La relazione tra neuroscienze e diritto penale: una breve analisi comparativa
Modifica paginaIl contributo intende tratteggiare, anche in ottica comparatistica, un sintetico quadro dei rapporti tra i risultati attuali delle ricerche neuroscientifiche, affiancate dalla genetica comportamentale, da un lato, e diritto e processo penale, dall’altro. Dopo una breve analisi delle tendenze giurisprudenziali e delle impostazioni dottrinali che si sono sviluppate sulla questione, verrà evidenziato che non si dispone ancora di elementi sufficienti a determinare una rifondazione dello ius criminale, ferma l’esigenza, già attuale, della modifica di alcuni istituti, al fine di conformare maggiormente il sistema al principio di colpevolezza. Si osserverà, infine, che le neuroscienze potrebbero fornire un supporto assai utile nel contesto dell’illecito colposo, al fine di garantire una valutazione maggiormente individualizzata e quindi più in linea con il principio di inesigibilità.
Sommario: 1. Cenni preliminari ai rapporti tra neuroscienze e materia penale; 2. Le nuove prospettive neuroscientifiche in giurisprudenza; 3. Considerazioni circa le proiezioni delle neuroscienze rispetto al principio di colpevolezza, con particolare riferimento all’imputabilità; 4. Segue. Dolo e colpa; 5. Conclusioni.
1. Cenni preliminari ai rapporti tra neuroscienze e materia penale
Con la locuzione “scienze cognitive” si definisce quel vasto insieme di discipline che studiano, dal punto di vista tecnico-scientifico e filosofico, i meccanismi mediante i quali l’individuo si rapporta con l’esterno attraverso la conoscenza[1]; per quanto concerne le neuroscienze (o neurobiologia), invece, queste si occupano dello studio del sistema nervoso umano al fine di ricostruire il funzionamento del cervello (brain) e della mente (mind) e le loro interconnessioni, attingendo risorse da molti campi del sapere e, altresì, come il suddetto sistema influisce sul comportamento[2].
Quest’ultime, più di preciso, analizzano la base biologico-neuronale delle funzioni cognitive e volitive sfruttando, oggi, le tecniche di neuroimaging, come, ad esempio, la tomografia assiale ad emissione di positroni (PET, che esamina i processi metabolici nel cervello attraverso la somministrazione di un radiofarmaco per endovena) e la risonanza magnetica funzionale (fMRI, che opera attraverso i processi emodinamici e l’ossigenazione della struttura cerebrale); esse si affiancano, tra l’altro, al tradizionale elettroencefalogramma (che monitora l’attività elettrica del cervello) e alle tecniche di esplorazione morfologica (tra cui la TAC), che rappresentano, nel loro insieme, metodologie diagnostiche dell’attività cerebrale, ed hanno il fine di individuare come la struttura neuronale, specie se anomala o alterata, incida sullo svolgimento delle attività umane.
Le ricerche, in questo campo, hanno dimostrato molte funzionalità della struttura cerebrale medesima e delle reti neuronali, anche se le conoscenze attuali risultano assai limitate rispetto al complesso ancora da esplorare; in ogni caso, le recenti scoperte hanno consentito, in qualche modo, di sconfessare dal punto di vista scientifico la dicotomia tra cervello e mente, ponendo sotto il faro le forti interrelazioni tra questi e rivitalizzando, così, anche l’antico dibattito filosofico tra “determinismo” (secondo il quale l’agire umano avrebbe una causa predefinita e dipendente da fattori originari o sopravvenuti non dominabili) e “libero arbitrio”[3] (in termini di autonomia delle scelte individuali rispetto al sostrato fisico)[4].
Le neuroscienze forensi, invece, hanno lo scopo di proiettare tale coacervo di discipline nell’ambito del processo e del diritto, soprattutto quello penale, e hanno cominciato ad avvalersi, negli ultimi anni, di una serie consistente di studi empirici, alimentando due impostazioni fondamentali:
i) quella “forte” (o “rifondativa”), in base alla quale il sistema penale dovrebbe essere integralmente modificato, in prospettiva de iure condendo, alla luce delle scoperte in questo specifico settore: non avrebbe senso, infatti, secondo questa tesi, ad esempio, discutere di colpevolezza e di funzione retributiva della pena in relazione a condotte che non dipendono dalla libera volontà individuale, essendo dettate dal corpo (per via della carenza di potere di autodeterminazione e di insussistenza di alternative per il soggetto agente). Questa linea di pensiero[5], peraltro, è alimentata dagli studi di genetica comportamentale che, in qualche misura, hanno dimostrato alcune corrispondenze tra caratteristiche del patrimonio genetico e talune tendenze individuali al crimine[6];
ii) quella “debole” (o “moderata”)[7] che, prendendo le mosse soprattutto dalla ancora limitata portata dei risultati degli studi in questo settore, che non consentirebbero a tutt’oggi di escludere il dominio dell’individuo sul proprio agire, sostiene che le neuroscienze potrebbero essere impiegate, de iure condito, in posizione ancillare, per l’applicazione del diritto vigente in sue particolari proiezioni (quali, soprattutto, l’imputabilità) in ausilio ad altri strumenti scientifici e, quindi, soprattutto in sede processuale. Quest’ultima linea di pensiero, che peraltro risulta maggioritaria, prende le mosse anche da taluni risultati di esperimenti e, in particolare, da quello condotto da Benjamin Libet (la cui simulazione è visionabile anche attraverso vari video diffusi sul web)[8] che, per sintetizzare, mostra come vi sia uno iato tra attivazione cerebrale prodromica all’azione, volizione ed esecuzione, in sequenza (con l’effetto che l’individuo potrebbe auto-determinarsi in ordine alla propria condotta, realizzandola o inibendola. Si è parlato, allora, invece di “free will”, di “free won’t”, cioè della capacità/possibilità dell’individuo di decidere se “seguire le indicazioni del proprio cervello”)[9].
Si tratta, all’evidenza, di una estrema indicizzazione delle posizioni di quegli studiosi che hanno assunto il compito di proiettare i risultati delle scoperte neuroscientifiche sul terreno del diritto e del processo criminale (in questo caso al fine di verificare la fruibilità delle nuove tecniche nella cornice dei mezzi di prova messi a disposizione dal sistema, e nell’ottica dei limiti posti dal diritto positivo: il riferimento è, chiaramente, al divieto della perizia criminologica e personologica, di cui all’art. 220 comma 2 c.p.p.), e che fino a qualche anno fa erano fiorite soprattutto nel panorama straniero, per poi alimentare, progressivamente, anche un folto dibattito italiano.
C’è, però, da soggiungere, indipendentemente dalla capacità dimostrativa delle neuroscienze, che le prospettive di queste rispetto al “futuro” del sistema criminale dipendono anche, e non in misura indifferente, dalla funzione che s’intendesse attribuire alla pena, oltre che alle misure di sicurezza: è chiaro, infatti, che laddove ne venisse accentuata la finalità preventiva e, in particolare, quella a carattere speciale, la limitazione della libertà personale pur in difetto di una effettiva dominabilità della condotta da parte dell’individuo troverebbe, comunque, una propria giustificazione anche rispetto al soggetto che “non agit sed agitur”, venendo in crisi, però, ineluttabilmente, lo scopo retributivo[10].
Non è certo questa, allora, l’occasione per analizzare ex professo le teorie generali della pena e la funzione dello ius criminale nell’era contemporanea, anche con riferimento al c.d. “doppio binario”[11] (che è previsto, ad esempio, seppur con non trascurabili differenze, anche nel sistema spagnolo, in quello tedesco ed in quello francese); in questa sede, invece, s’intende tratteggiare un veloce quadro ricostruttivo del dibattito relativo ai rapporti tra neuroscienze e diritto/processo penale, partendo da una breve disamina della giurisprudenza, anche straniera, per poi sviluppare alcune riflessioni a margine.
Lo scopo della presente trattazione è, dunque, quello di verificare se ed in che modo le più recenti emergenze tecnico-scientifiche influiscano sulla questione relativa all’esigibilità, che sconta la mancanza – al contrario del sistema tedesco (il riferimento è al § 35 StGB, come interpretato dalla dottrina tedesca maggioritaria, che ha eletto lo stato necessità scusante a esplicitazione generale del relativo principio) – di un riconoscimento normativo ad hoc[12]. Difatti, l’esigibilità (che può essere intesa, per prima approssimazione, come possibilità di muovere un rimprovero nei confronti di un individuo per non aver tenuto, pur potendo, un comportamento conforme alla legge) viene in gioco (sebbene ciò sia stato talora trascurato dagli studiosi della materia) anche rispetto all’imputabilità, oltre che all’elemento soggettivo del reato e, quindi, proprio sui temi più strettamente interessati dalle evidenze neuroscientifiche[13].
2. Le nuove prospettive neuroscientifiche in giurisprudenza
2.1. Verosimilmente, la prova neuroscientifica ha fatto ingresso, per la prima volta, in sede processuale davanti alle Corti statunitensi, già a partire dagli anni ‘40 (attraverso l’elettroencefalogramma), con riferimento all’insanity defence, alla incompetency to stand trial, alla diminished capacity, o in sede di sentencing, al fine di ottenere, in tale ultima ipotesi, un’attenuazione del trattamento sanzionatorio per via del riconoscimento di mitigating factors (che assurgono, presso varie giurisdizioni statunitensi, ad elementi valutabili quoad poenam secondo la logica dell’art. 133 c.p. nostrano), spesso in contesti ove altre tecniche diagnostiche non sono state in grado di fornire risposte convincenti. Gli studi statistici più recenti, peraltro, hanno mostrato un sempre maggior ricorso a tali mezzi di prova, in tutte le fasi del procedimento, specie nei death penalty cases.
Quanto all’incapacità di intendere e di volere, negli Stati Uniti d’America, a lungo le Corti si sono riferite alla M’Naghten rule, creata dalla giurisprudenza britannica a metà ‘800 [Queen v. M’Naghten, 8 Eng. Rep. 718 (1843)], secondo la quale un soggetto sarebbe stato giudicabile insane soltanto nel caso in cui esso, al momento del fatto, versasse in una situazione patologica o mostrasse un difetto mentale tale da non poter discernere il bene dal male, così da risultare impossibilitato a conformarsi al precetto penale (c.d. “follia cognitiva”); successivamente, a metà degli anni ‘50 dello scorso secolo, però, è stato elaborato il Durham rule (Corte d’appello del Distretto di Columbia 214 F.2d 862 del 1954), secondo cui un individuo avrebbe dovuto ritenersi insane agli effetti penali anche nel caso in cui fosse stato affetto da un vizio di mente in mancanza del quale non avrebbe realizzato il reato, con estensione, perciò, della defence anche all’ipotesi dell’incapacità di volere (slegata da quella di intendere), correlata al concetto di “impulso irresistibile” (c.d. “follia volitiva”).
Questi due criteri, successivamente, sono stati fusi nell’ALI rule, nel contesto del Model penal Code dell’American Law Insitute, del 1962, che, per l’appunto, prevedeva che un soggetto potesse essere ritenuto responsabile di una offence solo in caso di capacità di intendere e volere al momento della realizzazione della condotta criminosa, in modo assimilabile, sotto certi versi, alla logica del sistema italiano attuale (oltre che di quello spagnolo – vd. art. 20 del Código penal, che tra le cause che esimono dalla responsabilità criminale prevede, al n. 2, l’ipotesi in cui, al momento della realizzazione del reato, il soggetto «non possa comprendere l’illiceità del fatto, o comportarsi in maniera conforme alla norma» - e tedesco: vd. § 20 StGB. Analogamente, per il sistema francese, vd. art. 122-1 del Code Pénal, che richiama il discernement e le contrôle de actes).
Tuttavia, a seguito del clamore generato dal proscioglimento dell’attentatore del Presidente Ronald Reagan, nel corso di un procedimento nel quale erano state allegate prove in ordine all’anomalia morfologica della struttura cerebrale del convenuto (John Hinckley, che, per quanto emerso nel processo, aveva agito al fine di ripercorrere le orme del protagonista del film Taxi Driver, di Martin Scorsese, per attrarre l’attenzione dell’attrice Jodie Foster, della quale lo stesso era ossessionato), è stato approvato, nel 1984, l’Insanity Defence Reform Act, che ha espunto la componente volitiva ed ha ribaltato l’onere della prova in ordine alla sussistenza della excuse sulla difesa (presumption of sanity), con il superamento del principio in base al quale era onere di questa esclusivamente quello di sollevare la questione, essendo, invece, l’accusa obbligata a dimostrare la sanity al di là di ogni ragionevole dubbio[14].
C’è da rilevare che, addirittura, in alcuni Stati federali (Montana, Idaho, Kansas e Utah) la legge esclude in radice l’insanity defence, anche se l’infermità può essere valorizzata nella prospettiva dello standing trial, che del resto rappresenta, anche rispetto alle altre giurisdizioni, l’obiettivo principale delle difese degli imputati, perché di più agevole dimostrazione (l’accertamento dell’incapacità e la soluzione guilty but insane può, però, condurre, in caso di persistente pericolosità sociale, all’applicazione di misure restrittive della libertà personale sine die. L’attentatore di Reagan è stato dimesso, ad esempio, dall’ospedale psichiatrico St. Elizabeth’s Hospital solo nell’anno 2018), la quale opera sulla base della Dusky rule, elaborata dalla Corte Suprema nel 1960 [Dusky v. U.S. (1960) 362 US 402], secondo la quale «il principio del giusto processo non ammette di sottoporre a giudizio penale persone che non possiedono una comprensione razionale e fattuale del procedimento e che non hanno la capacità di cooperare con i loro avvocati con un ragionevole grado di comprensione razionale».
Occorre tener presente, tuttavia, che l’introduzione nel processo penale della relativa quaestio può rappresentare un’arma a doppio taglio, atteso che nel caso in cui dovesse essere accertata l’infondatezza del rilievo in ordine alla adjudicative competence (incapacità di stare in giudizio) l’imputato può essere accusato di “intralcio alla giustizia”, come è accaduto nel caso del boss mafioso newyorkese Vincent Gigante (che ammise di aver simulato la propria insanity nel corso di un processo allorquando emersero le prove della circostanza che questi impartisse dal carcere, durante il trial, per il vero con una certa lucidità e determinazione, gli ordini destinati agli appartenenti alla cosca alla quale egli faceva capo).
Per quanto concerne la mens rea, che si collega alla material offence (o actus reus, che rappresenta il sostrato “materiale” della condotta), nel sistema giuridico statunitense, in essa si intrecciano (fino a confondersi) elemento soggettivo ed imputabilità come intesi dalla scienza penalistica nostrana, tanto che, ad esempio, il vizio parziale di mente (difettando una disposizione quale quella compendiata nell’art. 89 c.p.) viene dedotto nel giudizio proprio nell’ottica di dimostrare il difetto di tipicità e dell’elemento soggettivo caratteristico del reato (diminished capacity); l’accertamento di tale status può condurre, in particolare, nel caso dell’omicidio (che è una fattispecie che prevede diversi “gradi” di responsabilità proprio in ragione della diversità dell’elemento psicologico, con un ventaglio che spazia dal dolo premeditato alla colpa) ad una qualificazione giuridica più favorevole per il defendant. Sicchè, in altri termini, nel sistema giuridico degli Stati federali, il vizio parziale di mente può essere valutato nell’ottica della qualificazione giuridica del fatto attraverso l’esclusione di alcuni elementi caratteristici dei singoli illeciti, oltre che in ordine al quantum di pena irrogata, in sede di sentencing.
Così, ad esempio, il Tribunale distrettuale di New Mexico con una pronuncia del 3 giugno 2014 ha condannato John Charles McCluskey per un duplice omicidio all’ergastolo anziché alla pena capitale in quanto la giuria non aveva raggiunto l’unanimità sul punto, verosimilmente proprio alla luce delle prove neuroscientifiche introdotte nel processo, che avevano consentito di dimostrare varie anomalie della struttura cerebrale dell’imputato dal punto di vista morfologico, nonché diverse disfunzioni del cervello attraverso l’espletamento di una PET, che la difesa dell’imputato aveva prodotto al fine di dimostrare l’inabilità del reo a programmare i fatti di reato realizzati.
Nel caso Florida v. Grady Nelson, del 2010 (11 Fla. Circ. Ct., 2010), l’imputato, reo di uxoricidio, invece, ha evitato la pena di morte in un processo davanti al Tribunale di Miami ove era stata introdotta, per contrastare l’accusa di omicidio di primo grado, la prova neuroscientifica, che aveva mostrato alcune anomalie funzionali del cervello.
Ed ancora, in precedenza, nel caso People v. Weinstein [591 N.Y.S.2d 715 (1992)] l’imputato, accusato di aver strangolato la propria moglie e di averla successivamente scaraventata dal dodicesimo piano di un edificio, è stato condannato, attraverso plea bargain, per manslaughter (omicidio colposo) a seguito dell’espletamento di una PET, che aveva evidenziato disfunzioni della struttura cerebrale.
C’è da tener presente, inoltre, che nel sistema processuale statunitense, al culmine della fase dibattimentale, le prove raccolte vengono valutate generalmente da giurie popolari, e, quindi, da soggetti che non possiedono neppure le conoscenze giuridiche necessarie a tradurre il “dato tecnico” nella proiezione del diritto; il che determina un alto tasso di imprevedibilità delle soluzioni in punto di responsabilità del defendant ma, nel contempo, una più ampia incidenza della prova neuroscientifica sul giudizio, attesa la sua ampia portata “suggestiva”.
Altra peculiarità è, ovviamente, rappresentata dalla death penalty, ancora prevista in diversi Stati dell’Unione; a tal proposito occorre rilevare, allora, che la Corte Suprema degli Stati Uniti [Atkins v. Virginia, 536 US 304 (2002)] ha stabilito che la condanna a morte di un soggetto disabile mentalmente è in contrasto con l’Ottavo emendamento (che vieta l’applicazione di pene sproporzionate o crudeli), e che la giuria deve essere messa in condizione di valutare appieno la sussistenza di patologie in modo tale da ponderare il verdetto di colpevolezza [Penry v. Johnson, 532 US 782 (2001)]. Ciò giustifica, ulteriormente, l’ampio ricorso alla prova neuroscientifica che si registra nel processo penale statunitense[15].
2.2. Spostando l’obiettivo dell’indagine sul contesto italiano, si può da subito rimarcare che, certamente, i dati disponibili mostrano un’assai inferiore penetrazione delle nuove evidenze neuroscientifiche nel processo penale nostrano rispetto al panorama statunitense. Volendosi, dunque, tratteggiare in questa sede un veloce affresco, si può rammentare che nel processo di revisione relativo alla condanna per omicidio nel caso “Gucci” la Cassazione (Cass., Sez. V, 18 maggio 2006, “Reggiani”), a seguito dell’assunzione di prove per neuroimaging, pur ammettendo una certa capacità esplicativa di tali mezzi, ha negato che i risultati acquisiti nel caso di specie, attraverso suddette tecniche, avessero consentito di incrinare la valutazione della piena capacità di intendere e di volere dell’imputata, già rassegnata nel corso del precedente giudizio.
Nel processo “Bayout”, nel corso del quale è intervenuta la sentenza Corte d’assise d’appello di Trieste, 18 settembre 2009, n. 5, è stata eseguita, in sede di rinnovazione dell’istruttoria in secondo grado, una perizia genetico-comportamentale che ha messo in luce che l’imputato, reo di omicidio, presentava un corredo cromosomico indicativo di un accentuato rischio di aggressività; tale accertamento non ha, però, condotto in quella occasione a tangibili effetti nell’economia del processo, atteso che è stato confermato, in sostanza, il vizio parziale di mente già riconosciuto in primo grado. Appare, tuttavia, utile evidenziare che la Corte territoriale abbia sottolineato, in motivazione, la particolare “significatività” di questa tipologia di indagini scientifiche.
Di seguito, nel processo sull’omicidio di Cirimido, in sede di giudizio abbreviato, il Tribunale di Como (sent. 20 maggio 2011, n. 536, “Albertani”) ha affermato la parziale incapacità dell’imputata ponderando, in aggiunta alla perizia psichiatrica, le indagini condotte sulla struttura morfologica cerebrale, nonché la consulenza genetica di parte, che aveva evidenziato la sussistenza di caratteri cromosomici tali da favorire comportamenti aggressivi.
Con la sentenza Cass., Sez. I, 13 novembre 2013, n. 37244, la suprema Corte ha rigettato il gravame di un’imputata che era stata accusata dell’omicidio della propria figlia di sei mesi, gettata dal terrazzo allorquando, per quanto emerso nel corso del dibattimento, essa era affetta da una forma depressiva post partum. Con il ricorso, più in particolare, l’interessata era insorta avverso la sentenza emessa dalla Corte d’assise d’appello di Roma che aveva riconosciuto il vizio parziale di mente, invocando l’assoluzione per totale infermità. Il tutto dolendosi della mancata valutazione, in particolare, delle emergenze di un test computerizzato di monitoraggio dell’attività cerebrale (aIAT) che, nella prospettiva della difesa, avrebbe dimostrato un restringimento del campo della coscienza, tale da influire sulle capacità di controllo degli impulsi aggressivi.
La Cassazione, tuttavia, in questa occasione, ripercorrendo la motivazione resa dalla Corte territoriale – che aveva rimarcato la scarsa attendibilità della prova neuroscientifica introdotta dalla parte – si è limitata a declinare il motivo di ricorso per via dell’inammissibilità di censure aventi ad oggetto la valutazione della prova condotta dal giudice del merito, se assistita da congrua motivazione.
La Cassazione si è soffermata poi sulla capacità euristica delle neuroscienze con la pronuncia relativa al terremoto dell’Aquila, intervenuta sul caso “Commissione Grandi Rischi” (Cass., Sez. IV, 24 marzo 2016, n. 12478, “De Bernardinis”); e ciò in un fugace passaggio, attraverso il quale la Corte, nell’esaminare la questione dell’accertamento del nesso tra le propalazioni in TV di tono rassicurante provenienti dall’imputato, quale membro della Protezione civile, e la condotta tenuta dalle vittime delle scosse telluriche, ha negato la possibilità di ricorrere a leggi scientifiche di copertura, affermando, di converso, la fruibilità di massime d’esperienza. Il tutto segnalando «il diffuso riconoscimento dell’attuale e persistente incapacità del sapere scientifico di fornire elementi di conoscenza idonei (nonostante gli enormi progressi della riflessione neuroscientifica) a garantire in termini universali (o anche solo su un piano di apprezzabile consistenza statistica) la sicura spiegabilità del comportamento umano in relazione a prevedibili costanti riferite ai nessi di condizionamento sviluppabili nel quadro delle interazioni psichiche tra i soggetti».
Con la successiva sentenza Cass., Sez. I, 7 febbraio 2018, n. 26895, invece, la suprema Corte ha scrutinato il ricorso di un imputato minorenne, condannato in sede di merito per omicidio volontario, perpetrato con un’arma da fuoco ai danni di un automobilista, per motivi di viabilità; in particolare, la difesa si era lamentata della mancata valorizzazione degli accertamenti neuroscientifici acquisiti al dibattimento, che avrebbero dimostrato – in thesi – una disfunzionalità della struttura cerebrale dell’omicida, che era stata ritenuta dai giudici del merito non dimostrativa dell’incapacità, in ragione del difetto di prova rigorosa in ordine al collegamento tra le anomalie strutturali riscontrate e la capacità di autocontrollo.
La Corte, allora, nel richiamare la sentenza “Raso” (Cass., Sez. Un., 25 gennaio 2005, n. 9163)[16], che ha esteso ai disturbi della personalità le ipotesi di incapacità di intendere e di volere (superando l’accezione c.d. “nosografica”, o “organicistica”, a condizione della sussistenza di un nesso causale tra l’anomalia riscontrata e specifico fatto di reato realizzato) [17] e la “Cozzini” (Cass., Sez. IV, 17 settembre 2010, n. 43786), che dal canto suo ha esaltato la necessità di fruizione da parte del giudice penale di leggi scientifiche affidabili in quanto verificate, ha rigettato il ricorso, poiché «non è risultato – in sede di merito – asseverata da idoneo consenso scientifico la verità dei nessi che si pretende di ritenere sussistenti tra la specifica anomalia evidenziata nell’esame diagnostico e il processo formativo della volontà manifestata in concreto».
La prova neuroscientifica è stata utilizzata anche nel caso dell’omicidio “Palleschi”, avvenuto nel novembre del 2014 a Sora (in provincia di Frosinone) ai danni di una donna uccisa da un individuo che, dopo aver avvistato la vittima mentre questa faceva jogging in un parco, l’aveva afferrata alle spalle per palpeggiarla e, in considerazione del fatto che costei aveva cominciato a gridare, l’aveva colpita violentemente, caricandola sulla propria autovettura, gettandola in un dirupo e colpendola nuovamente a morte con una grossa e pesante pietra.
L’uomo, il giorno seguente l’aggressione, si era per di più recato nuovamente in loco, denudando la vittima e compiendo vilipendio di cadavere (masturbandosi ed eiaculando sul corpo della povera donna); all’esito di celebrazione del processo nelle forme del rito abbreviato, nel corso dell’udienza preliminare, l’imputato, dunque, era stato condannato all’ergastolo ma la Corte d’assise, in sede di gravame, aveva diminuito la pena riconoscendo un vizio parziale di mente. Ciò dando credito alla perizia svolta da un esperto che si era avvalso di accertamenti tecnici che avevano mostrato, mediante la TAC, la lesione in zona prefrontale bilaterale del cervello dell’imputato (causata da un pregresso sinistro stradale) ricollegabile, in base all’esperienza medico-legale, a comportamenti immorali ed antisociali, anche per quanto concerne la sfera sessuale, proprio del tipo di quelli oggetto di giudizio.
Sicchè la Cassazione, scrutinando il ricorso della Procura Generale e delle parti civili costituite, lo ha declinato per infondatezza, ritenendo che la decisione impugnata fosse immune da censure, tanto sotto il profilo motivazionale quanto del rispetto delle norme processuali che attengono all’acquisizione e alla valutazione della prova scientifica in giudizio (Cass., Sez. I, 18 maggio 2018, n. 11897).
Anche la sentenza Cass., Sez. V, 13 dicembre 2018, n. 6739 ha rilevato l’importanza delle neuroscienze rispetto alle evoluzioni del concetto di capacità di intendere e di volere in seno al diritto penale, avendo le stesse confermato che sostanziano “infermità” anche «disturbi della personalità, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale»[18].
Con la sentenza Cass., Sez. II, 26 gennaio 2021, n. 9870, infine, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso di un imputato che, giudicato in fase di merito responsabile per il delitto di estorsione, aveva ottenuto il riconoscimento della parziale infermità di mente, dolendosi, tuttavia, nella prospettiva dell’affermazione della totale incapacità, del mancato espletamento di ulteriori prove neuroscientifiche a carattere strumentale, atteso che il giudizio sull’imputabilità era stato condotto solo con la perizia psichiatrica. In particolare, la Cassazione ha ritenuto la decisione della Corte d’appello immune da censure in quanto la difesa non aveva indicato gli elementi in base ai quali si sarebbe dovuti pervenire alla conclusione dell’inadeguatezza della perizia già espletata rispetto all’individuazione del quadro clinico dell’imputato al momento del fatto, mancando, dunque, spunti dimostrativi della necessità di ulteriori approfondimenti.
Ciò che emerge, allora, dalla casistica giurisprudenziale italiana[19], è:
i) l’ancora scarso utilizzo delle nuove tecniche neuroscientifiche nel processo, ove spesso si sfrutta esclusivamente il mezzo della perizia psichiatrica[20];
ii) la tendenziale “sfiducia” da parte dei giudici rispetto alla capacità euristica delle nuove tecniche diagnostiche, che sono state utilizzate solo in via congiunta ad altri accertamenti “tradizionali” e valorizzate esclusivamente nel caso di piena concordanza con i risultati da questi restituiti;
iii) l’impiego, da parte delle difese degli imputati, di prove neuroscientifiche solo ai fini dimostrativi dell’incapacità di intendere e di volere, totale o parziale, e non rispetto all’elemento psicologico del reato, o alle circostanze, attenuanti o aggravanti, astrattamente applicabili al caso processuale, o ancora alla pericolosità sociale.
Insomma: il tema dei rapporti tra neuroscienze (o meglio tra nuove emergenze scientifiche nel settore) e ius criminale, al momento, sembra aver maggiormente influenzato le riflessioni dottrinali piuttosto che la prassi giurisprudenziale[21].
3. Considerazioni circa le proiezioni delle neuroscienze rispetto al diritto penale, con particolare riferimento all’imputabilità
Non può essere certo revocato in dubbio il ruolo fondamentale dell’imputabilità nel contesto della colpevolezza, intesa in senso normativo: la capacità di intendere e di volere costituisce il presupposto perché un determinato fatto di reato possa essere ricondotto ad un individuo, e ritenuto realmente “opera sua”. Né, francamente, si può mettere in discussione che il diritto penale debba essere finalizzato (non tanto alla prevenzione, quanto piuttosto) alla rieducazione del reo[22] (o al trattamento terapeutico nel caso di disagio psichico), in ossequio al dettato costituzionale. È altrettanto certo che l’interprete sia chiamato ad analizzare con rigore, sulla base di tutti gli elementi di prova disponibili, la sussistenza dell’elemento soggettivo, dolo o colpa, nella prospettiva dell’an della responsabilità e del quantum di pena.
La giurisprudenza, con un’accelerazione, per il vero, a seguito della sentenza “Dell’Andro” (Corte cost., 23 marzo 1988, n. 364), ha intrapreso una commendevole rilettura del sistema, al fine di adeguarlo al principio di colpevolezza, come attesta:
i) la già citata sentenza “Raso” che, in tema di imputabilità, ha consentito il superamento del modello “medico” (“biologico-organicista”) e l’adozione di un’impostazione “integrata” (“bio-psico-sociale”), con il passaggio dal concetto di malattia a quello, più lato, di infermità mentale[23];
ii) gli sviluppi segnati dalla sentenza Thyssenkrupp (Cass., Sez. Un., 18 settembre 2014, n. 38343), che si è sforzata di ancorare l’analisi del dolo eventuale, al confine con la colpa cosciente, a degli indicatori, e cioè a parametri maggiormente oggettivi, e quindi verificabili, esaltando la funzione distintiva della componente volitiva;
iii) il progressivo abbandono dell’equazione violazione della regola cautelare=colpa (e quindi del sostrato normativo) e l’esaltazione della c.d. “misura soggettiva” (in termini di prevedibilità ed evitabilità in concreto), in opposizione all’accezione puramente “normativa”, espressiva di responsabilità di tipo oggettivo;
iv) il recupero della colpevolezza nel contesto dei reati c.d. “aggravati dall’evento”, attraverso la sentenza “Ronci” (Cass., Sez. Un., 29 maggio 2009, n. 22676), che ha avallato la configurabilità della culpa in re illicita[24].
Rimangono, certamente, ancora molti coni d’ombra[25], alcuni determinati dalla legge vigente ed altri dalla giurisprudenza, tra i quali:
i) le modalità di ascrizione dell’evento lesivo non voluto nell’omicidio preterintenzionale, che rappresenta ancora una roccaforte della responsabilità oggettiva[26];
ii) la fictio iuris relativa all’elemento psicologico nell’ubriachezza/stupefazione volontaria o colposa[27];
iii) la mancata valorizzazione in ottica esimente delle dipendenze e della c.d. “crisi d’astinenza”[28] e, addirittura, la previsione dell’aumento della pena per l’abitualità (art. 94 c.p.)[29] con risultati ormai disallineati rispetto all’accezione moderna del principio di colpevolezza (oltre che alle evidenze scientifiche in materia), perché espressivi della Lebensführungschuld anziché del Tatstrafrecht[30];
iv) il depotenziamento giurisprudenziale dell’error iuris, come attesta la circostanza che l’errore sul fatto e quello sulla legge extra-penale vengano sistematicamente ricondotti a quello sul precetto, che a sua volta viene giudicato sempre inescusabile in sede pretoria, attraverso un atteggiamento che conferisce eccessiva austerità al sistema (specie in considerazione della sua caoticità, soprattutto in alcuni settori, come, ad esempio, quello ambientale), e che provoca un evidente disallineamento rispetto al principio della c.d. “foreseeability”, di matrice europea, come attesta la questione dei c.d. “fratelli minori di Contrada”, in tema di concorso esterno in associazione mafiosa[31];
v) le modalità di ascrizione dell’illecito omissivo, attraverso forme di responsabilità oggettiva, perché dipendente dalla mera conoscenza dell’obbligo di attivarsi, sulla quale, per consolidati orientamenti giurisprudenziali, sta e cade l’elemento soggettivo[32], etc.
A ben considerare, tuttavia, mentre le tendenze giurisprudenziali da ultimo indicate sono alimentate, in maniera prevalente, da finalità preventive, il self restraint che si registra, come si è avuto modo di constatare, in tema di espletamento e di valorizzazione delle nuove prove neuroscientifiche risiede, almeno in prevalenza, nella circostanza che si tratta di un sapere ancora assai incerto, oggetto di una palese diversità di vedute già tra gli esperti del settore: troppo limitate appaiono, ancor oggi, le emergenze scientifiche affinché si possa seriamente ipotizzare che esse possano rilanciare il dibattito in ordine alla ristrutturazione del diritto penale dalle sue fondamenta, specie in un contesto, quale quello del vizio di mente, che già di per sé impegna scienze nelle quali regna un ampio relativismo (che produce, tra l’altro, l’alto tasso di imprevedibilità degli esiti del giudizio)[33].
Nihil sub sole novum, si potrebbe, allora, rilevare, anche volgendo lo sguardo alla disciplina del nesso di causalità materiale. A tale ultimo riguardo, infatti, si può rilevare che alcune delle più antiche costruzioni dottrinali, ed in particolare ci si riferisce alla teoria della causalità adeguata ed a quella della causalità umana, che accoglievano un concetto di causalità normativa (diverso, cioè, da quello proprio della scienza), erano fondate, a ben considerare, almeno in larga parte, proprio sull’impossibilità da parte del giudice di fruire di un supporto scientifico adeguato: soltanto allorquando sono stati messi a disposizione del processo più vasti e accreditati strumenti euristici ha cominciato ad affermarsi la teoria della conditio sine qua non sotto la sussunzione sotto leggi scientifiche di copertura, fino a giungere, attraverso un lungo cammino, alla sentenza “Franzese” delle Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 10 luglio 2002, n. 30328).
Ciò, peraltro, non ha affatto eliminato la circostanza che nel diritto penale viga ancora una disciplina fortemente normativizzata del nesso eziologico, come dimostra la regolamentazione del concorso di cause cui all’art. 41 c.p., ed in particolare il concetto di “causa sorpassante”, avallato dalla giurisprudenza in aderenza al dato testuale e alla ratio impressa alla citata disposizione dal legislatore del 1930: in questo caso la responsabilità sorge, infatti, dall’attivazione di una situazione di rischio, dal paradigma “puro” della conditio sine qua non, e quindi dall’accento posto sul disvalore della condotta.
In altre parole, appare chiaro che il diritto penale, pur tendendo a valutazioni oggettive, attraverso il ricorso alle scienze applicate al processo (che influenzano, si potrebbe affermare, “di riflesso”, anche la ricostruzione degli istituti di diritto sostanziale), sia destinato a mantenere nel tempo, in qualche misura, una propria autonomia, dettata da ragioni di politica criminale e che, conseguentemente, pur a fronte di futuri sviluppi delle neuroscienze, la rifondazione del diritto penale su tali basi sia tutt’altro che scontata, come accennato in premessa.
Volgendo, allora, di nuovo l’obiettivo all’imputabilità, e per tirare le fila del discorso, si può rilevare che è indiscutibile che l’accertamento tecnico-scientifico mantenga ancora un carattere di accentuata incertezza ed opinabilità, e che, al momento, le nuove metodiche possano, al più, costituire un supporto rispetto ad accertamenti condotti in modalità tradizionali (anche in ordine alla valutazione della pericolosità sociale, ai fini dell’applicazione delle misure di sicurezza), tanto che, in ogni caso, sarebbe auspicabile che tutti i protagonisti del processo (difesa, accusa e giudice), facciano in futuro un più largo impiego delle nuove tecniche; ciò nonostante, come meglio si preciserà da qui a breve, una riforma della disciplina dell’imputabilità oramai appare indifferibile, al fine di una maggiore conformazione del sistema al principio di colpevolezza e di inesigibilità.
4. Segue. Dolo e colpa
Limitando l’analisi, in questo caso, al contesto italiano, è ben risaputo che i più recenti orientamenti dottrinali hanno messo in luce che l’elemento più qualificante del dolo è rappresentato dalla volontà, perché espressivo della massima riprovevolezza della condotta. E ciò al fine di svelare il “mistero” del dolo eventuale e per tracciare con più nettezza il confine con la colpa cosciente, specie in quei settori in cui l’opzione si è da sempre rivelata più drammatica, e cioè in quelli a c.d. “base lecita” (attività medica, circolazione stradale, sicurezza sul lavoro). Si tratta un cammino che, attraverso l’impegno di molti, autorevoli studiosi, ha influenzato la giurisprudenza, fino a giungere alla già citata sentenza ThyssenKrupp delle Sezioni Unite.
Questa pronuncia ha fatto emergere, mediante gli indici elaborati, più in generale, che il dolo, secondo l’accezione giuridico-penalistica, presuppone un individuo che è in grado di decodificare la realtà circostante, soppesare le opzioni che gli si pongono davanti e, infine, di autodeterminarsi, in relazione all’azione: id est, un soggetto pienamente razionale; la scienza moderna, tuttavia, ha posto in risalto non solo che l’uomo tende ad assumere, talora, comportamenti poco logici (si è parlato, in proposito, di “agente emotivo”, o “impulsivo”)[34], ma anche (perlomeno) “l’invadenza” dell’inconscio rispetto alla sfera della coscienza e, per l’effetto, il suo condizionamento della volontà, sebbene non sia affatto dimostrato scientificamente che coscienza e volontà non esistano, o che debbano essere ritenuti, nella prospettiva del diritto, delle mere fictiones[35].
Sicchè, se da un lato le evidenze neuroscientifiche, almeno secondo una certa impostazione, sembrano “ammettere” esclusivamente il dolo premeditato (ipotesi, questa, in cui vi è un apprezzabile gap temporale tra ideazione ed attuazione dell’intento criminoso, tale da garantire, secondo alcuni, il dominio della mente sugli impulsi)[36], dall’altro, allo stato attuale, è proprio in ragione dell’incapacità dimostrativa dell’insussistenza del libero arbitrio, o del self control (oltre che per via dello sbarramento attualmente determinato – oltre che dal comma 2 del già citato art. 220 c.p.p. – dall’art. 64 c.p.p.)[37] che le nuove metodiche non sembrano affatto in grado di congedare le figure tradizionali del dolo e di scalzare il valore euristico delle massime d’esperienza (che hanno la finalità di inferire dal dato esterno l’elemento psichico)[38], fondate sulla c.d. “psicologia del senso comune”.
In ordine alla colpa, infine, per la quale le neuroscienze si propongono di fornire elementi relativi a prevedibilità ed evitabilità, spiegando l’origine del c.d. “deficit attentivo” e, quindi, la concreta esigibilità dell’osservanza della regola cautelare, non è ancora ben definito quale capacità dimostrative esse posseggano attualmente, nel contesto di verifiche (al di là delle ipotesi di accertamento di disagi psichici stabili) da compiersi “ora per allora” (e fermo il rilievo in base al quale, in fondo, anche una scarsa conoscenza di sé potrebbe essere talora stigmatizzata nell’ottica della responsabilità colposa – in termini di pre-colpevolezza, o di “colpa in assunzione”)[39].
Tuttavia, per altro verso, occorre considerare che le nuove scoperte neuroscientifiche sembrano porre in crisi il parametro dell’homo eiusdem conditionis et professionis o dell’agente modello (per alcuni non sovrapponibile al primo, in quanto espressivo non di standard comuni ma “ideali”), sui quali si costruisce la responsabilità colposa e che rappresentano paradigmi generalizzati per mezzo dei quali si misura in giurisprudenza l’esigibilità. Ciò in quanto dette scoperte mettono ulteriormente in risalto l’irrepetibilità dell’essere umano già dalla componente bio-psichica, che influisce sul comportamento.
Non è certo questa l’occasione, allora, per dilungarsi sulla struttura dell’illecito colposo; ciò nonostante, occorre rimarcare che gli standard sopra indicati assumono spesso nella prassi valore dirimente, nel senso che, verificata la difformità del comportamento attivo o omissivo tenuto dal soggetto rispetto ad un modello “ideale” (rappresentato dall’individuo più avveduto, coscienzioso e preparato) si giunge a ritenere in automatico il fatto colpevole, obliterandosi tutti quegli elementi di natura soggettiva che invece qualificano concretamente la vicenda colposa, alimentando forme di responsabilità oggettiva “occulta”.
Tali orientamenti, che prendono le mosse da finalità preventive che connotano l’odierna era “del rischio” e che tendono ad evitare che, mediante la valorizzazione di elementi caratteristici, si giunga ad eccessi assolutori, difficilmente possono ritenersi compatibili con la necessità di garantire il rispetto del principio di colpevolezza, che presuppone la valutazione individualizzata della riprovevolezza della condotta realizzata, conducendo essi ad un giudizio eccessivamente sbilanciato sul nucleo normativo della colpa, a discapito della misura soggettiva.
Queste tendenze interpretative risultano, peraltro, ancor più critiche in contesti ove vigono regole di condotta sistematicamente “flessibili”, che debbono cioè essere adattate alla concreta situazione di rischio (si veda l’art. 590-sexies c.p. in tema di responsabilità medica, ove è previsto «sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alla specificità del caso concreto»; l’art. 2087 c.c. in tema di responsabilità del datore di lavoro: «l’imprenditore è tenuto ad adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro… sono necessarie a tutelare l’integrità fisica dei prestatori di lavoro»; l’art. 141 del Codice della strada che, al comma 1, stabilisce: «è obbligo del conducente regolare la velocità del veicolo in modo che, avuto riguardo alle caratteristiche, allo stato ed al carico del veicolo stesso, alle caratteristiche e alle condizioni della strada e del traffico e ad ogni altra circostanza di qualsiasi natura, sia evitato ogni pericolo per la sicurezza delle persone e delle cose ed ogni altra causa di disordine per la circolazione»).
Il rispetto del principio di colpevolezza, che presuppone la verifica di esigibilità, e quindi della possibilità del soggetto di attenersi ad uno standard comportamentale (elaborato sulla base della necessità di contenere il rischio ma nel contempo in modo tale da non riservare il compimento di certe attività soltanto ad una ristretta cerchia di “eletti”), presuppone un’analisi “bilanciata”, attraverso una ricostruzione particolareggiata della vicenda che, assumendo come punto di riferimento il predetto modello, assegni comunque il giusto peso agli elementi che determinato la peculiarità del fatto, vagliandosi la concreta possibilità del soggetto di fronteggiare la situazione di rischio ma anche, più a monte, di prevederla.
Forse, allora, proprio nel contesto colposo le neuroscienze sembrano poter fornire, attualmente, il loro più significativo contributo poiché, sebbene verosimilmente le nuove metodiche nel settore non possano determinare un ripensamento della struttura di tale forma di responsabilità, dette tecniche, in taluni casi problematici, potrebbero fornire all’interprete degli elementi utili ad una più avanzata e particolareggiata analisi del caso concreto, nella prospettiva dell’an o del quantum respondeatur.
5. Conclusioni
Le nuove scoperte in campo neuroscientifico hanno alimentato un vasto dibattito dottrinale circa le ricadute su diversi istituti di diritto penale sostanziale e su alcune regole del rito; la discussione ha fatto registrare, nel panorama complessivo, linee di pensiero tutt’altro che univoche, anche se in Italia, in effetti, prevale nettamente l’impostazione “debole”, secondo la quale le neuroscienze, e, in particolare, le metodiche morfologiche e di neuroimaging, nonchè la perizia genetico-comportamentale, potrebbero essere fruite, al momento, nel processo solamente in posizione ausiliaria rispetto ad accertamenti tecnici dalla capacità euristico-esplicativa maggiormente comprovata.
I più recenti sviluppi neuroscientifici hanno, tuttavia, certamente messo meglio in evidenza lo stretto collegamento tra corpo e mente, tra la struttura e la funzionalità dell’apparato cerebrale e comportamento individuale, sebbene ciò non abbia affatto condotto, a ben considerare, alla prova dell’insussistenza del libero arbitrio, a negare il self control, in soggetti non affetti da patologie mentali e da disturbi della personalità accertati con metodiche tradizionali.
Ha scritto in proposito Ugo Fornari: «alterazioni anatomo-funzionali dei lobi frontali e del sistema limbico non possono, da sole, spiegare la complessità della psicopatologia e rischiano di ridurre il comportamento umano ad ambiti e dimensioni che, allo stato, sono ben lungi dall’ottenere una loro validazione clinica. Non ha pertanto senso alcuno inseguire l’impossibile progetto di una obiettività asettica e imparziale, tanto più quanto più le conoscenze scientifiche sono in continua evoluzione ed “evidenze oggettive” nella prova scientifica non ne esistono: né in generale, per la definizione stessa della scienza; né nel settore delle discipline giuridiche, dove imputabilità, capacità e responsabilità sono, allo stato, postulati irrinunciabili e la mancanza o grave compromissione della libertà dell’intendere e del volere e di altri stati di incapacità è ancora in attesa di una dimostrazione scientifica affidabile»[40].
Ciò non di meno, gli studi nel settore hanno in qualche modo messo ulteriormente in crisi, perlomeno secondo alcuni, anche la regola dell’irrilevanza, in punto di imputabilità, degli stati emotivi e passionali, sulla base di una disposizione (art. 90 c.p.) verosimilmente elaborata dal legislatore del 1930 (sulla base, peraltro, di opinioni assai contrastanti anche in seno agli studiosi illo tempore incaricati dell’elaborazione del codice), anche in questo caso, soprattutto in ragione dell’indisponibilità di basi scientifiche per “misurare”, rispetto a stati psichici transeunti, l’effettiva rimproverabilità della condotta, oltre che per via del carattere assai autoritario dell’impianto[41] (specie a fronte di orientamenti giurisprudenziali che mettono in luce dei contrasti, in ordine alla valutazione della c.d. “tempesta emotiva/passionale”, continuamente oscillante tra l’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 1 c.p. da un lato, e la valutazione favorevole attraverso le larghe maglie dell’art. 133 c.p., l’attenuante della provocazione e, ancora, le generiche di cui all’art. 62-bis c.p.)[42].
In realtà, in proposito, occorre evidenziare che la giurisprudenza, in alcune occasioni, non ha affatto negato la possibilità di riconoscere un peso a tali status, come, ad esempio, attesta la sentenza Cass., Sez. I, 22 novembre 2005, n. 1038, per la quale «ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, il disturbo della personalità, di consistenza, intensità e gravità, tale da incidere sulla capacità di intendere e volere, a differenza delle anomalie del carattere, può essere preso in esame anche se non rientrante nel concetto di infermità mentale quando si traduca in uno “status” patologico in grado di escludere o scemare grandemente la capacità. Tale può essere anche uno stato emotivo e passionale, dovuto allo “stress” conseguente alla crisi del rapporto coniugale, che determini una compromissione della capacità di volere e si associ ad uno “status” patologico anche se di natura transeunte»[43].
In altri termini, secondo tale linea esegetica, se l’individuo non risulta in grado di controllare la propria condotta per via di un deficit intellettivo o volitivo apprezzabile ai sensi degli artt. 88 e 89 c.p., tali disposizione trovano applicazione anche se la “molla” dell’atto illecito sia rappresentata da uno stato emotivo o passionale; trattasi, allora, di condotte pur sempre “compulsive”, e quindi non di un’apertura giurisprudenziale, bensì di una conferma della linea adottata dal codice Rocco (rispetto alla quale i progetti di riforma che si sono avvicendati nel tempo hanno proposto, sinora, soluzioni assai diversificate), anche tenendo conto degli orientamenti sul tema, che spesso mostrano un certo self restraint da parte del giudice pure sul piano dell’individuazione della pena nell’ambito della cornice edittale e dell’applicazione di attenuanti (specie con riferimento a fatti di gran rilievo massmediatico, per i quali la larga parte dell’opinione pubblica invoca di frequente sanzioni particolarmente severe, che contribuiscono alla “spettacolarizzazione” del processo); il che si pone in forte tensione con il rinnovato contesto costituzionale, perché il sistema impedisce (o comunque “frena”) una piena valorizzazione di elementi che, invece, contribuiscono a determinare il livello di disvalore, di rimproverabilità della condotta tenuta dall’individuo.
Il problema di fondo nell’assegnare, de lege ferenda, “un ruolo” alle condotte “impulsive” della condotta (da intendersi come “raptus”, e da distinguersi da quelle compulsive, espressive, quest’ultime, di infermità mentale vera e propria), attraverso la previsione di una specifica scusante o “quasi-scusante”, è rappresentato, allora, dal fatto che le tecniche di accertamento attualmente disponibili, ivi incluse quelle emergenti, non sembrano essere realmente in grado di ricostruire, ora per allora, le dinamiche fisio-psichiche transeunti che sottendono ad un comportamento antisociale, le loro connessioni causali, e di dimostrare, in sostanza, l’insussistenza del self control, o comunque il grado della sua compromissione, e quindi di verificare an e quantum dell’esigibilità della condotta conforme a precetto, potendo al più assumere, in tale orizzonte, una funzione suggestiva; talchè, lo status quo è ancora presidiato da preoccupazioni di politica criminale, atteso il rischio di un viatico incontrollabile a linee difensive strumentali, nella prospettiva dell’esclusione ma anche dell’attenuazione delle conseguenze sanzionatorie del reato, specie laddove vengano in gioco beni giuridici di primario rilievo[44].
Nel difficile bilanciamento tra esigenze di prevenzione e di repressione di condotte antisociali e del rispetto di principio di colpevolezza, allora, sembra doversi protendere, in primo luogo, per l’abrogazione della previsione compendiata nell’art. 90 c.p., che peraltro – come si è avuto modo di constatare – intende esprimere un concetto da una parte superato dal formante giurisprudenziale, e dall’altra tautologico rispetto al contenuto degli artt. 88-89 c.p. in tema di imputabilità.
In seconda battuta, senza voler giungere all’estremo di allargare le disposizioni sopra citate, con estensione agli stati emotivi e passionali di carattere impulsivo, al fine di consentire al giudice di calibrare la risposta sanzionatoria all’effettiva riprovevolezza della condotta, oltre che al grado di esigibilità del rispetto del comando normativo, si potrebbe ipotizzare una soluzione di compromesso, attraverso l’introduzione di una circostanza attenuante comune sulla falsariga dell’art. 21 n. 3 del codice spagnolo, con correttivi volti ad evitare che la nuova disposizione si presti tanto alle distorsioni interpretative che si sono registrate in Spagna (che condurrebbero la nuova previsione a rappresentare un inutile doppione dell’attenuante della provocazione nostrana) quanto un eccessivo deficit definitorio (che, oltre alla frustrazione di esigenze di certezza del diritto, renderebbe la disposizione difficilmente distinguibile dall’art. 62-bis c.p.), attraverso la codificazione di alcuni indici (quali, ad esempio, il lasso temporale intercorrente tra l’insorgenza dell’impulso e la realizzazione dell’illecito; l’eventuale nesso tra il comportamento della persona offesa e l’illecito).
Tale catalogo di indici, a ben considerare, potrebbe essere implementato rimuovendo il divieto di cui al comma 2 dell’art. 220 c.p.p. (in relazione alla perizia caratteriale-personologica e criminologica, così bollata da Franco Cordero: «questi passatempi introspettivi dissonano dallo stile accusatorio; né ispirano troppa fiducia i tecnocrati criminologhi (già negli affari perital-psichiatrici era fiorito qualche filone sospetto)»[45], sebbene ben note siano le controindicazioni di una tale opzione (un accertamento di questo tipo imporrebbe, tra l’altro, uno story telling da parte del reo in conflitto con il principio del nemo tenetur se detegere, oltre che un potenziale effetto boomerang).
Si deve osservare, però, a margine, con un po' di disincanto, che le commendevoli prospettive di riforma propugnate da tempo, sul punto, dalla dottrina più garantista, quella maggiormente sensibile al valore del principio colpevolezza, verosimilmente, oggi, finirebbero con il naufragare, ponendosi controcorrente rispetto alle tendenze legislative attuali, espressive di un diritto penale “no-limits”[46] o “totale”[47], come attestano, tra l’altro, le norme introdotte in tema di violenza di genere e di prescrizione, attraverso la riforma “Bonafede”.
In questo complesso ed articolato quadro si inserisce, altresì, la problematica disciplina del vizio parziale di mente, di cui all’art. 89 c.p. (assimilabile a quella compendiata nel § 21 StGB tedesco, per il quale, tuttavia, l’attenuazione è facoltativa, analogamente al sistema francese: vd. art. 122-1 comma 2 Code Pénal)[48], che, da sempre tacciata di ascientificità, sembra aver assunto, nella prassi, il ruolo prevalente di attrarre quelle situazioni nelle quali vi sia un dubbio sulla sussistenza dell’anomalia, o, pur essendo accertata un’anomalia della psiche, la prova scientifica non fornisca al giudice elementi di valutazione incontrovertibili sull’influsso dirimente di detta anomalia sull’incapacità giuridicamente intesa, o meglio sul legame causale tra il vizio di mente e fatto di reato (attraverso lo schema della conditio sine qua non). Con la conseguenza che la tendenza all’applicazione di detta disposizione finisce col rispondere, di frequente, alla ben nota logica “poca prova, poca pena”[49], assumendo essa il ruolo, invero improprio, di una sorta di “valvola di sicurezza”, con risultati, però, che potrebbero rivelarsi contra reum (vd. sul punto la vicenda giudiziaria analizzata da Cass., Sez. I, 25 maggio 2016, n. 9638).
È oltremodo chiaro, infatti, che un simile approccio giurisprudenziale sia teso a regolamentare, attraverso un compromesso, una sorta di “zona grigia” che si colloca tra due poli opposti, rappresentati da un lato dall’accertamento dell’effettiva sussistenza dell’anomalia e della sua incidenza sul fatto di reato (che determina la non imputabilità), e, dall’altro, dall’esclusione dell’anomalia o della sua reale incidenza sull’illecito (con la conseguente imputabilità).
A tal proposito si deve evidenziare, allora, che la Cassazione, con soluzione che appare allineata al testo dell’art. 530 comma 2 c.p.p. ha rilevato che «la regola compendiata nella formula al di là di ogni ragionevole dubbio riguarda tutte le componenti del giudizio e, pertanto, anche la capacità di intendere e di volere dell’imputato, il cui onere probatorio non è attribuito all’imputato, quale prova di una eccezione, ma alla pubblica accusa» (Cass. n. 9638/2016 cit.)[50].
Occorre domandarsi, allora, quale sia lo spazio applicativo da assegnare alla semi-imputabilità, posto che si pretende in giurisprudenza, anche in relazione al vizio parziale, la sussistenza di un nesso causale (oltre che temporale) tra anomalia e fatto di reato concretamente commesso (vd. Cass., Sez. I, 26 giugno 2014, n. 52951); difatti, dinnanzi al giudice si possono profilare tre ipotesi:
- è stata accertata con sicurezza l’anomalia e il suo nesso con l’illecito. La conseguenza è l’assoluzione per difetto di capacità d’intendere e di volere;
- vi è dubbio (secondo la regola B.A.R.D.) sull’anomalia o sul legame funzionale con il reato. La conseguenza è la medesima, e cioè la pronuncia assolutoria;
- vi è certezza che al momento del fatto non vi fosse anomalia psichica, oppure è stato acclarato che l’anomalia riscontrata non abbia influito sulla realizzazione del reato. L’esito è, in entrambe le ipotesi, per quanto illustrato, la declaratoria dell’imputabilità, e la non applicabilità dell’art. 89 c.p.
Con ciò si vuole rimarcare che, a rigore, ricomponendo il puzzle, tale ultima disposizione non dovrebbe essere mai applicata, contrariamente a quanto accade nella prassi, ove la declaratoria di semi-imputabilità è assai frequente. Sicchè, volendosi assegnare un “ruolo” all’attenuante di cui al già citato art. 89 c.p. occorrerebbe – superando gli orientamenti pretori attuali – abbandonare del tutto il criterio causale, e valorizzare esclusivamente quello temporale. Con l’effetto che si dovrebbe ritenere integrata detta attenuante nelle ipotesi in cui, pur riscontrandosi la sussistenza di un’anomalia di una grave entità al momento della realizzazione del fatto, essa non abbia determinato il reato.
Del resto una siffatta interpretazione poggia sulla considerazione che in questi contesti – per l’effetto del vizio di mente – si è al cospetto di una colpevolezza generalmente valutabile come “minorata”, ferma, comunque, la valutazione del “peso” di tale elemento da parte del giudice, attraverso il bilanciamento con eventuali circostanze di segno contrario.
Talchè appare lapalissiano che l’apporto, niente affatto trascurabile, che le neuroscienze potrebbero fornire è quello di carattere “indiziario”, nel contesto del giudizio di imputabilità e dell’applicazione dell’art. 89 c.p. che solleva, tuttavia, nel panorama attuale, l’ulteriore perplessità relativa al “cumulo” tra pena (seppur attenuata) e misura di sicurezza, frutto di un approccio “carcerocentrico”[51] che, in prospettiva de iure condendo (così come, del resto, era previsto dall’art. 1, comma 16, lett. c della l. 23 giugno 2017, n. 103), ad avviso di alcuni studiosi, dovrebbe essere superato attraverso l’abolizione del “doppio binario”, con la conseguenza che (nel caso di sussistenza di un nesso tra difetto di mente e fatto di reato) il reo semi-imputabile, risultato pericoloso[52], dovrebbe essere sottoposto solo e direttamente ad adeguato trattamento terapeutico, finalizzato alla cura e al reinserimento sociale.
Tale soluzione, in alternativa a quella della rilettura della funzione dell’art. 89 c.p. sopra proposta, rappresenterebbe un importante step verso la modernizzazione ed umanizzazione del sistema, l’edificazione di un diritto penale “mite” e forse anche più efficiente dell’attuale, attraverso l’abbandono della logica del “bisogno di pena”, a livello collettivo (che si contrappone a quello della “meritevolezza della pena”, sul piano individuale)[53].
[1] Secondo la definizione dell’Enciclopedia on-line Treccani, le scienze cognitive sono: «l’insieme delle discipline (intelligenza artificiale, psicologia cognitiva, linguistica, psicolinguistica, filosofia della mente e del linguaggio, neuroscienze, antropologia), che hanno per oggetto lo studio dei processi cognitivi umani e artificiali».
[2] Le neuroscienze, sempre secondo l’Enciclopedia on-line Treccani, sono «l’insieme delle discipline che studiano i vari aspetti morfo-funzionali del sistema nervoso mediante l’apporto di numerose branche della ricerca biomedica, dalla neurofisiologia alla farmacologia, dalla biochimica alla biologia molecolare, dalla biologia cellulare alle tecniche di neuroradiologia».
[3] Tra l’altro, secondo la speculazione di alcuni filosofi (aderenti, per l’appunto, al c.d. “compatibilismo”), libero arbitrio e determinismo non rappresenterebbero affatto (come, invece, si ritiene in seno al c.d. “incompatibilismo”) entità opposte, tali da escludersi a vicenda; in quest’ottica, il libero arbitrio, in contesto determinista (le azioni dell’uomo sono dettate da fattori incontrollabili dall’individuo), indicherebbe, dunque, che le azioni riflettono meramente il “sé” del soggetto, essendo svincolate da condizionamenti esterni. Si tratta di un’accezione di free will distante da quella comune (recepita, per certi versi, dall’illusionismo, per il quale il libero arbitrio rappresenterebbe una convenzione sociale, e soprattutto dal libertismo), ma che è stata propugnata anche nella proiezione del diritto penale, attraverso un’estrema normativizzazione dei concetti di coscienza e volontà (vd. ad esempio, in Germania, Jakobs, Individuum und Person. Strafrechtliche Zurechnung und die Ergebnisse moderner Hirnforschung, in ZStW, 2005, 247 ss).
[4] Il “destino”, inteso come entità che preclude la possibilità per l’uomo di governare le proprie azioni, costituisce il leitmotiv della tragedia greca classica, come attesta emblematicamente l’Edipo Re. Sul tema della libertà individuale si soffermano Platone (in particolare, con il mito di Er) ed Aristotele, anche se è assai discusso tra gli studiosi della filosofia se questi pensatori aderiscano ad una posizione liberista o determinista. La questione è poi affrontata anche in periodo ellenistico (allorquando la crisi della polis alimenta un clima di grande incertezza, e l’idea che l’uomo sia in balia del fato) dagli epicurei, dagli stoici, e dagli scettici (in particolare da Carneade), e successivamente dai neoplatonici e dalla scuola peripatetica, fino a giungere all’evidente contraddizione della dommatica cristiana. Il confronto tra determinismo e libero arbitrio è proseguito, incessantemente, nel periodo rinascimentale e nel corso della Riforma protestante, fino a giungere a ulteriore maturazione nel XVII secolo con Cartesio, che sottolinea le difficoltà di conciliare il libero arbitrio con la provvidenza divina, e si sofferma sulle differenze tra intelletto e volontà, elaborando i concetti di res cogitans (spirito) e res extensa (materia). L’alterità della prima rispetto alla seconda (dominata dal meccanicismo e dal determinismo) è, per Cartesio, ex se, garanzia della sussistenza del libero arbitrio (che, di contro, è radicalmente negato da Spinoza). Per Hobbes, secondo la linea del determinismo fisico, invece, la condotta dell’uomo ed i processi volitivi si inseriscono in una catena causale necessitata, sebbene ciò non dovrebbe indurre a negare la libertà individuale, intesa però come mera assenza di condizionamenti esterni. Il determinismo è, altresì, alla base del pensiero di Leibniz, che pure sviluppa una tesi compatibilista. Per Locke, invece, l’uomo è libero di fare o non fare, ma non di volere, e cioè di decidere cosa la mente comandi e analoga sul punto è la posizione di Hume che rileva, per paradosso, l’incompatibilità tra libero arbitrio e indeterminismo, nel quale domina il caso, poiché quest’ultimo si porrebbe in insanabile contraddizione con la libertà individuale medesima. Si giunge così a Kant, per il quale la libertà è un postulato indimostrabile, un noumeno (vd. Nelli, Determinismo e libero arbitrio da Cartesio a Kant, Torino, 1982). La sussistenza di un “pieno” libero arbitrio, successivamente, viene sostenuta da Kierkegaard e da Heidegger e, in tempi più recenti, da John Stuart Mill. Sul free will si sofferma anche George Edward Moore che abbraccia l’impostazione compatibilista, affermando che sebbene il reale sia predeterminato e retto dal rapporto causa-effetto, ciò non implicherebbe la rinuncia alla logica della responsabilità-punizione, che ruoterebbe attorno alla differenza tra atto proprio e atto “involontario” (Moore, The Elements of Ethics, Philadelphia, 1991). Peter Frederick Strawson, invece, nel tentativo di superare le aporie del compatibilismo, sostiene che la responsabilità, la pena ed il biasimo non siano in realtà fondate sul libero arbitrio, ma siano un costrutto necessario, rivestendo la sanzione una “utilità” sociale (Strawson, Freedom and Resentment, in British Accademy, 1962, 48, 1 ss). Per una davvero ampia ed esaustiva panoramica generale del pensiero filosofico sul rapporto tra determinismo e libero arbitrio vd. De Caro-Mori-Spinelli (a cura di), Libero arbitrio. Storia di una controversia filosofica, Roma, 2015. Detto volume pone ben in luce la circostanza che si è al cospetto di un dibattito assai stratificato ed ancora molto vivace, nel quale però non sono individuabili punti fermi. Scrive sul punto lo stesso Mario De Caro: «non sorprenderà che la storia della riflessione filosofica sul libero arbitrio sia una storia di tentativi infruttuosi, dilemmi insolubili, insanabili conflitti teorici. Il dibattito contemporaneo, in questo senso, non fa eccezione: la polifonia delle voci è frastornante, i rivoli in cui la discussione si dirama innumerevoli, le complicazioni illimitate. Il mistero del libero arbitrio, insomma, è ancora davanti a noi» (De Caro, Il libero arbitrio. Una introduzione, Bari, 2020, 5).
[5] Sostenuta, ad esempio, da Green-Cohen, For the law, Neuroscience changes nothing and everything, in Philosophical transactions of the Royal Society, 2004, 1775 ss, che rilevano che il diritto penale, conseguentemente, potrebbe conservare una funzione esclusivamente general e special preventiva. In Spagna, vd. Rubia, El fantasma de la libertad, Barcellona, 2009; in Germania, vd. ad esempio Roth, Willensfreiheit, Verantwortlichkeit und Verhaltensautonomie des Menschen aus Sicht der Hirnforschung, in Festschrift für E.J. Lampe, Berlino, 2003, 43 ss; Singer, Ein neues Menschenbild? Gespräche über Hirnforschung, Francoforte, 2003, passim; Prinz, in von Cranach/Foppa (a cura di), Freiheit des Entscheidens und Handelns, Heidelberg, 1996, 86 ss., secondo il quale «l’idea del libero arbitrio umano è in linea di principio incompatibile con le considerazioni scientifiche. La scienza presuppone che tutto ciò che accade abbia le sue cause e che queste cause possano essere individuate. Per me è incomprensibile che qualcuno che conduce la scienza empirica possa credere che sia concepibile un’azione libera, cioè non determinata».
[6] Su questi temi, nella vastissima letteratura, vd. per un quadro complessivo Plomin-DeFries-McClearn-McGuffin, Genetica del comportamento, Milano, 2001, spec. cap. 12, 237 ss.
[7] In Spagna patrocinata, ad esempio, da Crespo, “Compatibilismo humanista”: una propuesta de conciliación entre neurociencias y derecho penal, in Crespo-Maroto Calatayud (a cura di), Neurociencias y Derecho penal, Montevideo-Buenos Aires, 2013, 17 ss. In Italia, nella manualistica, vd. ad esempio Canestrari-Cornacchia-De Simone, Manuale di diritto penale. Parte generale, Bologna, 2017, 671 (ma per una più ampia disamina della dottrina italiana vd. infra).
[8] Vd. anche Libet, Mind time, Harvard, 2005. Su questo esperimento, ed altri studi successivi vd. Haynes, Posso prevedere quello che farai, in De Caro-Lavazza-Sartori, Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio, Torino, 2019, 5 ss.
[9] Occorre inoltre rammentare gli esperimenti generalmente evocati dal c.d. “situazionismo”, che pone in luce l’influenza di fattori contingenti sul comportamento umano. Uno di quelli più noti è quello condotto da Stanley Milgram, del 1961. Lo psicologo statunitense, in particolare, ha indagato il comportamento umano in relazione agli ordini criminosi impartiti dall’autorità, in connessione temporale con il processo attivato nei confronti del SS Obersturmbannführer Adolf Eichmann (che ebbe grande eco mediatica), facendo emergere risultati che sembrano negare la validità della tesi determinista.
[10] Cfr. Stawson, The bounds of freedom, in Kane (a cura di), Oxford handbook of Free will, Oxford, 2002, 458: «c’è un senso fondamentale in cui, in definitiva, nessuna punizione o nessuna ricompensa è giusta. Punire o ricompensare le persone per le loro azioni è tanto giusto quanto lo sarebbe punirle o premiarle per il colore (naturale) dei loro capelli o per la forma (naturale) dei loro volti». Su questo tema vd. anche Lavazza-Sammicheli, Se non siamo liberi, possiamo essere puniti?, in De Caro-Lavazza-Sartori, Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio, op. cit., 147 ss.
[11] Su questi temi vd. Paliero-Viganò-Basile-Gatta (a cura di), La pena, ancora: tra attualità e tradizione. Studi in onore di Emilio Dolcini, tomi I-II, Milano, 2018; Fiandaca, Prima lezione di diritto penale, Bari, 2017, 7 ss. Nella sterminata letteratura vd. anche, tra i volumi più recenti, U. Curi, Il colore dell’inferno. La pena tra vendetta e giustizia, Torino, 2019.
[12] Vd. Fornasari, voce Inesigibilità, in Dig. Disc. Pen., X aggiornamento, Torino, 2018, 362 ss; Id., Il principio di inesigibilità nel diritto penale, Padova, 1990, passim; Mezzetti, Necessitas non habet legem? Sui confini tra “Impossibile” ed “Inesigibile” nella struttura dello stato di necessità, Torino, 2001, passim.
[13] Il presente contributo, in definitiva, intende soltanto tratteggiare una prima, provvisoria indagine topica relativa ad uno dei temi che afferiscono al principio di inesigibilità, destinata a successivi approfondimenti e a collocarsi nel contesto di più ampi e compiuti studi e riflessioni.
[14] In relazione a questo, dunque, si coglie una delle più evidenti differenze con il sistema processuale italiano, nel quale vige la regola per cui all’imputato incombe, per il principio di “vicinanza della prova” (vd. Cass., Sez. II, 21 gennaio 2014, n. 7484), l’onere di allegare (su questo concetto vd. Cass., Sez. IV, 4 aprile 2018, n. 25849; Cass., Sez. V, 19 maggio 2014, n. 32937) la carenza di imputabilità, fornendo elementi utili all’approfondimento della questione, mentre spetta all’accusa dimostrare la sussistenza della capacità di intendere e di volere. Questi principi sono stati espressi già da Cass., Sez. Un., 14 giugno 1980, “Falloni”, e ribaditi anche dalla giurisprudenza successiva. Su questo tema si tornerà da qui a breve, allorquando verranno analizzati, nell’ultimo paragrafo, i profili di criticità della disciplina della semi-infermità.
[15] Sul tema vd. Aono – Yaffe – Kober, Neuroscientific evidence in the courtroom: a review, in Cogn. Res. Princ. Implic., 2019, 4, 1 ss. Questi studiosi espongono anche i risultati di una vasta serie di esperimenti condotti nelle università americane al fine di verificare l’impatto della prova neuroscientifica sul processo penale, mettendo in evidenza una certa influenza di detta prova sui verdetti emessi da giurie “fittizie”. Per uno studio recente in ordine all’influenza della prova neuroscientifica sugli esiti del processo penale vd. Denno, The Myth of the double-edged sword: an empirical study of neuroscientific evidence in criminal cases, in Boston College Law Review, 2015, 56, 492 ss. In argomento vd. anche Du, The application of neuroscience evidence on Court sentencing decisions: suggesting a guideline for neuro-evidence, in Seattle Journal for Social Justice, 2020, 18, 493 ss. L’A. mette in luce la circostanza che la prova neuroscientifica è idonea a evidenziare anomalie morfologiche e funzionali del cervello ma non di dimostrare inequivocabilmente la riconducibilità del fatto di reato a suddetti fattori; sicchè viene suggerito un uso, nel processo, di tali tecniche congiunto ad altre metodiche diagnostiche tradizionali, ed in particolare alla perizia psichiatrica.
[16] Su cui, nella manualistica, vd. anche Aleo-Lanza, Il sistema penale, Milano, 2016, 172 ss.
[17] Confutando quell’impostazione dottrinale per la quale il regime dell’imputabilità sarebbe stato retto solo dal criterio cronologico (vd. ad esempio Marini, voce Imputabilità, in Enc. Dir., vol. XVI, Roma, 1989; Crespi, voce Imputabilità, in Enc. Giur., vol. XX, Milano, 1970, 773 ss). Aderisce all’impostazione causale, invece, una larga parte della dottrina contemporanea (vd. ad esempio M. Romano-Grasso, Commentario sistematico del codice penale, tomo II, Milano, 2012, 37; Petrini, Imputabilità, in Grosso-Pelissero-Petrini-Pisa, Manuale di diritto penale, Milano, 2020, 461; De Vero, Diritto penale. Principi, reato, forme di manifestazione, Torino, 2018, 401, che chiarisce come possano rientrare nel vizio totale di mente, in presenza del nesso tra anomalia e fatto di reato, anche le incapacità transeunti e c.d. “settoriali”).
[18] In ottica comparata, si può rilevare che la casistica mostra, a tale riguardo, in Spagna, una particolare attenzione da parte del Tribunal Supremo in ordine alla prova dell’incidenza del deficit cognitivo e volitivo in capo al soggetto agente sul fatto di reato (cfr. STS, Sez. I, 26 dicembre 2014, n. 5442). Anche la giurisprudenza tedesca (al contrario di quella francese, sebbene la dottrina sia concorde nel ritenere la necessità dell’accertamento di “un lien de causalitè” tra infermità e illecito) esalta la necessità di ricostruire il legame tra alterazione della capacità di intendere e di volere e specifico reato commesso (vd. da ultimo BGH, II Sez., 28 aprile 2021, n. 484/2020; BGH, II Sez., 21 novembre 2017, n. 357/17; BGH, II Sez., 1 giugno 2017, n- 57/17).
[19] Per altri casi giurisprudenziali vd. F. Basile-Vallar, Neuroscienze e diritto penale: le questioni sul tavolo, in Dir. Pen. Cont. Riv. Trim., 2017, 269 ss.
[20] Ancor più ridotta è, invero, la penetrazione delle nuove prove neuroscientifiche nel processo penale spagnolo (oltre che in quello tedesco: soprattutto con riguardo alla Germania, si evidenzia una palese sproporzione tra l’entità del dibattito nella dottrina penalistica rispetto all’impiego delle nuove tecniche nel giudizio). Al di là di alcuni, sporadici, casi in cui le tecniche di più recente emersione sono state utilizzate per la valutazione del danno alle vittime di determinati reati, l’unico caso rintracciabile nei repertori è quello del giovane Patrick Nogueira, autore di un quadruplice omicidio, perpetrato il 17 agosto 2016 a Pioz (Castilla-La Mancha). Questi, cittadino brasiliano con un passato “burrascoso” in patria (avendo in precedenza accoltellato un proprio insegnante), proveniente da una famiglia particolarmente agiata, si era trasferito in Spagna presso l’abitazione dello zio. A seguito di diverbi insorti con questi, che si era lamentato dell’atteggiamento indolente del nipote, l’imputato, il giorno del delitto, si era recato nella casa del proprio parente, uccidendo barbaramente con un’arma da taglio prima la moglie di quest’ultimo e poi i due figlioletti della coppia (dell’età, rispettivamente, di 3 anni la bambina, e di 18 mesi il fratellino). Successivamente, al proprio ritorno, lo zio era stato colto di sorpresa ed ucciso dal giovane mediante quattordici colpi inferti con la stessa arma. Di seguito i corpi delle vittime erano stati sezionati dall’omicida, e posti in alcune buste di plastica. Dopo aver ripulito il luogo del delitto, per cancellare le prove, e aver atteso a lungo nella casa teatro del plurimo omicidio per evitare i controlli della sorveglianza della zona residenziale in cui era ubicato l’immobile, il soggetto si era disfatto dell’arma, che non è stata mai ritrovata. Attivate le indagini dopo la scoperta dei cadaveri (nel settembre del 2016), attraverso la prova del DNA, gli inquirenti, dunque, avevano identificato il responsabile, che era stato sottoposto a processo. A seguito delle pronunce di condanna in sede di merito, con le quali era stata affermata la piena capacità di intendere e di volere, l’imputato aveva proposto, allora, ricorso davanti al Tribunal Supremo, affidato a plurimi motivi di doglianza. Tra questi, vi era la contestazione dei risultati ai quali erano pervenuti i periti nella valutazione dell’imputabilità al momento della realizzazione dei fatti di reato e l’omessa valorizzazione delle prove allegate dalla difesa, rappresentate da una PET e da una TAC che, contrariamente a quanto sostenuto dal giudice a quo (che, invece, aveva dato credito alle risultanze delle perizie disposte dall’accusa, che avevano evidenziato che il comportamento tenuto dall’imputato, prima e dopo la commissione degli efferati delitti contestati, sarebbe stato dimostrativo della piena capacità di comprendere il disvalore della condotta posta in essere e della possibilità di autodeterminazione), avrebbero posto in luce, ad avviso del ricorrente, delle anomalie funzionali e morfologiche del cervello tali da giustificare il riconoscimento della semi-infermità mentale. In proposito, la Sala, allora, ha rilevato in premessa che sarebbe erroneo tanto affidarsi ciecamente alle suggestioni delle nuove prove neuroscientifiche quanto ignorarle del tutto; indipendentemente da ciò, tuttavia, il motivo specifico è stato rigettato per infondatezza in quanto, ha proseguito il Tribunal Supremo, le censure sviluppate dall’imputato, sul punto, avrebbero sollecitato una rivalutazione delle prove non consentita in sede di legittimità, specie allorquando la sentenza di condanna contenga, come si è ritenuto nella specie, una congrua motivazione in ordine alla valorizzazione di un elemento dimostrativo della responsabilità piuttosto che un altro (STS, Sez. I, 5 maggio 2020, n. 814). Per quanto riguarda il sistema francese occorre notare che l. 7 luglio 2011, n. 814, in tema di bioetica ha introdotto nel codice civile una nuova disposizione (art. 16-14) che stabilisce: «le tecniche di imaging cerebrale possono essere utilizzate solo per scopi di ricerca medica o scientifica o nel contesto di competenze forensi. Il consenso espresso dell’interessato deve essere ottenuto per iscritto prima dell’effettuazione dell’esame, dopo essere stato debitamente informato della sua natura e finalità. Il consenso menziona lo scopo dell’esame. È revocabile senza forma e in qualsiasi momento». Tale disposizione, dunque, ha generato ampie discussioni anche in ordine alle proiezioni rispetto al diritto penale. Sino all’anno 2016, tuttavia, la casistica giurisprudenziale non ha fatto emergere l’utilizzo di dette tecniche in giudizio, perlomeno analizzando le pronunce della Cour de cassation (vd. Canselier, La France à l’ère du neurodroit? La neuro-imagerie dans le contentieux civil français, in Droit et société, 2019, 115 ss). La situazione sembra essere rimasta, a tutt’oggi, inalterata, poichè sul motore di ricerca Légifrance non risultano pronunce ove sia stata richiamata la parola “neurosciences”. La dottrina francese, dal canto suo, è prevalentemente orientata ad accogliere l’impostazione “debole”, secondo la quale le nuove tecniche potrebbero fornire un ausilio abbastanza limitato, in supporto a metodiche di accertamento “classiche” (vd. Pignatel-Oullier, Les neurosciences dans le droit, in Cités, 2014, 83 ss ; Larrieu, Neurosciences et droit pénal - Le cerveau dans le prétoire, Parigi, 2015). Tale chiusura potrebbe allora essere ricondotta alla circostanza che la responsabilità penale nel sistema francese è fortemente ancorata al concetto di libero arbitrio di stampo illuminista, poiché tradizionalmente si ritiene che solo da questo possa dipendere il rimprovero “morale” che sottende all’irrogazione della sanzione criminale (vd. Desportes-Le Gunehec, Droit pénal général, Parigi, 2009, 604 ss).
[21] Le sorprendenti scoperte nel campo delle neuroscienze hanno alimentato, negli ultimi anni, come si è già accennato, un crescente interesse da parte della dottrina penalistica italiana, che si è impegnata nell’individuazione delle proiezioni di suddette scoperte sulla matière pénal. Ciro Grandi (Grandi, Neuroscienze e responsabilità penale. Nuove soluzioni per problemi antichi?, Torino, 2016) ha affrontato il tema delle neuroscienze sotto il profilo del diritto penale sostanziale attraverso un’ampia monografia ; in essa si evidenzia la fallacia dell’approccio “rifondativo”, e si sollecita quello “moderato”, in base al quale le nuove tecniche di analisi sarebbero votate a fornire un apporto al processo penale per validare l’oggettività scientifica delle emergenze probatorie e, quindi, in via ancillare rispetto ad altre tecniche dimostrative tradizionali. Nel contempo Grandi rimarca, dopo aver tracciato un fitto affresco della casistica giurisprudenziale, che le neuroscienze potrebbero fornire in futuro elementi a supporto dell’analisi dell’elemento psicologico del reato, con particolare riferimento alla premeditazione e al dolo eventuale, oltre che rispetto al “momento soggettivo” della colpa (in termini di prevedibilità ed evitabilità), e quindi ben al di là dell’angusto ambito nel quale esse sono state finora fruite in Italia (giudizio di imputabilità). L’A., inoltre, evidenza che sarebbe meritevole di maggior approfondimento la prospettiva di ricondurre la capacità di intendere e di volere all’interno della suitas, superando la dicotomia tra elemento soggettivo ed imputabilità, che in tale prospettiva dovrebbero essere coniugati in un unico crogiolo, rimarcandosi che in caso di difetto di capacità la condotta penalmente illecita non potrebbe essere considerata “umana” (274 ss). In sostanza, sul punto, Grandi critica l’idea della perfetta compatibilità tra elemento soggettivo, dolo e colpa, e vizio di mente, abbracciata tradizionalmente dalla giurisprudenza che, anche di recente, ha ribadito che «in tema di elemento soggettivo del reato, l’accertamento va tenuto distinto da quello dell’imputabilità e deve avvenire con gli stessi criteri valevoli per il soggetto pienamente capace anche nei confronti del soggetto non imputabile» (Cass., Sez. VI, 8 aprile 2020, n. 14795). Si deve anche segnalare il saggio monografico di Ombretta Di Giovine [Di Giovine, Ripensare il diritto penale attraverso le (neuro-)scienze?, Torino, 2019, passim] la quale, dopo aver negato validità al programma “forte”, soprattutto in ragione del difetto di prova circa l’assenza, in capo all’individuo, del libero arbitrio (15), passando in disamina l’impostazione plus modéré, sostiene che le neuroscienze sarebbero già in grado di fornire al giudice, ad uno con il ricorso ad altre prove scientifiche, elementi assai utili ai fini della decisione rispetto a molte questioni “capitali” nell’economia del processo penale. Alla luce di tali premesse, tuttavia, l’A. conduce una disamina in ordine ad un potenziale approccio “ripensativo” ai rapporti tra neuroscienze e diritto penale, fondato sulla proiezione delle nuove scoperte sulla politica criminale, a partire dalla rivalutazione dello sbarramento relativo agli stati emotivi e passionali di cui all’art. 90 c.p. (35. Su questo tema vd. anche Dova, Alterazioni emotive e colpevolezza, Torino, 2019, 32 ss), atteso che le neuroscienze medesime avrebbero, in qualche modo, già dimostrato la misurabilità di tali status e, per certi versi, la loro incidenza sul comportamento individuale, tanto che tale previsione sopravviverebbe soltanto perché satisfattiva di esigenze, malcelate, di prevenzione (vd. anche Di Giovine, Behavioural genetics e imputabilità: i termini di un rapporto difficile, in Dir. Pen. Proc., 2020, 31 ss). Tali emergenze scientifiche, inoltre, potrebbero sollecitare, ad avviso della Di Giovine, una “rilettura” di alcuni atteggiamenti pretori in alcuni particolari contesti, come ad esempio la pedofilia, attraverso un discrimen tra il reo “cattivo” e quello “malato”, quando invece la giurisprudenza fermamente mostra ritrosia, per tale tipologia di reati, a dichiarare l’incapacità di intendere e di volere (45-49). Tale self restraint, ad avviso della studiosa, sembra riposare, anche in questo caso, sulla finalità special-preventiva della sanzione criminale, atteso il rischio di recidivanza. Il tutto concludendosi, prudentemente, con il rilevare la necessità, per il penalista, di evitare tanto la negazione in radice dell’utilità della moderne tecniche neuroscientifiche – rispetto al processo, ma anche all’applicazione del diritto sostanziale – quanto “fughe in avanti”, a dispetto della persistente arretratezza di tale ambito del sapere e di alcune delle finalità principali che reggono la materia penale (65 ss). Ancor più recente è il libro di Mattia Di Florio (Di Florio, Colpevolezza, conseguenze sanzionatorie e neuroscienze in rapporto al diritto penale, Pisa, 2020) che, ripercorrendo la letteratura anche straniera, evidenzia i problemi di compatibilità dell’avanguardia neuroscientifica con la struttura stessa del diritto penale, fondata sulla Folk Psychology, e cioè, per esprimere il concetto in sintesi, su istituti, come per l’appunto l’imputabilità, che non sono imperniati su criteri di matrice tecnico-scientifica e che non si prestato a “livellarsi” in maniera agevole con quest’ultimi. La trattazione, allora, muove dal riconoscimento, da parte dell’A., della libertà del volere (28) per giungere a prospettare un approccio nuovo a taluni istituti, al cospetto delle emergenze neuroscientifiche, a partire dalla valorizzazione, nella prospettiva dell’imputabilità, degli stati emotivi e passionali, al di là della loro rilevanza attenuante ex art. 62-bis c.p. (105 ss). Quanto ai rapporti con la pericolosità sociale, Di Florio, analizzando i problemi sollevati dagli algoritmi predittivi, e ponendo ben in luce il rischio di derive “lombrosiane”, sottolinea che le neuroscienze potrebbero rivelarsi, comunque, d’ausilio per il giudice, oggettivizzando il giudizio relativo all’applicazione delle misure di sicurezza, e, in prospettiva “ripensativa”, si conclude affermando che il sistema di suddette misure dovrebbe essere, in ogni caso, ridisegnato in ottica spiccatamente terapeutica (221 ss). Sul tema della funzionalità delle nuove tecniche neuroscientifiche rispetto all’individuazione delle componenti impulsive della condotta si è soffermato Daniele Piva [Piva, Le componenti impulsive della condotta. Tra imputabilità, (pre)colpevolezza e pena, Napoli, 2020, 78 ss], che ne sostiene la funzione ancillare: «nessuna decisività, dunque, della prova neuroscientifica. Ma neppure un rifiuto tout court alla sua utilizzabilità per il solo fatto della sua incertezza», trattandosi, ad avviso dell’A., di strumenti fruibili unitamente alla tradizionale perizia psichiatrico-forense. In ogni caso si censura la “norma di sbarramento” di cui all’art. 90 c.p., suggerendosene, in prospettiva de iure condendo, l’eliminazione al fine di meglio conformare il sistema al principio di colpevolezza e per l’esigenza di “umanizzazione della pena” (anche perché, si osserva, il legislatore ha tenuto conto di tali componenti impulsive – distinte da quelle compulsive, caratteristiche dell’infermità mentale – nel contesto della legittima difesa domiciliare, come attesta l’art. 55 c.p. Sul punto vd. anche Risicato, Le interferenze tra antigiuridicità, colpevolezza e punibilità nella nuova legittima difesa domiciliare, 28 giugno 2019, in www.lalegislazionepenale.eu). E ciò ad uno con la rimozione, pure proposta da Piva, del divieto della perizia di cui all’art. 220 c.p.p. in relazione al carattere, alla personalità e alle caratteristiche psichiche dell’imputato. Per quanto concerne il dolo, di recente, Simona Raffaele si è impegnata nell’analisi di tale elemento psichico anche nella prospettiva delle neuroscienze; il tutto evidenziando che, in realtà, le scoperte scientifiche al momento non avrebbero affatto negato la sussistenza del libero arbitrio. Talchè si suggerisce l’utilizzo delle nuove metodiche, ed in particolare delle tecniche di neuroimaging, come mezzo ausiliario per il giudice, per oggettivizzarne la valutazione (Raffaele, Essenza e confini del dolo, Milano, 2018, 152 ss); in senso analogo si è espresso, in precedenza, Gian Paolo Demuro, per il quale «il ricorso alle scienze cognitive (in continua evoluzione e con pochi punti fermi tra i loro stessi esperti) possa rivestire nel diritto penale solo un ruolo di appoggio ad acquisizione compiute sulla base del senso sociale da attribuire a determinati atteggiamenti psicologici, ma che non possa valere a sovvertire tali acquisizioni» (Demuro, Il dolo. L’accertamento, Milano, 2010, 78 ss). Sulle ultime “sfide” lanciate dalle neuroscienze si è soffermata l’attenzione anche di Marta Bertolino, la quale sottolinea, rispetto alle tecniche di neuroimaging, gli studi morfologici e l’esame genetico-comportamentale, l’atteggiamento particolarmente (forse eccessivamente, per l’A.) prudente della giurisprudenza rispetto alla valorizzazione dei risultati di tali accertamenti, quando invece «le risultanze neuroscientifiche, purché ben interpretate, potrebbero rivelarsi particolarmente utili… Come qualsiasi sapere specialistico, anche quello neuroscientifico deve essere accolto nelle aule giudiziarie come un contributo non assoluto ma relativo, poiché esso, al pari di qualsiasi altra evidenza scientifica in tema di infermità, concorre a rendere i pareri degli esperti più completi e dunque scientificamente più affidabili, secondo quel modello integrato della malattia mentale richiamato dalla stessa Cassazione a Sezioni Unite del 2005. In breve, occorre la consapevolezza che anche il dato neuroscientifico svolge una funzione di integrazione e non di sostituzione della costruzione clinica e della valutazione forense secondo un approccio clinico integrato alla malattia mentale, inevitabilmente in un contesto ormai di relativismo scientifico» (Bertolino, L’imputabilità secondo il codice penale, 25 febbraio 2020, in www.sistemapenale.it). Su posizioni analoghe si è collocata anche la criminologa Isabella Merzagora, secondo la quale «le neuroscienze da sole non bastano, ma non certo per questo esse non vanno usate», suggerendone, dunque, un uso cum grano salis, ed evidenziando che il rischio dell’utilizzo delle nuove tecniche è quello della two-edged sword, e cioè che eventuali anomalie possano condurre ad un giudizio automatico di pericolosità sociale (Merzagora, Il ruolo delle neuroscienze in relazione alla imputabilità e ai giudizi di predittività, in Dir. Pen. Proc., 2020, 14 ss. In tal senso anche Sartori-Zangrossi, Neuroscienze forensi, in Giornale italiano di Psicologia, 2016, 689 ss; vd. anche, in argomento, Rivello, L’imputabilità e l’infermità mentale nel contesto del diritto vivente, in Cass. Pen., 2018, 422 ss, il quale sottolinea che non tutti i soggetti che mostrino anomalie sotto il profilo morfologico-cerebrale o funzionale, o dal punto di vista genetico, realizzino comportamenti antisociali). E, sulla stessa linea, Adelmo Manna, partendo dall’analisi dell’impianto del codice del 1930, e dall’eterno confronto senza vincitori tra “soggettivismo” e “oggettivismo”, additando l’anacronismo della previsione compendiata nell’art. 90 c.p. (che segnerebbe, per lo studioso, uno iato tra imputabilità e capacità di intendere e di volere), sostiene l’utilità delle neuroscienze nel processo, seppur secondo la linea dell’approccio soft [Manna, Il diritto penale tra impianto codicistico di carattere oggettivo e nuove tendenze di tipo soggettivistico, 16 giugno 2021, in www.dirittopenaleuomo.org. Analogamente Flick, Neuroscienze (Diritto penale), 19 dicembre 2014, in www.aic.it]. Per altro verso, vi è anche chi, in dottrina, ha segnalato le capacità di adattamento della psiche (in base al comando promanante dall’ordinamento e a seguito dell’applicazione della pena) al precetto, e quindi la sussistenza di un autocontrollo “indotto” (Magro, Neuroscienze e teorie “ottimiste” della pena, in Dir. Pen. Cont. Riv. Trim., 2018, 171 ss. In senso analogo Id., Le mille porte del libero arbitrio: compatibilismo e epifenomenalismo secondo le neuroscienze, in Riv. It. Med. Leg., 2020, 713 ss: «che la volontà cosciente possa causare in senso meccanico le nostre azioni potrebbe essere falso o vero, ma ciò che conta è che essa ci informa in senso fenomenico delle nostre azioni, in tal modo aiutandoci a rimodulare la risposta impulsiva agli input esterni». Sulla stessa linea vd. Ronco, Proposta di riforma sulle misure di sicurezza personali e sull’imputabilità, in Arch. Pen., 2018, 79 ss). E ciò al fine di sostenere che, indipendentemente dagli sviluppi delle neuroscienze, il diritto penale “classico” manterrebbe, comunque, la propria funzionalità (in argomento vd. anche Roxin, Strafrecht. Allgemeiner Teil, tomo I, Monaco, 2006, 851 ss); addirittura “scettico” sull’utilizzo delle nuove metodiche, tanto nel processo quanto nella proiezione della rivisitazione degli istituti di riferimento di diritto sostanziale, è, invece, Sergio Moccia, che stigmatizza il rischio non solo (o non tanto) legato all’impiego di strumenti scientificamente ancora arretrati in termini di capacità euristica, quanto piuttosto allo scivolamento in forme di “neo-positivismo” e di “determinismo” di matrice post-lombrosiana, con conseguente vulnus in punto di garanzie individuali (Moccia, I nipotini di Lombroso: neuroscienze e genetica del diritto penale, in Dir. Pen. Proc., 2016, 681 ss). Per alcuni, quindi, vi sarebbe il fondato pericolo che, non essendo che appena principiato il cammino verso la scoperta dei rapporti tra mente e cervello, ed essendo ancora ampissime le aree inesplorate, si riproduca oggi un dibattito per certi versi analogo a quello che venne alimentato a fine ‘800, in corrispondenza con lo sviluppo della Scuola positiva, con un ampliamento del catalogo dei c.d. “semplicisti” [per richiamare il titolo del noto saggio di Lucchini, I nuovi semplicisti (antropologi, psicologi e sociologi) del diritto penale, Torino, 1886, con il quale lo studioso si scagliò contro le prospettive della corrente in via di sviluppo]. Insomma, appare chiaro che nel panorama italiano la discussione si sia particolarmente intensificata negli ultimi anni in ordine ad argomenti che, con diversi risultati, sono stati ampiamente posti sotto il faro anche in riferimento ad altri sistemi giuridici, quali quello tedesco (per una ricostruzione della dottrina tedesca sui rapporti tra neuroscienze e diritto penale vd. Nisco, Il confronto tra neuroscienze e diritto penale sulla libertà di volere, in Dir. Pen. Proc., 2021, 499 ss. Per un quadro generale del dibattito spagnolo vd., invece, Gonzalez Lagier, Tre retos de la neurociencia para el Derecho penal, in AFD, 2018, 43 ss); peraltro, c’è da soggiungere che negli ultimi anni le suddette riflessioni si stanno rivolgendo ad ambiti prima assolutamente inesplorati, come ad esempio quello dei reati economici. A tal ultimo proposito si segnala, allora, la raccolta di studi curata da Borsari, Sammicheli e Sarra, relativa al c.d. “homo oeconomicus” [Borsari-Sammicheli-Sarra (a cura di), Homo oeconomicus. Neuroscienze, razionalità decisionale ed elemento soggettivo nei reati economici, Padova, 2014], che contiene spunti particolarmente stimolanti, che mettono in luce, in estrema sintesi, come il diritto penale economico rappresenti un “microsistema” ipernormativizzato, che mostra un gap tra colpevolezza e “rimproverabilità”, nonché una scarsissima flessibilità, da parte della giurisprudenza, in ordine alla valutazione dell’elemento psicologico del reato rispetto a fattori, peculiari, di contesto che possono determinare le condotte individuali. Tali tendenze “spersonalizzanti”, particolarmente evidenti nei reati tributari di tipo omissivo, per quanto emerge dagli studi contenuti nel volume, sono verosimilmente alimentate, più di preciso, dalla convergenza delle varie forme di illecito rispetto ad un unico “polo”, rappresentato dal profitto, che costituisce lo scopo caratteristico delle principali figure incriminatrici di riferimento: è tale stesso elemento, verosimilmente, che induce l’interprete, quasi a livello inconscio, a considerare, allora, come un vero e proprio postulato la razionalità del reo, con ogni consequenziale effetto in ordine alla questione dell’imputabilità (oltre che allo scrutinio dell’elemento psicologico) che difatti – almeno in Italia – non ha impegnato sinora la scena processuale in riferimento ai c.d. “white collars crimes”.
[22] Vd. analogamente l’art. 25 comma 2 della Costituzione spagnola (che così recita: «le pene limitative della libertà e le misure di sicurezza dovranno tendere alla rieducazione e al reinserimento sociale»), mentre nella Legge fondamentale tedesca del 1949 non è prevista una disposizione similare. Nel sistema francese, invece, l’art. 130-1 del Code Pénal stabilisce espressamente che la pena è polifunzionale, secondo un principio avallato anche dal Conseil constitutionnel, con la sentenza Cons. Cost., 20 gennaio 1994, n. 93-334, secondo la quale «l’esecuzione delle pene detentive è finalizzata non solo a proteggere la società e ad assicurare la punizione del condannato, ma anche a incoraggiarne l’emendamento e a prepararne l’eventuale reintegrazione».
[23] Secondo la linea accolta anche nel sistema spagnolo (vd. sul punto Luzón Peña, Lecciones de Derecho penal. Parte general, Valencia, 2016, 502), in quello tedesco (cfr. § 20 StGB, che stabilisce che «agisce senza colpevolezza chi, nel commettere il fatto, è incapace di valutarne l’illiceità o di comportarsi secondo tale valutazione a causa di un disturbo mentale patologico, di un profondo disturbo di coscienza o di deficienza mentale o di altra grave anomalia mentale»), ed in quello francese (sul tema vd. Mayaud, Droit pénal général, Parigi, 2018, 548).
[24] Sul tema vd. Mantovani M., Prospettive attuali del fare pericoloso precedente, in AA.VV., Studi in onore di Alessio Lanzi, Roma, 2020, 198 ss; Aleo, Il dolo eventuale, le figure delittuose aggravate dall’evento e i diversi piani possibili di imputazione soggettiva del comportamento, in Ambrosetti (a cura di), Studi in onore di Mauro Ronco, Torino, 2017, 199 ss.
[25] Sui quali vd., di recente, anche Cocco, La colpevolezza quale principio costituzionale (e il buon, vecchio libero arbitrio), 1 luglio 2021, in www.penaledp.it.
[26] E difatti, lapidariamente, la Cassazione, in un recente arresto, ha statuito che: «l’elemento psicologico del delitto di omicidio preterintenzionale non è costituito da dolo e responsabilità oggettiva né da dolo misto a colpa, ma unicamente da dolo di percosse o lesioni, in quanto la disposizione di cui all’art. 43 c.p. assorbe la prevedibilità dell’evento più grave» (Cass., Sez. V, 24 maggio 2018, n. 28706). In argomento vd. anche Plantamura, L’omicidio preterintenzionale. Pure come species del genus “omicidio improvviso”, Pisa, 2016.
[27] Vd. Cass., Sez. I, 30 aprile 1990, n. 7157 («nel caso di ubriachezza volontaria, colposa o preordinata, la presunzione legale d’imputabilità non è sufficiente a fondare un giudizio di responsabilità penale. Occorre, infatti, accertare la colpevolezza dell’ubriaco secondo i normali criteri d’individuazione dell’elemento psicologico del reato e, poiché l’art. 92 c.p. nel disciplinarne l’imputabilità nulla dice in ordine alla di lui colpevolezza, questa va valutata alla stregua delle regole dettate dagli artt. 42 e 43 c.p. è, dunque, necessario prendere in considerazione la condotta dell’ubriaco al momento della commissione del fatto, per stabilire se egli ha agito con dolo o colpa. Ciò perché, secondo il vigente sistema penale, l’ideazione e la volizione dell’ubriaco vanno indagate e valutate dal giudice, nonostante la perturbazione psichica e la riduzione del senso critico determinate dall’alcool». In senso analogo, più di recente, vd. Cass., Sez. V, 14 luglio 2016, n. 45997. Sul punto si rammenta Corte cost., 4 marzo 1970, n. 33, che, nel declinare per infondatezza le questioni di legittimità sollevate in ordine al medesimo art. 92 c.p., ha statuito: «spetterà al giudice di merito sia valutare, caso per caso, se si tratti di ubriachezza colposa o di ubriachezza accidentale; sia, del pari, accertare di volta in volta, secondo la giurisprudenza corrente, il titolo di colpevolezza, dolo o colpa, sulla base dell'atteggiamento psicologico in concreto assunto dall’ubriaco al momento nel quale commise il fatto»). Assai diverso è il contesto spagnolo; il Código penal, infatti, stabilisce all’art. 20 comma 1, secondo periodo, che l’incapacità temporanea non esime da responsabilità qualora sia stata preordinata (con el propósito de…) alla commissione del reato (con una previsione, dunque, in parte corrispondente all’ipotesi di actio libera in causa disciplinata dal codice penale italiano all’art. 87 c.p.), ma anche nel caso in cui l’infracción penal sia stata prevista o avrebbe dovuto esserlo (o habiera previsto o debido prever su comisión) al momento dell’auto-induzione all’incapacità, ribadendo poi tale principio al comma 2, in relazione all’assunzione delle sostanze alcoliche e stupefacenti/psicotrope. C’è da precisare, allora, che, a differenza del sistema italiano, l’alterazione volontaria (ma non preordinata, ed in assenza della previsione e volizione della successiva commissione del reato) nonchè colposa da alcolici o sostanze stupefacenti determina, in Spagna, la responsabilità a titolo di colpa, per i reati per i quali sia prevista tale forma di elemento psicologico, sempre che risulti sia stata prevedibile la commissione dell’illecito (in argomento vd. Ecamilla-Lorenzo-Mariscal de Gante, Derecho penal. Introducción, Madrid, 2012, 327; Moreno, Consideraciones sobre la “actio libera in causa”, in Nuevo Foro Penal, 2003, 157-196; in giurisprudenza vd. STS, Sez. II, 11 novembre 1996, n. 854 e, più di recente, STS, Sez. II, 31 maggio 2016, n. 462). Una parte della dottrina italiana, peraltro, propugna una lettura dell’art. 92 c.p. di senso analogo, in base alla quale, cioè, l’elemento psicologico andrebbe valutato al momento dell’assunzione della sostanza e non al tempo del fatto di reato (vd. Mantovani F., Diritto penale. Parte generale, Assago, 2017, 648, il quale taccia gli orientamenti giurisprudenziali sopra descritti di condurre ad una forma di «responsabilità oggettiva occulta», 652). Per quanto riguarda, invece, il sistema tedesco occorre rilevare che il codice penale, al § 323a, punisce (con la pena detentiva fino a cinque anni o con la pena pecuniaria) «chiunque si pone dolosamente o colposamente in stato di alterazione per mezzo di bevande alcoliche o di altre sostanze inebrianti, se in questo stato commette un fatto antigiuridico e per esso non può essere punito perché non era imputabile in conseguenza dell’alterazione oppure perché vi sia dubbio a tale riguardo». Ampio, allora, è il dibattito d’oltralpe sulla disciplina dell’actio libera in causa, ed in particolare sulla responsabilità penale a seguito dell’autoinduzione dell’incapacità, preordinata alla commissione del reato (o per garantirsi la scusa) e, ancora, per l’ipotesi di previsione e volizione del fatto illecito al momento dell’assunzione delle sostanze. In particolare, tra le varie teorie sviluppate in dottrina, vi è quella della c.d. “perpetrazione indiretta” (Lehre von der mittelbaren Täterschaft), secondo la quale il soggetto risponderebbe “per aver concorso con sé stesso”, e quindi con un soggetto non imputabile (vd. § 29 StGB, che stabilisce l’autonomia della responsabilità del concorrente). Per la teoria della c.d. “espansione”, invece, che giunge ad analoghi risultati, l’assunzione delle sostanze si dovrebbe rapportare con il concetto “commettere il fatto” (bei Begehung der Tat) di cui al § 20 (che regola l’imputabilità), con la conseguenza che la capacità andrebbe valutata, estensivamente, anche in relazione alla fase antecedente alla realizzazione del reato; tuttavia, tale impostazione è aspramente criticata per via del contrasto con il § 8 StGB, con il concetto di “tempo del fatto”, e perché essa, come del resto quella precedentemente descritta, si rivela in violazione del principio del nullum crimen sine lege. La giurisprudenza tedesca, dal canto suo, aderisce alla teoria del c.d. “spostamento in avanti” (Grundsatz der Vorverlagerung der Schuld) secondo la quale l’assunzione delle sostanze costituirebbe l’inizio dell’iter criminis secondo quanto disposto dal § 22 StGB, in tema di tentativo: cfr. BGH, I Sez., 26 febbraio 2019, n. 614/18 (ed ancora, in precedenza, vd. BGH, II Sez., 7 giugno 2000, n. 135/2000). Su queste tesi, ed in generale sul concetto di “pre-colpevolezza”, vd. anche Bartoli, Colpevolezza: tra personalismo e prevenzione, Torino, 2005, 139 ss. In Francia, invece, non è prevista l’actio libera in causa e non è neppure esplicitamente regolata l’alterazione da sostanze alcoliche e stupefacenti. Di recente, su questo tema, si è soffermata la Cour de cassation che, con la sentenza emessa dalla Sezione penale n. 404 del 14 aprile 2021 (20-80.135), è intervenuta su un caso di omicidio perpetrato da un soggetto che, al momento del fatto, secondo l’accertamento dei periti, si trovava in stato di incapacità d’intendere e di volere a causa dell’assunzione volontaria di sostanze stupefacenti (del tipo cannabis), stabilendo che: «le disposizioni dell’articolo 122-1, comma 1, del codice penale, non distinguono in base all’origine del disturbo mentale che ha determinato l’abolizione del discernimento… il fatto che questo sia di origine esotossica e dovuto al consumo regolare di cannabis, non impedisce il riconoscimento dell’esistenza di un disturbo psichico o neuropsichico, poiché nulla indica che il consumo di cannabis da parte dell’interessato sia stato effettuato con la consapevolezza che tale uso di stupefacenti avrebbe potuto portare all’evento». In estrema sintesi, secondo tale orientamento, recentemente emergente, al di là delle ipotesi in cui il legislatore abbia espressamente previsto l’irrilevanza in ottica esimente dello stato di incapacità transeunte auto-provocato volontariamente o colposamente (come nel caso, ad esempio dell’omicidio o delle lesioni da circolazione stradale, disciplinati dagli artt. 221-6-1 e 222-19-1), l’art. 122-1 del Code Pénal, ai commi 1 e 2 (quest’ultimo in tema di incapacità parziale), includerebbe, tra le cause di esclusione della responsabilità, anche l’alterazione volontaria, nel caso in cui il soggetto non abbia previsto, in quella fase, la commissione del reato (infra). Si tratta di un pronunciamento che ha già alimentato una vasta letteratura ed un ampio dibattito pubblico (oltre che le note critiche del Presidente della Repubblica francese Macron, ed alcune proposte di legge di riforma in sede parlamentare). Sul tema, in generale, vd. Menghini, Actio libera in causa, Padova, 2015; Manna-Guercia, L’imputabilità degli alcool e tossicodipendenti, tra resistenze giurisprudenziali, evidenze neuroscientifiche e conseguenti prospettive di riforma, in F. Basile-Caterini-Sabato (a cura di), Il sistema penale ai confini delle hard sciences, Pisa, 2021 (e-book).
[28] La giurisprudenza, infatti, negando costantemente che le crisi/sindromi da astinenza possano influire sul giudizio di imputabilità (cfr. Cass., Sez. I, 10 aprile 2019, n. 26644) esclude altresì che sia invocabile, in relazione ai fatti di reato commessi, lo stato di necessità (cfr. da ultimo Cass., Sez. IV, 20 gennaio 2021, n. 23130: «la necessità di procurarsi cibo o denaro per acquistare sostanze stupefacenti non costituisce una situazione che integra lo stato di necessità, neanche se il soggetto tossicodipendente versa in crisi di astinenza»). Per un confronto con il sistema spagnolo, che potrebbe essere valutato ai fini di future riforme del sistema nostrano, vd. infra.
[29] Sulla quale si è soffermata solo incidenter tantum la Consulta con la sentenza Corte cost., 16 aprile 1998, n. 114.
[30] C’è da precisare che – diversamente dal sistema italiano – in Spagna non è disciplinato ad hoc l’uso abituale di alcolici e sostanze stupefacenti mentre è prevista un’attenuante nel caso di collegamento funzionale tra dipendenza da sostanze alcoliche/stupefacenti/psicotrope e fatto di reato (infra).
[31] In argomento vd. Maiello, Il concorso esterno in associazione mafiosa, in Mezzetti-Luparia Donati, La legislazione antimafia, Bologna, 2020, 70 ss.
[32] Sul tema vd. Cadoppi, Il reato omissivo improprio, II. Profili dogmatici, comparatistici e de lege ferenda, Padova, 1988, 933 ss; Militello, La colpevolezza nell’omissione: il dolo e la colpa del fatto omissivo, in Cass. Pen., 1998, 979 ss.
[33] Vd. in proposito Palazzo, Punire e curare: tra incertezze scientifiche ed esigenze di riforma, in Plantamura-Salcuni, Liber amicorum Adelmo Manna, Pisa, 2020, 511 ss: «anche senza evocare le tensioni suscitate dalle neuroscienze, non c’è dubbio che tutto il campo dell’imputabilità è percorso, più che da sinergie, da tensioni tra il diritto e le scienze della mente. Viene oggi in gioco la crisi dello statuto epistemologico della scienza contemporanea, che in effetti appare inverare ogni giorno di più il principio confuciano per cui più si acquisiscono conoscenze più aumenta la consapevolezza dell’ignoto». Su questo tema vd. anche, diffusamente, Collica, Vizio di mente: nozione, accertamento e prospettive, Torino, 2007. La fallibilità delle valutazioni tecniche relative all’infermità mentale, peraltro, è stata più volte rappresentata al cinema. Si può rammentare, in proposito, tra le molte pellicole, il film “Schegge di paura”, del 1996, diretto da Gregory Hoblit, interpretato da Richard Gere, Laura Linney ed Edward Norton; “Don’t say a word”, del 1991, di Gary Fleder, ove la co-protagonista Brittany Murphy è nei panni di Elisabeth Burrows, paziente di un ospedale psichiatrico che finge la malattia mentale per sfuggire, attraverso la segregazione nella struttura, ad una banda di malviventi; “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, di Miloŝ Forman, del 1975, ove il protagonista Randle Patrick McMurphy (interpretato dal premio oscar Jack Nicholson) viene giudicato infermo dalla commissione medica e sottoposto a lobotomia.
[34] Vd. Di Florio, Colpevolezza, conseguenze sanzionatorie e neuroscienze in rapporto al diritto penale, op. cit., 137 ss.
[35] Di Giovine, Il dolo (eventuale) tra psicologia scientifica e psicologia del senso comune, 30 gennaio 2017, in www.penalecontemporaneo.it.
[36] Sul tema vd. F. Mazza, La premeditazione del delitto tra dommatica giuridica e neuroscienze, Pisa, 2016, passim (ma spec. 78 ss).
[37] Vd. in argomento Sammicheli-Sartori, Accertamenti tecnici ed elemento soggettivo del reato, 12 novembre 2015, in www.penalecontemporaneo.it. Più di recente vd. anche Di Florio-Salcuni, Il dolo alla prova delle neuroscienze, in F. Basile-Caterini-Sabato (a cura di), Il sistema penale ai confini delle hard sciences, op. cit.
[38] Su questa linea vd. anche Salcuni, Il “silenzio” del rischio”, la “loquacità” del fine. Per una ricostruzione finalistico-volontaristica del dolo eventuale, Pisa, 2018, 123.
[39] In questo senso, se si è ben compreso, si esprime anche Perin, Prudenza, dovere di conoscenza e colpa penale. Proposta per un metodo di giudizio, Napoli, 2020, 374 ss, secondo il quale: «in questo modo, sarà forse possibile riflettere anche sulla rilevanza di condizioni personali anomale – in base ad una determinata costruzione giuridico-funzionale del concetto di “normalità” – idonee a far sì che un soggetto possa essere ritenuto incolpevole, nonostante la sua condotta inosservante precauzioni “tipiche” o “atipiche” altrettanto esigibili (oggettivamente). Sarà dunque sempre necessario chiedersi: avrebbe potuto l’imputato, date le sue capacità mentali e fisiche, adottare quelle precauzioni? La risposta a tale domanda dovrà essere formulata tenendo a mente che l’agente non avrebbe potuto agire diversamente e che ci si dovrà necessariamente appoggiare a una finzione giuridica: si affermerà positivamente la possibilità di agire altrimenti solo nel senso di dichiarare che, nelle circostanze date, non ci si poteva attendere, cioè non si poteva pretendere, che egli agisse diversamente da come ha agito» (382-383).
[40] Fornari, Trattato di psichiatria forense, tomo II, Milano, 2021, 1271.
[41] Manna, L’imputabilità e i nuovi modelli di sanzione. Dalle “finzioni giuridiche” alla “terapia sociale”, Torino, 1997, 16 ss.
[42] In questo senso è emblematica la sentenza Cass., Sez. I, 8 novembre 2019, n. 2962, intervenuta sull’omicidio di Olga Matei, commesso a Riccione nel 2016. L’art. 21 n. 3 del codice penale spagnolo, invece, prevede un’attenuante, una c.d. “quasi esimente” (o meglio: una “quasi-scusante”), per «colui che agisce per cause o stimoli talmente poderosi che hanno prodotto impeto, ossessione o altro stato passionale di entità similare». Secondo gli orientamenti del Tribunal Supremo il fondamento dell’attenuazione è rappresentato dall’offuscamento della mente prodotto da una causa o da uno stimolo di rilevante entità (STS, Sez. II, 14 marzo 2017, n. 161) per il quale il reo, senza perdere il controllo delle proprie azioni, è sottoposto ad una pressione esterna che lo spinge ad agire (STS, Sez. II, 10 luglio 2008, n. 489). Come regola generale, «lo stimolo deve essere così importante da consentire di spiegare (non giustificare) la reazione specifica che si è verificata» (STS, Sez. II, 13 febbraio 2002, n. 256). Su questo argomento, si segnala la recente sentenza del Tribunale Supremo STS, Sez. I, 10 giugno 2021, n. 509 che è intervenuta sul ricorso presentato da un soggetto che aveva impugnato la sentenza di condanna per l’omicidio della propria moglie rilevando, in particolare, di aver agito in stato d’impeto e passionale. L’omicida, più di preciso, aveva dedotto di aver scoperto, due mesi prima del fatto, che la propria consorte intrattenesse da cinque anni una relazione extraconiugale, e che il giorno del delitto fosse scoppiata un’aspra discussione con la donna, che aveva comunicato in quell’occasione la propria volontà di abbandonare la casa familiare, proferendo altresì una frase del seguente tenore: “è meglio una mezz’ora con lui che una vita con te”. Il che, nella prospettazione dell’imputato, avrebbe determinato la reazione dell’uccisore e giustificato l’applicazione della circostanza attenuante sopra menzionata, negata in sede di merito. Il Tribunal Supremo, allora, ha sviluppato in questa occasione un’ampia ricostruzione della disposizione di riferimento e dell’esegesi offerta al riguardo dalla giurisprudenza, rilevando che essa opererebbe in ragione di fattori (arrebato, e cioè alterazione psichica, repentina, che si estrinseca in rabbia, qualificabile come furor; obcecacion, una sorta di “cecità”, di durata prolungata, che ha un substrato pasional) solitamente provocati dalla stessa vittima del reato, che si estrinsecano in un fatto disapprovato/ingiusto, che influiscono sulle facoltà intellettive e volitive del soggetto agente (alterandole e diminuendole) e che incidono causalmente sul fatto commesso, per via della rimozione dei freni inibitori. Si tratterebbe, ha proseguito il Tribunale, di stati transeunti che si pongono al confine da un lato con l’incapacità d’intendere e di volere temporanea (trastorno mental transitorio) e, dall’altro, con il mero acaloramiento, caratteristico dei reati di sangue (che è irrilevante), e che ragionevolmente avrebbero influenzato il comportamento di qualsiasi persona, a patto che, comunque, la condotta sia in qualche modo proporzionata rispetto al fatto commesso. Dopo tali premesse a carattere generale, il Tribunale, nello scrutinare il ricorso, lo ha comunque rigettato statuendo che il crimine commesso dall’imputato, espressivo di una violenza di genere, si sarebbe rivelato in contrasto con le regole minime di convivenza civile. In sostanza, l’interpretazione assai restrittiva operata dalla giurisprudenza spagnola in ordine alla suddetta circostanza attenuante (sulla base, peraltro, dell’individuazione di criteri abbastanza impalpabili) la rende, a ben considerare, sovrapponibile a quella descritta nell’art. 62 n. 2 del codice penale nostrano (così come assimilabile alla previsione di cui all’art. 62-bis c.p. è quella compendiata nell’art. 21 n. 7 del Código penal, che regola la c.d. “atenuante analógica”).
[43] Sul tema, nella manualistica, vd. Manna, Corso di diritto penale, Milano, 2020, 341. In senso analogo alla Cassazione si è espressa la giurisprudenza tedesca, in riferimento ad un contesto ove non è prevista una regolamentazione specifica degli stati emotivi e passionali (vd. BGH, III Sez., 28 giugno 1995, n. 72/1995; BGH, V Sez., 7 novembre 2013, n. 377/13; e, ciò, nonostante le ampie maglie del § 20 StGB), così come essi non sono disciplinati dal codice penale francese del 1994.
[44] In tal senso vd. Marinucci-Dolcini, Manuale di diritto penale. Parte generale, anche a cura di Gatta, Milano, 2017, 416.
[45] Cordero, Procedura penale, Milano, 1998, 714. Il tutto al netto dell’evanescenza del confine tra perizia psichiatrica e perizia crimino-personologica, come correttamente rilevato da Varraso, La prova tecnica, in Scalfati (a cura di), Le prove, in Trattato di procedura penale diretto da Spangher, II, tomo I, Assago, 2009, 245.
[46] Per mutuare una felice espressione di Manes, Diritto penale no-limits. Garanzie e diritti fondamentali come presidio per la giurisdizione, 26 marzo 2019, in www.questionegiustizia.it.
[47] Citando Sgubbi, Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi, Bologna, 2019.
[48] Il Código penal spagnolo, invece, all’art. 21 n. 1 prevede che la parziale capacità di intendere e di volere integri una circostanza attenuante obbligatoria, con gli effetti della “super atenuante” di cui all’art. 68. Per quanto concerne lo stato di ubriachezza/stupefazione, il codice spagnolo, all’art. 20 n. 2, ultimo periodo, individua come causa di non imputabilità la sindrome de abstinencia (stabilendo che non è punibile il soggetto che si trova «sotto l’influenza di una sindrome da astinenza, a causa della sua dipendenza da tali sostanze, che gli impedisce di comprendere l’illegittimità dell’atto o agire in accordo con tale comprensione») che, comunque, può determinare, cuando no concurrieren todos los requisidos del citato art. 20, la semi-imputabilità. Il n. 2 dell’art. 21, per altro verso, prevede una diminuente nel caso in cui il reo abbia agito «a causa di una grave dipendenza dalle sostanze» suddette. Su questi argomenti, per un’ampia ricostruzione, vd. in giurisprudenza la recente sentenza STS, Sez. II, 27 maggio 2021, n. 453. Nella lettura del giudice di legittimità spagnolo, in particolare, l’attenuante di cui all’art. 21 n. 2 sarebbe concedibile nei casi in cui l’assunzione delle sostanze, pur non incidendo sulla capacità d’intendere e di volere (nel qual caso, per l’ipotesi di parziale incapacità, si applicherebbe il n. 1), intervenga a causa di dipendenza ricollegabile in nesso causale con il reato commesso e, quindi, per l’ipotesi della c.d. “delincuencia funcional”. Talchè, in conclusione, appare chiaro che l’ordinamento spagnolo valorizzi notevolmente (e ben più di quello italiano) l’influenza delle dipendenze nel prisma della colpevolezza, esprimendo un modello che potrebbe essere “importato” nel sistema nostrano.
[49] Vd. anche Palazzo, Punire e curare, op. cit., 512, il quale, nel descrivere i rapporti di tensione tra scienza e diritto penale sul terreno dell’imputabilità, ha rimarcato: «…per non parlare, infine, della vera e propria inconcepibilità scientifica della distinzione tra vizio totale e vizio parziale di mente, che pure trova così spesso accoglienza nella realtà applicativa, quasi si trattasse di una salomonica soluzione mediana, come tale tranquillizzante di fronte all’inesigibile impegno di risposte più nette. Ebbene, in queste terre incognite…. scienza e diritto finiscono per contendersi il campo più che operare sinergicamente:… talvolta è la scienza che s’impone… come è accaduto per il rapporto tra disturbi della personalità e imputabilità; talaltra è il diritto che sovrasta… come dimostra all’evidenza la distinzione tra vizio totale e parziale». Sul tema della difficile individuazione della linea di demarcazione tra imputabilità e non imputabilità vd. altresì D’Amato, La responsabilità penale “diseguale”, Napoli, 2020, passim, e Id., La crisi del concetto di imputabilità e la necessità di un ripensamento, in Cavaliere-Longobardo-Masarone-Schiaffo-Sessa (a cura di), Politica criminale e cultura giuspenalistica. Scritti in onore di Sergio Moccia, Napoli, 2017, 551 ss. Nella manualistica vd. Fiandaca-Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 1995, 296 («nonostante ogni sforzo di precisazione, il concetto di vizio parziale di mente rimane in realtà elastico e controvertibile, perché non sempre è facile segnare i rispettivi confini da un lato con la totale incapacità d’intendere e di volere e, dall’altro, con condizioni di anomalia compatibili con uno stato di sostanziale normalità: da qui anche il rischio che il vizio parziale di mente venga evocato dagli imputati in modo strumentale, per beneficiare cioè di un trattamento penale più mite»).
[50] In estrema sintesi, come già si è ricordato, nel sistema giuridico italiano incombe sull’imputato l’onere di allegare elementi tali da consentire l’acquisizione della prova relativa alla non imputabilità; tuttavia, mentre il P.M. può sollevare la relativa questione, disponendo altresì dell’iniziativa probatoria correlata (ex art. 358 c.p.p.), il giudice può rilevarla officiosamente, disponendo la perizia (sulla base degli artt. 220, 507 e 508 c.p.p.). Non dissimile è il sistema tedesco, come risultante dal formante giurisprudenziale (cfr. BGH, I Sez., 24 novembre 2009, n. 520/09); il BGH, tuttavia, ha anche precisato che il canone in dubio pro reo può essere applicato soltanto nel caso di impossibilità di ricostruzione dello stato psichico in cui versava il soggetto al momento della realizzazione del fatto, ma non in ordine alla valutazione giuridica degli status individuati esattamente dal perito (cfr. BGH, II Sez., 2 febbraio 1996, n. 689/95; più di recente, BGH, I Sez., 3 agosto 2004, n. 293/04). Diversa è, invece, la logica del sistema spagnolo, nel quale il difetto di capacità di intendere e di volere è costruito come elemento negativo della responsabilità, la cui dimostrazione è posta integralmente a carico della difesa (cfr. STS, Sez. II, 3 giugno 2021, n. 485; in precedenza vd. STS, Sez. II, 14 giugno 2007, n. 531). Analogamente, nel sistema francese, la prova dell’incapacità deve essere fornita dall’interessato (cfr. Cour Cass., Chambre Crim., 21 marzo 2012, n. 12-80.178, secondo la quale, del resto, «la carenza di certezza in ordine alla capacità di intendere e di volere al momento del fatto non può consentire l’applicazione dell’art. 122-1, primo comma»). Sicchè vige la presunzione, per i soggetti maggiori d’età, della piena capacità d’intendere e di volere, di modo che spetta alla difesa l’onere di dimostrare il vizio di mente, non essendo peraltro ammesso che la relativa questione sia sollevata d’ufficio (vd. Dreyer, Droit pénal général, Parigi, 2016, 625 ss, con giurisprudenza ivi richiamata).
[51] Su questo argomento, in generale, vd. Manna, È configurabile un sistema penale non carcero-centrico?, 10 marzo 2021, in www.sistemapenale.it.; Aleo, Dal carcere. Autoriflessione sulla pena, Pisa, 2020, passim.
[52] Sull’evanescenza di tale concetto vd. peraltro Schiaffo, Psicopatologia della legislazione per il superamento degli OPG: un raccapricciante acting out nella c.d. “Riforma Orlando”, 21 giugno 2017, in www.penalecontemporaneo.it.
[53] Su questi concetti vd., di recente, Paliero, Il mercato della penalità, Torino, 2021, 7 ss.