contingibili ed urgenti». L’introduzione della congiunzione anche” ha fatto sì che ai Sindaci venisse attribuito il potere di emanare oltre alle ordinanze contingibili e urgenti, anche le ordinanze ordinarie per la tutela di esigenze di incolumità pubblica e sicurezza urbana. 

Questa contraddizione era stata sottolineata dalla Corte Costituzionale già nel 2009 con la sentenza n. 196, anche se non erano stati evidenziati i problemi connessi a tale questione.

Su di essa è intervenuta nuovamente la Corte costituzionale che con la sentenza n. 115 del 04/04/2011 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 54, comma 4, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), come sostituito dall’art. 6 del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125, nella parte in cui comprende la locuzione «, anche» prima delle parole «contingibili e urgenti».

La sentenza in esame è stata emanata a seguito del ricorso proposto, dinanzi al TAR del Veneto, da un’associazione antirazzista, che voleva l’annullamento di un’ordinanza del Sindaco che disponeva sanzioni amministrative per coloro che contravvenivano al divieto di chiedere l’elemosina in ampie zone del territorio comunale. 

La richiesta di annullamento era basata sulla inesistenza delle condizioni di contingibilità ed urgenza di cui all’art. 54, co. 4, TUEL, tuttavia l’amministrazione resistente ha rivendicato la legittimità dell’operato del Primo cittadino, nonché il potere dello stesso di adottare ordinanze destinate a regolare situazioni non transitorie né eccezionali, a seguito della novella del 2008.

Il Tribunale amministrativo, da un lato ha ritenuto sostanzialmente corretta la posizione del Comune alla luce delle modifiche apportate all’art. 54 TUEL, dall’altro ha evidenziato le criticità insite nella norma richiamata, in quanto attributiva di un potere generale e astratto avente valenza sull’intero territorio comunale e a tempo indeterminato anche in deroga alle leggi vigenti con conseguente violazione dei principi costituzionali di uguaglianza (art. 3 cost), di unità ed indivisibilità della Repubblica (art. 5 cost.), di riserva di legge (art.23), di legalità (artt.70, 76 e 77), tipicità e delimitazione della discrezionalità di cui agli artt. 97, 117 e di riparto delle funzioni amministrative  di cui all’art.118 della Costituzione. 

La vastità e l’indeterminatezza dei poteri assegnati ai Sindaci andrebbe, inoltre, ad agire sul riparto stesso di competenze all’interno del Comune e sarebbe contrario alle previsioni degli artt. 24 e 113 Cost. secondo cui tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi contro gli atti della pubblica amministrazione.

L’autorità comunale ha escluso la valenza normativa delle ordinanze ordinarie in quanto soggette ai principi generali dell’ordinamento ed alle disposizioni del decreto 5 agosto 2008 che stabilisce l’obbligo di motivazione e della preventiva comunicazione al prefetto, come avviene per i provvedimenti extra ordinem, ossia aventi il carattere di straordinarietà.

Mentre il TAR del Veneto nega che la norma in questione abbia attribuito ai Sindaci il potere di derogare alle norme vigenti l’Avvocatura dello Stato esprime un parere in senso opposto e la Corte Costituzionale da un lato respinge la valenza normativa delle ordinanze dall’altro le definisce come

atti amministrativi dotati di una sola discrezionalità finalistica e quindi contrarie al principio di legalità sostanziale, che stabilisce che l’attività dell’amministrazione deve essere definita anche nei mezzi, soprattutto quando è in grado di ledere le libertà o i diritti fondamentali degli individui.

La Corte poi evidenzia il contrasto esistente tra l’art. 54, co. 4, TUEL e l’art. 23 delle Cost. perché, con detto potere d’ordinanza i Sindaci aggirano il disposto costituzionale che riserva alla legge la facoltà di imporre prestazioni di natura personale e/o patrimoniale, introducendo così divieti ed obblighi senza dover ricorrere ad un atto legislativo. Allo stesso modo viene rilevata la violazione dell’art.97 cost. in quanto la norma in esame consente, nei diversi Comuni, l’applicazione di prescrizioni diverse a parità di comportamento, contrariamente al principio di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione. 

Per i suddetti motivi la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 54, co. 4, TUEL, nella parte in cui comprende la congiunzione “anche” prima delle parole “contingibili e urgenti”, con le conseguenze che il potere sindacale di ordinanza dev’essere limitato solo alla emanazione di ordinanze “contingibili e urgenti” che pur avendo effetti temporanei sono in grado di derogare alla legge ordinaria. È, pertanto, necessario un intervento del legislatore che miri a colmare le contraddizioni rilevate dal giudice delle leggi 

3.4    Il quadro generale in alcuni Comuni

Gli ambiti di applicazione dove il Sindaco può promuovere interventi mirati a tutelare la sicurezza urbana sono individuati dall’art.2 [35]del decreto del Ministero dell’Interno del 5 agosto 2008.

Tra di essi rientrano anche quei provvedimenti finalizzati a contrastare lo sfruttamento della prostituzione che si concretizzano nella generalità dei casi con l’emanazione di ordinanze aventi carattere urgente ed indifferibile.

Tuttavia, non esiste a livello nazionale il quadro aggiornato delle diverse ordinanze emanate dai Sindaci, per cui l’analisi è stata condotta prendendo come riferimento alcuni comuni capoluogo ed altri comuni più piccoli, in considerazione del fatto che un rapporto, ormai datato e risalente al 2009[36], aveva evidenziato che solo l’8% delle ordinanze in materia di sicurezza urbana analizzate era stato emanato dai Sindaci dei Comuni con oltre 250.000 abitanti.

Risale, infatti,  al 2008 l’ordinanza[37], con effetti fino al 30 gennaio 2009, con cui il Sindaco del Comune di Roma aveva vietato a chiunque di contattare soggetti dediti alla prostituzione o di contrattare con essi una prestazione sessuale prevedendo una sanzione per i contravventori di 200 €. Le azioni più recenti sono, invece state intraprese, con la delibera di Giunta Capitolina n. 132 del 5 luglio 2019 e con la Delibera Assemblea Capitolina n 43/2019 che hanno approvato rispettivamente, dopo 70 anni, il nuovo Regolamento di Polizia Urbana e le sanzioni da applicare alle diverse fattispecie di reato. 

Alcune delle norme presenti riguardano la tutela della dignità delle persone e il contrasto ai fenomeni criminosi di sfruttamento della prostituzione e della tratta di esseri umani e mirano, altresì, ad offrire tutela alle persone vittime di sfruttamento. Il nuovo regolamento prevede il divieto di assumere comportamenti finalizzati ad offrire prestazioni sessuali e a concordare prestazioni sessuali, in caso di mancata osservanza del divieto in questione viene prevista una sanzione pecuniaria di 400 €[38].

A Firenze nel 2017 è stata emanata un’ordinanza[39] con la quale veniva vietato chiedere o accettare prestazioni sessuali in cambio di denaro nell’intero territorio comunale. L’ordinanza prevedeva altresì che, a meno che il comportamento non fosse tale da configurare un reato più grave, la violazione era sanzionata con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a 206 euro. 

Il Sindaco di Ravenna con l’ordinanza n. 1186 del 17 luglio 2019, con validità fino al 31 ottobre 2019, dopo aver individuato le zone della città più sensibili, agisce sia sulla domanda che sull’offerta di prestazioni sessuali, e vieta sia «lo stazionamento con ammiccamenti, abbigliamenti discinti e contrari alla pubblica decenza e atteggiamento non rispondente ai canoni del pubblico pudore», che «la semplice fermata del veicolo al fine di richiedere informazioni, ovvero contrattare, ovvero concordare prestazioni sessuali a pagamento con soggetti che esercitano il meretricio su strada”.

Anche in questo caso i trasgressori sono puniti con una sanzione di € 400 euro. 

Il Comune di Rimini in data 31 0ttobre 2019, prot. n. 115875 “Ordinanza contingibile ed urgente per prevenire e contrastare gravi pericoli cagionati da comportamenti connessi all’esercizio della prostituzione sulla pubblica via”.

L’Ordinanza vieta di realizzare comportamenti diretti in modo non equivoco ad offrire prestazioni sessuali a pagamento, mediante lo stazionamento e/o l’appostamento della persona e/o l’adescamento di clienti e l’intrattenersi con essi, e/o con qualsiasi altro atteggiamento o modalità comportamentali, compreso l’abbigliamento, che possano ingenerare la convinzione che la stessa stia esercitando la prostituzione.

L’ordinanza vieta anche di richiedere informazioni a soggetti che realizzino i comportamenti sopra descritti e di eseguire manovre alla guida per porre in essere i medesimi comportamenti. 

La violazione delle norme in questione comporta anche in questo caso l’applicazione di sanzioni amministrative pecuniarie da un minimo di € 300,00 ad un massimo di € 500,00.

Il Sindaco del Comune di Barletta con l’ordinanza n. 18270 del 24/03/2016 avente ad oggetto  “Interventi di contrasto alla prostituzione e tutela della sicurezza urbana” per contrastare il fenomeno dello sfruttamento e della contrattazione della prostituzione al fine di tutelare la sicurezza urbana e la pubblica incolumità  e di contrastare gli interessi di coloro che intendono sfruttare i soggetti, anche minorenni, dediti alla prostituzione, vieta fino al 31/12/2016 di contattare soggetti che esercitano l’attività di prostituzione in strada e/ o di far salire sul proprio veicolo uno o più soggetti dediti alla prostituzione. I trasgressori, anche in questo caso sono tenuti al pagamento di una sanzione di € 500.

Anche il sindaco di Battipaglia con l’ordinanza n. 286 emanata il 13 agosto 2018 e con effetti fino al 15 ottobre intende fronteggiare estinguere i “gravissimi effetti di allarme e turbativa per la sicurezza pubblica” sulle strade del territorio comunale. Anche in questo caso vengono puniti sia i clienti che i soggetti che si prostituiscono con multe questi ultimi fino ad € 500.

Le ordinanze sopra citate emanate dal Sindaco, in qualità di rappresentante della Comunità locale, hanno diversi elementi in comune, tutti fanno riferimento a delle situazioni aventi carattere di contingibilità e urgenza, senza che però vengano, rispetto alla fattispecie concreta, effettivamente accertati come entrambi sussistenti i caratteri in questione. Accertamento necessario per giustificare l’adozione di ordinanze miranti a fronteggiare situazioni non altrimenti disciplinabili. 

Nessuna delle ordinanze richiamate giustifica il carattere di contingibilità ed urgenza.

In secondo luogo, tutte pur dichiarando il fine di voler lottare contro lo sfruttamento della prostituzione, come previsto dalle norme vigenti che non vietano l’esercizio del meretricio e più volte richiamate, di fatto combattono contro la prostituzione stessa al di là di tutte le previsioni costituzionali sopra esposte, andando ad incidere direttamente sul principio della libertà delle persone e di tutti gli altri principi costituzionali già richiamati.

In quasi tutti i casi è rispettato il requisito della temporaneità delle misure adottate e in ciascuna situazione è prevista come sanzione il pagamento di una multa tranne che nel caso del Comune di Firenze dove viene previsto anche l’arresto fino a tre mesi.

L’ordinanza in questione, tuttavia, è stata ritenuta illegittima dal Tribunale di Firenze sia perché n contrasto con la legge Merlin sia perché emanata in assenza dei requisiti di indifferibilità e urgenza.

Ultima questione che preme evidenziare è che, nella sostanza tutte le ordinanze esaminate mirano a combattere la prostituzione e non solo lo sfruttamento della stessa, in palese contrasto con le attuali previsioni normative.

3.5 Il caso Tivoli

Con l’Ordinanza Sindacale n. 624/2018 il sindaco del Comune di Tivoli (RM)  ha vietato  che, a decorrere dal 15/11/2018 e fino al 15/06/2019, su tutto il territorio comunale, sia fatto divieto “a chiunque, sulla pubblica via e su tutte le aree soggette a pubblico passaggio del territorio del Comune di Tivoli di contattare soggetti dediti alla prostituzione, concordare prestazioni sessuali a pagamento, consentire la salita sui propri veicoli per le descritte finalità, eseguire manovre pericolose o di intralcio alla circolazione stradale, ivi compresa la sosta e/o fermata al fine di porre in essere i comportamenti delineati” e “a chiunque di porre in essere comportamenti diretti in modo non equivoco a offrire prestazioni sessuali a pagamento, assumendo atteggiamenti, modalità comportamentali ovvero indossare abbigliamenti o mostrare nudità che manifestino, inequivocabilmente, l’intenzione di adescare o di esercitare l’attività di meretricio”.  

La violazione dell’ordinanza prevede una sanzione amministrativa pecuniaria pari a 500 euro. 

Contro detta ordinanza la difesa dell’Associazione Radicale “Certi Diritti” e del Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute – Onlus organizzazione non lucrativa di utilità sociale, ha presentato ricorso. 

La difesa del ricorrente ha innanzitutto dimostrato la legittimazione ad agire dell’Associazione Radicale “Certi Diritti” e del Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute. 

Detta legittimazione risiede nel fatto che la prima è un’associazione di promozione sociale fondata nel 2008 come centro di iniziativa politica non violenta, giuridica e di studio per la promozione e la tutela dei diritti civili e per la responsabilità e la libertà sessuale delle persone. 

In base al suo Statuto, l’Associazione svolge le proprie attività nel settore della tutela dei diritti civili, ed ha come scopo, tra gli altri, “la promozione della piena libertà e responsabilità sessuale della persona; la promozione, anche in forma associata con altre istituzioni e associazioni, della tutela e dell’assistenza alle persone vittime di violenza, maltrattamento e discriminazione, diretta o indiretta, compresa l’assistenza legale e la presentazione in giudizio” e “può promuovere, anche in forma associata con altre istituzioni e associazioni, cause pilota, iniziative politiche nonviolente, culturali e sociali per la promozione dei diritti delle persone LGBTI, delle coppie dello stesso sesso e delle loro famiglie, nonché delle lavoratrici e dei lavoratori del sesso”.

Il Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute è un’associazione senza scopo di lucro fondata nel 1982 da persone prostitute e non, già membro riconosciuto dell’Osservatorio sulla prostituzione e sui fenomeni delittuosi ad essa connessi, istituito presso il Ministero dell’Interno. 

In base al suo Statuto, il Comitato si propone, tra l’altro, di “- promuovere iniziative di qualsiasi natura al fine di ottenere il riconoscimento e la tutela dei diritti civili costituzionalmente garantiti ad ogni cittadino/a: uomo, donna, transgender o gender variant, senza discriminazioni di sesso, genere, orientamento sessuale o identità di genere - che si prostituiscono, siano essi italiani o stranieri. Ove necessario chiedendo la modifica di quelle leggi che sono di ostacolo alla piena inclusione sociale, di opporsi ad uno sfruttamento da parte dello Stato e dei privati della prostituzione, di ridurre la stigmatizzazione e l’esclusione sociale delle persone che si prostituiscono e di promuovere la tutela della salute, dell’informazione e prevenzione dell’HIV e delle infezioni sessualmente trasmissibili, anche attraverso la produzione e diffusione di materiali specifici …”.

Per il raggiungimento dei fini statutari di cui sopra, entrambe le associazioni sono state promotrici di proposte per la regolamentazione legislativa del lavoro sessuale, volte a salvaguardare, da un lato, i principi di libertà e autodeterminazione di chi sceglie di esercitare l’attività di prostituzione, garantendone sicurezza e migliori condizioni di vita, e dall’altro lato, dirette a potenziare iniziative contro ogni forma di riduzione o eliminazione della libertà personale, di tratta delle persone e di induzione alla prostituzione di persone minori o incapaci di intendere e di volere.

In primo luogo la difesa dei ricorrenti ha dedotto vizi di violazione di legge ed eccesso di potere, ed ha contestato la sussistenza dei presupposti alla base dell’adozione dell’ordinanza, l’indeterminatezza delle condotte vietate e sanzionate, la carenza e lacunosità dell’istruttoria, l’assenza di un adeguato substrato motivazionale, la violazione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità, la lesione dei diritti e delle libertà fondamentali in violazione dell’art. 2 Cost., la violazione dei principi di legalità e tipicità degli illeciti amministrativi, con prospettazione anche di profili di illegittimità costituzionale dell’art. 54 comma 4 bis TUEL, interpretato nel senso di legittimare il Sindaco all’esercizio del potere extra ordinem, anche per la mera finalità di perseguire la prostituzione in quanto tale, senza, tra l’altro, considerazione alcuna delle condizioni di sfruttamento, ordinariamente sussistenti, degli individui che esercitano tale attività.

Il Comune di Tivoli si è costituito in giudizio ed ha chiesto il rigetto del ricorso in quanto infondato, sollevando eccezioni preliminari di inammissibilità sia per carenza delle fondamentali condizioni dell’azione sia in relazione alla proposizione del ricorso in forma collettiva, concludendo, nel merito, per il rigetto 

Con la Sentenza n. 4175/2019 il TAR del Lazio, sezione territoriale di Roma, ha annullato l’Ordinanza Sindacale n. 624/2018 del Comune di Tivoli (RM) condannando il Comune alle spese di lite. 

Il Tribunale in questione ha ritenuto innanzitutto che “l’eccezione di inammissibilità per carenza delle condizioni dell’azione non merita accoglimento” e che è di competenza del Giudice verificare l’esistenza dell’interesse ad agire legittimamente in giudizio, in capo alle associazioni e comitati portatori di interessi diffusi, anche se differenziati e qualificati rispetto agli interessi dei singoli associati.

Poiché dall’analisi della documentazione depositata dalla difesa dei ricorrenti risulta che sia l’Associazione che il Comitato hanno tra i loro compiti la promozione dei diritti e la tutela, su tutto il territorio nazionale, delle persone che si dedicano alla prostituzione, ivi compresa l’assistenza legale e l’eventuale presentazione in giudizio, il Tribunale amministrativo rileva la sussistenza del loro interesse ad agire legittimamente contro il contenuto prescrittivo e sanzionatorio dell’ordinanza del Sindaco di Tivoli in questione. 

Il medesimo Tribunale ritiene, inoltre, fondato il ricorso collettivo sia per la identità delle posizioni dei ricorrenti sia per la mancanza della conflittualità di interessi che avrebbe determinato incompatibilità tra l’accoglimento di una istanza e l’accettazione di quelle degli altri[40].

Entrando nel merito dell’Ordinanza il Giudice amministrativo evidenzia l’insufficiente descrizione e l’indeterminatezza dei comportamenti sanzionati riguardanti atteggiamenti, comportamenti e abbigliamenti inerenti il modo di esprimere la personalità e che pertanto non possono essere ledere interessi relativi alla sicurezza urbana che sono finalizzati esclusivamente ad offrire prestazioni sessuali a pagamento che non sono vietate dall’ordinamento vigente. A parere del Giudice anche la sussistenza di pericoli per l’incolumità pubblica e la sicurezza manca di elementi concreti che possano 

rappresentare una minaccia per gli interessi pubblici tutelati dell’art. 54, commi 4 e 4 bis del TUEL[41]

Il Giudice amministrativo prosegue affermando che le ordinanze contingibili e urgenti di competenza del Sindaco rappresentano degli strumenti residuali per affrontare situazioni impreviste e di carattere eccezionale, per le quali non è possibile utilizzare i mezzi ordinari, che nel caso in specie non si evidenziano detti caratteri di eccezionalità e di concreto pericolo per la pubblica incolumità e per la sicurezza, essendo l’ordinanza “incentrata su segnalazioni anonime e sulla riscontrata presenza di persone dedite alla prostituzione”. Dagli stessi verbali di contestazione non emerge, a parere dei giudici, una minaccia concreta agli interessi pubblici tutelati. Non è, inoltre, sufficientemente giustificata l’estensione temporale del periodo indicato dal provvedimento, come chiarito anche dalla sentenza n. 115/2011 della Corte costituzionale. 

L’ordinanza in questione non osserva il principio di legalità sostanziale, come fatto osservare dalla difesa dei ricorrenti e parimenti risulta violato anche il principio di proporzionalità “stante la già evidenziata ampiezza ed indeterminatezza delle condotte vietate, l’indiscriminata estensione dei divieti a tutto il territorio comunale, la diretta incidenza su diritti e libertà individuali, con previsione della irrogazione di una sanzione pecuniaria in misura fissa e generalizzata che, come correttamente rilevato da parte ricorrente e comprovato anche dai verbali di contestazione prodotti dall’amministrazione, è suscettibile di dispiegare la propria portata afflittiva essenzialmente sulle vittime della catena criminale”.

Per i motivi sopra riportati il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda Bis), accoglie il ricorso e per l’effetto annulla il provvedimento impugnato e condanna il Comune di Tivoli al pagamento delle spese di lite in favore di parte ricorrente, liquidate complessivamente in euro 1.500,00 (millecinquecento/00), oltre accessori di legge.

3.6. Il caso Massa Carrara

Il Comune di Massa Carrara ha approvato con deliberazione del Consiglio comunale n. 25 del 15.05.2014, come modificato con delibera del Consiglio comunale n. 140 del 24.07.2019 pubblicata nell’Albo on-line del Comune di Massa in data 26.07.2019 e consultabile sul sito ufficiale sino al 09.08.2019 il nuovo Regolamento di Polizia urbana che  all’articolo 12 recante “Prostituzione”, con il quale viene fatto divieto su tutto il territorio comunale di: a) porre in essere comportamenti diretti in modo non equivoco ad offrire prestazioni sessuali a pagamento, consistenti nell’assunzione di atteggiamenti di richiamo, di invito, di saluto allusivo ovvero nel mantenere abbigliamento indecoroso o indecente in relazione al luogo. La violazione si concretizza con lo stazionamento e/o l’appostamento della persona e/o l’adescamento di clienti e l’intrattenimento con essi e/o con qualsiasi ulteriore atteggiamento o modalità comportamentali, incluso l’abbigliamento, suscettibili di ingenerare la convinzione che la stessa stia esercitando la prostituzione; b) richiedere informazioni a soggetti che pongano in essere i comportamenti descritti al precedente punto a) e/o di concordare con gli stessi l’acquisizione di prestazioni sessuali a pagamento; c) alla guida di veicoli, di eseguire manovre pericolose o di intralcio alla circolazione stradale al fine di porre in essere i comportamenti descritti al punto b)” e con il quale viene stabilito, per la violazione delle disposizioni di cui ai punti a) e b), l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria pari ad euro 450,00 nonché l’ordine di allontanamento di cui all’art. 10 del D.L. 20.02.2017 n. 14 convertito con modificazioni, nella L. 18.04.2017 n. 48, mentre per la violazione prevista al punto c), l’irrogazione delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal D.lgs. 30.04.1992  n. 285 (Codice della Strada), e in specie la sanzione amministrativa pecuniaria da un minimo di € 41,00 ad un massimo di € 168,00, aumentata di 1/3 qualora la violazione venga accertata nell’orario 22,00-07,00, nonché l’ordine di allontanamento di cui all’art. 10 del D.L. n.14/2017.

Contro il suddetto articolo hanno presentato ricorso [42]l’Associazione Certi Diritti e Il Comitato per i diritti civili delle prostitute, le cui finalità statutarie sono stati descritti nel paragrafo precedente. La loro legittimazione ad agire è stata diverse volte riconosciuta e da ultimo dal Tribunale Amministrativo per il Lazio che ha riconosciuto, in relazione ad una vicenda del tutto analoga alla presente, la piena sussistenza delle condizioni dell’azione in capo all’associazione ed al Comitato  menzionati affermando che “sia l’associazione che il comitato perseguono specifiche finalità di promozione dei diritti e tutela delle persone e, in specie delle donne, coinvolte nel fenomeno della prostituzione, nonché di salvaguardia della sfera di autodeterminazione sessuale, attraverso iniziative, di sovente congiunte ed estese a tutto il territorio nazionale, che includono anche “l’assistenza legale e la presentazione in giudizio”.

La difesa di parte ricorrente ha innanzitutto dedotto vizi di violazione e falsa applicazione di legge ed in particolare dei principi generali dell’ordinamento in tema di legalità delle fattispecie vietate e degli illeciti amministrativi, in palese violazione dell’articolo 1 della legge 24 novembre 1981 n. 689.

La norma stabilisce che “Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione. Le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati” (principio di legalità). 

La disposizione - che nella prima parte ricalca quella di cui all’art. 25 della Costituzione - incarna un principio destinato ad operare su tre piani: quello delle fonti, quello dell’interpretazione e della formulazione tecnica delle norme e quello della validità della legge nel tempo.

Sul piano delle fonti, la norma stabilisce una riserva di legge, individuando nella legge (del Parlamento), negli atti aventi forza di legge (decreto legislativo e decreto-legge) e nella legge regionale le uniche fonti idonee ad assoggettare i consociati a sanzioni amministrative. 

Anche se è del tutto legittimo e auspicabile, come risulta dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalente, che le fonti subalterne regolamentino settori caratterizzati da un elevato tasso di “tecnicismo", spetta alla legge individuare tutte le scelte caratterizzanti dell’illecito amministrativo: dalla previsione della sanzione all’individuazione dell’oggetto della tutela e del tipo di comportamento vietato. 

Di conseguenza, la fonte secondaria, tra cui quella regolamentare, può fornire un apporto tecnico di mera “concretizzazione” di una fattispecie già ben individuata dal legislatore in tutto il suo disvalore. 

Anche la riserva di legge di cui all’art. 25 Cost. è interpretata nel senso che essa non osta che i precetti, una volta che siano sufficientemente individuati dalla legge, possano essere “eterointegrati” da fonti regolamentari o da altre fonti subordinate. Ciò in quanto, come affermato in più occasioni dalla stessa giurisprudenza costituzionale, il principio di legalità può considerarsi soddisfatto quando la legge (o un atto ad essa equiparato) indichi con sufficiente specificazione e determinatezza i presupposti, i caratteri, i contenuti e i limiti della sanzione.

Anche la giurisprudenza di legittimità è unanime nel ritenere che «l’art. 1 della legge 24 novembre 1981 n. 689, avendo recepito anche per le sanzioni amministrative il principio di legalità, così ponendo una riserva di legge analoga a quella di cui all’art. 25 Cost., impedisce che l’illecito amministrativo e la relativa sanzione siano introdotti direttamente da fonti normative secondarie, come un regolamento comunale[43]»

Da quanto sopra, a parere della difesa dei ricorrenti, si evince che il Regolamento di Polizia urbana abbia - non meramente “eterointegrato” -, bensì introdotto una fattispecie sanzionatoria attraverso una fonte secondaria e che lo abbia fatto in assenza di alcun presupposto legittimante “sufficientemente individuato e determinato” da una legge. 

La difesa dei ricorrenti, inoltre, deduce dal il divieto imposto dall’articolo 12 del Regolamento di Polizia Urbana del Comune di Massa violazione e falsa applicazione di legge ed in particolare dei principi generali dell’ordinamento in tema di legalità, tipicità e determinatezza delle fattispecie vietate e degli illeciti amministrativi, eccesso di potere per illogicità, contraddittorietà ed arbitrarietà manifeste, violazione e falsa applicazione dell’art. 1 della l. n. 689/1981, violazione del diritto costituzionale alla difesa. 

Il disposto dell’art.12 del richiamato Regolamento si presenta generico, indeterminato e come tale assolutamente arbitrario ed illogico nella sua applicazione: risulta in definitiva esercitato al di fuori di ogni legittimo potere discrezionale.

Infatti, la semplice lettura della prescrizione ne evidenzia i vizi di legittimità in quanto il divieto si rivolge sia ai soggetti dediti alla prostituzione, sia a coloro che per atteggiamento o (anche) per come sono abbigliati siano “suscettibili di ingenerare la convinzione” di esercitare il sex work. 

A parere della difesa non si comprende sulla base di quali valutazioni, che dovrebbero essere chiaramente e tassativamente determinate ex ante all’interno di ogni provvedimento sanzionatorio, si possa giungere a stabilire, ex post, che l’abbigliamento o il comportamento serbato da un individuo sia “inequivocabilmente” finalizzato ad offrire una prestazione sessuale a pagamento e debba quindi essere sanzionato. 

Ma, ancor prima, non si comprende sulla base di quale tipo di comportamento o abbigliamento definito “indecoroso” si possa “ingenerare la convinzione” di adescare, condotta alternativamente vietata e sanzionata dalla prescrizione impugnata. Ciò per non considerare che nell’ambito delle sanzioni amministrative risulta del tutto illegittimo considerare quale comportamento sanzionabile il mero “tentativo”, come sembra sia accaduto nel caso di specie[44]. Il Regolamento precisa poi che tali valutazioni sono rimesse agli agenti di polizia che devono applicare la sanzione nel caso concreto (art. 3, “Funzioni di Polizia Urbana”). Anche in relazione a tale aspetto, a parere dei ricorrenti, la disposizione censurata si presta ad una applicazione, non discrezionale, bensì necessariamente arbitraria da parte degli agenti: sulla base delle prescrizioni contenute all’articolo censurato potrebbe infatti essere sufficiente sorridere o indossare una minigonna e gli stivali, se non soltanto un trucco evidente. La descrizione così operata dal Regolamento dei soggetti dediti all’attività della prostituzione o potenzialmente tali, in quanto eccessivamente indeterminata e generalizzata, viola il principio di tipicità e legalità operante anche per gli illeciti amministrativi.

Altrettanto generico appare il divieto - esteso peraltro indiscriminatamente su tutto il territorio comunale e rivolto a tutti i cittadini (residenti e non) del Comune di Massa - di “richiedere informazioni a soggetti che pongano in essere i comportamenti descritti al precedente punto a) e/o di concordare con gli stessi l’acquisizione di prestazioni sessuali a pagamento” nonché di “alla guida di veicoli, eseguire manovre pericolose o di intralcio alla circolazione stradale al fine di porre in essere i comportamenti descritti”. 

Premesso che talune delle condotte delineate trovano già una compiuta ed organica regolamentazione, anche di carattere sanzionatorio, all’interno del Codice della Strada, il divieto impugnato non mira a colpire solo gli automobilisti che con il loro comportamento possano mettere a rischio la sicurezza sulle strade, ma tutti i soggetti, anche pedoni, i quali, in qualche modo coinvolti nel fenomeno della prostituzione su strada (in quanto clienti veri, presunti, potenziali o finanche apparenti) vengano preventivamente e astrattamente ritenuti colpevoli di favorire le situazioni di potenziale pericolo e di offesa alle “regole di decenza comunemente accettate”, concetto di assai difficile decifrazione, ma che tuttavia il Regolamento dichiara in premessa di voler prevenire e combattere (artt. 1 e 2).

A parere della parte ricorrente, una previsione siffatta deve ritenersi illegittima per eccesso di potere, poiché proibisce e sanziona l’esercizio e la fruizione dell’attività prostitutiva, peraltro non vietata dall’ordinamento, con misure preordinate alla sicurezza stradale e all’utilizzo del demanio stradale. 

Sul punto si consideri, inoltre, che la Corte di Cassazione ha precisato che “Chi intralcia il traffico per contrattare con una prostituta non può essere multato se manca il divieto di sosta. In altre parole, se il sindaco emette un'ordinanza con la quale sanziona i comportamenti di turbativa alla circolazione, mentre in realtà intende impedire l'attività di meretricio in una determinata zona, deve anche porre la relativa segnaletica che impedisce la fermata o la sosta in quel determinato posto” (Cassazione civile, sez. I, 07/10/2004, n. 19995). 

Nel caso di specie, posto che sotto il profilo spaziale il divieto contenuto nel Regolamento censurato produce i suoi effetti su tutto il territorio comunale, la segnaletica di divieto di sosta e/o fermata dovrebbe essere apposto su tutti “gli spazi ed aree pubbliche nonché in quelle private gravate da servitù di pubblico passaggio” (articolo 1 comma 2 del Regolamento). 

Per quanto riguarda il soggetto pedone, poi, nel Regolamento in esame non vi sono elementi per determinare una sanzione a suo carico, per cui si configura senza dubbio una violazione del canone di determinatezza, soprattutto in quanto si consente (o si richiede) agli addetti al traffico di operare una valutazione assolutamente arbitraria dei requisiti che integrano il comportamento punibile, senza consentire al potenziale trasgressore una percezione certa della condotta vietata.

In definitiva, i criteri da cui inferire la condotta della disponibilità alla prestazione a pagamento (sia essa sotto forma di offerta che sotto forma di richiesta o di mero contatto verbale) sono estremamente labili, opinabili ed equivoci. Sono quindi tali da concretare una presunzione semplice del tutto inutilizzabile al fine di esercitare legittimamente un potere repressivo. 

Di conseguenza, la sanzione prevista è inficiata da vizio di legittimità sotto il profilo della violazione e falsa applicazione dell’art. 1 della l. n. 689/1981.

Dalla norma in questione si evince infatti che anche le sanzioni amministrative (oltre a quelle penali) sono assoggettate al principio di tassatività. Principio che, come già illustrato sotto il diverso profilo della riserva di legge, è stato palesemente violato anche in ragione della genericità delle condotte sanzionate. L’uso di parole e locuzione vaghe e imprecise come “regole di decenza” o limitazione della “piena e libera fruibilità degli spazi pubblici” o pregiudizio per la “convivenza civile”, utilizzate per legittimare l’adozione della disposizione impugnata , rende del tutto opinabile l’individuazione delle particolari situazioni in presenza delle quali scatta il divieto dell’attività di prostituzione su strada (attività che, a ben vedere, si vuole vietare tout court con la censurata prescrizione), essendo rimesso alla sensibilità del singolo agente accertatore l’apprezzamento circa la sussistenza nel caso concreto di quelle particolari circostanze o modalità di svolgimento della prostituzione che potrebbero essere tali da ledere indecifrabili ed astratti interessi pubblici. 

Ebbene, come chiaramente affermato dalla giurisprudenza amministrativa, «tale indeterminatezza nell’ambito di applicazione del divieto in questione, lasciato all’apprezzamento discrezionale della P.A., non consente al soggetto dedito al meretricio e, più in generale, a tutti i consociati, di comprendere previamente quali siano io comportamenti sanzionati dalla norma, con conseguente illegittima restrizione della libertà generale dei cittadini» (T.A.R. Veneto, Sez. I, 8 marzo 2017, sentenza n. 237, doc. 4). 

Il T.A.R. per il Veneto, nell’annullare una disposizione regolamentare comunale del tutto sovrapponibile a quella per cui vi è causa, ha affermato che «la potestà regolamentare degli Enti locali debba esplicarsi rispettando i principi, di matrice penalistica, che governano i procedimenti sanzionatori. Tra i principi rientrano certamente, oltre a quello di non retroattività, quelli di tassatività e determinatezza della fattispecie illecita, la cui valenza anche costituzionale ne avrebbe imposto il rispetto nella vicenda per cui è causa (cfr., per tassatività e determinatezza della fattispecie, quali necessarie conseguenze del principio penalistico di legalità, Corte cost., 8 giugno 1981, n. 96)” (Sez. I, 8 marzo 2017, sentenza n. 237).  Ed invero, “una descrizione non puntuale del fatto contestato porta a menomare il diritto costituzionale alla difesa, data la difficoltà di confrontarsi con un’imputazione generica e non precisa; identica menomazione deriverebbe, poi, dall’applicazione analogica delle norme sanzionatorie vietata dal principio di tassatività (cfr. T.A.R. Toscana n. 702/2010)» (cfr. doc. 5). Per tutti i suesposti motivi, la difesa dei ricorrenti ha chiesto in via cautelare di sospendere l’efficacia del provvedimento impugnato, con ogni conseguenza di legge ed in via principale, nel merito, di annullare e/o comunque accertare e dichiarare l’illegittimità del Regolamento di Polizia Urbana del Comune di Massa approvato con deliberazione del Consiglio comunale n. 25 del 15.05.2014, come modificato con delibera del Consiglio comunale n. 140 del 24.07.2019 pubblicata nell’Albo on-line del Comune di Massa in data 26.07.2019 e consultabile sul sito ufficiale sino al 09.08.2019, limitatamente all’articolo 12 e di ogni atto presupposto, conseguente o comunque connesso, ancorché non conosciuto, con ogni conseguenza di legge; eventualmente previa remissione alla Corte Costituzionale della questione di legittimità sopra prospettata valutata la non manifesta infondatezza e rilevanza della questione. 

L’udienza pubblica di discussione del ricorso nel merito è stata fissata dal TAR Toscana in data 22 aprile 2020.

4. La regolamentazione in alcuni Stati Europei

A livello europeo non è ancora stata armonizzata la normativa in materia di prostituzione per cui continuano ad esserci diverse modalità di regolamentazione a livello economico politico e sociale di questa attività. 

Tuttavia, le diverse modalità di gestione sono essenzialmente riconducibili a quattro modelli[45] ai quali possono essere ricondotte modalità di regolamentazione della prostituzione indoor (il mercato del sesso al chiuso: case private, di tolleranza, hotel, night, privèe e simili) e outdoor (prostituzione esercitata in strada). 

L’approccio di tipo “abolizionista” punisce il solo sfruttamento della prostituzione e prevede la legalità di entrambi i tipi di prostituzione, esercitata da adulti consenzienti. È il modello adottato in Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Slovenia e Spagna.

L’approccio di tipo “neo-abolizionista” punisce sia la prostituzione nelle case di tolleranza che lo sfruttamento della stessa, consentendo la prostituzione di adulti outdoor. È il modello previsto in Belgio, Cipro, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Italia, Lussemburgo.

L’approccio “proibizionista” vieta l’esercizio di entrambi i tipi di prostituzione, punendo anche la condotta del cliente. È il modello vigente in Irlanda, Lituania, Malta e Svezia.

Infine, l’approccio di tipo “regolamentarista” prevede la regolamentazione per legge di entrambi i tipi di prostituzione. Tale modello caratterizza, in Europa, le discipline previste da Austria, Germania, Grecia, Lettonia, Paesi Bassi, Regno Unito, Ungheria. 

In Grecia ad esempio è ammessa la sola prostituzione in casa con l’obbligo per le persone dedite a questa attività di registrarsi in appositi elenchi per motivi sanitari e sono tenute al pagamento delle imposte.

4.1  L’approccio tedesco

Nel 2002 la Germania ha approvato una legge con la quale ha riconosciuto ha legalizzato il lavoro sessuale ed ha riconosciuto “la prostituzione come un lavoro come gli altri” e pertanto coloro che si dedicano a detta attività hanno gli stessi diritti di qualsiasi altro lavoratore sia dal punto di vista assistenziale, previdenziale ed assicurativo che per quanto riguarda la possibilità di esercitare azioni legali se i loro diritti non vengono rispettati dal datore di lavoro. di contro sono tenute al pagamento delle tasse.

Lo Stato non ha voluto imporre limitazioni alle pratiche sessuali ed ha vietato solo il prossenetismo.

In materia, però, prevale la legislazione regionale e in alcuni Lander detti diritti non sono riconosciuti.

Le autorità locali decidono le zone dove la prostituzione può essere esercitata e dove possono essere aperti i bordelli.

I lavoratori possono esercitare la propria attività sia come lavoratori autonomi che come dipendenti, il rapporto tra prostituta e cliente è regolato dalla legge e non è considerato immorale e al pari di tutti gli altri rapporti di lavoro la persona dedita alla prostituzione può citare in giudizio il cliente che non paga la prestazione ricevuta.

Sono, invece considerate illegali la prostituzione minorile e lo sfruttamento della prostituzione, mentre la tratta ai fini della prostituzione è considerata illegale ed è punita con la reclusione variabile da sei mesi a dieci anni.

4.2    La normativa francese

Il 6 aprile 2016, l’Assemblea Nazionale francese ha adottato la proposta di legge, entrata in vigore il 13 aprile 2016, volta al Rafforzamento della Lotta contro il Sistema Prostituente e a Fornire Assistenza alle Persone Prostituite.

La legge modifica diversi articoli del codice penale (articoli 222-3, 222-8, 222-10, 222-12 et 222-225-12-1, 225-20,13, 611-1,) e del codice di procedura penale francese ( articoli 2-22, 306, aggiungendo l’articolo 706-40-1) 

La norma introduce ulteriori modifiche al Codice del lavoro, al Codice dell’azione sociale e delle famiglie e al Codice della costruzione e dell’abitazione.

Ulteriori modifiche sono fatte al codice dell’entrata e del soggiorno degli stranieri e del diritto d’asilo e al codice della sicurezza sociale.

La legge introduce nell’ordinamento francese un divieto generale e assoluto di acquisto di atti sessuali, compresi quelli compiuti tra persone adulte, consenzienti e in un luogo privato e prevede specifiche misure per la lotta alla tratta di esseri umani, allo sfruttamento sessuale e al favoreggiamento della prostituzione. 

Viene la messa in atto di programmi che aiutano le persone prostitute ad intraprendere percorsi di fuoriuscita fornendo loro la disponibilità di alloggi, di reintegrazione sociale e professionale, di assistenza sanitaria, di accesso alla cancellazione dei debiti fiscali. che operano a livello locale (al pari di quello provinciale). 

La legge prevede l’abrogazione del reato di adescamento e considera la prostituzione una forma di violenza e vittima chi si prostituisce.

Contro questa legge il Conseil Constitutionnel è stato adito dal Conseil d’État, che ha sollevato una questione prioritaria di costituzionalità avente ad oggetto alcune disposizioni della legge n. 2016-444 del 13 aprile 2016 e con sentenza n. 2018-761 QPC decisa nella seduta del 31 gennaio 2019 e resa nota il 1° febbraio 2019 ha sancito la costituzionalità della legge Francese del 2016. 

In particolare sono stati contestati gli artt. 611-1 e 225-12-1 del Codice penale, nonché il 9° bis dell’art. 131-16 e il 9° del paragrafo I dell’art. 225-20 del medesimo Codice.

A parere dei ricorrenti, infatti, le nuove norme violerebbero la libertà di chi vende e acquista atti sessuali cosa che si traduce in una violazione del diritto al rispetto della vita privata, dell’autonomia personale e dell’autodeterminazione nella sfera sessuale. Verrebbe lesa la libertà di impresa e la libertà contrattuale e i principi giuridici dell’adeguatezza e proporzionalità delle pene a causa delle sanzioni previste.

Secondo i ricorrenti, infine, la norma avrebbe aggravato per coloro che si prostituiscono le condizioni generali e i rischi connessi a tale attività. 

Il Conseil Constitutionnel ha, tuttavia, dichiarato la conformità delle nuove norme alla Costituzione ed ha difeso l’operato del legislatore sostenendo che le stesse hanno l’obiettivo di lottare contro lo sfruttamento della prostituzione e la tratta, agli stessi fini, degli esseri umani. Il fine ultimo della norma è quello di salvaguardare la dignità umana e di perseguire l’obiettivo di valore costituzionale di protezione dell’ordine pubblico e della prevenzione dei reati, in quanto le persone dedite alla prostituzione sono vittime di tratta e di sfruttamento della prostituzione e che detti reali non si consumerebbero qualora non ci fossero richieste di prestazioni sessuali a pagamento.

Allo stesso modo la legge non viola la libertà d’impresa e quella contrattuale perché vengono salvaguardati i valori costituzionali di tutela della dignità umana, di salvaguardia dell’ordine pubblico e di prevenzione dei reati. 

5. Conclusioni

In Italia, come visto nei paragrafi precedenti, è vigente la legge Merlin e la prostituzione non è un reato ma rappresenta l’estrinsecazione della liberta di autodeterminazione dell’individuo tutelata e garantita dalla Costituzione.

A contrario sono perseguibili le condotte miranti all’induzione e al favoreggiamento della prostituzione.

Sarebbe, tuttavia, necessaria una regolamentazione puntuale dell’intero settore che nell’affermare la piena libertà delle persone che intendono dedicarsi a questa attività ne disciplini i diversi aspetti, ancora oggi non normati.


Note e riferimenti bibliografici

[1] F. ANTOLISEI, Manuale di Diritto penale, Milano, 2016.

[2] Corte di Strasburgo, 17 febbraio 2005. K.A. e A.D. c/Belgio, nn. 42758/98 e 45558/99.

[3] Cass. pen., sez. III, 2 settembre 2004, n. 35776.

[4] Corte Cost. 10-18 dicembre 1987, n. 561.

[5] A. CADOPPI, L’incostituzionalità di alcune ipotesi della legge Merlin e i rimedi interpretativi ipotizzabili, in Diritto penale contemporaneo n. 3, 2018.

[6] Tra le altre: Cass., sent. n. 4927/1986 e 1110/1958.

[7] Legge 20 febbraio 1958, n. 75.

[8] Relazione degli onorevoli Gonnella, Manco ed altri, 1° luglio 1959.

[9] Cass., 20 novembre 2013, n. 6373.

[10] Cass., 11 marzo 2003, n. 19644.

[11] S. MARANI, Favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, AltalexPedia, 2014.

[12] Cass.sent. n. 33615/2002 e n.18003/2019.

[13] Cass., 14 febbraio 2005, n. 5457.

[14] Cass. pen., sez. III, 3 aprile 2019, n. 21375.

[15] Cass. pen., sez. III, 29 marzo 2019, n. 25551.

[16] Cass. pen, sez. III, 19 marzo 2019, n.19660

[17] Cass. pen., sez. III, 7 marzo 2019, n.19207 e Cass. pen., sez. III, 15 febbario 2019, n.15502.

[18] Cass. pen., sez. III, 24 ottobre 2018, n. 741.

[19] Cass. pen., sez. III, 5 ottobre 2018, n. 54205.

[20] Cass. pen., sez. III, 31 maggio 2018, n. 39419.

[22] Comm. trib. prov. Milano, Sez. XLVII, 22 dicembre 2005, n. 272, “la difesa della ricorrente, basata sulla circostanza della non tassabilità dei redditi perché provento dell’attività di prostituta, va considerata idonea ad inficiare la pretesa erariale; infatti i proventi di tale attività non possono in alcun modo essere ascritti a nessuna categoria di reddito”, aggiungendo: “la verità è che, alla luce dell’attuale ordinamento, i proventi della prostituzione non possono essere considerati tecnicamente redditi, per cui la loro non assoggettibilità ad imposta è da considerare consequenziale”.

[23] Comm. trib. reg. Lombardia, 31 marzo 2006, n. 53.

[24] Risoluzione del Parlamento europeo 26 del febbraio 2014 su sfruttamento sessuale e prostituzione, e sulle loro conseguenze per la parità di genere (2013/2103(INI)). Al punto 1 la Risoluzione “riconosce che la prostituzione, la prostituzione forzata e lo sfruttamento sessuale sono questioni altamente legate al genere, nonché violazioni della dignità umana, contrari ai principi dei diritti umani, tra cui la parità di genere, e pertanto in contrasto con i principi della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, compresi l'obiettivo e il principio della parità di genere”;

[25] Cass. civile, sez. V, 13 maggio 2011, n. 10578 (CED Cassazione) “La natura dell'attività svolta è rilevante, invece, ai fini dell'I.V.A., che, in base al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 1 "si applica sulle cessioni dei beni e le prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell'esercizio d'imprese o nell'esercizio di arti e professioni e sulle importazioni da chiunque effettuale". In base al D.P.R. n. 633, art. 3, comma 1, in esame, "costituiscono prestazioni di servizi le prestazioni verso corrispettivo dipendenti da contratto d'opera, appalto, trasporto, mandato, spedizione, agenzia, mediazione, deposito e in genere da obbligazioni di fare, non fare e di permettere quale ne sia la fonte"; laddove il successivo art. 5, comma 1, specifica che "per esercizio di arti e professioni si intende l'esercizio per professione abituale, ancorchè non esclusiva, di qualsiasi attività di lavoro autonomo da parte di persone fisiche ovvero da parte di società semplici o di associazioni senza personalità giuridica costituite tra persone fisiche per l'esercizio in forma associata delle attività stesse".

A tale stregua, deve affermarsi l'assoggettabilità ad I.V.A. dell'attività di prostituzione, quando sia autonomamente svolta dal prestatore, con carattere di abitualità: seppur contraria al buon costume, in quanto avvertita dalla generalità delle persone come trasgressiva di condivise norme etiche che rifiutano il commercio per danaro del proprio corpo, l'attività predetta non costituisce reato, e consiste, appunto, in una prestazione di servizio verso corrispettivo, inquadrabile nell'ampia previsione contenuta nel secondo periodo del citato D.P.R. n. 633 del 1972, art. 3, comma 1”.

 [26] Cass., 27 luglio 2016, n. 15596 “La natura reddituale attribuita ex lege ai proventi delle attività illecite, con la conseguente tassabilità  quali “redditi diversi”, comporta, a maggior ragione, che venga riconosciuta natura reddituale all’attività di prostituzione, di per se’ priva di profili di illiceità (costituendo invece illecito penale ogni attività di favoreggiamento o sfruttamento della prostituzione altrui a norma della L. 20 febbraio 1958, n. 75, art. 3, attività parzialmente tutelata dallo stesso ordinamento civile che comprende la prestazione sessuale dietro corrispettivo nella categoria della obbligazione naturale, la quale, se non consente il diritto di azione, attribuisce alla persona che ha svolto l’attività di meretricio il diritto di ritenere legittimamente le somme ricevute in pagamento della prestazione (art. 2035 c.c.)”.

[27] Cass., 4 novembre 2016, n. 22413/2016

[28] Corte Cost., 6 marzo 2019, n. 141 Si assisterebbe, dunque, a una «“schizofrenia” giurisdizionale»: il giudice tributario pretende di tassare il reddito da meretricio al pari di quello delle altre attività lavorative autonome, in vista di un gettito fiscale; il giudice penale, invece, punisce chi, mediante condotte meramente agevolatrici, come il semplice reclutamento, facilita la produzione di detto reddito e del relativo gettito”.

[30]  Ordinanza n. 71 Corte d'appello di Bari cit. "escort" … “l’accompagnatrice ovvero la persona retribuita per accompagnare qualcuno e che è disponibile anche a prestazioni sessuali, con esclusione, quindi, di quelle forme di esercizio coattivo delia prostituzione ovvero necessitato da ragioni di bisogno”

[31] “Il fenomeno sociale della prostituzione professionale delle escort costituisce allora la novità che va a connotare il presente processo e che inevitabilmente pone la necessità di richiedere un nuovo vaglio di costituzionalità della Legge Merlin, concepita in un'epoca storica in cui il suddetto fenomeno non era di certo conosciuto e neppure concepibile”   

[32] Art. 14, comma 4, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, recante “Interventi correttivi di finanza pubblica”.

[33] Corte Cost., n. 225 del 2008, n. 333 del 1991 e n. 109 del 2016.

[34] Art. 50 comma 5 TUEL “In particolare, in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal sindaco, quale rappresentante della comunità locale. Le medesime ordinanze sono adottate dal sindaco, quale rappresentante della comunità locale, in relazione all'urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell'ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche. Negli altri casi l'adozione dei provvedimenti d'urgenza ivi compresa la costituzione di centri e organismi di referenza o assistenza, spetta allo Stato o alle regioni in ragione della dimensione dell'emergenza e dell'eventuale interessamento di più ambiti territoriali regionali”.

[35] Art. 2. “Interventi del sindaco “Ai sensi di quanto .disposto dall'art. 1, il sindaco interviene per prevenire e contrastare: a) le situazioni urbane di degrado o di isolamento che favoriscono l'insorgere di fenomeni criminosi, quali lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento  della prostituzione, l'accattonaggio con impiego di minori e disabili e i fenomeni di violenza legati anche all'abuso di alcool; b) le situazioni in cui si verificano comportamenti quali il danneggiamento  al patrimonio pubblico e privato o che ne impediscono la fruibilità e determinano lo scadimento della qualità urbana; c) l'incuria, il degrado e l'occupazione abusiva di immobili tali da favorire le situazioni indicate ai punti a) e b); d) le situazioni che costituiscono intralcio alla pubblica viabilità o che alterano il decoro urbano, in particolare quelle di abusivismo commerciale e di illecita occupazione di suolo pubblico; e) i  comportamenti che, come la prostituzione su strada o l'accattonaggio molesto, possono offendere la pubblica decenza anche per le modalità con cui si manifestano, ovvero turbano gravemente il libero utilizzo degli spazi pubblici o la fruizione cui sono destinati o che rendono difficoltoso o pericoloso l'accesso ad essi”.

[36] “Oltre le ordinanze i sindaci e la sicurezza urbana” pubblicata da Cittalia - Fondazione Anci ricerche nell’ambito del progetto “Piano di ricerche IFEL" su incarico della Fondazione IFEL. Marzo 2009

[37]Ordinanza del sindaco n. 242 del 16/09/2008 “Interventi di contrasto alla prostituzione su strada e tutela della sicurezza urbana”. 

[38] Delibera Assemblea Capitolina n 43 del 6/6/2019 e Delibera Giunta Capitolina n 132 del 5 luglio 2019 Regolamento di Polizia Urbana

[39] Ordinanza n° 2017/00275 del 14/09/2017 recante “Contrasto allo sfruttamento della prostituzione”

[40] C.d.S., sez. IV, 5 ottobre 2018, n. 5719:

[41] C.d.S., sez. IV, 6 giugno 2017, n. 2700;

[42] Ricorso ordinario n. 201901258 del 14/10/2019 - Sezione 1 avente ad oggetto “Modifica del Regolamento di polizia urbana del comune di massa limitatamente all’articolo 12 relativo a “prostituzione - comportamenti” - deliberazione del Consiglio comunale n. 25 del 15.05.2014, come modificato con delibera del Consiglio comunale n. 140 del 24.07.2019 pubblicata nell’albo on-line del comune di massa in data 26.07.2019 e consultabile sul sito ufficiale sino al 09.08.2019”.

[43] Cass. civile, sez. I, 22 luglio 2004, n. 13649; cfr. anche Cass. Civ., Sez. I, 20 ottobre 1991 n. 1195; 15 febbraio 1999 n. 1242; Sez. II, 1° giugno 2010 n. 13344.

[44] Ex multis Cass. civile, sez. II, 23 febbario 2009, n. 4377 “Premesso che il tentativo di illecito amministrativo non è sanzionabile, il Giudice rilevava….”

[45] Ministero dell’Interno “Osservatorio sulla prostituzione e sui fenomeni delittuosi ad essa connessi” Relazione sulle attività svolte - 1° Semestre 2007