Pubbl. Mer, 6 Ott 2021
Il diritto penale del nemico, la legislazione a reazione: tra populismo penale e principio di offensività
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Francesco Gregorace
Quando si parla di diritto penale del nemico e di populismo penale si fa riferimento a quel fenomeno di produzione normativa impulsiva, che avviene sempre dopo un accadimento sconvolgente per l´opinione pubblica e che mira a dimostrare ai cittadini la presenza di uno stato forte, in grado di reagire dinnanzi a fatti di particolare gravità. Tuttavia, spesso nella storia del nostro paese questo modo di agire ha comportato notevoli frizioni con i principi fondanti del nostro diritto penale.
Sommario: 1. Premessa; 2. Tre esempi di legislazione “a reazione”; 3. Il populismo penale; 4. Le ricadute del populismo penale sul principio di offensività; 5. Inquadramento del principio di offensività e tecniche di anticipazione della tutela; 6. I reati di pericolo; 7. Le applicazioni nei reati contro il terrorismo; 8. Conclusioni.
1. Premessa
Quando si parla di diritto penale del nemico si fa riferimento a quella tecnica di produzione legislativa impulsiva, emergenziale, finalizzata a “contrattaccare” un nemico in un determinato momento storico.
Trattasi di interventi legislativi che, invece di essere il frutto di un’elaborata ponderazione criminologica, derivano da una catalizzazione della paura e tendono ad una demonizzazione del colpevole.
In questi casi non ci si limita a stigmatizzare il trasgressore della norma penale, ma si tende a considerarlo un vero e proprio nemico dell’ordinamento giuridico.
Il campo elettivo di un simile trend è stato quello dei reati contro il terrorismo che, a partire dagli anni ’70, i c.d. anni di piombo, ha visto un continuo proliferare di novelle legislative, tutte coincidenti con eclatanti fatti di sangue.
Dopo il primo intervento in materia, resosi necessario per fronteggiare il terrorismo di matrice interno ed estremista degli anni ’70, il Legislatore è nuovamente intervenuto sul punto con: i d.l. n. 353 e 369 del 2001 a seguito dell’attentato terroristico dell’undici settembre 2001 e finalizzati a contrastare il terrorismo internazionale; con il c.d. decreto Pisanu nel 2005, il quale è nuovamente intervenuto con “misure urgenti” per contrastare il terrorismo internazionale a seguito degli attentati terroristici di Madrid e Londra del 2005; con il d.l. 7/2015 a seguito dell’attacco da parte del terrorismo di matrice islamica alla sede del giornale satirico Charlie Hebdo; infine, con il d.l. 153/2016 si è data attuazione ad alcune convenzioni internazionali, immediatamente dopo gli attentati terroristici di Nizza nel luglio 2016[1].
Una simile produzione normativa “di reazione”, secondo parte della dottrina disvela una totale incapacità del Legislatore di elaborare, a monte ed in via preventiva, degli strumenti duraturi per la lotta contro il terrorismo.
2. Tre esempi di legislazione “a reazione”
La normativa antiterrorismo costituisce, come detto, il campo elettivo di tali tecniche legislative. Ma non è l’unico. Infatti, la legislazione penale “a reazione” è stata ampiamente utilizzata in diversi ambiti.
L’elemento in comune è sempre lo stesso: reagire immediatamente ad un fatto, che non per forza deve essere particolarmente grave come gli attentati terroristici, per dimostrare al popolo che lo Stato è presente e reagisce, così dissimulando le proprie responsabilità in termini di prevenzione. In altri termini: dove lo Stato non è capace di prevenire, dimostra al cittadino che reagisce “ferocemente”.
Tre esempi di legislazione a reazione in ambiti diversi da quello terroristico possono individuarsi: nella recentissima “norma Willy”, nella previsione del delitto di associazione segreta e nei provvedimenti di contrasto alla criminalità organizzata dei primi anni ‘90.
Con riferimento alla c.d. norma Willy, l'introduzione legislativa deriva dalla tragica morte avvenuta di un giovane di appena 20 anni a seguito di una rissa. A tal proposito è utile delineare in maniera generale il delitto in esame recentemente modificato.
Il delitto di rissa è previsto dall’art. 588 c.p. ai sensi del quale viene punito chiunque «partecipa a una rissa.» inoltre la pena è aggravata qualora «nella rissa taluno rimane ucciso, o riporta lesione personale, la pena, per il solo fatto della partecipazione alla rissa […] se l’uccisione, o la lesione personale, avviene immediatamente dopo la rissa e in conseguenza di essa.»
La norma, posta a tutela dell’incolumità personale e della vita dei partecipi, configura un reato di pericolo nel quale non occorre che la lesione del bene giuridico sia effettiva, essendo sufficiente la sua messa in pericolo a configurare il delitto.
Il reato in oggetto è collocato nell’alveo dei delitti contro la persona, giacché i beni giuridici meritevoli di tutela penale sono da ravvisare nell’incolumità personale e la vita dei partecipanti alla rissa ed altresì dei soggetti terzi estranei alla suddetta.
L’elemento oggettivo del reato, necessita che un gruppo di persone inizino una colluttazione tra di loro con il proposito di ledersi reciprocamente anche non in contemporanea, ma in rapida successione, a condizione che sia ravvisabile una unicità di eventi. Per quanto concerne il numero minimo dei partecipanti, dottrina e giurisprudenza concordano che i partecipanti non possano essere inferiori a tre persone. Con la conseguenza che, ove le persone coinvolte fossero solamente due la fattispecie integrata sarebbe quella delle lesioni ai sensi dell’art. 582 c.p.
La norma “Willy” è il nome assegnato alla disposizione introdotta con il Decreto Sicurezza e Immigrazione, n. 130/2020, approvato esattamente un mese dopo il brutale omicidio di Willy Monteiro Duarte, consumato a Colleferro nella notte tra il 5 ed il 6 settembre a seguito di una rissa.
La normativa modifica, inasprendolo, il regime sanzionatorio per il delitto di rissa. In particolare, viene innalzata la multa da 309 a 2.000 euro e la reclusione – se qualcuno rimanga ferito o ucciso nella rissa – da un minimo di sei mesi a un massimo di sei anni. Inoltre, si prevede il divieto di accesso ai locali di intrattenimento e ai pubblici esercizi per i protagonisti di disordini o atti violenza, nonché per i “soggetti che abbiano riportato una o più denunce o una condanna non definitiva, nel corso degli ultimi tre anni, relativamente alla vendita o cessione di sostanze stupefacenti o psicotrope”.
La previsione, introdotta immediatamente dopo il grave fatto di sangue, sembra essere fatta “su misura” per il fatto accaduto perché, oltre ad innalzare le sanzioni previste per la rissa, prevede ulteriori disposizioni contro la movida violenta che, nel caso di specie, costituiva il contesto nel quale è avvenuto il fatto.
Il delitto di associazione segreta, invece, è stato introdotto con la Legge Anselmi del 1982 a seguito della scoperta della loggia massonica denominata “Propaganda 2”.
La norma è ancora oggi fortemente criticata per i problemi che pone la formulazione della fattispecie. In particolare, la norma individua le associazioni segrete punite in quelle che “occultando la loro esistenza svolgono attività diretta ad interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali, di amministrazioni pubbliche, anche ad ordinamento autonomo, di enti pubblici anche economici, nonché di servizi pubblici essenziali di interesse nazionale”.
Tralasciando i problemi interpretativi che tale norma ha comportato, per quel che ci riguarda in questa sede occorre concentrarsi sulla tipologia di interferenza necessaria per integrare il delitto.
Come ha precisato una recente pronuncia della Cassazione[2], la formulazione della norma richiede che l’associazione segreta abbia una forza tale che riesca ad interferire anche ai livelli apicali dello Stato, costituendo una sorta di contropotere occulto, potenzialmente eversivo.
È evidente che una norma così formulata non possa trovare grande applicazione, per il semplice fatto che associazioni segrete dotate di una simile influenza non è facile né trovarne né costituirne.
Pertanto, anche tale intervento normativo pare sia stato costruito ad immagine e somiglianza del fatto appena scoperto. La P2, infatti, per la rilevanza delle persone iscritte, avrebbe avuto la forza capace di intervenire ed interferire ai piani alti dello Stato, come richiesto dalla norma[3].
Le due fattispecie indicate, costituiscono ulteriori casi di norme di reazione, emanate nella “foga del momento” e senza un’adeguata ponderazione.
Senza poi considerare che, in realtà, non può nemmeno parlarsi di vera e propria “reazione”, per il semplice fatto che le norme introdotte post factum, solitamente più severe, non potranno essere applicate ai fatti posti in essere prima della loro entrata in vigore.
Le due norme indicate costituiscono solo alcuni di una più vasta gamma di interventi di tal fatta.
Si pensi anche alle disposizioni antimafia in materia di carcere duro, che hanno richiesto l’intervento delle bombe di Capaci e Via D’Amelio per essere finalmente approvate.
In tal caso, infatti, nell’immediatezza della strage di Capaci del 23 maggio 1992, sedici giorni dopo, in data 8 giugno 1992, veniva presentato il decreto-legge sul carcere duro, la cui conversione in legge, però, tardava ad arrivare a causa di discussioni in parlamento tra il fronte dei “garantisti” e quello dei “giustizialisti”. Decreto-legge che, tuttavia, veniva immediatamente convertito in legge il 7 agosto 1992, dopo soli diciannove giorni dalla strage di via D’Amelio.
Ciò a dimostrazione del fatto che, a prescindere dalla valutazione di merito degli interventi legislativi indicati, la legislazione penale in Italia ha spesso avuto bisogno di eventi straordinariamente tragici per velocizzarne l’approvazione e, purtroppo, sempre ex post.
3. Il populismo penale
Per comprendere cosa si intenda con populismo penale, è necessario precisare che cosa sia il populismo.
Quest’ultimo indica quel movimento che individua nel popolo un agglomerato sociale omogeneo, le cui istanze sono interpretate direttamente da un leader. In dottrina si è affermato che “al popolo si contrappone il “non popolo” costituito da un “nemico” che può essere rappresentato tanto da élite plutocratiche quanto da settori marginali della società. La creazione di un nemico è operazione fondamentale della visione populista e sovente indulge al razzismo”[4]. In sostanza, con esso intende riferirsi a quell’atteggiamento politico demagogico che ha come unico scopo quello di accattivarsi il favore della gente.
Con il termine populismo penale, invece, vuole indicarsi la strategia diretta ad ottenere demagogicamente il consenso popolare rispondendo, attraverso la legislazione penale, alla paura generata nella popolazione. In relazione alla sua origine, alcuni autori ritengono che esso derivi da una particolare modalità di comunicazione televisiva, sviluppatasi negli ultimi trent’anni, nella quale le questioni di pubblico interesse vengono affrontate incentrandosi più sulle emotività collettive che su un contraddittorio ragionato e pacato; opinione avversata da chi sostiene che, in realtà, l’inflazione del sistema penale caratterizza un elemento tipico dell’evoluzione legislativa[5].
Tratto essenziale del populismo penale è la mancata considerazione dei dati oggettivi, che si traduce nella proliferazione legislativa penale e nel perpetuo inasprimento delle sanzioni previste, considerate come mai abbastanza proporzionate.
Inoltre, tale fenomeno può concretizzarsi nella creazione di “finte emergenze” in relazione ad ambiti che, proprio l’analisi dei dati statistici smentiscono l’emergenza.
È il caso dell’immigrazione irregolare, che in Italia registra numeri più bassi di molti altri paesi europei, ovvero dei vari “cavalli di battaglia” che caratterizzano tutti i governi, come la lotta alla mafia, la lotta alla corruzione, le “manette” per i grandi evasori.
Tutti esempi di slogan propagandistici finalizzate ad accaparrarsi il consenso popolare[6].
Per quanto concerne il rapporto tra il populismo politico e populismo penale, partendo dal presupposto che in linea teorico i due populismi non debbano necessariamente coincidere, in dottrina si è ritenuto come, invece, negli ultimi anni la legislazione penale sia stata spesso utilizzata in chiave demagogica al fine di alimentare la paura quale fonte del consenso elettorale. Ragion per cui gli atteggiamenti tipici del populismo penale si son rivelati perfettamente funzionali al populismo politico.
Si tratta di considerazioni basate sulla realtà percepita. Infatti, a livello statistico in Italia i delitti sono in costante diminuzione ogni anno e, tuttavia, la percezione che viene veicolata anche tramite i mass media è esattamente opposta.
Pertanto, nella popolazione viene alimentata quella paura e quella necessità di individuare un nemico comune, solitamente “estraneo” come gli immigrati, le banche o l’Unione Europea, che costituiscono il terreno fertile del populismo penale e annichiliscono il garantismo [7].
4. Le ricadute del populismo penale sul principio di offensività
Dal punto di vista tecnico-giuridico, questo trend populista della legislazione penale, si è tradotto in una costante anticipazione della tutela, facendo proliferare fattispecie incriminatrici di pericolo astratto, presunto o concreto. Tecnica legislativa che, in ragione dell’onda populista, rischia di collidere con i principi cardine del diritto penale.
Tuttavia, occorre premettere che nonostante le frizioni che i reati di pericolo astratto e presunto pongono con il canone dell’offensività, questi sono ritenuti pienamente ammissibili.
In particolare, la dottrina prevalente ritiene che la loro legittimazione emerga, in particolar modo, quando essi siano posti a presidio di beni giuridici di rango elevatissimo, nonché in quelle ipotesi in cui la configurazione del delitto nella forma del reato di pericolo concreto esporrebbe il bene giuridico ad un rischio troppo elevato.
Le fattispecie di pericolo e, più in generale, l’anticipazione della tutela ha sempre vissuto un rapporto conflittuale con il principio di offensività. La ragione è presto detta. I reati di pericolo, anticipando la soglia del penalmente rilevante, non puniscono la lesione diretta del bene giuridico, ma solo la sua messa in pericolo.
5. Inquadramento del principio di offensività e delle tecniche di anticipazione della tutela
Prima di analizzare in maniera più approfondita i reati di pericolo è d'uopo inquadrare il ruolo che il principio di offensività svolge nel nostro ordinamento.
Si tratta di un principio che rinviene il proprio fondamento sia a livello costituzionale che a livello legislativo.
Con riferimento alla carta fondamentale, la norma di riferimento va rinvenuta nell'art. 27 Cost. il quale al primo comma, postulando la personalità della responsabilità penale, esclude la possibilità di “strumentalizzare” l’uomo per ragioni di politica criminale. Ma non è tutto. Anche il terzo comma della medesima disposizione che, prevedendo la finalità rieducativa della pena, implica che il fatto debba essere offensivo. Appare evidente, infatti, come una pena per un fatto inoffensivo non sarebbe compresa e, di conseguenza, verrebbe vanificata la funzione educativa.
A livello codicistico, invece, è controverso se il principio di offensività trovi fondamento nell’art 49 comma 2 c.p. La norma disciplina il reato impossibile e recita “la punibilità è esclusa quando, per l’inidoneità dell’azione...è impossibile l’evento dannoso o pericoloso.” Sul punto però non vi è accordo in dottrina, infatti, le tesi che si dibattono sono tre: in primo luogo, la tesi tradizionale ritiene che la norma citata configuri un doppione in negativo del delitto tentato. Ad essa si contrappone la “concezione realistica”, secondo la quale il reato impossibile si configura in presenza di un fatto tipico, quindi antigiuridico e colpevole, ma non offensivo. Concezione molto criticata in quanto pone l’offensività della condotta al di fuori del fatto tipico.
Una terza tesi, infine, ritiene che il fatto sia tipico quando esso è già offensivo; dunque, l’offensività non costituisce un elemento esterno, come sostenuto dalla concezione realistica, ma è intrinseco alla fattispecie tipica. Aderendo a tale ultima, e maggioritaria, tesi deriva che: qualora il fatto compiuto dal soggetto agente non sia offensivo, non si configura nemmeno il fatto tipico e la formula assolutoria sarà “perché il fatto non costituisce reato”. Tesi, questa, che confermerebbe il fondamento costituzionale dell’offensività, imponendo una interpretazione dei reati in chiave offensiva; ma anche tutti gli elementi accidentati ad esso, come le circostanze aggravanti, dove l’aggravio sanzionatorio non può non trovare la propria ratio in una maggiore offensività della condotta.[8]
Chiarito quanto sopra, come in precedenza accennato, il principio di offensività entra in tensione quando si è in presenza di quei delitti nei quali si assiste ad una anticipazione della tutela penale. Orbene, l’anticipazione della tutela penale, fuori dalla tipica ipotesi del tentativo di delitto ai sensi dell’art. 56 c.p., ha trovato terreno fertile soprattutto nel c.d. diritto penale emergenziale. In questo contesto, le tecniche tradizionali per la realizzazione dell’anticipazione sono essenzialmente due: costituire fattispecie associative ovvero fattispecie che, a vario titolo, puniscano gli atti preparatori. Trattasi di due modalità che, nonostante comportino la punibilità di condotta molto lontane dalla realizzazione del fatto offensivo, si differenziano sotto il profilo della reale “lontananza” dalla lesione.[9]
A ben vedere, infatti, mentre le fattispecie che connotano di rilevanza penale l’atto preparatorio in sé hanno comunque un reato come punto di riferimento, rispetto al quale valutare la rilevanza oggettiva della condotta, ciò non accade nelle ipotesi di fattispecie associative.
In questo secondo caso, il punto di riferimento non è più un reato ma una programmazione di reati, nei quali ad essere determinato è solo il “programma”. Ragion per cui, il disvalore penale e l’effettiva offensività può ricavarsi solamente dall’organizzazione di mezzi e persone.
Ne deriva che in questo quadro il principio di offensività deve necessariamente trovare una “breccia” per costruire un “argine garantista” per rendere compatibili tali fattispecie con il nostro ordinamento penale. Appare evidente, dunque, come il problema principale sia quello di impedire reprimere mere intenzioni criminose.[10]
Per quanto concerne le ipotesi di rilevanza degli atti preparatori, il necessario contemperamento con la libera manifestazione del pensiero ai sensi dell’art. 21 cost. impone che occorra un quid pluris rispetto alla mera intenzione. Uno strumento ermeneutico per risolvere la problematica relativa all’individuazione dell’effettiva consistenza di questo “qualcosa in più” può ricavarsi da quanto statuito dalla Corte costituzionale nella sentenza 65/1970 in tema di apologia di reato.
In quella sede, i giudici costituzionali valorizzarono il carattere interrelazione del comportamento hanno chiarito che l’apologia punibile non può essere la mera manifestazione del pensiero ma “quella che per le sue modalità integri il comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti”. Dunque, per l’incriminazione occorre che la condotta meramente intenzionale sia in grado di mettere a repentaglio il bene giuridico protetto valorizzando la sua idoneità ad essere accolta da altri soggetti.[11]
Con riferimento, invece, alle fattispecie associative lo strumento tramite il quale valorizzare l’offensività è valorizzare l’organizzazione dei mezzi e delle persone. Più in particolare, l’assetto organizzativo deve “mostrare” la finalità offensiva del sodalizio, attraverso un assetto organizzativo idoneo a raggiungere le finalità associative nonché gli strumenti per farlo. Trattasi, ovviamente, di una valutazione da effettuarsi in concreto, essendo ben diverso il grado di organizzazione necessario per realizzare, ad esempio, delitti contro il patrimonio rispetto a quello occorrente per un colpo di Stato.[12]
6. I reati di pericolo
Si definiscono reati di pericolo quelli nei quali, tramite una anticipazione della soglia del penalmente rilevante, la mera esposizione a pericolo del bene giuridico tutelato configura il reato. Non occorre la lesione effettiva del bene ma è sufficiente la sua messa in pericolo.
Pertanto, occorre chiarire quale sia l’essenza del pericolo, dovendo anch’esso sottostare al principio di tassatività e determinatezza per evitare che possa emergere l’intuizionismo dell’interprete.[13].
Autorevolissima dottrina, definisce il pericolo come la relazione probabile tra un fatto ed un evento qualora, secondo un giudizio ex ante e secondo la miglior scienza ed esperienza, appaia probabile che da quella determinata condotta consegua l’evento lesivo[14].
Per quanto concerne il suo accertamento, occorrerà procedere con la c.d. prognosi ex ante a base totale, sempre secondo la migliore scienza ed esperienza del momento storico[15].
Orbene, posto che il principio di offensività richiede l’esistenza di un “pericolo” di lesione probabile, mentre il populismo penale si caratterizza per pene sproporzionale, fattispecie indefinite e anticipazione della tutela, il problema che si pone è verificare come si possa comunque rispettare il canone dell’offensività. Quest’ultimo, infatti, entra in fibrillazione anche per le tecniche con le quali vengono delineate le fattispecie. In dottrina si fa riferimento ai reati c.d. senza offesa e ai reati a dolo specifico.
Nella prima categoria rientrano i reati di pericolo astratto e presunto con la loro eccessiva anticipazione della tutela, mentre i secondi costituiscono lo strumento principe per inquinare il principio di offensività e aprire le porte ad un diritto penale soggettivo.
Per queste ragioni nella giurisprudenza maggioritaria, al fine di recuperare tale categoria di delitti al principio di offensività, prevale l’impostazione che oggettivizza il dolo, considerato non quale mera intenzione offensiva, ma come obiettiva idoneità della condotta a realizzare l’intenzione.
Mentre nelle ipotesi di delitti di pericolo astratto o presunto nelle quali, a causa dell’eccessiva anticipazione della tutela, l’offesa manchi, la giurisprudenza subordina la punibilità delle condotte alla sussistenza del requisito della idoneità a porre in essere il delitto.
Di fatto, trasformando tali delitti da pericolo astratto in pericolo concreto[16].
7. Le applicazioni nei reati contro il terrorismo
Con riferimento alla legislazione antiterroristica, due sono le fattispecie che, più di altre, hanno posto seri problemi con il principio di offensività.
In particolare: l’art. 270-bis c.p., che punisce l’associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordinamento democratico e l’art. 270-quater c.p., che punisce l’arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale.
Principiando dal reato previsto dall’art. 270-bis c.p., la giurisprudenza occupatasi della fattispecie, dopo averla qualificata in termini di reato di pericolo presunto, ha posto rimedio ai problemi con l’offensività tramite l’oggettivizzazione del dolo specifico, richiedendo che la finalità di violenza terroristica non debba esaurirsi nella sola mente del soggetto attivo ma, al contrario, occorre che essa abbia un riflesso nella materialità dei fatti[17].
Anche l’elemento oggettivo ha posto analoghi problemi nella parte in cui punisce la mera promozione, organizzazione, direzione le associazioni aventi finalità terroristiche. Sul punto la giurisprudenza ha posto rimedio anche in tal caso richiedendo il requisito, non richiesto dalla norma, della idoneità organizzativa dell’associazione per attuare il programma criminoso[18].
L’ipotesi nella quale questo “diritto penale del nemico” ha creato i maggiori problemi di coordinamento con l’offensività è, senza dubbio, quella prevista dall’art. 270-quater c.p. che incrimina l’arruolamento con finalità di terrorismo.
In particolare, in tal caso una pronuncia giurisprudenziale, avallando un’autorevole dottrina, ha addirittura ipotizzato l’ammissibilità del tentativo; andando così a punire il pericolo di pericolo che sembrerebbe assolutamente inconciliabile con il principio di offensività[19].
Innanzitutto, la fattispecie punisce la condotta di arruolamento di una o più persone per il compimento di attività con finalità di terrorismo.
Una volta chiarito in giurisprudenza che, nella fattispecie indicata, il termine arruolare debba essere inteso quale sinonimo di “ingaggiare” e quindi quale vero e proprio accordo, la compatibilità della norma con il principio di offensività viene fatta dipendere dalla serietà o meno dell’accordo[20].
Sul punto non vi è unanimità in giurisprudenza.
Alcune pronunce[21], infatti, hanno ritenuto che la serietà dell’accordo non fosse necessaria per l’integrazione della fattispecie, contrariamente ad altre che ritengono la serietà dell’accordo l’elemento decisivo per dare una lettura della norma in chiave offensiva[22].
Quest’ultima interpretazione, che equipara il reclutamento ad un vero e proprio ingaggio, comporta che la fattispecie configura un reato contratto, nel quale si assiste ad un contratto a tutti gli effetti, nel quale c’è la proposta dell’ingaggio da parte del soggetto attivo e l’eventuale accettazione e adesione al programma delittuoso della controparte. In sostanza, si assiste ad una vera e propria trattativa.
Pertanto, ne deriva che è ben possibile che l’ingaggio non avvenga immediatamente e che si instauri una vera e propria trattativa; in tal caso la progressione della trattativa corrisponderà ad una analoga progressione criminosa, che esporrà il bene giuridico ad un pericolo di lesione graduale.
È sulla base di questa fattispecie negoziale a formazione progressiva che in giurisprudenza si è ritenuto ammissibile la configurabilità del tentativo[23].
Quest’ultimo sarebbe configurabile, anche nelle fattispecie in cui vi sia una rilevante anticipazione della tutela, tutte le volte in cui il fatto sia scomponibile in vari segmenti che consentano di isolare la soglia del tentativo da quella del perfezionamento.
In tal modo verrebbe meno l’argomento base con cui si esclude l’ammissibilità del tentativo nei reati di pericolo, ovverosia quello per cui in queste ipotesi la soglia del tentativo punibile coinciderebbe con la consumazione. In tal caso ciò non accadrebbe proprio in ragione della particolarità della fattispecie[24].
8. Conclusioni
In conclusione, da quanto appena esposto è evidente che il fenomeno del populismo politico in questo particolare momento storico, per le ragioni evidenziate, vede nel populismo penale, che esiste almeno da cinquant’anni in Italia, uno strumento necessario per accaparrarsi il consenso elettorale.
Ragion per cui, spesso, la legislazione penale, soprattutto quando interviene in settori particolarmente preoccupanti per l’incolumità e l’ordine pubblico, tende ad assumere i caratteri tipici del populismo penale.
Quest’ultimo, a sua volta, entra in conflitto con due principi cardine del nostro diritto penale: quello di materialità ed offensività.
Ciò, come visto, avviene tramite la proliferazione delle fattispecie penali, il ricorso all’anticipazione della tutela, il continuo inasprimento delle sanzioni aumentando, così, anche la discrezionalità del Giudice, nonché tramite la creazione di reati di pericolo astratto o presunto ovvero a dolo specifico.
Caratteristiche che, da un lato, sono coerenti con lo statuto del populismo penale, ma, dall’altro, incompatibili con i principi di materialità e offensività del nostro diritto penale.
Per tali ragioni, rimanendo inadempiuto il compito del Legislatore di configurare fattispecie di reato che siano offensive già in astratto, sarà compito della giurisprudenza garantire, in via ermeneutica, l’offensività dei fatti di reato.
[1] M. SANTISE – F. ZUNICA, Coordinate ermeneutiche di diritto penale, Torino 2018.
[2] Cfr. Cass. pen. sez. V, sent. del 26.03.2018 n. 33146, in motivazione “Il risultato dell’interferenza perseguita da un’associazione segreta deve coincidere con l’adozione di decisioni prese al di fuori delle sedi istituzionalmente competenti a valutare la rilevanza di determinati interessi pubblici; l’associazione deve costituire un “contropotere” che adotta le decisioni che, per il tramite dell’interferenza, vengono eseguite dagli organi costituzionali o dalle amministrazioni pubbliche. La capacità dell’associazione di “interloquire” e di “fare pressione” su rappresentanti e pubblici amministratori o dipendenti, quindi, non è di per sé interferenza, a meno che non si provi il venir meno della libertà decisionale da parte dell’organo o dell’amministrazione, divenuti meri esecutori delle decisioni prese altrove”.
[3] R. GAROFOLI, Focus magistratura, n. 2-3, Febbraio 2019.
[4] Cfr. I. DA CAMERANA, Voce populismo, in N. BOBBIO – N. MATTEUCCI – G. PASQUINO, Il dizionario di politica, Torino, 2004. Osserva: Treccani.it “populismo s. m. – 1. Movimento culturale e politico sviluppatosi in Russia tra l’ultimo quarto del sec. 19° e gli inizî del sec. 20°; si proponeva di raggiungere, attraverso l’attività di propaganda e proselitismo svolta dagli intellettuali presso il popolo e con una diretta azione rivoluzionaria (culminata nel 1881 con l’uccisione dello zar Alessandro II), un miglioramento delle condizioni di vita delle classi diseredate, spec. dei contadini e dei servi della gleba, e la realizzazione di una specie di socialismo rurale basato sulla comunità rurale russa, in antitesi alla società industriale occidentale. 2. Per estens., atteggiamento ideologico che, sulla base di principî e programmi genericamente ispirati al socialismo, esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi. Con sign. più recente, e con riferimento al mondo latino-americano, in partic. all’Argentina del tempo di J. D. Perón (v. peronismo), forma di prassi politica, tipica di paesi in via di rapido sviluppo dall’economia agricola a quella industriale, caratterizzata da un rapporto diretto tra un capo carismatico e le masse popolari, con il consenso dei ceti borghesi e capitalistici che possono così più agevolmente controllare e far progredire i processi di industrializzazione. In ambito artistico e letterario, rappresentazione idealizzata del popolo, considerato come modello etico e sociale: il p. nella letteratura italiana del secondo dopoguerra.”.
[5] Cfr. L. ORSI, Istantanee del populismo penale in Italia, oggi. Note a margine di un recente saggio sul giustizialismo morale, in Questionegiustizia.it, 2020.
[6] Op. citata“Il tratto caratteristico del populismo è la scarsa o nulla considerazione dei dati oggettivi, se non addirittura la loro manipolazione. Sul fronte del diritto penale, il metodo, per così dire, è quello di privilegiare la “percezione” emotiva del fenomeno criminale, quale magari si è costruita mediaticamente. Si ignora, ad esempio, in via generale, che la statistica dei reati commessi sul territorio nazionale decresce costantemente negli anni. Questo atteggiamento si manifesta nel propugnare il più ampio ricorso alla moltiplicazione dei reati. Ma si coglie anche nell’idea che le sanzioni penali vigenti non siano mai abbastanza proporzionate. A questo proposito gli Autori, con amara ironia, auspicano che l’escalation sanzionatoria sia contenuta ripristinando la legge del taglione il cui merito sarebbe quello di mettere un freno prevedibile all’entità della pena (non più di un occhio per un occhio)”, ancora “Il populismo penale come “spirito del tempo” non si esaurisce in un indistinto sentimento collettivo ma informa di sé, secondo accenti variegati, la legislazione e la giurisdizione penale. In evidente assonanza con l’opinione di chi rileva che «il populismo penale è una espressione di demagogia penalistica equamente ripartita tra legislazione, politica e magistratura» gli Autori rassegnano alcuni aspetti di attitudine populista nei rispettivi contesti.”
[7] Cfr. L. FERRAJOLI, Il populismo penale nell’età dei populismi politici, in Questione Giustizia, n.1, 2019 in cui precisa quali siano le tre ragioni del nesso tra populismo politico e populismo penale: “Per tre ragioni, tutte legate al nesso tra populismo penale e populismo politico e al connaturato antigarantismo di qualunque populismo. La prima ragione è il consenso di massa ottenuto dalle politiche securitarie. L’Italia è uno dei Paesi più sicuri del mondo. In questi ultimi 20 anni si è prodotta una riduzione costante del numero dei delitti: 397 omicidi nel 2017, gran parte dei quali consistenti in femminicidi, rispetto alle molte migliaia degli anni passati: oltre 4.000 alla fine dell’Ottocento, più di 3800 negli anni Venti e quasi 2.000 negli anni Novanta del secolo scorso. Siamo anche in presenza di una riduzione delle violenze sessuali e perfino dei furti, benché si sia notevolmente ridotta la cifra nera delle une e degli altri. E tuttavia è aumentata l’insicurezza a causa della distanza crescente tra percezione e realtà. In passato la cronaca nera occupava le ultime pagine dei giornali. Oggi i telegiornali si aprono con l’ultimo omicidio o l’ultimo stupro. La percezione dell’insicurezza è insomma interamente una costruzione sociale, prodotta da quelle fabbriche della paura nelle quali si sono trasformati i media e in particolare la televisione. Se infatti tutti gli omicidi e tutti gli stupri vengono raccontati in televisione, se su di essi si svolgono dibattiti e inchieste giornalistiche, se poi i relativi processi vengono seguiti in tutte le loro fasi, si crea la sensazione che viviamo nella giungla. È precisamente questa paura e la conseguente richiesta di punizione che il populismo politico intende interpretare e prima ancora alimentare quale facile fonte di consenso. La seconda ragione è il tendenziale colpevolismo dell’opinione pubblica. Le garanzie non fanno parte della cultura di massa e neppure del senso comune. Gli imputati, secondo l’opinione corrente, non si presumono innocenti, ma colpevoli. Il garantismo non fa parte del senso comune, che ha bisogno, purtroppo, di avventarsi immediatamente su capri espiatori. In breve, esso non è popolare e questo basta al populismo per rifiutarlo come un lusso da anime belle. Naturalmente siamo qui di fronte a un paradosso. Il garantismo non è solo un sistema di limiti e vincoli al potere punitivo, sia legislativo che giudiziario, a garanzia delle libertà delle persone da punizioni eccessive o arbitrarie. Esso è ancor prima un sistema di regole razionali che garantiscono, nella massima misura, l’accertamento plausibile della “verità processuale” e perciò la punizione dei veri colpevoli. Ma è precisamente questa razionalità che non viene accettata né capita da gran parte dell’opinione pubblica, che aspira al contrario alla giustizia sommaria, tendenzialmente al linciaggio dei sospetti. E anche questo è sufficiente al populismo per offrire rappresentanza a tale concezione e alla conseguente domanda di vendetta. La terza ragione della funzionalità del populismo penale al populismo politico è la convergenza tra la tendenza di questo a definirsi sulla base dell’identificazione di nemici e il paradigma del diritto penale del nemico. Tutti i populismi hanno bisogno di legittimarsi attraverso un nemico o meglio attraverso più nemici: nemici interni che complottano e nemici esterni come la Francia o l’Unione europea o l’Onu; nemici in alto, rappresentati dalle élites, e nemici in basso rappresentati dai migranti e dai soggetti devianti; nemici identificati con i precedenti Governi e nemici consistenti nelle opposizioni. Auto-identificazione degli eletti con il popolo sovrano, aggressioni alle élites, razzismo, paura per i crimini di strada, intolleranza del dissenso, fastidio per il pluralismo sia politico che istituzionale, vittimismo permanente sono gli ingredienti di questa logica del nemico. È chiaro che i devianti e, prima ancora, gli indagati e gli imputati si rivelano come i nemici ideali. L’abbiamo visto con la spettacolarizzazione dell’arresto di Cesare Battisti, messo in scena come una gogna. Il populismo, del resto, non conosce cittadini ma solo amici e nemici. Concepisce la giustizia penale come una guerra contro il male e l’insicurezza come emergenza quotidiana che richiede di essere rappresentata, drammatizzata e spettacolarizzata. Alimenta ed interpreta il desiderio di vendetta su capri espiatori. Configura l’irrogazione di pene come nuova e principale domanda sociale e perfino come risposta a gran parte dei problemi politici.”
[8] Cfr. F. MANTOVANI, Diritto penale, CEDAM, Padova 2015.
[9] Cfr. R. GIOVAGNOLI, Manuale di diritto penale parte generale, Torino 2019.
[10] Cfr. R. GIOVAGNOLI, op. cit.
[11] Cfr. R. GIOVAGNOLI, op. cit.
[12] Cfr. R. GIOVAGNOLI, op. cit.
[13] Cfr. F. MANTOVANI op. cit.
[14] Cfr. F. MANTOVANI op. cit.
[15] Cfr. F. MANTOVANI op. cit.: In merito al giudizio di accertamento del pericolo ritiene che la prognosi ex ante garantisce una verifica reale del pericolo, soprattutto se retrocessa al momento della condotta. Un giudizio ex post, infatti, priverebbe il pericolo della sua funzione di tutela anticipata ed inoltre, poiché effettuato a cose già avvenute, l’evento lesivo non è più probabile in quanto o si è verificato o non si è verificato. La base totale del giudizio richiede che vengano prese in considerazione tutte le circostanze esistenti, anche se non conosciute dall’agente. Solo in tal modo si potrà comprendere se il pericolo sussisteva veramente. In via esemplificativa: si pensi ad un incendio appiccato in un luogo solitamente deserto che, tuttavia, in quel preciso giorno era affollato e si prenda ad esempio anche il caso esattamente opposto; con un giudizio a base totale sarà possibile punire solamente quando vi sia realmente il pericolo, al contrario con il giudizio a base parziale andrebbe esclusa l’esistenza del pericolo qualora il soggetto attivo appicchi il fuoco nel luogo solitamente deserto ma quel giorno affollato. Il criterio della migliore scienza ed esperienza del momento storico è l’unico ad essere idoneo a stabilire ciò che è o non è pericoloso. Per quanto concerne, infine, il requisito probabilistico esso è l’elemento essenziale del pericolo. Quest’ultimo, infatti, non dovrà mai parametrarsi né sulla mera possibilità né sulla certezza, perché il parametro deve essere quello della probabilità relativa.
[16] Cfr. F. MANTOVANI op. cit.
[17] Cfr. M. SANTISE, op. cit.
[18] Cfr. Cass. pen. sez. V, sent. n. 2651 del 2015, massima “Il reato di cui all'art. 270 bis c.p. è un reato di pericolo presunto, onde, se si dimostra l'esistenza di una struttura organizzativa con grado di effettività tale da rendere almeno possibile l'attuazione del programma criminale, e che giustifichi la valutazione legale di pericolosità, il reato associativo resta integrato, non essendo anche necessario che l'associazione si esprima attraverso la predisposizione di un programma di azioni terroristiche.” In senso analogo, Cassazione penale, sezione V, sentenza n. 48001 del 2016, in motivazione: “La ravvisabilità della condotta associativa di cui all'articolo 270-bis del Cp, pur trattandosi di un reato di pericolo presunto, se non richiede la predisposizione di un programma di azioni terroristiche, necessita tuttavia della costituzione di una struttura organizzativa con un livello di "effettività" che renda possibile la realizzazione del progetto criminoso, rappresentato dal "compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo o di eversione". Ne deriva che la rilevanza penale dell'associazione si lega non alla generica tensione della stessa verso la finalità terroristica o eversiva, ma al proporsi il sodalizio la realizzazione di atti violenti qualificati da detta finalità: costituiscono pertanto elementi necessari, per l'esistenza del reato, in primo luogo, l'individuazione di atti terroristici posti come obiettivo dell'associazione, quantomeno nella loro tipologia; e, in secondo luogo, la capacità della struttura associativa di dare agli atti stessi effettiva realizzazione. In questa prospettiva, non è ravvisabile il reato in presenza di una attività di "indottrinamento", avente a oggetto l'avviamento di correligionari islamici verso una radicalizzazione tendente a renderli dei combattenti disponibili al martirio, risolvendosi questa in un'attività solo finalizzata a indurre nei destinatari una generica disponibilità a unirsi ai combattenti per la causa islamica e a immolarsi per la stessa, che non dà la necessaria consistenza a quegli atti di violenza terroristica o eversiva il cui compimento deve costituire specifico oggetto dell'associazione de quo. In sostanza, a un'attività di tal genere si potrebbe attribuire rilievo solo se risultasse svolta nell'ambito di una cellula terroristica della quale sia stata aliunde riconosciuta l'effettiva operatività o, comunque, laddove alla attività di indottrinamento si affiancasse quella di addestramento al martirio di adepti da inviare nei luoghi di combattimento, che attribuisca all'esaltazione della morte, in nome della guerra santa contro gli infedeli, caratteristiche di materialità che realizzino la condizione per la quale possa dirsi che l'associazione, secondo l'indicazione della norma, si propone il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo…Per la configurabilità del reato di cui all’art. 270 bis c.p., è necessario che all’attività di indottrinamento e reclutamento finalizzata ad ottenere una generica disponibilità nei destinatari ad unirsi ai combattenti per la causa islamica e ad immolarsi per la stessa, si affianchi quella di addestramento al martirio di adepti da inviare nei luoghi di combattimento, che attribuisca all’esaltazione della morte, in nome della guerra santa contro gli infedeli, caratteristiche di materialità che realizzino la condizione per la quale possa dirsi che l’associazione si propone il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo…Per la configurabilità del delitto di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale è necessaria la sussistenza di una struttura criminale che si prefigga la realizzazione di atti violenti qualificati da detta finalità ed abbia la capacità di dare agli stessi effettiva realizzazione, non essendo sufficiente una mera attività di proselitismo ed indottrinamento, finalizzata ad inculcare una visione positiva del martirio per la causa islamica e ad acquisire generica disponibilità ad unirsi ai combattenti in suo nome.”
[19] Cfr. M. SANTISE, op. cit.
[20] Cfr. F. CARINGELLA, A. SALERNO, A. TRINCI, Manuale ragionato di diritto penale parte speciale, Roma, Ottobre 2020.
[21] Cfr. Cass. pen., sez. II, sent. n.23168 del 2019: “Ai fini dell'integrazione del delitto di arruolamento passivo con finalità di terrorismo anche internazionale, di cui all'art. 270-quater, comma 2, c.p., non è necessaria la prova di un "serio accordo" con l'associazione (nella specie, Al Qaeda), ma è sufficiente la dimostrazione della concreta ed incondizionata disponibilità del neo arruolato al compimento di atti terroristici, anche a progettazione individuale, funzionali al raggiungimento degli scopi eversivi di matrice "jihadista" propagandati dall'organizzazione criminale.”.
[22] Cfr. Cass. pen., sez. VI, sent. n. 23828 del 2019, “In tema di arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale, la nozione di "arruolamento" è equiparabile a quella di "ingaggio", per esso intendendosi il raggiungimento di un serio accordo tra soggetto che propone il compimento, in forma organizzata, di più atti di violenza ovvero di sabotaggio con finalità di terrorismo, e soggetto che aderisce.”. In senso conforme: Cassazione penale, sezione I, sentenza n.40699 del 2015, massima: “In tema di arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale, la nozione di "arruolamento" è equiparabile a quella di "ingaggio", per esso intendendosi il raggiungimento di un serio accordo tra soggetto che propone il compimento, in forma organizzata, di più atti di violenza ovvero di sabotaggio con finalità di terrorismo e soggetto che aderisce.”
[23] Cfr. M. SANTISE, op. cit.
[24] Cfr. Cass. pen., sez. I, sent. n.40699 del 2015: “Il termine arruolamento, adoperato dal legislatore nel testo dell’art. 270-quater c.p., deve essere inteso – diversamente da quanto accade in relazione al dettato dell’art. 244 c.p. (atti ostili verso uno Stato estero, che espongono lo Stato italiano al pericolo di guerra) - non quale espressione dell’ingresso formale in un ruolo propriamente inteso, ossia dell’effettivo inserimento del soggetto arruolato in formazioni di tipo militare, che siano gerarchicamente organizzate, bensì come avvenuto perfezionamento di un serio accordo tra i soggetti. Tale accordo rappresenta già l’evento del reato, laddove esso mostri i caratteri della autorevolezza, credibilità e concretezza della proposta, nonché della fermezza della volontà di aderire al progetto. Deve inoltre risultare evidente la doppia finalizzazione voluta dalla norma (consistente nel compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio). Nulla osta quindi che – nell’ambito dello snodarsi progressivo di contatti, che possono culminare nella formazione del serio accordo nei termini sopra esposti – sia possibile individuare elementi aventi crismi di concludenza tali da configurare un tentativo punibile".