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Pubbl. Mar, 30 Nov 2021
Sottoposto a PEER REVIEW

Osservatorio di Diritto Penale dell´Economia - Settembre/Ottobre 2021

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autori Andrea De Lia ,



Osservatorio bimestrale relativo alle principali sentenze emesse dalla Corte di Cassazione in tema di Diritto penale dell´economia. Periodo settembre-ottobre 2021.


ENG Observatory relating to the main sentences issued by the Court of Cassation on the subject of Criminal Law of the Economy - September-October 2021

Indice: 1) Illeciti tributari – Sequestro finalizzato alla confisca per equivalente; 2) Illeciti fallimentari – Differenza tra bancarotta fraudolenta e preferenziale nel caso di restituzione delle erogazioni operate dall’amministratore; 3) Infortuni sul lavoro – Responsabilità del datore in caso di macchinario difettoso; Altre pronunce in rassegna.

SENTENZE IN PRIMO PIANO

1) Illeciti tributari – Sequestro finalizzato alla confisca per equivalente

Cassazione, Sez. III, 6 luglio 2021, dep. 6 settembre 2021, n. 32897 – Pres. Di Nicola – Rel. Semeraro – P.M. Manuali (conf.) – Ric. C.G. – (rif. art. 12-bis d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74)

(omissis)

RITENUTO IN FATTO

1. Il difensore di C.G. ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza, con motivazione contestuale, emessa dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Gela del 23 settembre 2020 ex art. 444 c.p.p. Con unico motivo si deducono i vizi di violazione di legge e della motivazione sulla confisca disposta con la sentenza ex art. 444 c.p.p., non oggetto dell’accordo tra le parti, ed in violazione del d.lgs. n. 74/2000, artt. 12-bis e 13-bis.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato nel senso che segue.

1.1. La sentenza di applicazione della pena è stata emessa nei confronti del ricorrente per i reati di cui al d.lgs. n. 74/2000, artt. 2, 8 e 11.

Il giudice, per poter procedere alla confisca di cui al d.lgs. n. 74 del 2000, ex art. 12-bis, deve in primo luogo determinare, anche ove il processo sia definito ex art. 444 c.p.p., l’entità del profitto suscettibile di confisca.

Con la sentenza impugnata, in violazione di legge, non è stato determinato l’importo suscettibile di confisca quale profitto in relazione alle imputazioni.

1.2. Va ricordato che, con riferimento al reato d.lgs. n. 74/2000, ex art. 2, il profitto del reato dichiarativo di frode fiscale, suscettibile di confisca diretta o per equivalente, è costituito dal risparmio economico derivante dalla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale e non può avere ad oggetto le sanzioni dovute a seguito dell’accertamento del debito, che rappresentano, invece, il costo del reato stesso, derivante dalla sua commissione.

1.3. Il profitto del delitto di cui al d.lgs. n. 74 del 2000, art. 8 è costituito, invece, dal prezzo ottenuto per l’emissione delle fatture, cioè dal compenso pattuito o riscosso per eseguire il delitto, che può consistere tanto in un compenso in denaro, come per. lo più accade, o in qualsiasi altra utilità, economicamente valutabile ed immediatamente o indirettamente derivante dalla commissione del reato.

La giurisprudenza ha escluso che il profitto per il soggetto emittente coincida da un lato con il valore complessivo delle fatture emesse per le operazioni inesistenti e dall’altro nel valore corrispondente al profitto conseguito dall’utilizzatore delle stesse fatture, in quanto il regime derogatorio previsto dal d.lgs. n. 74/2000, art. 9 – escludendo la configurabilità del concorso reciproco tra chi emette le fatture per operazioni inesistenti e chi se ne avvale – impedisce l’applicazione in questo caso del principio solidaristico, valido nei soli casi di illecito plurisoggettivo.

1.4. Quanto invece al d.lgs. n. 74/2000, art. 11, il profitto, confiscabile anche nella forma per equivalente, del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, di cui al d.lgs. n. 74/2000, art. 11, è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione del reato e può, dunque, consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell’accertamento del debito tributario.

Il profitto, confiscabile anche nella forma per equivalente, del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte di cui al d.lgs. n. 74/2000, art. 11, va individuato nella riduzione simulata o fraudolenta del patrimonio del soggetto obbligato e, quindi, consiste nel valore dei beni idonei a fungere da garanzia nei confronti dell’amministrazione finanziaria che agisce per il recupero delle somme evase costituenti oggetto delle condotte artificiose considerate dalla norma.

Il profitto, pertanto, non va individuato nell’ammontare del debito tributario rimasto inadempiuto.

1.5. Dalla stessa sentenza impugnata risulta che all’imputato è stata applicata la circostanza attenuante d.lgs. n. 74/2000, ex art. 13-bis che sussiste se i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative ed interessi, siano estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento.

Per quanto qui interessa in relazione alla confisca, non è però specificato se tale integrale pagamento si riferisca ai fatti oggetto delle imputazioni; inoltre, il giudice è tenuto a verificare ed attestare che il pagamento effettuato si riferisca alle imputazioni ed elimini o riduca il profitto dei reati oggetto delle imputazioni.

1.6. Va infatti ribadito il principio per cui in tema di reati tributari, la disposizione di cui al d.lgs. n. 74 del 2000, art. 12-bis, comma 2, introdotta dal d.lgs. n. 158 del 2015, secondo cui la confisca diretta o di valore dei beni costituenti profitto o prezzo del reato “non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’Erario anche in presenza di sequestro”, deve essere intesa nel senso che la confisca così come il sequestro preventivo ad essa preordinato può essere adottata anche a fronte dell’impegno di pagamento assunto, producendo tuttavia effetti solo ove si verifichi l’evento futuro ed incerto costituito dal mancato pagamento del debito.

2. S’impone pertanto l’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio al Tribunale di Gela, limitatamente alla confisca, dovendo il giudice determinare l’entità del profitto del reati, secondo i principi di diritto prima enucleati; verificare quindi se gli importi versati in esecuzione dell’accordo con l’Agenzia delle Entrate si riferiscano alle imputazioni oggetto della sentenza di patteggiamento; nel caso in cui accerti che le somme versate si riferiscano alle imputazioni ridurre correlativamente l’importo del profitto confiscabile. L’entità del profitto potrebbe, per effetto dei versamenti effettuati, anche ridursi a zero, all’esito dell’accertamento.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente all’omessa quantificazione del profitto confiscabile e rinvia per nuovo esame sul punto al Tribunale di Gela.

Il principio di diritto: In tema di reati tributari, la disposizione di cui all’art. 12-bis, comma 2, d.lgs. n. 74 del 2000, secondo cui la confisca diretta o di valore dei beni costituenti profitto o prezzo del reato «non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro», deve essere intesa nel senso che la confisca – così come il sequestro preventivo a essa preordinato – può essere adottata anche a fronte dell’impegno di pagamento assunto, producendo tuttavia effetti solo ove si verifichi l’evento futuro e incerto costituito dal mancato pagamento del debito. Quindi, il sequestro e la conseguente confisca devono essere conservati fino all’integrale effettivo pagamento della somma evasa, potendo le rate già versate essere considerate solo ai fini della quantificazione della relativa misura.

Il caso ed il processo: l’imputato era stato riconosciuto responsabile, attraverso applicazione della pena su richiesta della parte, di alcuni delitti in materia tributaria. Di seguito, dunque, aveva spiegato ricorso per Cassazione, dolendosi, in particolare, della circostanza che il GIP avesse irrogato la confisca “d’ufficio”, non avendo formato essa oggetto dell’accordo intervenuto con il P.M. Si era, inoltre, lamentata la violazione degli artt. 12-bis e 13-bis d.lgs. n. 74/2000, anche in ragione della mancata ponderazione, da parte del giudice a quo, delle somme nelle more versate all’Erario.

La soluzione resa dalla Corte: la Cassazione ha annullato la sentenza impugnata.

In particolare, la Cassazione ha rimarcato che, in violazione dell’art. 12-bis, il GIP che aveva emesso la sentenza di patteggiamento non aveva quantificato la somma oggetto di confisca.

In secondo luogo, la suprema Corte ha rimarcato che in sede di applicazione della pena fosse stata concessa l’attenuante di cui all’art. 13-bis d.lgs. n. 74/2000, che si integra con l’integrale pagamento delle somme dovute all’Erario prima della dichiarazione di apertura del dibattimento. Talché, il provvedimento oggetto di gravame è stato dichiarato illegittimo anche al cospetto della disposizione dianzi richiamata, non avendo precisato il giudice a quo se fosse effettivamente intervenuto il pagamento a saldo per le voci di credito oggetto dei capi di imputazione, con ogni consequenziale effetto, ancora una volta, sulla confisca.

 Talché la sentenza è stata annullata con rinvio, investendosi il giudice ad quem dell’onere di pronunciarsi nuovamente, alla luce degli elementi disponibili e delle norme di riferimento, in ordine alla confisca.

Gli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali sul tema: l’art. 12-bis d.lgs. n. 74/2000, introdotto dal d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158, stabilisce, al comma 1, che la condanna e l’applicazione della pena a richiesta delle parti per uno dei reati previsti dal d.lgs. n. 74/2000 cit. comportano la confisca obbligatoria del prezzo e del profitto, laddove l’art. 445 c.p.p. al comma 1 contempla la confisca disposta ai sensi dell’art. 240 c.p. Così, la Cassazione, in altre occasioni, ha stabilito che laddove la confisca sia prevista dalla legge come obbligatoria, deve essere disposta con la sentenza di applicazione della pena di cui all’art. 444 c.p.p. anche quando essa non abbia formato oggetto dell’accordo tra le parti, tanto che l’eventuale omissione di qualsiasi statuizione sul punto integra un’ipotesi di illegalità che legittima il P.M. al ricorso per cassazione avverso la sentenza di patteggiamento, ai sensi dell' art. 448, comma 2-bis, c.p.p. (Cass., Sez. V, 11 gennaio 2019, n. 19735).

Secondo la Corte, inoltre, qualora la sentenza irrevocabile di applicazione della pena su richiesta delle parti non vi abbia provveduto, in sede di esecuzione è consentito, in forza del disposto di cui all’art. 676 c.p.p., disporre la confisca obbligatoria del profitto del reato (Cass., Sez. I, 11 dicembre 2019, n. 282).

Si rammenta che sul tema dell’applicazione “extra-patto” di misure di sicurezza si sono soffermate con ampia sentenza le Sezioni Unite con sentenza Cass., Sez. Un., 26 settembre 2019, n. 21368, “Savin”, che ha ribadito la possibilità per il giudice, in sede di emissione della sentenza di patteggiamento, di irrogare ex officio la confisca obbligatoria, pur rilevando la ricorribilità per cassazione per vizio di motivazione della sentenza, con riferimento alle misure che non abbiano formato oggetto dell’accordo delle parti, laddove la decisione sul punto non risulti “a rime obbligate”. Sul tema dell’applicazione della pena a richiesta delle parti ed i poteri officiosi del giudice sulle misure di sicurezza, vd. Nacar, Il ricorso per cassazione contro le misure accessorie inflitte con la sentenza di patteggiamento, in Giur. It., 2020, pp. 2261.

La sentenza qui in disamina, inoltre, contiene un interessante “vademecum” sull’oggetto della confisca nei reati tributari contestati all’imputato, a partire dall’art. 2 d.lgs. n. 74/2000, in tema di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. In questo caso la Corte ha rilevato che la confisca potrebbe avere ad oggetto il c.d. “risparmio di spesa”, individuato nella somma evasa, dovuta all’Erario, con esclusione delle sanzioni amministrative.

Tale dictum si pone in linea con altri precedenti della Corte, come ad esempio Cass., Sez. III, 20 gennaio 2017, n. 28047, per la quale «in tema di reati tributari, il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente è costituito dal risparmio economico derivante dalla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale, che costituisce profitto del reato dichiarativo di frode fiscale di cui all’art. 2 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 e non può avere ad oggetto le sanzioni dovute a seguito dell’accertamento del debito, che rappresentano, invece, il costo del reato stesso, derivante dalla sua commissione».

Si tratta, evidentemente, di un principio che si sta progressivamente affermando negli ultimi tempi, con il superamento di alcune soluzioni contrarie espresse in precedenza dalla suprema Corte, per le quali, in effetti, non vi sarebbero state differenze tra le confische operabili in relazione ai vari reati tributari, potendosi queste estendere, secondo tale linea esegetica, tour court, a imposta evasa, sanzioni ed interessi (vd. Cass., Sez. III, 9 febbraio 2017, n. 28077; si tratta, per il vero di un filone che consolidatosi per l’effetto della laconicità della sentenza Cass., Sez. Un., 31 marzo 2013, n. 18374, “Adami”).

Quanto all’ipotesi “speculare” di cui all’art. 8 d.lgs. n. 74/2000, la Corte ha (condivisibilmente) rilevato, nella sentenza in commento, che l’oggetto della confisca operabile in base al già citato art. 12-bis sarebbe rappresentato dal prezzo versato alla “cartiera”, come compenso per l’emissione della documentazione falsa, utilizzata dall’accipiens per evadere le imposte; ciò, in ragione dell’art. 9 del medesimo d.lgs. n. 74/2000 che, in effetti, deroga alle disposizioni generali in tema di concorso di persone nel reato. Tale soluzione si colloca, per l’effetto, in linea con Cass., Sez. III, 20 luglio 2016, n. 35459, a mente della quale «in materia di emissione di fatture per operazioni inesistenti, il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente non può essere disposto sui beni dell’emittente per il valore corrispondente al profitto conseguito dall’utilizzatore delle fatture medesime poiché il regime derogatorio previsto dall’art. 9 d.lgs. n. 74 del 2000 impedisce l’applicazione del principio solidaristico, valido nei soli casi di illecito plurisoggettivo» (analogamente Cass., Sez. III, 5 maggio 2016, n. 43952; Cass., Sez. III, 4 febbraio 2016 , n. 15458; Cass., Sez. III, 22 aprile 2015, n. 30168).

Quanto al delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (art. 11 d.lgs. n. 74/2000), invece, la confisca potrebbe avere ad oggetto – secondo la pronuncia in commento – i beni sottratti alle ragioni creditorie del fisco, per un ammontare pari all’imposta evasa, sanzioni e interessi, poiché tali voci sarebbero corrispondenti al risparmio di spesa. Tale soluzione si pone in linea di continuità con diverse altre pronunce, tra cui se segnala Cass., Sez. V, 10 novembre 2011, n. 1843: «in tema di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, il profitto confiscabile, anche nella forma per equivalente, è costituito da qualsiasi vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione dell’illecito e può dunque consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento degli interessi e delle sanzioni dovute in seguito all’accertamento del debito tributario».

Il tentativo giurisprudenziale più compiuto per motivare la diversa estensione della confisca nel contesto dell’art. 11 d.lgs. n. 74/2000 si rinviene, allora, in Cass. n. 28047/2017 cit. che ha rilevato, in premessa, come tanto la sentenza “Adami” quanto quella “Gubert” delle Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 30 gennaio 2014, n. 10561), nell’identificare il risparmio di spesa con gli importi evasi, sanzioni ed interessi nel loro complesso, fossero intervenute, per l’appunto, in ordine al delitto di sottrazione fraudolenta.

Sulla base di tale rilievo preliminare, la Corte ha poi rilevato che l’attività distrattiva dei beni, finalizzata a rendere infruttuosa la procedura di riscossione, comporterebbe un “risparmio di spesa” più esteso rispetto alla mera somma evasa, «dato che la condotta illecita è finalizzata ad evitarne complessivamente il pagamento. Proprio perché la condotta illecita addebitata» è quella di «sottrazione fraudolenta dei beni quale possibile oggetto di apprensione da parte dell’Erario a fronte, per di più, di intervenuto accertamento di un debito fiscale con computo anche delle sanzioni collegate, il profitto, corrispondente al valore dei beni idonei a fungere da garanzia nei confronti dell’amministrazione finanziaria per l’Erario» dovrebbe «essere parametrato, in tal caso, anche alle già calcolate sanzioni volendo il contribuente sottrarsi appunto anche ad esse. Con riferimento invece ai reati dichiarativi (come quelli nella specie contestati di cui all’art. 2) caratterizzati dalla evasione di imposta, la sanzione, lungi dal potere rientrare nel concetto di profitto del reato è, esattamente al contrario, il costo del reato stesso, originato infatti dalla sua commissione e, per tale ragione, necessariamente successivo ad essa; sicchè, in proposito, si è efficacemente affermato in dottrina, essere, anzi, la sanzione, alla pari, del resto, degli interessi, la antitesi obliteratrice, in funzione deterrente, della convenienza del delitto».

Sul tema della confisca nel settore degli illeciti penal-tributari, vd., nella ampissima letteratura, Bartoli, Brevi considerazioni in tema di condisca del profitto, 26 ottobre 2016, in www.penalecontemporaneo.it; Piergallini, Responsabilità dell’ente e pena patrimoniale: la Cassazione fa opera nomofilattica, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2014, pp. 998 ss; Paliero-Mucciarelli, Le Sezioni Unite e il profitto confiscabile: forzature semantiche e distorsioni ermeneutiche, 20 aprile 2015, in www.penalecontemporaneo.it; Veneziani, La confisca obbligatoria nel settore penale tributario, in Cass. Pen., 2017, 1694 ss. Sia inoltre consentito il rinvio, per un quadro generale della confisca in materia tributaria e per l’emergente questione della confisca c.d. “senza condanna”, De Lia, Confisca senza condanna e diritto intertemporale: il caso dell’estinzione del reato di omesso versamento dell’IVA per intervenuta prescrizione, in Riv. Dir. Trib., 2021, pt. III, pp. 164 ss.


2) Illeciti fallimentari – Differenza tra bancarotta fraudolenta e preferenziale nel caso di restituzione delle erogazioni operate dall’amministratore

Cassazione, Sez. V, 21 giugno 2021, dep. 6 settembre 2021, n. 32930 – Pres. Di Gregorio – Rel. Brancaccio – P.M. Loy (diff.) – Ric. P.M.V. – (rif. art. 216 r.d. 16 marzo 1942, n. 267)

(omissis)

RITENUTO IN FATTO

1. Con la decisione in epigrafe, la Corte d’appello di Milano, in parziale riforma della sentenza del GUP del Tribunale di Milano del 26 gennaio 2018, ha rideterminato la pena inflitta a P.M.V. in anni uno e mesi sei di reclusione, rimodulando anche le pene accessorie previste dall’art. 216 ultimo comma LF nella durata di cinque anni, per il reato di bancarotta fraudolenta distrattiva, avente ad oggetto la somma di 75.000 euro, incassate dalla stessa a titolo di rimborso anticipazioni amministratore dalla società, dichiarata fallita il 21 giugno 2016, della quale l’imputata era stata legale rappresentate dal 21 novembre 2014.

2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso l’imputata, tramite il difensore di fiducia, deducendo un unico motivo con cui eccepisce la mancata riqualificazione della condotta di reato in bancarotta preferenziale, avendo ella incassato le somme in contestazione per soddisfare parzialmente un proprio credito certo, liquido ed esigibile verso la società.

Ed invero, la Corte d’appello, cui era stato proposto analogo motivo di impugnazione, ha condiviso l’impostazione difensiva sulla doppia veste di amministratrice della fallita e, parallelamente, di sua creditrice di essa, visti i versamenti di somme di danaro da lei effettuati sul conto postale della società per il pagamento di debiti sociali (rate di debiti tributari; compensi professionali ed altre spese della società fallita). Ciononostante, i giudici di secondo grado hanno ritenuto che la qualità di creditrice dell’imputata dovesse essere minusvalente rispetto alla responsabilità di amministratore che gravava su di lei e che dava luogo sempre e comunque a configurare a suo carico il delitto di bancarotta fraudolenta distrattiva.

La tesi della ricorrente, invece, è che andrebbe applicata alla fattispecie concreta la giurisprudenza di legittimità che ritiene essenziale verificare se i crediti vantati dall’amministratore della fallita derivino da mutuo oppure da versamenti in conto capitale, poiché nel primo caso l’amministratore dovrà rispondere di bancarotta preferenziale e non distrattiva per il rimborso dei finanziamenti a suo favore.

Si segnala l’esistenza di un contrasto tra due orientamenti di questa Corte di legittimità, esistendo diversa tesi – cui si è ispirata la sentenza impugnata – che ritiene, di contro, configurabile sempre il reato di bancarotta fraudolenta distrattiva, in caso di recupero di finanziamenti conferiti alla società fallita, a qualsiasi titolo, da parte dell’amministratore o rappresentante legale.

3. La ricorrente ha depositato conclusioni scritte con le quali ha chiesto l’accoglimento del ricorso, ribadendo che il credito dell’imputata deriva da finanziamento non in conto capitale ma da prestito, non essendo, peraltro, l’imputata neppure socia della fallita.

La difesa contesta le opposte conclusioni del PG, il quale aderisce all’orientamento più rigido, che ritiene configurabile sempre e comunque il reato di bancarotta distrattiva in caso di rimborsi di finanziamenti all’amministratore o rappresentante legale.

4. Il Sostituto Procuratore Generale Francesca Loy ha chiesto il rigetto del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato.

2. La giurisprudenza di legittimità e, in particolare, quella di questa Sezione, ha tracciato linee ben definite per distinguere i casi nei quali deve ritenersi configurabile il reato di bancarotta fraudolenta distrattiva ovvero quello di bancarotta fraudolenta preferenziale. La complessità della materia e delle fattispecie concrete che possono delinearsi all’esame giurisdizionale hanno indotto, invero, ad una serie di equivoci ed anche a ritenere la sussistenza di un contrasto interpretativo sul tema giuridico proposto dalla ricorrente, contrasto che, invece, il Collegio non rileva, quanto meno negli arresti più recenti (né emerge con certezza neppure dall’analisi delle motivazioni delle sentenze meno recenti).

In un’ottica di sintesi, che può aiutare a fare chiarezza pur nella rilevata complessità del tema, possono essere individuate tre direttrici ermeneutiche stilate dalle pronunce di legittimità, corrispondenti a tre distinte, principali fattispecie; alla loro base, una comune ratio di discrimine: gli amministratori o i soci risponderanno di bancarotta distrattiva o di bancarotta preferenziale a seconda della ragione creditoria soddisfatta attraverso il prelievo di somme durante la fase di dissesto della fallita.

Pertanto:

a) il prelievo di somme a titolo di restituzione di versamenti, operati dai soci in favore della società poi fallita, in conto capitale integra la fattispecie di bancarotta fraudolenta per distrazione, poiché tali versamenti non danno luogo ad un credito liquido ed esigibile nel corso della vita della società e, nei loro riguardi, opera il criterio di postergazione previsto dall’art. 2467 c.c.

Nelle pronunce più tradizionali dell’opzione in esame, che tuttavia trovano eco ancora recenti, la qualificazione giuridica come condotte di bancarotta fraudolenta distrattiva delle restituzioni che l’amministratore liquidi in favore di sé stesso nel periodo di dissesto ruota intorno all’elemento soggettivo del reato, piuttosto che alla natura del credito, ma non smentisce l’approdo suddetto: nel caso in cui il creditore si identifichi nello stesso soggetto che assume le vesti di amministratore della società, infatti, si sottolineava il significato ben diverso e più grave della sua condotta rispetto alla mera volontà di privilegiare un creditore in posizione paritaria rispetto a tutti gli altri;

b) il prelievo di somme quale restituzione di versamenti operati dai soci a titolo di mutuo o prestito integra la fattispecie di bancarotta preferenziale: in tal caso, i finanziamenti, non avendo natura di conferimenti di capitale di rischio, rappresentano il sorgere di un effettivo ed esigibile credito (chirografario) in capo ai soci, senza che da ciò consegua effettivo depauperamento dell’asse patrimoniale;

c) il prelievo di somme da parte dell’amministratore a titolo di pagamento per le prestazioni lavorative svolte in favore della società poi fallita, durante il periodo di dissesto, integra il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione e non quello di bancarotta preferenziale, non essendo scindibile la sua qualità di creditore da quella di amministratore, qualora, anche per l’assenza di deliberazione assembleare che stabilisca la misura dei suoi compensi, i prelievi di somme in pagamento dei crediti verso la società in dissesto non sono definiti nella loro congruità e non sono fondati su dati ed elementi di confronto che ne consentano un’adeguata e oggettiva valutazione.

Gli orientamenti che si sono passati in rassegna, dunque, solo apparentemente divergono, laddove invece si riferiscono a diverse ipotesi, che richiedono soluzioni differenti.

2.1. Nel caso di specie, il ricorso evidenzia che il versamento del cui rimborso l’imputata è accusata, configurato come delitto di bancarotta distrattiva, era stato corrisposto a titolo di prestito e, dunque, avrebbe dovuto essere inquadrato, più correttamente, quale delitto di bancarotta preferenziale, previa verifica della natura del conferimento.

La Corte d’appello, dal canto suo, non si è occupata di discernere la natura del versamento corrisposto dalla ricorrente alla società, ma ha ritenuto di aderire all’orientamento di legittimità che, a suo dire, professerebbe in ogni caso la configurabilità del delitto di bancarotta distrattiva nell’ipotesi di prelievi da parte del socio o dell'amministratore che sia anche creditore della fallita.

La censura della ricorrente è centrata.

Si è poc’anzi evidenziato che non può ritenersi esistente un orientamento interpretativo attuale che proponga sempre, tout court, indipendentemente dalla natura del credito vantato, la sussistenza del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione, in presenza di un prelievo di somme da parte dell’amministratore o del socio della fallita, durante il periodo di dissesto.

(omissis)

2.2. Alla luce di quanto si è sinora chiarito, il Collegio evidenzia come, nel caso di specie, il giudice d’appello avrebbe dovuto ispirarsi al principio di diritto secondo cui, in tema di reati fallimentari, mentre il prelievo di somme a titolo di restituzione di versamenti operati dai soci in conto capitale (o indicati con analoga dizione) integra la fattispecie della bancarotta fraudolenta per distrazione, non dando luogo tali versamenti ad un credito esigibile nel corso della vita della società, viceversa, il prelievo di somme quale restituzione di versamenti operati dai soci a titolo di mutuo integra la fattispecie di bancarotta preferenziale.

L’erogazione di somme che a vario titolo i soci effettuano alle società da loro partecipate, infatti, in generale, può avvenire a titolo di mutuo, con il conseguente obbligo per la società di restituire la somma ricevuta ad una determinata scadenza, oppure di versamento, destinato ad essere iscritto non tra i debiti, ma a confluire in apposita riserva “in conto capitale” (o altre simili denominazioni), versamento, quest’ultimo, che non dà luogo ad un credito esigibile, se non per effetto dello scioglimento della società e nei limiti dell’eventuale attivo del bilancio di liquidazione, ed è più simile al capitale di rischio che a quello di credito, connotandosi proprio per la postergazione della sua restituzione al soddisfacimento dei creditori sociali e per la posizione del socio quale residuo claimant.

(omissis)

3. Si impone, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata per nuovo esame, affinché la Corte d’appello si adegui al principio di diritto affermato come sopra, evidenziando le ragioni specifiche di configurabilità del reato di bancarotta distrattiva o preferenziale, rapportandole al titolo causale dei conferimenti effettuati dal legale rappresentante della fallita, che, secondo la prospettazione evincibile dalla stessa sentenza impugnata e dal ricorso, si rivelerebbero avere natura di “prestiti” o “mutui” e non di conferimenti in conto capitale.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo esame ad altra Sezione della Corte d’appello di Milano.

Il principio di diritto: In tema di reati fallimentari, il prelievo di somme di denaro a titolo di restituzione di versamenti operati dai soci in conto capitale (o indicati con analoga dizione) integra la fattispecie della bancarotta fraudolenta per distrazione, non dando luogo tali versamenti ad un credito esigibile nel corso della vita della società, mentre, invece, il prelievo di somme quale restituzione dei versamenti operati dai soci a titolo di mutuo integra la fattispecie di bancarotta preferenziale.

Il caso ed il processo: in sede di merito, l’imputata era stata riconosciuta responsabile del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione impropria ex artt. 216 e 223 LF per aver prelevato, nella qualità di amministratrice di una società a responsabilità limitata, delle somme dalle casse sociali dell’impresa dichiarata fallita nell’anno 2016, a titolo di restituzione di precedenti erogazioni eseguite in favore dell’ente.

Avverso la sentenza di condanna, dunque, era insorta l’interessata, rilevando che, contrariamente a quanto sostenuto in alcuni arresti giurisprudenziali di legittimità, l’amministratore di un’impresa, poi dichiarata fallita, per il fatto contestato, trattandosi di restituzione di somme in precedenza erogate a titolo di mutuo in favore della società, dovrebbe rispondere di bancarotta preferenziale e non della più grave figura distrattiva, che si potrebbe concretizzare – ad avviso della ricorrente – solo nel caso di prelievo di somme non dovute o comunque erogate “in conto capitale”.

Nel caso di specie – aveva proseguito l’imputata – il prelievo contestato aveva trovato origine in finanziamenti elargiti dall’amministratrice in favore della società per far fronte ad esigenze contingenti, quali il pagamento di alcuni debiti tributari, con la conseguenza che la sentenza della Corte territoriale oggetto di gravame, nel confermare la sentenza del giudice di prime cure, avrebbe errato nella qualificazione giuridica del fatto, anche in considerazione della circostanza che l’imputata non rivestiva neppure la veste di socia, con ogni consequenziale effetto circa la destinazione dell’erogazione in favore dell’ente.

Talchè, in riforma della prefata pronuncia, si era invocato l’accoglimento del ricorso.

La soluzione resa dalla Corte: la Cassazione ha accolto il ricorso, annullando la sentenza ed investendo la Corte territoriale dell’approfondimento della finalità delle erogazioni concesse dall’imputata in favore della società; in particolare, la Corte ha rilevato che la giurisprudenza più recente avrebbe ben delineato la qualificazione giuridica delle restituzioni, comunque illecite, di somme in favore dell’amministratore, allorquando quest’ultimo vanti un reale credito, pregresso, nei confronti dell’impresa.

In particolare, le ipotesi indicate dalla suprema Corte sono essenzialmente tre:

a) l’amministratore preleva somme in precedenza erogate dal medesimo soggetto in favore dell’impresa a titolo di mutuo;

b) il soggetto preleva somme in passato erogate all’impresa “in conto capitale”;

c) l’amministratore preleva somme dalle casse della società assumendo di essere creditore per l’attività lavorativa svolta e, quindi, a titolo di emolumenti.

La Corte, allora, ha rimarcato che soltanto nel caso di restituzione di somme versate “in conto capitale” in favore dell’impresa poi dichiarata fallita si sarebbe al cospetto di atti qualificabili in termini di bancarotta fraudolenta per distrazione; di contro, nel caso di restituzione di somme erogate a titolo di finanziamento, si sarebbe al cospetto di crediti certi ed esigibili, tanto che la relativa operazione di retrocessione sarebbe qualificabile in termini di bancarotta preferenziale.

Quanto, infine, ai pagamenti effettuati dall’amministratore in favore di sé stesso, a titolo di compenso per l’attività svolta per l’ente, la Corte ha sottolineato che tali condotte sostanzierebbero la bancarotta distrattiva solo nel caso in cui la retribuzione non sia stata fissata in ordine al quantum da specifica delibera assembleare o, comunque, non risulti determinabile in maniera certa.

Gli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali sul tema: il ragionamento condotto dalla Cassazione, nella sentenza in commento, è che (alla luce di quanto dispone l’art. 2467 comma 1 c.c. in tema di finanziamento dei soci nelle società a responsabilità limitata, peraltro estensibile a tutte le altre forme di società di capitali: cfr. Cass., Sez. I Civ., 20 giugno 2018, n. 16291), nel caso di erogazioni a titolo di mutuo (c.d. “finsoci”), la successiva restituzione in favore del concedente, avendo ad oggetto crediti “postergati” (rispetto alla soddisfazione di altri creditori), ma comunque esigibili da parte dell’accipiens, sostanzierebbe bancarotta preferenziale; di contro, nel caso di versamento “in conto capitale”, trattandosi di somme che – ad avviso della Corte – non genererebbero in capo all’erogante un credito, per l’appunto, esigibile, durante la vita della società, l’eventuale, successiva restituzione rileverebbe in termini di distrazione.

Non è questa la sede, allora, per affrontare ex professo il tema della posizione del concedente il finanziamento e del conferente (in argomento vd. Leone, Contributi in conto capitale: generalità della fattispecie e invalidità della delibera di restituzione ai soci, in Giur. Comm. Soc., 2009, pp. 453 ss; Odcec Genova, I versamenti dei soci: tra finanziamenti e conferimenti di patrimonio, novembre 2017, reperibile sul sito web dell’Ordine professionale); fatto è che il quadro, dal punto di vista civilistico, appare assai più complesso rispetto a quello delineato dalla Cassazione nella sentenza in commento, poiché se da un lato non è sempre vero che il conferente non abbia diritto alla restituzione del conferimento “in conto capitale” (vd. ad esempio Cass., Sez. I Civ., 3 dicembre 2018, n. 31186: «in tema di società di capitali, le erogazioni in conto di futuro aumento di capitale in favore della società, condizionate all’adozione della relativa delibera di aumento capitale entro un determinato termine, nel caso di mancata adozione della delibera determinano a carico della società l’obbligo di restituzione di quanto erogato dal a tale titolo»), dall’altro non è incontroverso che il credito derivante dal finanziamento in favore della società, operato in base all’art. 2467 comma 1 c.c., sia esigibile nel corso della vita dell’impresa, specie laddove il credito restitutorio a tale titolo concorra con quello di terzi, in un momento di crisi (vd. Cass., Sez. I Civ., 23 luglio 2021, n. 21239: «in tema di finanziamento dei soci in favore della società, la postergazione disposta dall’art. 2467 c.c. opera già durante la vita della società e non solo nel momento in cui si apra un concorso formale con gli altri creditori sociali, integrando una condizione di inesigibilità legale e temporanea del diritto del socio alla restituzione del finanziamento sino a quando non sia superata la situazione di difficoltà economico-finanziaria prevista dalla norma; ne consegue che la società è tenuta a rifiutare al socio il rimborso del finanziamento, in presenza della indicata situazione, ove esistente al momento della concessione del finanziamento, ed a quello della richiesta di rimborso, che è compito dell’organo gestorio riscontrare mediante la previa adozione di un adeguato assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società, in grado di rilevare la situazione di crisi»).

La questione affrontata dalla Corte con la sentenza in commento è, peraltro, assai particolare poiché dal testo della motivazione risulterebbe che l’imputata non rivestisse la qualifica di socio, ma soltanto quella di amministratrice della società successivamente dichiarata fallita. Sicchè, se da una parte l’erogazione di somme “in conto capitale” non è operazione affatto riservata ai soci (cfr. MANZO, L’aumento di capitale mediante compensazione tra il debito da conferimento ed il credito vantato dal socio nella s.r.l., in Notariato, 2013, pp. 457 ss), dall’altra la carenza di tale qualifica sarebbe d’ostacolo alla sottoposizione dell’erogazione alla disciplina dell’art. 2467 c.c. e, quindi, alla postergazione.

Per il resto, valga la pena considerare che l’illegittima restituzione dei conferimenti sostanzia in capo agli amministratori il delitto di cui all’art. 2626 c.c. e, in caso di fallimento, al ricorrere dei relativi presupposti, il reato di bancarotta fraudolenta da reato societario (art. 223 comma 2 n. 2 LF), punito come la bancarotta per distrazione.

Indipendentemente da quanto sopra esposto, occorre osservare che la soluzione sposata dalla Corte nella sentenza in commento è tutt’altro che pacifica in giurisprudenza. Talora, infatti, in tema di finanziamento-soci, si è affermato che «integra il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione e non quello di bancarotta preferenziale, la condotta dell’amministratore di una società che proceda al rimborso di finanziamenti da lui erogati in qualità di socio in violazione della regola della postergazione di cui all’articolo 2467 c.c. (Cass., Sez. V, 30 aprile 2021, n. 24588; Cass., Sez. V, 20 febbraio 2019, n. 25773).

Ancora, per questo orientamento contrario, si segnala Cass., Sez. V, 14 giugno 2018, n. 50495, per la quale «in tema di bancarotta fraudolenta, l’amministratore della società che, in periodo di dissesto, soddisfi un proprio credito quale socio finanziatore integra il reato di bancarotta per distrazione e non quello di bancarotta preferenziale, poiché nel contesto di riferimento la restituzione assume un significato diverso e più grave rispetto alla mera volontà di privilegiare un creditore in posizione paritaria rispetto a tutti gli altri».

Di contro, sulla linea sposata nell’occasione dalla Corte, si veda Cass., Sez. V, 12 febbraio 2021, n. 13062: «il prelievo di somme a titolo di restituzione di versamenti operati dai soci in conto capitale (o indicati con analoga dizione) integra la fattispecie della bancarotta fraudolenta per distrazione, non dando luogo tali versamenti ad un credito esigibile nel corso della vita della società; al contrario, il prelievo di somme quale restituzione di versamenti operati dai soci a titolo di mutuo integra la fattispecie di bancarotta preferenziale» (analogamente Cass., Sez. V, 20 novembre 2020, n. 852; Cass., Sez. V, 1 febbraio 2019, n. 8431).

Si segnala, inoltre, sempre per la linea esegetica accolta nella sentenza in disamina, Cass., Sez. V, 16 settembre 2019, n. 49136, per la quale «la restituzione ai soci dei versamenti in conto capitale (o “in conto futuro aumento di capitale”) integra la bancarotta fraudolenta per distrazione, ai sensi degli artt. 223, comma 1, e 216, comma 1, n. 1, LF e non il delitto di bancarotta fraudolenta da reato societario, previsto dal combinato disposto degli artt. 223, comma 2, n. 1, LF e 2626 c.c. (indebita restituzione dei conferimenti), in quanto detti versamenti, confluendo in un’apposita riserva, non incrementano immediatamente il capitale sociale e, diversamente dai conferimenti, non attribuiscono alle somme che ne formano oggetto lo statuto penalistico proprio del capitale sociale, con l’ulteriore precisazione per cui, al contrario, il prelievo di somme, quale restituzione di versamenti operati dai soci a titolo di mutuo, integra la fattispecie di bancarotta preferenziale».

Quanto, invece, al diverso tema del pagamento degli emolumenti, la soluzione prospettata dalla Corte (per la quale la sussistenza del credito, indipendentemente da una delibera formale di determinazione del compenso spettante, in caso di versamento in favore dell’amministratore, integrerebbe bancarotta preferenziale e non la più grave ipotesi di distrazione), anche in questo caso, si inserisce in un quadro assai caotico: cfr., per la soluzione della rilevanza, in ogni caso, a titolo di bancarotta fraudolenta, Cass., Sez. Fer., 13 agosto 2020, n. 27132: «integra il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione e non quello di bancarotta preferenziale, la condotta dell’amministratore di una società che si appropri di somme della società a titolo di pagamento per le prestazioni lavorative svolte in favore di quest’ultima, non essendo scindibile la sua qualità di creditore da quella di amministratore».

Per una soluzione analoga a quella sposata dalla sentenza in rassegna, invece, vd. Cass., Sez. V, 12 aprile 2018, n. 32378: «risponde del reato di bancarotta preferenziale e non di bancarotta fraudolenta per distrazione il liquidatore che disponga in proprio favore il pagamento del compenso proporzionato alla quantità e alla qualità dell’attività prestata, ma in assenza di una corrispondente delibera societaria» (in motivazione, la Corte ha precisato che il delitto di bancarotta fraudolenta ricorrerebbe, invece, nel caso in cui l’amministratore si auto-attribuisse un compenso sproporzionato).

La soluzione offerta dalla Corte, nel caso di specie, è in linea anche con Cass., Sez. V, 15 gennaio 2018, n. 3797: «integra il reato di bancarotta preferenziale, laddove sussista violazione della par condicio creditorum, e non per distrazione, la condotta dell’amministratore della società fallita che abbia soddisfatto il proprio credito per compensi e rimborsi spese, quando di tali importi sia accertata la congruità. Risponde viceversa di bancarotta fraudolenta per distrazione l’amministratore della società poi fallita che abbia ottenuto il pagamento di somme a titolo di compensi e spese in assenza di delibera assembleare o di altri elementi idonei a fondare un giudizio di congruità delle somme prelevate».

La Corte, in definitiva, con la sentenza in rassegna, sostanzialmente, intervenendo sul caso concreto, ha cercato di “far ordine” sulle questioni evocate, sulle quali, tuttavia, si auspica il futuro intervento delle Sezioni Unite onde dirimere l’evidente conflitto giurisprudenziale, anche attraverso il necessario approfondimento delle questioni civilistiche sottendenti.

Sulla controversa questione del pagamento in favore di sé stesso degli emolumenti, in termini di bancarotta fraudolenta o preferenziale, il contrasto giurisprudenziale è segnalato anche da Corbo, Questioni controverse nella giurisprudenza di legittimità, in Cass. Pen., 2018, pp. 3570 ss; quanto alla definizione dei limiti tra bancarotta per distrazione e preferenziale vd. anche Gambardella, I reati di bancarotta: inquadramento dogmatico, opzioni interpretative e prospettive di riforma, in Cass. Pen., 2018, pp. 2316 ss; Chiaraviglio G., Tre recenti significative pronunce della V Sezione della Corte di Cassazione concernenti il profitto confiscabile, la nozione di distrazione nella bancarotta fraudolenta patrimoniale, la bancarotta preferenziale, in Riv. Dott. Comm., 2020, pp. 470 ss.


3) Infortuni sul lavoro – Responsabilità del datore in caso di macchinario difettoso

Cassazione, Sez. IV, 19 ottobre 2021, dep. 27 ottobre 2021, n. 38424 – Pres. Ciampi – Rel. Nardin – P.M. Pedicini (conf.) – Ric. C.I. e alt. – (rif. art. 590 c.p.)

(omissis)

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 26 maggio 2020 la Corte di appello di Bologna ha confermato la sentenza del Tribunale di Piacenza, resa in sede di giudizio abbreviato, con la quale C.C. ed C.I., in qualità di soci della C. s.n.c. e datori di lavoro, sono stati ritenuti responsabili del reato di cui all’art. 590 c.p. per avere con colpa consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia, e nella violazione del d.lgs. n. 81 del 2008, artt. 37 e 70, comma 2, non assicurando a D.S. la formazione specifica per le mansioni svolte e non mettendo a disposizione del lavoratore attrezzature conformi ai requisiti di sicurezza di cui all’allegato V punto 2.2 del d.lgs. n. 81 del 2008, cagionato al medesimo lesioni gravissime, consistite nell’amputazione del piede destro.

2. Il fatto, per come accertato dalle sentenze di primo e secondo grado, può essere descritto come segue: in data (omissis) D.S., addetto al funzionamento di una pressa per la compattazione della carta, accortosi del suo inceppamento, cercava di ovviare dapprima bagnando la carta all’interno della tramoggia, poi utilizzando una forca per disincagliare la carta, indi, non essendovi riuscito, infilando, attraverso uno sportello di ispezione, la gamba destra all’interno della tramoggia al fine di premere la carta con il piede; la macchina, tuttavia, benché bloccata dall’apertura dello sportello, riprendeva il movimento, e D.S., che nel corso dell’operazione si manteneva saldo ad una maniglia, perdeva l’equilibrio, subendo l’amputazione del piede destro.

Le decisioni danno atto che la dinamica del sinistro è stata accertata attraverso la relazione del consulente del P.M., secondo il quale l’attivazione del carrello compattatore del macchinario era stata resa possibile – nonostante il suo temporaneo fermo e l’apertura dello sportello – per l’inefficienza del sistema elettrico/elettronico di sicurezza, non conforme alla buona tecnica, questo permettendo di far ripartire il meccanismo, non solo per la chiusura dello sportello, ma per la sola intercettazione da parte del sensore della presenza di rimasugli di carta; il microinterruttore presente nel fine corsa di chiusura della maniglia dello sportello di ispezione si presentava, invero, in cattivo stato di manutenzione ed all’interno dello sportello erano presenti due spessori per agevolare il contatto fra il microinterruttore ed il punto di chiusura dello sportello medesimo. Sulla base della ricostruzione del funzionamento del macchinario il tecnico ha anche ipotizzato che il microinterruttore di blocco della macchina potesse essere stato eluso dal lavoratore con una manovra imprudente, consistita nella simulazione della chiusura con un attrezzo (cacciavite o altro).

Entrambi i giudici del merito hanno ritenuto non abnorme il comportamento del lavoratore, essendo l’infortunio stato causato dalla precarietà del sistema di bloccaggio della macchina durante l’apertura dello sportello di ispezione, ed essendo stato provato in giudizio che in altre occasioni gli addetti al macchinario avevano proceduto nel medesimo modo.

3. Avverso la sentenza della Corte d’appello propongono ricorso per cassazione gli imputati, a mezzo del comune difensore, formulando un unico motivo.

4. Con la doglianza i ricorrenti fanno valere la violazione della legge penale in relazione all’art. 590 c.p., comma 2 e art. 41 c.p., nonché il vizio di motivazione. Osservano che in forza della disposizione di cui all’art. 41 c.p., che fissa il principio della c.d. “equivalenza causale”, va esclusa la ricorrenza del nesso di causalità allorquando la condotta del lavoratore si configuri come abnorme. Riprendono i criteri formulati dalla giurisprudenza di legittimità sul punto, rammentando che può dirsi abnorme la condotta del lavoratore che consista in un comportamento esorbitante rispetto alla mansioni svolte ed al processo produttivo, non perché eccezionale, ma perché eccentrica rispetto al rischio che il garante è chiamato a governare. Ricordano che l’insegnamento della suprema Corte distingue la mera distrazione dalla cosciente inosservanza da parte del lavoratore delle norme poste a tutela della sua salute, sancendo la differenza fra comportamento eccezionale o semplicemente irrituale e come tale prevedibile ed evitabile. Solo il primo, infatti, interrompe il nesso eziologico fra condotta del datore di lavoro ed evento. Sostengono che ciò è accaduto nel caso di specie, ponendosi l’operazione posta in essere dal lavoratore, comunque, al di fuori della prevedibilità dell’evento, costituendo causa sopravvenuta atipica ed estranea alle normali e prevedibili linee di sviluppo della serie causale attribuibile all’agente. Sottolineano che se compete al datore di lavoro il dovere della prevenzione tecnica e della formazione del lavoratore, occorre, tuttavia, verificare se l’infortunio consegua all’omessa informazione, rappresentando la concretizzazione del rischio che l’attività mirava ad evitare. Non spetta, invece, al datore di lavoro la gestione del `vivere comune sicché non può addebitarsi al medesimo di non avere trasferito al lavoratore le regole che servono a fronteggiare rischi estranei alla formazione lavorativa. Laddove, dunque, il lavoratore consapevolmente violi le regole impartite deve escludersi la responsabilità del datore di lavoro per l’omessa formazione. Conclude per l’annullamento della sentenza impugnata.

5. Con requisitoria scritta ai sensi del d.l. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 il Procuratore generale presso la Corte di cassazione ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I ricorsi sono inammissibili.

2. Si assume, invero, che il comportamento del lavoratore infortunato, proprio perché posto in essere in aperta violazione delle direttive impartite e sulle procedure di utilizzo del macchinario, rivestendo le caratteristiche dell’esorbitanza, esima il datore di lavoro da ogni responsabilità in ordine al mancato rispetto della normativa antinfortunistica.

3. Le censure mosse dal ricorrente, senza porre in dubbio l’evento per come realizzatosi, si concentrano sulla definizione della sfera di governo del datore di lavoro in relazione alle mansioni affidate al lavoratore ed al rischio prevedibilmente connesso con quelle. Si afferma che, contrariamente a quanto ritenuto dalla sentenza impugnata, il governo del rischio del datore di lavoro non si estende alla condotta esorbitante quella affidata con le direttive organizzative e quindi non possa “coprire” anche i comportamenti espressamente interdetti al lavoratore. Il che significa che, se il lavoratore, come in questo caso, sceglie deliberatamente di contravvenire alle istruzioni ricevute e di svolgere il lavoro che gli è stato affidato con modalità diverse da quelle stabilite, il datore di lavoro non può essere ritenuto responsabile del mancato governo del rischio di un’operazione non consentita, dovendo ritenersi “abnorme” la condotta del lavoratore che pone in essere l’attività vietata.

4. Ora, la censura per come proposta, concentrandosi esclusivamente sulla sussistenza del nesso di causalità, non contesta la sussistenza della condotta colposa come accertata, consistita nel non avere assicurato la piena efficienza del sistema di blocco del macchinario e nel non avere adeguatamente formato il lavoratore sul suo utilizzo. Né contesta l’assunto della Corte territoriale secondo il quale non vi sarebbe alcun elemento probatorio utile ad affermare che il lavoratore infortunato abbia utilizzato uno strumento per disattivare il sensore di sicurezza. Né, infine che la formazione impartita fosse adeguata. Si afferma, infatti, nella sentenza impugnata che il lavoratore neppure partecipò al corso di formazione “Linea di pressatura”, tanto da disconoscere la sua firma sul documento datato 5 settembre 2008, data nella quale egli non prestava neppure attività presso la società.

5. La questione va affrontata ricordando, preliminarmente che la più recente giurisprudenza, abbandonando il criterio dell’imprevedibilità del comportamento del lavoratore nella verifica della relazione causale tra condotta del reo ed evento ha sostenuto che affinché la condotta del lavoratore possa ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo, è necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia.

6. Qui, non è dubbio che la violazione – consistita nel non mantenere il sistema del blocco del macchinario in perfette condizioni, essendo il microinterruttore di blocco dello sportello risultato vetusto e sensibile anche alla presenza di residui di carta – sia stata causa dell’evento, posto che il corretto funzionamento del microinterruttore non avrebbe consentito al meccanismo di ripartire a sportello aperto.

D’altro lato, il semplice divieto di utilizzare un certo strumento o un bene aziendale o di evitare una certa attività o ancora di non accedere ad una struttura non fa venir meno l’obbligo del garante di tenere in siffatti elementi perfetta efficienza o di impedire concretamente e non solo disciplinarmente l’attività vietata. Su colui che riveste la posizione di garanzia, infatti, grava l’obbligo di porre in essere la prevenzione concreta, volta a contenere il rischio garantito, in questo caso anche normativamente prevista. Invero, il punto 2.2. dell’Allegato V del d.lgs. n. 81 del 2008 impone che “la messa in moto di un’attrezzatura deve poter essere effettuata soltanto mediante un’azione volontaria su un organo di comando concepito a tal fine”. 

Nel caso di specie la condotta omissiva del datore di lavoro ha prodotto proprio l’evento temuto, essendo il macchinario ripartito indipendentemente dalla volontà dell’operatore.

Correttamente, dunque, la Corte territoriale, ha escluso l’abnormità del comportamento del lavoratore, non potendo questo ritenersi interruttivo del nesso causale, posto che, da un lato, non è sufficiente al datore di lavoro, per andare esente da responsabilità, semplicemente vietare una determinata attività, quando la norma cautelare impostagli sia rivolta ad evitare il verificarsi di eventi che dipendono dall’idoneità degli strumenti di lavoro, dall’altro, la disapplicazione delle norme di sicurezza da parte del lavoratore rientra nell’area di rischio del datore di lavoro, tanto più laddove non comporti l’attivazione di un rischio eccentrico rispetto a quello governabile con la semplice osservanza delle cautele prescritte, perché essa è di per sé prevedibile.

7. All’inammissibilità dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali ed al versamento di euro tremila ciascuno in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila ciascuno in favore della Cassa delle Ammende.

Il principio di diritto: Non è sufficiente al datore di lavoro, per risultare immune da responsabilità, vietare al lavoratore una determinata condotta, quando la norma cautelare impostagli sia rivolta ad evitare il verificarsi di eventi che dipendono dall’idoneità degli strumenti di lavoro; d’altro canto, la disapplicazione delle norme di sicurezza da parte del lavoratore rientra nell’area di rischio del datore di lavoro, tanto più laddove non abbia ad oggetto un rischio eccentrico rispetto a quello governabile con la semplice osservanza delle cautele prescritte, perché essa è di per sé prevedibile.

Il caso ed il processo: in sede di merito, gli imputati, quali datori di lavoro della persona offesa, erano stati condannati per il delitto di lesioni colpose subite dal lavoratore, consistenti dell’amputazione di un piede.

In particolare, secondo la ricostruzione operata dalla Cassazione, un operaio, addetto ad una pressa per la carta, a causa dell’inceppamento del macchinario, aveva aperto uno sportello di ispezione e, non essendo riuscito a rimuovere il materiale che aveva causato il blocco dell’apparecchiatura neppure con l’impiego di una leva, aveva a quel punto tentato di intervenire con il piede. In quel frangente, tuttavia, la pressa – nonostante l’apertura dello sportello – si era rimessa in funzione, provocando lo schiacciamento dell’arto dell’operaio, con le conseguenze lesive descritte in pronuncia.

Alla luce di tale complesso quadro, la responsabilità degli imputati era stata fondata, nei primi due gradi di giudizio, essenzialmente, sulla culpa in vigilando, sulla violazione degli obblighi di formazione dell’addetto alla pressa, nonché sull’inidoneità del macchinario, non dotato di adeguato dispositivo di blocco e, quindi, pericoloso.

Avverso la pronuncia di condanna, dunque, erano insorti gli interessati con ricorso davanti alla suprema Corte, deducendo, in sintesi, che il comportamento tenuto nell’occasione dal dipendente fosse contrario alle direttive datoriali e che, conseguentemente, l’evento lesivo non avrebbe potuto essere addebitato ai soggetti in posizione di garanzia, dovendosi escludere profili di rimproverabilità per l’infortunio occorso.

La soluzione resa dalla Corte: la Cassazione ha dichiarato i ricorsi inammissibili; in particolare, la Corte ha rimarcato che dalla ricostruzione dei fatti operata nei precedenti gradi di giudizio, oramai definitivamente accertata, sarebbe emersa la violazione da parte dei datori-garanti delle norme che stabiliscono requisiti minimi di sicurezza dei macchinari, rappresentati dal blocco dell’apparecchiatura, non riattivabile se non per impulso da parte dell’addetto, nonché dell’obbligo di formazione, non essendo risultato che l’operaio infortunatosi avesse partecipato a specifici corsi sulla sicurezza.

La Cassazione, dunque, ripercorrendo brevemente gli orientamenti diffusi in giurisprudenza, ha ricordato che il datore di lavoro è obbligato ad impiegare nel ciclo produttivo macchinari dotati di requisiti di sicurezza e che, in caso di violazione, egli non possa invocare la circostanza che il dipendente abbia disatteso espressi divieti impartiti proprio al fine di evitare infortuni dipendenti dal malfunzionamento del macchinario.

La medesima Corte ha proseguito rilevando che se da un lato il difetto del macchinario renderebbe l’infortunio prevedibile in re ipsa, “non eccentrico”, dall’altro il difetto di formazione avrebbe costituito il “sottofondo” della vicenda lesiva: talchè la manifesta infondatezza del gravame, con conseguente declaratoria di inammissibilità.

Gli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali sul tema: la sentenza evoca il tema della c.d. “autoesposizione a rischio” da parte del lavoratore dipendente, che ha alimentato nel tempo soluzioni giurisprudenziali particolarmente critiche al cospetto del principio di colpevolezza. Non mancano, peraltro, casi in cui la giurisprudenza ha chiaramente utilizzato lo strumentario penalistico per esigenze di perequazione, sanzionando comportamenti datoriali non in linea con parametri ideali, o meglio utopistici, di “sicurezza”.

La Corte di cassazione, per altro verso, da tempo utilizza termini quali “abnormità”, “eccentricità”, “esorbitanza” per definire le condizioni al ricorrere delle quali la condotta del lavoratore potrebbe escludere, come “causa sorpassante”, o come elemento “imprevedibile” (o ancora esterno alla sfera di rischio da governare), la responsabilità del datore; si tratta, però, di parametri “fluidi”, che si rivelano materiale plastico nelle mani delle interprete, consentendo di valorizzare in ottica di condanna comportamenti talora privi dei necessari caratteri dell’illecito colposo e, inoltre, con palese confusione (e reciproca supplenza) tra componente soggettiva ed oggettiva del reato.

Questi orientamenti, “ostili” al datore di lavoro, prendono le mosse dalla formulazione “anodina” dell’art. 41 c.p. che (atteso l’impiego del termine “sufficiente” associato al fattore causale sopravveniente che dovrebbe qualificarsi come “sorpassante”) non possiede alcuna reale capacità selettiva; analogamente, l’art. 2087 c.c. e l’art. 18 d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, nell’orizzonte soggettivo, rendono talmente ampio il contenuto dell’obbligo di garanzia datoriale da fornire spunto per soluzioni spiccatamente contra reum.

Valga considerare, in proposito, che non di rado la Cassazione ha addirittura affermato, in maniera tranchant, che basterebbe che l’infortunio occorra al dipendente nello svolgimento della mansione a questi assegnata per far scattare la responsabilità datoriale.

Più in generale, risulta che la Cassazione sia approdata assai raramente alla soluzione assolutoria dell’imputato-datore in relazione ad eventi lesivi occorsi al lavoratore per via di autoesposizione, soprattutto a seguito dell’attivazione da parte del datore di una qualsivoglia fonte di pericolo per la sicurezza.

Volendo ora, però, focalizzare l’attenzione sugli infortuni derivanti dall’utilizzo di macchinari, si nota che, nella vasta casistica, sparuti sono i precedenti favorevoli al datore di lavoro in caso di autoesposizione a pericolo da parte del lavoratore; tra di essi si segnala Cass., Sez. IV, 28 novembre 2018, n. 5007 sul sinistro occorso al dipendente che, al fine di sbloccare un macchinario al quale era addetto, invece di utilizzare un apposito strumento, aveva inserito la mano negli ingranaggi dell’utensile, subendo lesioni; Cass., Sez. IV, 10 novembre 1989, Addesso, in C.E.D. Cass., n.. 183633, relativa al caso di un operaio esperto che al fine di azionare una pala meccanica si era steso a terra al di sotto di essa e, manovrando un meccanismo, ne aveva riavviato la marcia, trovando la morte per schiacciamento tra i cingoli; Cass., Sez. IV, 17 ottobre 2018, n. 54813, relativa ad un fatto di deliberata manomissione di un macchinario da parte del dipendente che lo aveva in dotazione.

Tornando al caso di specie, tuttavia, si può osservare che il caso sottoposto alla Corte, stavolta, era tutto sommato “facile”, in quanto una serie di criticità contestate dall’accusa non erano state – almeno per quanto rilevato dalla sentenza in commento – smentite in maniera convincente. Difatti, per quanto riguarda la violazione dell’obbligo di formazione e informazione, secondo quanto riferito dalla Cassazione, la difesa non aveva fornito la prova dell’esperienza acquisita dal lavoratore; in ordine alla presunta manomissione del macchinario ad opera dell’addetto, la stessa – prospettata come causa alternativa rispetto all’accertato malfunzionamento e ai difetti riscontrati nella pressa – è rimasta un assunto difensivo privo di dimostrazione.

Per quanto più attiene alla colpa, infine, vi è un inciso nella sentenza che la Corte non ha neppure adeguatamente valorizzato, sebbene esso costituisca la cartina di tornasole della vicenda: «in altre occasioni gli addetti al macchinario avevano proceduto nel medesimo modo». È questo particolare che, in realtà, pone in definitivo off side la condotta del datore di lavoro, poiché la circostanza che l’iniziativa del lavoratore, consistente nello sblocco “manuale” dell’apparecchiatura, si inserisse in una prassi consolidata, ad uno con il fatto che si trattava evidentemente di una manovra pericolosa in considerazione delle caratteristiche dello strumento (tant’è che il datore aveva eccepito di averla espressamente vietata), rendono l’evento lesivo che si è verificato prevedibile ed evitabile, con ogni consequenziale effetto circa le accertate violazioni di regole cautelari generiche e/o specifiche, risultate causali rispetto all’evento lesivo tipico.

Su questi temi, per un’ampia panoramica della giurisprudenza, sia tollerato il rinvio a De Lia, La questione dell’autoesposizione a pericolo da parte della “vittima” nell’ambito degli infortuni sul lavoro: uno sguardo nel giardino degli epiteti, in Cass. Pen., 2019, pp. 4317 ss. A livello monografico, vd. Civello, Il principio del sibi impudet nella teoria del reato, Torino, 2017; per il problema dell’identificazione dell’autoesposizione al consenso dell’avente diritto vd. Tordini Cagli, Principio di autodeterminazione e consenso dell’avente diritto, Bologna, 2008. Le tematiche relative al rapporto tra diritto penale e sicurezza sul lavoro sono state oggetto di una ampia e recente monografia di Blaiotta, Diritto penale e sicurezza del lavoro, Torino, 2020.


ALTRE PRONUNCE IN RASSEGNA

Cassazione, Sez. III, 15 luglio 2021, dep. 7 settembre 2021, n. 33089 – Pres. Di Nicola – Rel. Liberati – P.M. Pratola (conf.) – Ric. G.A. e alt. – (rif. art. 452-quaterdecies c.p.)

Ai fini della configurabilità del delitto disciplinato all’art. 452-quaterdecies c.p., in tema di traffico illecito di rifiuti, l’ingiusto profitto può consistere non soltanto in un ricavo patrimoniale, ma anche nel vantaggio conseguente dalla mera riduzione dei costi aziendali ed è “ingiusto” in quanto la condotta posta in essere abusivamente, oltre che anticoncorrenziale, può essere produttiva di conseguenze negative, in termini di pericolo o di danno, per l’integrità dell’ambiente e impedisce, comunque, il doveroso controllo, da parte dei soggetti preposti, sull’intera filiera dei rifiuti, che la legge impone dalla produzione alla destinazione finale.

Cassazione, Sez. II, 28 maggio 2021, dep. 9 settembre 2021, n. 33497 – Pres. Rago – Rel. Mantovano – P.M. (omissis) – Ric. G.P.L. e alt. – (rif. art. 640-bis c.p.)

In tema di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche assume valenza decettiva la condotta del responsabile di una società, concessionaria di più emittenti radio-televisive, che, per conseguire le agevolazioni finanziarie previste dalla l. 23 dicembre 1998, n. 448, e dal decreto ministeriale 5 novembre 2004, n. 292, contravvenendo all’obbligo di separazione contabile in relazione a ciascuna emittente, attesti falsamente la riferibilità di taluni dati essenziali dell’attività ad un’emittente anziché all’effettiva (come nel caso del fatturato medio e del numero dei dipendenti), atteso che la mancata osservanza del suddetto obbligo impedisce l’espletamento dei controlli da parte delle autorità preposte a verificare i requisiti di ogni singola emittente richiedente i contributi.

Cassazione, Sez. III, 6 luglio 2021, dep. 15 settembre 2021, n. 34103 – Pres. Di Nicola – Rel. Semeraro – P.M. Manuali (conf.) – Ric. B.G. – (rif. art. 589 c.p.)

In tema di prevenzione degli infortuni, le omissioni o le carenze del documento di valutazione dei rischi adottato dal datore di lavoro non esonerano da responsabilità per le lesioni occorse ai lavoratori gli ulteriori garanti della sicurezza sul lavoro, atteso che la constatazione dell’esistenza di un rischio impone loro, nell’ambito delle rispettive competenze, di adottare le misure appropriate per rimuoverlo.

Cassazione, Sez. III, 16 giugno 2021, dep. 16 settembre 2021, n. 34395 – Pres. Rosi – Rel. Mengoni – P.M. Manuali (parz. diff.) – Ric. D.A. e alt. – (rif. l. 30 aprile 1962, n. 283, art. 5 lett. b)

Ai fini della configurabilità della contravvenzione di detenzione per la vendita di sostanze alimentari in cattivo stato di conservazione, lo stato di cattiva conservazione riguarda quelle situazioni in cui le sostanze alimentari, pur potendo essere ancora genuine e sane, si presentano mal conservate, e cioè preparate, confezionate o messe in vendita senza l’osservanza delle prescrizioni dirette a prevenire il pericolo di una loro precoce degradazione, contaminazione o comunque alterazione del prodotto (nel caso di specie si trattava della rivendita su pubblica via – in modo ambulante e senza alcuna autorizzazione – di carciofi arrostiti, cucinati all’aperto, privi di copertura o protezione e, quindi, esposti agli agenti inquinanti provenienti dalle autovetture in transito).

Cassazione, Sez. VI, 22 giugno 2021, dep. 16 settembre 2021, n. 34536 – Pres. Petruzzellis – Rel. Amoroso – P.M. De Masellis (parz. diff.) – Ric. C. S.r.l. – (rif. art. 39 d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231)

Al riguardo della costituzione dell’ente nell’ambito del procedimento per la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, non deve essere confusa l’incompatibilità dell’imputato a rappresentare l’ente ex art. 39 d.lgs. n. 231/2001 (che determina l’inammissibilità della costituzione in giudizio) con l’incompatibilità del difensore nominato dal soggetto legittimato a rappresentare l’ente e dall’imputato persona fisica. In questo secondo caso, infatti, non trova applicazione la presunzione legale di incompatibilità dettata dalla predetta disposizione, ma solo un’ipotetica e astratta incompatibilità del difensore che va verificata in concreto, secondo i principi generali validi in questa materia, in forza dei quali l’assunzione da parte di uno stesso difensore della difesa di più imputati con diversa posizione giuridica è causa di nullità solo se risulti un effettivo e concreto pregiudizio alla difesa del singolo assistito, ovvero quando le linee difensive dei due soggetti difesi dallo stesso avvocato risultino in concreto tra loro inconciliabili.

Cassazione, Sez. IV, 17 giugno 2021, dep. 29 settembre 2021, n. 35652 – Pres. Di Salvo – Rel. Ranaldi – P.M. De Tassone (diff.) – Ric. C.V – (rif. art. 590 c.p.)

In materia di sicurezza sul lavoro, il delegato aziendale alla sicurezza non risponde dell’infortunio occorso in un settore che, in materia di sicurezza, era stato avocato dai vertici aziendali, ovvero centralizzato. La delega, infatti, non opera dove non vengono attribuiti poteri di gestione e risoluzione dei problemi. La delega alla sicurezza sul luogo di lavoro, in sostanza, ha connotazioni non solo formali, ma anche sostanziali. Di conseguenza, affinché la delega possa ritenersi operativa ai fini dell’attribuzione di responsabilità al preposto, tali aspetti devono convergere (nel caso di specie è stata annullata la condanna per lesioni personali colpose a carico del delegato alla sicurezza che era stato privato dei poteri operativi su decisione dei vertici aziendali, i quali avevano centralizzato le scelte in materia di sicurezza lavoro relativamente al settore in cui si era poi verificato l’infortunio).

Cassazione, Sez. IV, 22 settembre 2021, dep. 5 ottobre 2021, n. 36153 – Pres. Piccialli – Rel. Pavich – P.M. Marinelli (conf.) – Ric. M.N. – (rif. 590 c.p.)

In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, l’obbligo del datore di lavoro di mettere a disposizione dei lavoratori macchinari provvisti di blocco automatico atto a impedire di entrare in contatto con le parti in movimento è configurabile anche in relazione alle attrezzature acquistate prima dell’entrata in vigore della Direttiva Macchine del 1996, in base al combinato disposto di cui agli artt. 70, comma 2, d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, e 6.3. dell’allegato V al predetto decreto legislativo, atteso che quest’ultima disposizione richiama testualmente quella enunciata dall’art. 72, d.P.R. 27 aprile 1955 n. 547, la quale costituisce applicazione del principio generale affermato dalla disposizione di cui all’art. 68 del medesimo testo normativo, che trova applicazione in tutti i casi in cui vengono usate macchine pericolose, e che non è stata superata dal d.P.R. 24 luglio 1996, n. 459.

Cassazione, Sez. II, 14 settembre 2021, dep. 5 ottobre 2021, n. 36180 – Pres. Diotallevi – Rel. Recchione – P.M. Baldi (diff.) – Ric. Z.L. – (rif. art. 648-ter.1 c.p.)

Integra il delitto di autoriciclaggio l’immissione nel mercato dei beni provento di furto mediante vendita a terzi, attesa la natura economica di tale attività che trasforma i beni in denaro e produce reddito, così dissimulando l’origine contra ius degli stessi e ostacolando concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa.

Cassazione, Sez. IV, 7 luglio 2021, dep. 6 ottobre 2021, n. 36181 – Pres. Di Salvo – Rel. Di Salvo – P.M. Tassone (conf.) – Ric. A.S. – (rif. art. 590 c.p.)

Va confermata la sentenza che ha riconosciuto la responsabilità del datore di lavoro per le lesioni riportate da un lavoratore scontratosi con il carrello di sollevamento e trasporto condotto da altro lavoratore, essendo emerso che l’imputato, in qualità di datore di lavoro e di direttore di stabilimento, aveva omesso di disporre che le vie di circolazione e transito fossero predisposte e segnalate in modo tale che le aree di deposito e quelle di lavoro fossero differenziate, così da evitare interferenze tra pedoni e carrelli elevatori, garantendo la sicurezza dei pedoni e dei veicoli.

Cassazione, Sez. VI, 28 settembre 2021, dep. 12 ottobre 2021, n. 37085 – Pres. Mogini – Rel. Aprile – P.M. Troncone (diff.) – Ric. D.M.A. – (rif. art. 10-quarter d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74)

Il reato di indebita compensazione di crediti non spettanti o inesistenti, di cui all’art. 10-quater d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, è configurabile sia nel caso di compensazione “verticale”, riguardante crediti e debiti afferenti alla medesima imposta, sia in caso di compensazione “orizzontale”, concernente crediti e debiti di imposta di natura diversa.

Cassazione, Sez. III, 15 luglio 2021, dep. 14 ottobre 2021, n. 37383 – Pres. Di Nicola – Rel. Reynaud – P.M. Pratola (conf.) – Ric. T.N. e alt. – (rif. art. 589 c.p.)

In materia di infortuni sul lavoro, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione ha l’obbligo di elaborare, nel documento di valutazione dei rischi, i sistemi di controllo sull’attuazione delle misure precauzionali richieste dal tipo di attività lavorativa, ma non è tenuto a controllare che il datore di lavoro adempia alle misure indicate nel documento, sicchè risponde per eventuali eventi lesivi, ai sensi dell’art. 40, cpv, c.p., solo nel caso in cui abbia omesso l’elaborazione delle misure preventive e protettive o dei sistemi di controllo delle stesse.

Cassazione, Sez. V, 22 settembre 2021, dep. 14 ottobre 2021, n. 37459 – Pres. Miccoli – Rel. Brancaccio – P.M. Birritteri (diff.) – Ric. D.B.A. – (rif. art. 216 r.d. 16 marzo 1942, n. 267)

L’oggetto del reato di bancarotta fraudolenta documentale può essere rappresentato da qualsiasi documento contabile relativo alla vita dell’impresa, dal quale sia possibile conoscere i tratti della sua gestione, diversamente da quanto previsto per l’ipotesi di bancarotta semplice documentale, in relazione alla quale l’oggetto del reato è individuato nelle sole scritture obbligatorie.

Cassazione, Sez. V, 22 settembre 2021, dep. 14 ottobre 2021, n. 37461 – Pres. Miccoli – Rel. Brancaccio – P.M. Birritteri (diff.) – Ric. C.E.C. – (rif. art. 216 r.d. 16 marzo 1942, n. 267)

Sussiste la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza nel caso di riqualificazione dell’originaria imputazione di bancarotta preferenziale nel più grave reato di bancarotta per distrazione, quando il fatto storico risulti oggettivamente diverso da quello contestato, per la trasformazione radicale della fattispecie concreta nei suoi elementi essenziali, tale da ingenerare incertezza sull’oggetto dell’imputazione e pregiudicare il diritto di difesa.

Cassazione, Sez. III, 14 settembre 2021, dep. 14 ottobre 2021, n. 37576 – Pres. Petruzzellis – Rel. Di Stasi – P.M. Di Nardo (conf.) – Ric. P.S. – (rif. art. 11 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74)

Ai fini della configurabilità del reato di cui al d.lgs. n. 74/2000, art. 11, con riferimento specifico alla condotta costituita dal compimento di “altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni”, essa è integrata da ogni comportamento che, sebbene formalmente lecito, sia però caratterizzato da una componente di artificio o di inganno; a differenza della l’alienazione simulata, che è finalizzata a creare una situazione giuridica apparente diversa da quella reale, gli atti dispositivi compiuti dall’obbligato, oggettivamente idonei ad eludere l’esecuzione esattoriale, hanno natura fraudolenta, ai sensi della disposizione sopra citata allorquando, pur determinando un trasferimento effettivo del bene, siano connotati da elementi di inganno o di artificio, cioè da uno stratagemma tendente a sottrarre le garanzie patrimoniali all’esecuzione.


Note e riferimenti bibliografici