Pubbl. Mer, 1 Dic 2021
Per la Cassazione nel caso di coltivazione di 20 piante di marijuana l´intenzione soggettiva di soddisfare esigenze di consumo personale è insufficiente a escludere il reato
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Daniele Panella
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 33797/21 ha aggiunto un nuovo tassello alla serie di pronunce che hanno investito la coltivazione ex art. 73, d.p.r. 309/90, ribadendo il principio in forza del quale - ai fini della sua configurabilità - è sufficiente la corrispondenza della pianta al tipo botanico presente in natura, il quale, giunto a maturazione, è idoneo a produrre sostanza stupefacente. Di converso, la sola intenzione soggettiva dell’agente di assumere la sostanza prodotta è irrilevante per escludere la corrispondenza al tipo e, di conseguenza, la punibilità, risultando necessario un nesso di immediatezza con l’uso personale.
Sommario: 1. Introduzione; 2. Il principio di offensività; 3. La coltivazione di stupefacenti ex. art. 73 D.P.R. 309/90; 4. La coltivazione secondo le Sezioni Unite 12348/2020; 5. L’intenzione soggettiva nella coltivazione di stupefacenti; 6. Conclusioni.
1. Introduzione
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 33797/21, pronunciata dalla Terza Sezione, il 13 settembre 2021, ha ribadito il principio in forza del quale, ai fini della configurabilità della coltivazione è sufficiente la corrispondenza della pianta al tipo botanico presente in natura, il quale, giunto a maturazione, è idoneo a produrre sostanza stupefacente.
Di converso, la sola intenzione soggettiva dell’agente di assumere la sostanza prodotta è irrilevante per escludere la corrispondenza al tipo e, di conseguenza, la punibilità, risultando necessario un nesso di immediatezza con l’uso personale. La statuizione in parola è, infatti, scaturita dalla coltivazione, da parte dell’agente, di sole 20 piante di marijuana riproponendo, dunque, l’interrogativo sul se l’esiguità della coltivazione, in uno alla volontà del reo, sia in grado di escludere la punibilità dell’attività, laddove questa fosse realizzata in modo rudimentale.
Il dictum della Corte si è innestato nel solco di numerose ed analoghe pronunce che hanno ridisegnato i contorni del delitto in esame al fine di renderlo, quanto più possibile, compatibile con il principio di offensività, osservato nella sua duplice accezione astratta e concreta.
Nella trattazione che seguirà saranno, dunque, affrontate alcune rilevanti statuizioni in materia di coltivazione, tanto della giurisprudenza Costituzionale quanto di legittimità, con una breve premessa sul principio di offensività ed il suo rapporto con i reati di pericolo.
2. Il principio di offensività
Il principio di offensività, sintetizzabile con il broccardo latino “nullum crimen sine iniuria”, esprime l’esigenza di un diritto penale, frammentario e garantista, di infliggere punizioni a fatti che, nella loro portata, siano effettivamente offensivi del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice.
Nonostante il principio in esame non goda di alcun richiamo esplicito nella legislazione vigente, questo è generalmente ricavato da una lettura sistematica e coordinata di diverse norme, tanto di rango costituzionale, quanto di livello ordinario.
Partendo dalle prime, l’art. 25 co. 2 della Costituzione - nella parte in cui prevede la punibilità per un “fatto” - indica che questo deve intendersi necessariamente come fatto “offensivo”; ancora, l’art. 13 della Carta - laddove disciplina la inviolabilità della libertà personale - indica che una privazione di detta libertà è giustificata solo da esigenze di tutela di interessi di rango particolarmente elevato. Allo stesso modo, l’art. 27, co. 3, nel designare il fine ultimo al quale la pena deve tendere, non potrebbe mai tollerare l’inflizione di una sanzione per un fatto che - lungi dal ledere un bene giuridico - denoti, una mera disobbedienza ad un precetto in assenza di un concreto disvalore. Infine, anche negli artt. 21, 25, co. 3 e 27 Cost., è possibile ricavare un aggancio costituzionale del principio di offensività.
Segnatamente, l'art. 25 Cost. «atteso che ogni agire umano è espressione del proprio mondo interiore, del proprio intelletto, della propria volontà, ed è dunque tutelato come forma di libera espressione del pensiero»[1], vieterebbe compressioni che, nei fatti, consistessero in una mera manifestazione del pensiero, completamente inoffensive; gli artt. 25, co. 3 e 27 Cost, invece, letti unitamente, ponendo una netta distinzione tra pena e misura di sicurezza - ove a quest’ultima è affidata una funzione “social – preventiva” - rendono difficilmente giustificabile l’applicazione ad un fatto inoffensivo della pena più severa.
In aggiunta alle norme di rango Costituzionale, l’opinione prevalente, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, è solita riscontrare il principio in esame anche nel diritto ordinario. Nello specifico, la prima fonte sarebbe l’art. 49, co. 2 del codice penale, laddove esclude la punibilità per la «inidoneità dell'azione o per la inesistenza dell'oggetto di essa, è impossibile l'evento dannoso o pericoloso».
La norma summenzionata, nel disciplinare il reato impossibile, altro non farebbe che confermare la necessaria offensività del fatto. In altre parole, un’azione potrebbe corrispondere perfettamente al tipo normativamente previsto ma risultare, in concreto, ben lontana da una potenzialità effettivamente dannosa. A ciò si aggiunga che una non diversa funzione è svolta anche dall’art. 115 c.p., laddove disciplina la non punibilità dell’istigazione se, a questa, non segue il reato istigato. La norma non fa altro che ribadire «la necessità che il proposito criminoso, di per sé insufficiente ai fini della punibilità, si traduca in una reale offesa per il bene protetto»[2][2].
Inoltre, nel 2015, con d.lgs. 28/2015, il legislatore ha introdotto l’art. 131-bis c.p., il quale esclude la punibilità del reo per la “particolare tenuità del fatto”, disciplinando in modo esplicito la necessaria portata offensiva dell’azione. Vero è che, in effetti, l’istituto - già prima della sua introduzione - non era sconosciuto al nostro ordinamento. Infatti, l’art. 27 d.p.r. 448/1988, riguardante il procedimento penale minorile, già contemplava la possibilità per il giudice di giungere ad una sentenza di non luogo a procedere per la tenuità del fatto. Inoltre, l’art. 34 d.lgs. n. 274/2000, nell’ambito del processo penale dinanzi al Giudice di Pace, attribuisce a quest’ultimo l’opportunità di disporre l'improcedibilità per particolare tenuità del fatto.
Nello scenario normativo così delineato, l’offensività assume una duplice rilevanza: per un verso come canone che guida le scelte del legislatore nell’incriminare condotte offensive di beni giuridici (offensività in astratto); per altro verso, quale criterio ermeneutico per il Giudice che gli impone di infliggere sanzioni soltanto a comportamenti realmente lesivi (offensività in concreto).
Per meglio comprendere quanto sarà detto in tema di coltivazione di stupefacenti, urge accennare al rapporto tra il principio di offensività ed i reati di pericolo. Questi ultimi, infatti, indicano l'esigenza, per il legislatore, di anticipare la tutela penale allo scopo di proteggere taluni beni di primissimo rilievo. Tale macro-categoria è tradizionalmente[3] suddivisa in: reati di pericolo "concreto", nei quali il pericolo è parte costituente della fattispecie incriminatrice e spetterà al giudice verificarne l’effettiva sussistenza; reati di pericolo "presunto" (o astratto), dove il pericolo è implicito nella condotta tenuta dall’agente e alla quale, in forza delle regole di comune esperienza, segua generalmente la potenziale lesione del bene giuridico.
Secondo altra autorevole opinione[4], i reati di pericolo "astratto" o "presunto" rappresenterebbero due categorie a sé stanti. La prima, non diversamente da quanto già detto, “nei quali il pericolo è implicito, per comune esperienza, nella condotta stessa”[5], demandando al giudice la mera verifica della corrispondenza del comportamento a quello descritto nella fattispecie penale; nella seconda, di converso, pur non essendo parte della condotta, porterebbe con sé una presunzione iuris et de iure che eviterebbe al giudice il sindacato volto a dimostrare concretamente che il pericolo non ricorre.
La necessità di anticipare la tutela è ancor più sentita nei c.d. reati di pericolo "indiretto", ove il legislatore ha ritenuto opportuno rendere punibile il pericolo di una - soltanto - possibile lesione al bene giuridico e che, a loro volta, sono articolati in reati di pericolo di un evento pericoloso e nei «reati con anticipazione del requisito tipico del pericolo ad atti prodromici» [6].
Nei primi, il legislatore persegue delle condotte di danneggiamento seguite dal pericolo di realizzazione di uno o più accadimenti pericolosi (ad esempio 424, 427, 429 e 431 c.p.). Nei secondi, la punibilità riguarda gli atti prodromici, «i quali svolgono una funzione cautelativa per scongiurare l’insorgere di un futuro pericolo del bene protetto che per attualizzarsi abbisogna di ulteriori attività»[7]. È questa la ratio dei reati ostativi ovvero quei reati che svolgono l’importante funzione di evitare la futura commissione di condotte lesive incentrandosi, in una fase precedente, sul possesso di determinati beni, proprio come avviene nell’art. 73, co. 1-bis, d.p.r. 309/90 nella detenzione a fini non esclusivamente personali di stupefacenti.
Secondo l’opinione di un’autorevole dottrina[8], trattasi di «figure di illecito a pericolo astratto che incriminano atti che rappresentano soltanto il presupposto di una concreta aggressione ad un ben definito bene oggetto della protezione».
In ogni caso, per quanto innanzi argomentato, i reati di pericolo - ad eccezione dei reati di pericolo concreto - potrebbero avere difficoltà nel legarsi al principio dell'offensività, con l’evidente rischio di sanzionare una condotta di mera disobbedienza senza alcuna lesione effettiva del bene giuridico protetto.
La giurisprudenza di legittimità è intervenuta per adattare le fattispecie di pericolo non concreto al dettato costituzionale. Di recente, con riferimento alle disposizioni in materia di naufragio, sommersione e disastro aviatorio, la Suprema Corte[9], dopo aver riconosciuto la fondamentale distinzione tra l’offensività in astratto - la cui valutazione attiene alle scelte legislative - e offensività in concreto, suscettibile di accertamento giudiziale, in ossequio all’orientamento seguito dalla giurisprudenza Costituzionale, ha statuito che v’è «necessità di puntualizzare un profilo che non sempre la giurisprudenza appare cogliere nella sua importanza: la "concreta" messa in pericolo del bene tutelato va valutata in rapporto alla natura del pericolo medesimo e al bene di cui trattasi. Detto altrimenti, la verifica della concreta offensivita' del fatto va pur sempre rapportata alla natura del reato come di pericolo astratto».
Dunque, confrontandosi con il caso sottoposto al suo esame, la Corte ha proseguito asserendo che «[…] la fattispecie di disastro aviatorio va interpretata alla luce del criterio della "contestualizzazione dell'evento" (in modo non dissimile da altri reati di pericolo astratto). In ragione di esso non integra il reato qualsiasi precipitare a terra governato dalla sola forza di gravita' ma va accertato, alla luce degli elementi concretamente determinatisi, quali le dimensioni del mezzo, il numero dei passeggeri che puo' essere trasportato, il luogo effettivo di caduta, l'espansivita' e la potenza del danno materiale, se il fatto era in grado di esporre a pericolo l'integrità fisica di un numero indeterminato di persone. Siffatto giudizio va condotto secondo una prospettiva ex ante, ovvero verificando se alla luce dei fattori conosciuti e conoscibili (giudizio ontologico a base totale) da parte dell'agente od omittente al momento del compiersi della condotta (se trattasi di reato di mera condotta) o a quello del verificarsi dell'evento (nel caso di reati di evento) quest'ultimo si presentava, ove realizzato, come in grado di esporre a pericolo la pubblica incolumità».
In altre parole, al fine di evitare eccessive tensioni tra il principio di offensività e le fattispecie di pericolo non concreto occorre predisporre, in ogni caso, una verifica fattuale in grado di esprimere un concreto giudizio di pericolosità a cui è sottoposto il bene protetto.
In conclusione, nonostante il legislatore abbia piena signoria sulla scelta delle incriminazioni anticipate - rapportate al valore del bene - queste non possono, di certo, sfuggire ad un serrato confronto con il contesto in cui le stesse si inseriscono.
3. La coltivazione di stupefacenti ex. art. 73 D.P.R. 309/90
Come già accennato, quanto innanzi prospettato aiuta ancor meglio a cogliere le difficoltà applicative del principio in esame in relazione alla condotta di coltivazione prevista dall’art. 73, D.P.R. 309/90.
La norma de qua ha sollevato numerosi dubbi circa la propria compatibilità con il principio di offensività, laddove prevede la punibilità di ogni condotta indipendentemente dal quantitativo di principio attivo ricavabile dalla coltivazione.
All’indomani della riforma che ha seguito il referendum abrogativo del 1993, la Corte Costituzionale ha affrontato il problema con la sentenza n. 360/1995. Nell’occasione la Consulta ha preliminarmente risolto la questione relativa all’asserita depenalizzazione della condotta di coltivazione, se avvenuta per uso esclusivamente personale.
Sul punto, rigettando le questioni di costituzionalità sollevate, ha osservato che è corretto, nei fatti, mantenere una distinzione tra le condotte prodromiche all’assunzione di stupefacenti, come l’acquisto e la coltivazione, attività in grado di produrre numerose ulteriori sostanze, non determinabili a priori, riscontrandosi, nella stessa, una maggiore pericolosità.
In altre parole, «[…] nella detenzione, acquisto ed importazione il quantitativo di sostanza stupefacente è certo e determinato e consente, unitamente ad altri elementi attinenti alle circostanze soggettive ed oggettive della condotta, la valutazione prognostica della destinazione della sostanza»[10], circostanza non immediatamente riscontrabile nell’attività realizzata dal coltivatore.
Proseguendo nella trattazione, la Corte ha sottolineato come la coltivazione rappresenti, ad ogni effetto, un reato di pericolo risultando ragionevole la valutazione operata, in astratto, dal legislatore di incriminarla. Citando alcuni propri precedenti[11], la Consulta ha ricordato come alcun problema di compatibilità sussista tra il principio di offensività ed i reati di pericolo, anche presunto, data la loro potenzialità effettivamente offensiva. Con riferimento, invece, all’offensività in concreto, ove la condotta sia «assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato […] viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta […]» risultando necessario, per contro, che vi sia un’offesa, almeno in misura minima, al bene giuridico protetto per la sua censurabilità. La verifica della reale portata della lesione spetta, in ogni caso, al Giudice di merito. Quindi, ove una lesione concreta mancasse, secondo la Corte, ricorrerebbe lo schema del reato impossibile ex art. 49 c.p.
Dopo tale pronuncia, le problematiche relative alla natura del delitto di coltivazione degli stupefacenti sono state riproposte dinanzi alla giurisprudenza di legittimità.
Rilevati numerosi contrasti, il problema è stato, in un primo momento, affrontato dalla Corte di Cassazione nella sua più autorevole formazione con la sentenza n. 28605/2008 (nonché 28606/2008).
La questione posta alla sua attenzione è stata quella di valutare «se la condotta di coltivazione di piante, dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, sia penalmente rilevante anche quando sia realizzata per destinazione del prodotto ad uso personale».
In effetti, la Suprema Corte ha sottolineato un conflitto sul punto che era esistente all’epoca. Da un lato vi era, infatti, l’orientamento prevalente che sosteneva la punibilità della coltivazione come attività socialmente pericolosa a prescindere dalla destinazione del raccolto, ben distinguendola dalla detenzione; dall’altro l’opinione minoritaria riteneva di poter escludere la rilevanza penale della coltivazione se prodotta ad uso personale rientrando, la stessa, nell’alveo della più ampia condotta detentiva. Nell’ambito di quest’altra si proponeva la distinzione tra coltivazione “domestica” e “tecnica”, la «prima configurabile quando il soggetto agente mette a dimora, in vasi detenuti nella propria abitazione, alcune piantine di sostanze stupefacenti».
Nel dirimere il contrasto, la Suprema Corte ha affermato il principio «secondo il quale costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale». Gli Ermellini, facendo proprie le conclusioni a cui è giunta la Corte Costituzionale con la sentenza 360/95, sopra richiamata, hanno ribadito con fermezza la mancanza di immediata consequenzialità tra la coltivazione di stupefacenti e l’uso personale del frutto da essa prodotto.
I Giudici hanno, inoltre, evidenziato una plurioffensività della fattispecie, ampliando il novero dei beni giuridici da essa tutelati. Difatti, la norma ha, sicuramente, come obiettivo primario quello di difendere la “salute collettiva”. Tuttavia, riproponendo quanto raggiunto in un proprio precedente, è stato osservato come le norme del D.P.R. 309/90 hanno un obiettivo ben più ampio, mirando a proteggere, altresì, la sicurezza, l’ordine pubblico e la salvaguardia delle giovani generazioni[12].
La decisione si è confrontata anche con l'esistente distinzione tra coltivazione tecnica e domestica, rifiutando una tale ripartizione e giudicandola “arbitraria”, non essendo suffragata da alcun dato letterale delle norme.
Infine, la Suprema Corte ha preso posizione sulla qualificazione del delitto in parola configurandolo come una fattispecie di pericolo presunto, temperato dalla necessaria verifica del Giudice di prima istanza circa la concreta offensività della condotta.
Ancora una volta, seguendo pedissequamente le indicazioni fornite dalla giurisprudenza costituzionale, la S.C. ha ribadito la duplice veste dell’offensività, sia come criterio rivolto al legislatore di prevedere in via astratta fattispecie offensive, sia come parametro interpretativo per il Giudice tenuto a verificare la concreta lesione o messa in pericolo del bene giudico.
Sulla scorta di tali premesse, i Giudici di legittimità, nella statuizione de qua, hanno osservato che «la condotta è"inoffensiva" soltanto se il bene tutelato non è stato leso o messo in pericolo anche in grado minimo (irrilevante, infatti, e' a tal fine il grado dell'offesa), sicchè con riferimento allo specifico caso in esame, la "offensività'" non ricorre soltanto se la sostanza ricavabile dalla coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile».
Nel solco del principio enunciato si collocano numerose altre decisioni, dal medesimo tenore, alle quali, per brevità, si rinvia[13].
In una occasione, la Suprema Corte, con sentenza n. 351/2011, in verità, pur ribadendo la necessità di una concreta valutazione della offensività, ha ritenuto che la fattispecie di cui all’art. 73 del sopra richiamato decreto, avrebbe quale unico obiettivo quello di proteggere la salute collettiva e null’altro. La logica conseguenza che deriva dall’assunto è che la norma, in effetti, «ammette la liceità penale della coltivazione di una piccola quantità di sostanza pur effettivamente stupefacente» [14].
4. La coltivazione secondo le Sezioni Unite 12348/2020
Rilevati nuovi contrasti, la Terza Sezione della Suprema Corte, con Ordinanza dell’11 giugno 2019, ha rimesso nuovamente la questione relativa alla coltivazione, e al suo corretto significato, alle Sezioni Unite. Nello specifico, secondo un orientamento, è stato ritenuto che per la configurazione della fattispecie di coltivazione non è soltanto necessario che la pianta sia conforme al tipo botanico in grado di produrre stupefacenti, ma che questa sia idonea a produrre tale effetto e, di conseguenza, si mostri sia lesiva della “salute pubblica”, sia in grado di aumentare la disponibilità di stupefacente nel mercato.
D’altra parte, invece, si sostiene che «ai fini della punibilità della coltivazione di stupefacenti, l'offensività della condotta consiste nella sua idoneitaà a produrre la sostanza per il consumo, sicchè non rileva la quantita' di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, ma la conformita' della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalita' di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente, nell'obiettivo di scongiurare il rischio di diffusione futura della sostanza stupefacente»[15].
In altre parole, l’oggetto della questione rimesso alle Sezioni Unite è se ai fini della integrazione della fattispecie penale, specificamente la coltivazione, è sufficiente la corrispondenza della pianta al tipo botanico di quelle idonee di produrre stupefacenti, oppure se, oltre a questa correlazione, è necessario che la produzione sia idonea ad aumentare sensibilmente la circolazione della sostanza e, di conseguenza, sia maggiormente in grado di ledere la salute collettiva.
Nel dare risposta all’interrogativo, con decisione n. 12348/20, del 16 aprile 2020, i Giudici di Piazza Cavour hanno ripercorso gli approdi raggiunti in materia dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, dai più risalenti nel tempo ai più recenti.
Così, per delineare i contorni della fattispecie, la Corte ha preso le mosse proprio dagli insegnamenti della Consulta e, segnatamente, alla già sopra richiamata pronuncia n. 360/95, accogliendo e facendone propri i principi, e non solo. Tra le ultime pronunce della Corte Costituzionale richiamate nella decisione, vi è la n.109/16, che va anche oltre quanto affermato dalla più risalente statuizione. Invero, dopo aver ricordato l’ormai incontestabile duplice piano su cui opera la tipicità, i Giudici costituzionali hanno ammesso la possibilità, per il giudice di merito, ove fosse nulla l’offensività concreta della condotta, di ricorrere non solo allo schema previsto dall’art. 49 c.p., come prospettato in passato, ma anche riconoscendo il «difetto di tipicità del comportamento oggetto di giudizio» [16]. Dunque, secondo la richiamata decisione, la carenza di offensività in concreto della coltivazione comporterebbe la mancanza dell’elemento tipico della norma penale venendo, così, meno l’oggettività della fattispecie.
Ora, guidata, o meno, dalla giurisprudenza costituzionale, la Suprema Corte, nelle sue diverse sezioni, è giunta a numerose valutazioni, anche contrastanti tra loro.
Secondo la decisione in esame, il contrasto in materia è nato proprio dalle sentenze gemelle nn. 28605 e 28606 del 2008, emesse dalla medesima formazione. Come già detto, queste ultime rifiutavano la distinzione tra coltivazione tecnica e domestica, rigettando, di conseguenza, l’equiparazione tra la coltivazione di minime dimensioni e la detenzione personale del prodotto. Sempre per come già prospettato, l’assunto si fondava da un lato su un dato letterale, ovvero la coltivazione non era minimamente presa in considerazione nell’alveo dell’art. 75 del D.P.R. 309/90, dall’altro sulla circostanza che coltivazione e detenzione sono attività peculiarmente distinte, ove la seconda, a differenza della prima, è suscettibile di creare nuove disponibilità di stupefacenti. Infine, la decisione osservava come, nel caso di coltivazione, mancasse quel nesso immediato che lasciasse presumere la destinazione della sostanza all’uso personale e non alla cessione.
Ora, proprio su questa statuizione è nato un nuovo contrasto che ha chiamato in causa, ancora una volta, le Sezioni Unite[17].
Come anticipato, da un lato si osservano statuizioni che, per un certo verso, ritengono sufficiente, ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 73, D.P.R. 309/90 - declinato nella forma della coltivazione - la mera corrispondenza dell’arbusto al tipo botanico idoneo a giungere a maturazione e, dunque, produttivo di sostanze stupefacenti. Nell’alveo dell’opinione in parola, sottolinea la Suprema Corte, si innesta una decisione la quale muove dal presupposto che «il legislatore ha inteso incriminare l'attività di "coltivazione" - così definita, senza alcuna aggettivazione - di organismi vegetali da cui sono ritraibili sostanze stupefacenti, con la conseguenza che essa deve ritenersi integrata gia' dalla messa a dimora dei semi»[18]. L’assunto trova fondamento, secondo la statuizione in parola, nella circostanza che il mero commercio di semi, dal quale non può automaticamente ricavarsi la loro futura destinazione, consiste in un atto meramente preparatorio che esula dalla responsabilità penale.
A questo filone se ne contrappone un altro che, al contrario, ritiene insufficiente, ai fini della punibilità, la coltivazione di una pianta meramente conforme a quelle del tipo botanico in grado di produrre stupefacenti. Accanto all’elemento prettamente tipico, si «richiede un quid pluris, rappresentato dal concreto pericolo di aumento della disponibilità dello stupefacente e di ulteriore diffusione dello stesso» [19].
Ben delineati i confini delle due avverse opinioni, le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno ricomposto il contrasto muovendo i primi passe dai punti chiave, ben fissati nella disciplina.
I Giudici, con la decisione in parola, hanno ritenuto di dover accogliere, in pieno, quanto dettato dalle Sezioni Unite con la sentenza 28605/08 (nonché nella 28606/08), sebbene con dei correttivi. In primo luogo, distinguendo tra “tipicità” e “offensività” è stato ritenuto che è da ricondurre al piano della tipicità la corrispondenza della pianta al tipo botanico che normalmente - giunta a maturazione - è idonea a produrre stupefacente. Sempre nell’ambito della fattispecie oggettiva è da riportare la ben nota distinzione tra coltivazione imprenditoriale e domestica, equiparate dal punto di vista della punibilità dalle Sezioni Unite del 2008, sopra indicate e richiamate.
Ed è proprio qui che la nuova formazione giudicante ritiene di doversi discostare dall’opinione espressa in precedenza.
Ora, pur condividendo le premesse dalle quali è scaturita quella decisione, ovvero la netta distinzione tra coltivazione e detenzione, la prima penalmente rilevante, la seconda no, qualora sia destinata ad uso personale, gli Ermellini hanno avvertito il dovere di circoscrivere l’ambito operativo della coltivazione. Invero, negando l’assimilazione della coltivazione domestica alla detenzione, hanno chiarito che è necessario, di converso, mantenere la distinzione tra coltivazione industriale e domestica, sebbene per scinderle sia necessario muovere da una diversa prospettiva.
Nello specifico «l'irrilevanza penale della coltivazione di minime dimensioni, finalizzata esclusivamente al consumo personale, deve, in altri termini, essere ancorata, non alla sua assimilazione alla detenzione e al regime giuridico di quest'ultima, ma, piu' linearmente, alla sua non riconducibilita' alla definizione di coltivazione come attivita' penalmente rilevante»[20].
Per giungere a tale valutazione, la S.C. si muove lungo l’asse già delineato nel 2008 nella misura in cui si afferma che la detenzione differisce dalla coltivazione perché idonea a creare e produrre nuove sostanze droganti. Tuttavia, una tale capacità non è di per sé sussistente nelle coltivazioni domestiche destinate all’uso personale da momento che, appunto, non in grado di incrementare la disponibilità degli stupefacenti.
Dunque, secondo la decisione in commento, proprio la potenziale produttività è uno dei criteri guida per stabilire se una produzione è penalmente rilevante o meno. Altri indici, invece, la Suprema Corte li individua nella giurisprudenza precedente e consolidata, e tra i tanti possono indicarsi «la minima dimensione della coltivazione, il suo svolgimento in forma domestica e non in forma industriale, la rudimentalità delle tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, la mancanza di indici di un inserimento dell'attività nell'ambito del mercato degli stupefacenti, l'oggettiva destinazione di quanto prodotto all'uso personale esclusivo del coltivatore»[21].
Non gode, invece, di alcuna rilevanza «la circostanza che la coltivazione sia intrapresa con l'intenzione soggettiva di soddisfare esigenze di consumo personale deve essere ritenuta da sola insufficiente ad escluderne la rispondenza al tipo penalmente sanzionato, perchè - come appena visto - la stessa deve concretamente manifestare un nesso di immediatezza oggettiva con l'uso personale»[22]. La precisazione è, di per sé, particolarmente rilevante per quanto sarà detto nel capitolo seguente.
In ogni caso, chiarito ciò, in nulla differisce la decisione circa la valutazione della offensività. Non allontanandosi, infatti, da quanto acclarato in sede di valutazione costituzionale e nella precedente giurisprudenza di legittimità, i Giudici de quo hanno riconosciuto come legittima la scelta incriminatrice del legislatore nel guardare alla coltivazione come un fenomeno particolarmente aggressivo, da ricondurre al pericolo presunto giustificando, così, l’anticipazione di tutela.
Tuttavia, proprio questa anticipazione della protezione del bene giuridico - modellata sullo schema del reato di pericolo presunto - rende facile, a giudizio delle Sezioni Unite n.12348/20, definire l’oggetto di protezione della norma di cui all’art. 73, D.P.R. 309/90. Nella giurisprudenza del 2008 (Cass. 28605/08, nonché 28606/08), era stata individuata, infatti, una plurioffensività della fattispecie, la cui tutela spaziava dalla salute collettiva alla protezione delle giovani generazioni. Discostandosi dall’assunto, la statuizione in parola ha considerato come unico bene protetto quello della salute, tanto individuale quanto collettiva, la cui rilevanza è sufficiente per giustificare la punibilità già in una fase antecedente alla sua effettiva lesione.
In concreto spetterà, comunque, al Giudice il delicato compito di verificare, ex post, se la coltivazione, nel suo specifico atteggiarsi, avrà messo in pericolo l’unico bene tutelato. Sul punto, la Suprema Corte, nella sentenza che si commenta, ha indicato anche quali sono gli elementi in grado di escludere la punibilità della condotta in esame, ovvero: «a) un'attuale inadeguata modalita' di coltivazione da cui possa evincersi che la pianta non sara' in grado di realizzare il prodotto finale; b) un eventuale risultato finale della coltivazione che non consenta di ritenere il raccolto conforme al normale tipo botanico, ovvero abbia un contenuto in principio attivo troppo povero per la utile destinazione all'uso quale droga»[23].
Concludendo l’excursus, la Corte ha affermato che nella coltivazione domestica di stupefacenti destinata all’autoconsumo v’è mancanza di tipicità. La logica conseguenza che ne deriva è l’inapplicabilità dell’art. 75, D.P.R. 309/90 perché, in alcun caso, considera come condotta tipica la coltivazione. Tuttavia, ove la l’attività produca, nei fatti, la sostanza sperata, allora la richiamata norma censurerà non la condotta dell’agente come coltivatore ma come detentore.
Per quanto detto, il principio di diritto elaborato dalle Sezioni Unite è il seguente: «Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all'ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell'ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all'uso personale del coltivatore» [24].
Così motivando, secondo la Suprema Corte la coltivazione è, e sarà, sempre attività punibile quando l’oggetto della stessa sia la pianta corrispondente al tipo botanico che, giunto a maturazione, produrrà stupefacenti. Tuttavia, esuleranno dalla responsabilità penale tutte quelle condotte che, pur astrattamente idonee a produrre sostanze stupefacenti, in concreto si rivelino, per la modestissima quantità o per le rudimentali modalità di preparazione, destinate a soddisfare unicamente il coltivatore/assuntore.
5. L’intenzione soggettiva nella coltivazione di stupefacenti
Quanto prospettato e dedotto consente, ora, di affrontare quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 33797/2021. La decisione ha riguardato l’impugnazione di una statuizione emessa dalla Corte d’Appello di Napoli, con la quale quest'ultima ha condannato un soggetto per la coltivazione, sul balcone della propria abitazione, di 20 piante di “marjuana”.
Tra i tre motivi di ricorso, il primo ha assunto particolare rilevanza. Tanto perché, il difensore, riportandosi alla sentenza delle Sezioni Unite n. 12348/20, richiamata nel capitolo precedente, ha ritenuto di poter censurare la decisione sotto il profilo del vizio di motivazione perché, proprio in relazione alla rudimentale tecnica di coltivazione, in uno alla esiguità della sostanza, la condotta dell’agente non avrebbe potuto formare oggetto di condanna quanto, al più, di sanzione amministrativa. La difesa ha ritenuto, inoltre, che l’intenzione dell’agente di consumare la sostanza fosse, in uno alle altre circostanze sopra richiamate, idonea ad escludere la punibilità dell’imputata.
Sul punto la Suprema Corte ha, ancora una volta, ribadito come la coltivazione, precipuamente indicata tra le condotte punibili ai sensi dell’art. 73, D.P.R. 309/90, non sia mai entrata nell’alveo delle sanzioni amministrative indicate nel successivo art. 75. Da questa esclusione scaturisce, a giudizio dei Giudici di legittimità, la valutazione della fattispecie come di pericolo presunto, cosicché, ai fini della sua realizzazione, è necessario solo che la pianta sia corrispondente al tipo botanico in grado di produrre stupefacenti. Tuttavia, ciò non esclude che, in ossequio al principio di offensività in concreto, la coltivazione non sia, in forza degli indici richiamati dalle Sezioni Unite della Corte, inidonea a ledere il bene giuridico della salute, tanto collettiva quanto individuale. Di conseguenza, l’assenza di questi e ulteriori fattori potrebbe essere sintomo della consumazione personale della sostanza.
Dunque, «se dal punto di vista oggettivo, il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza essendo sufficiente la conformità della pianta al tipo botanico presente in natura e la sua attitudine a giungere a maturazione, la circostanza che la coltivazione sia intrapresa con l'intenzione soggettiva di soddisfare esigenze di consumo personale deve essere ritenuta da sola insufficiente ad escluderne la rispondenza al tipo penalmente sanzionato, perchè - come appena visto - la stessa deve concretamente manifestare un nesso di immediatezza oggettiva con l'uso personale»[25].
Giudicando “scevra” da censure la motivazione espressa dalla Corte territoriale, la Cassazione, in forza del principio espresso, ha rigettato le tesi del ricorrente.
La soluzione a cui la S.C. è pervenuta si fonda sull’assunto, già indicato dalle Sezioni Unite nel capitolo precedente, in forza del quale la mera volontà del coltivatore di assumere la sostanza non è, di per sé sola, sufficiente ad escludere la punibilità della condotta, chiedendosi un nesso di immediatezza, o una specifica consequenzialità, tra la piantagione e l’assunzione.
6. Conclusioni
Si può, in conclusione, affermare che la pronuncia in esame è certamente condivisibile perché innestatasi, perfettamente, nel percorso, ormai pacificamente costruito della giurisprudenza che, pur ammettendo la supremazia del legislatore nella tipizzazione astratta di fattispecie di pericolo presunto, lascia spazio al giudice di merito per la loro valutazione concreta.
Nella decisione in commento, la Suprema Corte ha indicato con precisione e puntualità la strada da seguire nella valutazione della condotta della coltivazione, da un lato assecondando la necessità di punire l’attività, data la sua intrinseca pericolosità, in forza della semplice corrispondenza della pianta a quel genere botanico in grado di produrre sostanze stupefacenti, ma dall’altro adeguando il giudizio affinché sia, in concreto, effettivamente proporzionato al grado di lesione del bene giuridico. In assenza di un tale verifica comparatistica, difatti, sarebbe difficilmente sostenibile la compatibilità costituzionale della fattispecie in esame in relazione al principio di offensività.
[1] R. GAROFOLI, Compendio di Diritto Penale, Nel Diritto Editore, VI edizione, 2018-2019, pag. 286
[2] M. SANTISE, Coordinate Ermeneutiche di Diritto Penale, 2016, pag. 132
[3] G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto Penale Parte Generale, VII edizione, 2014, pag. 215
[4] MANTOVANI, Diritto Penale. Parte Generale, 2015, pagg. 206 e 207
[5] M. SANTISE, Coordinate Ermeneutiche di Diritto Penale, 2016, pag. 136
[6] MANTOVANI, Diritto Penale. Parte Generale, 2015, pag. 208
[7] R. GAROFOLI, Compendio di Diritto Penale, Nel Diritto Editore, VI edizione, 2018-2019, pag. 301
[8] G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto Penale Parte Generale, VII edizione, 2014, pagg. 186 e 187
[9] Cass., Sez. IV, Sent. n.36639/12
[10] Corte Cost. Sent. n. 360/1995
[11] Corte Cost. Sent. n. 133/1992, Corte Cost. Sent. n. 333/1991 e Corte Cost. Sent. n. 62/1986
[12] Corte Cost. Sent. n. 360/1995
[13] Sul punto, cfr. Ex mulis Cass. 22110/13, Cass. 43184/13
[14] M. SANTISE, Coordinate Ermeneutiche di Diritto Penale, 2016, pag. 144
[15] Cass. pen. Sent. n. 12348/20, pag. 3
[16] Corte Cost. Sent. n. 109/16
[17] Cass. pen. SS.UU, Sent. n. 12348/2020
[18] Cass. pen. Sent. n. 22459/13
[19] Cfr. sul punto Cass. pen. Sent. n. 25674/11, Cass. pen. Sent. n.5254/15 e Cass. pen. Sent. n. 33835/16
[20] Cass. pen. SS.UU, Sent. n. 12348/2020, pag. 19
[21] Cass. pen. SS.UU, Sent. n. 12348/2020, pag. 20; cfr., sul punto, ex plurimis: Cass. pen. n. 21120/2013, Cass. pen. n. 6753/2014, Cass. pen. n. 33835/2014 e Cass. pen. n. 8058/2016
[22] Ivi, pag. 20
[23] Cass. pen. SS.UU, Sent. n. 12348/2020, pag. 22
[24] Ivi, pag. 22
[25] Cass. pen. Sent. n. 33797/2021