Pubbl. Sab, 3 Ott 2015
“Lecca culo” e “Lecca piedi” integrano il reato di ingiuria: la Cassazione accoglie il ricorso della dipendente contro il datore di lavoro.
Modifica paginaDare del lecca culo al proprio dipendente integra il reato di ingiuria: così ha deciso la Cassazione nella recente pronuncia n. 35013 del 18 giugno 2015. L´espressione lecca culo mortifica i valori fondamentali della persona ed incide sulle qualità personali del dipendente.
Con la sentenza del 18 giugno 2015, n. 35013, depositata il 20 agosto, la Suprema Corte si è espressa in merito alla questione di diritto circa la qualificazione degli epiteti di “lecca culo” e “lecca piedi” quali espressioni ingiuriose, integranti la fattispecie di reato di cui all’art. 594 c.p.
La pronuncia della Cassazione trae origine dal ricorso presentato dalla parte civile, un’assistente alla direzione generale ed amministrativo di un istituto tecnico e professionale, avverso la sentenza del Tribunale di Catania che aveva assolto la direttrice dell’istituto scolastico, imputata del reato di ingiuria per aver apostrofato la propria dipendente, nel contesto di un richiamo disciplinare, con le espressioni di “lecca culo” e di “lecca piedi”.
Con la sentenza del 22 luglio 2009, il Giudice di pace di Catania aveva infatti dichiarato colpevole la direttrice del reato di ingiuria ai danni della propria dipendente, per averle rivolto espressioni quali, riferendosi al rapporto della stessa con la precedente direttrice scolastica, “le leccavi il culo e i piedi”, e l’aveva condanna alla pena di giustizia e al risarcimento del danno in favore della parte civile. In sede di appello, presso il Tribunale di Catania, la direttrice veniva assolta del reato ascrittole perché il fatto non sussiste, atteso che l’offesa rivolta alla dipendente non era stata proferita con riferimento alla sua persona, ma in relazione alla sua condotta lavorativa: la direttrice infatti si sarebbe limitata a richiamare la lavoratrice per il mancato rispetto degli orari e per l’atteggiamento irriguardoso nei suoi confronti.
L’espressione colorita “le leccavi il culo e i piedi” era diretta dunque a riprendere l’atteggiamento piaggeristico che, invece, la stessa lavoratrice coltivava nei confronti della precedente direttrice: gli epiteti sarebbero quindi stati pronunciati in un evidente stato di alterazione psicologica, conseguente all’atteggiamento poco professionale tenuto dalla subordinata, in ragione del quale non poteva dirsi integrata la fattispecie criminosa e, pertanto, si motivava l’assoluzione dal reato di ingiuria.
Avverso la sentenza del Tribunale dl Catania, la dipendente proponeva ricorso per cassazione, denunciando, nei limiti di cui all'art. 173, co. 1 disp. att. c.p.p., violazione di legge: secondo la ricorrente, l'espressione che le era stata rivolta, non può rientrare in un semplice appunto disciplinare, ma intaccherebbe le sue qualità personali, essendo diretta alla persona e non alla condotta, laddove – riprendendo le parole della Corte – “l'imputata è stata motivata da stizza dovuta al comportamento di B., giunta a scuola in leggero ritardo, e l'eventuale richiamo legato alla condotta della dipendente era già stato avanzato in precedenza, quando I. aveva convocato la ricorrente nei suo ufficio per redarguirla”[1].
La Suprema Corte accoglie le doglianze della ricorrente, annullando la sentenza del Tribunale di Catania ai fini degli effetti civili e rinviando al giudice civile competente per valore in grado di appello per un nuovo esame.
In motivazione, i giudici di legittimità argomentano come nel caso di specie sia sussistente la denunciata erronea applicazione della norma penale, nella misura in cui la frase rivolta dalla direttrice alla ricorrente, lungi dal restare circoscritta nell'ambito della censura al comportamento della dipendente, abbia investito la sua persona, rappresentandola, attraverso il riferimento al rapporto con la precedente direttrice, in forma idonea a mortificarne la figura personale nei suoi più alti valori morali[2].
Le espressioni di “lecca culo” e di “lecca piedi” rappresentano quindi un’offesa integrante la fattispecie incriminatrice del reato di ingiuria, in quanto recano un grave pregiudizio ai valori morali ed individuali della persona.
Non rileva altresì che la frase sia stata pronunciata in un evidente stato di alterazione psicologica, atteso che – secondo la Cassazione - “il potere gerarchico o, comunque, di sovraordinazione consente di richiamare, ma non di ingiuriare il lavoratore dipendente o di esorbitare dal limiti della correttezza e dei rispetto della dignità umana con espressioni che contengano un'intrinseca valenza mortificatrice della persona e si dirigano più che all'azione censurata, alla figura morale dei dipendente, traducendosi in un attacco personale sui piano individuale, che travalichi ogni ammissibile facoltà di critica”[3].
[1] Cfr. Cass. pen., sez. V, 18 giugno 2015 (dep. 20 agosto 2015), n. 35013.
[2] Cfr., ex multis, Cass. pen., sez. V, 21 gennaio 2009, (dep. 17 febbraio 2009), n. 6758; Cass. pen., sez. V, 24 novembre 2014, n. 6758.
[3] Cfr. Cass. pen., sez. V, 18 giugno 2015 (dep. 20 agosto 2015), n. 35013.